Margherita Pusterla: Racconto storico - 23
delle cose di terra ne aveva disavanzato la potenza sul mare. Intenti a
favorire gli imperatori svevi ed Enrico VII e gli altri, accorrenti al
fiuto delle italiche ricchezze, i Pisani trascuravano di necessità il
commercio ed i lontani possedimenti; la Sardegna si videro tolta dagli
Aragonesi; dovettero abbandonare molti banchi della Siria, acquistati nelle
crociate, più non valendo a proteggerli contro i Musulmani per terra e
contro i corsari sull'acqua; e più non furono i più ricchi e
rispettati mercanti di Costantinopoli e dell'Adriatico.
Dentro provavano il contraccolpo delle scosse esteriori; ed era un
parteggiare micidiale, un odio, un sospetto, che distruggevano l'accordo,
necessario per la prosperità e la sicurezza dignitosa. Alcun tempo prima
la fazione popolare aveva avuto il sopravvento, e poichè questa pendeva
sempre alla bandiera guelfa, legò amistà con Firenze. Non potevano di
ciò darsi pace i nobili, ghibellini per affezione, per eredità, per
calcolo personale, e senza far mente ai reali vantaggi della patria; onde
stavano addocchiando ogni occasione d'umiliare i popolani, romperla con
Firenze, e tornar in auge la fazione imperiale. E l'occasione venne,
allorchè i Fiorentini, desiderando acquistare Lucca, posseduta allora da
Mastino della Scala, rifiutarono come sospetti gli ajuti che Luchino
esibì loro onde toglierla per forza, e la comprarono per
dugencinquantamila fiorini, a patto di lasciarle il governo a comune.
Un rumore senza pari levarono i Ghibellini pisani d'un tale acquisto, per
cui la città, loro nemica naturale, come caritatevolmente dicevano, si
accampava alle stesse porte di Pisa; e sparsero voce che i Fiorentini
avessero stabilito di ridurre Pisa a nulla più che un quartiere, col
nome di Firenzuola. Tali voci, appunto perchè esagerate, guadagnarono
fede tra il popolo; si gridava all'infamia del governo che aveva sopportato
un tale obbrobrio; e secondo le suggestioni dei mettimale, deliberarono di
romper guerra a Firenze.--Daremo ogni aver nostro (dicevano), fin le nostre
donne prenderanno le armi; ma perdio, non lasciamoci togliere Lucca; e il
Signore per certo darà vittoria al diritto contro l'iniquità
arrogante».
Tornati allora in posto i nobili, se l'intesero coi principali Ghibellini
di Toscana e, quel che più importa, con Luchino Visconte, il quale,
indispettito dal rifiuto dei Fiorentini, bramoso di fare onta all'abborrito
Scaligero, sperava inoltre di potere stendere così l'influenza sua sopra
quelle parti, e forse, poichè da cosa nasce cosa, anche il dominio; e
vantaggiarsi di tanto coll'aggiungere ai suoi Stati mediterranei anche un
porto di mare. Chiese dunque a' Pisani cinquantamila fiorini d'oro, l'annuo
omaggio di un palafreno, di due falconi pellegrini e di uno marino; e
consentitigli, ebbe a sè Giovanni Visconte d'Oleggio, soldato di
ventura, che da chierichetto del duomo di Milano salì fino a dominare
dappoi Bologna; e gli affidò duemila cavalli, dicendogli
all'orecchio:--Va, e muovi difilato sopra Pisa: entravi, e in sicurezza di
pace occupala; e fa che i molti partigiani nostri gridino me signore. Se
così ti vien fatto, buon per te».
Ventura fu che l'accortezza degli scaduti popolani rimediasse alla
ambiziosa cecità dei nobili signoreggianti; il colpo fu scoperto e
riparato, e Giovanni e Luchino, senza far mostra di nulla, ajutarono in
fatti Pisa ad ottenere Lucca.
Ma non va mai senza castigo un popolo libero, che attenta alla libertà
d'un altro.
L'alleanza di un tiranno subdolo e attivo qual era Luchino peggiorò i
costumi repubblicani di Pisa, e la trasse a consigli sleali e scellerati.
Che per la prima cosa egli domandasse lo sfratto dei rifuggiti lombardi,
facilmente l'immaginerete. Mandata la proposizione a partito, molti
generosi favellarono contro una domanda sì bassa e vergognosa, ma i
contrarj prevalsero, e quei miseri furono costretti cercare altrove nuovi
oltraggi.
Nelle piccole cose e nelle grandi, nei gabinetti delle dame e in quelli di
Stato, una concessione ne chiama un'altra, un passo dato in falso ne esige
un secondo. Io non vi enumererò i diversi errori, a cui trasse i Pisani
la funesta amicizia del tiranno, bastandomi dirvi che Luchino osò
chiedere di potere, nelle loro acque, appostare il naviglio che riconduceva
il Pusterla, col pretesto che questi fosse un suo gran nemico, un
insidiatore della pubblica quiete; il quale veniva a muovergli incontro una
maledetta trama.
I vili suggerimenti di pochi calcolatori ambiziosi, che si pretendevano
interpreti della pubblica volontà, impressero sulla libera Pisa questa
nuova macchia, senza che la popolazione generosa ne avesse colpa; e
consentirono che Buonincontro da Samminiato, condottiero agli stipendj di
Luchino, arrestasse in mare una galea sotto bandiera pisana, e ne
strappasse fuori il ribelle d'un altro Stato.
Così nera, sozza, avvilupata procedeva la politica--di quei tempi.
Varia fortuna corse sulle prime il vascello il _Caspio_, che di Francia
riconduceva il Pusterla: rovesci di pioggia, turbini di vento e tempeste
furiose, più che non sogliano mettersi in quel mare, parevano quasi
voler respingere gli sventurati dalla terra desiderata e funesta.
Venturino, riavendosi dal nauseato stupore in cui lo aveva gettato il
trabalzare del naviglio,--O padre (diceva) perchè ci siamo dipartiti da
quel paese? Là stavamo fermi in terra e sui nostri piedi».
E il Pusterla rispondeva:--Perchè quella non è la nostra patria.
--Ma ora dove si va?
--Nol sai? andiamo in Italia.
--In Italia? Oh dunque nel nostro caro paese, eh? Là udremo ancora
parlare come noi, è vero? Là vedremo tutta gente che si conosce. E la
mamma la troveremo noi subito?
--Povera mamma!» replicava Francesco sospiroso; e, carezzando i biondi
capelli del suo fanciullo,--Sì, la vedremo, se Dio vorrà. Ora prega
per lei.
--Pregare? Oh, non passa giorno ch'io nol faccia; non momento che io non me
la ricordi. Anche stanotte me ne sono insognato. Eravamo là nella
villeggiatura di Montebello; ma la villeggiatura era in città; stavamo
in sala, io e lei; e tu entravi a cavallo con un esercito... Oh, non mi
raccapezzo... ben so che non l'ho mai veduta più bella, nè più
cara. Oh fossi io grande! avessi io il braccio forte! forte come te, come
Alpinolo, correrei ben io a liberarla!»
Il Pusterla lo abbracciò intenerito, e alzando gli occhi verso Ramengo,
che teneva su loro intento lo sguardo, come la vipera sull'usignuolo
ammaliato,--O amico, (gli disse) qual consolazione nella solitudine, nelle
sventure, il trovarsi allato un figliuolo!»
Come al gettar olio sul fuoco, tal divampò Ramengo nell'intendere
parole, che gli rammentavano quanto esso pure avrebbe potuto godere di
quella consolazione; e come gli fosse stata rapita, diceva egli, da quel
Franciscolo che ora n'era beato.--Ma il sarai per poco!» urlò
stringendo le pugna verso il cielo, e precipitossi a sfogare il suo furore
giù nella stiva, tra la meraviglia dei compagni di viaggio.
Frattanto una mattina, al dissiparsi di una nebbia leggiera, simile al velo
che si getta sui mille ninnoli, sugli eleganti gingilli dei tavolini delle
nostre sale, che li copre senza nasconderli, il sole nascente mostrò
spiccate le coste d'Italia. Francesco le contemplava in un'estasi religiosa
piena di memorie, mentre la sua fantasia, stanca di prevedere il male, non
gli dipingeva che le immagini deliziose del passato, le lusinghevoli
dell'avvenire. E il fanciulletto, attenendosi alla mano del genitore, gli
andava col piccolo dito segnando le cime di terra ferma, miste alle
fantastiche apparenze di qualche bianca nuvoletta, sorta sull'orizzonte, e
chiedendo:--Che monte è quello che sporge là in mare? e quell'altro
così elevato e acuto? e questa vetta nevosa? Vedi l'altra laggiù che
fuma? Oh non è un paese quel bianco? Pisa sta forse dentro a quel seno?
Ve' ve' quel vascello che si avvicina! Ei porta sulla bandiera il biscione
come a Milano».
Stava in fatto così: ma quello che pel fanciullo era oggetto di
consolazione, fu di terribile pronostico per Francesco. A osservar la nave
che si accostava, trassero passeggieri sul ponte, e già distintamente,
insieme coll'arma di Pisa, discernevasi quella dei Visconti. Curiosi di
saperne la ragione, non più tosto furono a portata della voce, il
capitano del _Caspio_ chiese nuove a quell'altro.--Viva Pisa e i
Visconti!» fu la risposta; indi, colla concisione e il disordine solito
in tali incontri, informò come Pisa si fosse congiunta coi Visconti di
Milano, e che dal suo porto continuamente traversavano legni alla Sardegna,
ove Luchino, per recente eredità, possedeva il giudicato di Gallura.
--Pisa allearsi col Visconti! (esclamava qualche Pisano) Sarà la
società della pecora col lupo.
--Non dartene gran pena (gli soggiungeva un secondo). È un cavallo
bizzarro che per poco sopporterà il freno; e sbalzerà di dosso il
cavaliere. La servitù non è per le città ricche di marittimo
commercio.
--Per me (diceva il capitano, contemplando con occhio indifferente quella
nave, i passeggieri, il mare, il cielo), per me, comunque stia la patria,
poco me ne cale. Vivendo sempre sulla nave, io mi sento libero come
l'elemento che trascorro».
Questi e simili commenti facevansi a quella notizia; ma per Francesco
riusciva la più spaventosa che in quel momento potesse ascoltare.
Trattavasi nulla meno che della vita sua e del figliuolo, perdute
irreparabilmente se desse in quelle navi. Bianco dunque come le vele del
suo bastimento, coll'ansietà che gli cagionavano l'istinto della vita e
l'amore di padre, cominciò a supplicare il capitano perchè al più
presto desse la volta indietro e tornasse in Francia, esibendogli pagare,
non che le spese del tragitto, ogni danno che ne venisse a lui e agli altri
naviganti, e una grossa mancia per soprappiù; ne destava anche la
compassione col palesare chi fosse, perchè si trovasse colà, a quel
pericolo esposto; prendesse pietà di quel fanciulletto innocente. Udiva
il capitano quelle ragioni, quelle preghiere, seguitando a scompartire le
occhiate fra il supplicante, i passeggieri, il sole, l'acqua; poi,
stringendosi nelle spalle, disse:--Di tutte coteste fazioni io non
m'intrico: io sono libero come il mare. Ma devo stare agli ordini di quel
signore».
E accennò Ramengo, il quale bruscamente gli intimò:--Il vostro
dovere, e innanzi!»
Che benda squarciarono tali parole d'in sugli occhi del Pusterla! Ragioni,
suppliche, lacrime, che non adoperò a intenerire quell'atroce? Per
quanto gli repugnasse l'animo del piegarsi, di cui quel momento gli
rivelava tutta la turpitudine, pure, nulla credendo sconvenevole a un
padre, fino ai piedi gli cadde, e, unito al suo fanciullino, ne
abbracciò le ginocchia, gli rammentò le antiche benemerenze di sua
famiglia, il nome di Rosalia.--Anche voi dovete intender che cosa sia
l'amor paterno.... voi ancora un momento foste padre....»
Il satanico riso che guizzava sulle labbra di Ramengo nel contemplar
l'umiliazione, nell'udir le preghiere del suo nemico, e nel sentirsi
determinato a non esaudirle, si convertì in un ruggito feroce a queste
ultime parole, e,--Padre ancora e marito sarei, se tu non eri, o
maledetto!» esclamò, lanciando con un gesto brutale lontano da sè
il supplicante. Poi soggiungeva:--Ma ringrazio Dio che almeno ho gustato la
consolazione di veder tu pure straziato in quell'affetto onde hai privato
me».
Non poteva il Pusterla comprendere del tutto il senso di queste parole: la
beffarda e insieme atrocissima espressione del ribaldo, non consentiva di
chiederne una spiegazione; e poi il sentimento di sua dignità era
rinato: e colla superbia che sente l'uomo leale allorchè si trova
calpestato dall'infame, voltò dispettosamente le spalle a Ramengo, e,
senz'altro più dire se non:--Mio povero Venturino!» abbracciatosi al
suo fanciullo, sedette sopra la coffa in calma discorata. I passeggieri non
restavano indifferenti a quel patimento, alcuno interpose parola presso
Ramengo, e non profittò più che la voce di un mendicante sulla borsa
di un avaro; i Pisani volevano persuadere il Pusterla a non temere, che,
essendo in mare, su libera nave, non correrebbe rischio di sorta; altri gli
profondevano consolazioni generiche e triviali, giacchè gran filosofi
sono gli uomini nel sopportare le disgrazie altrui e nel consolarsene!
Scampati dai pericoli, vicini a uscire dalle noje della lenta e discomoda
navigazione, allettati da un bel giorno, da un prospero vento, dall'aspetto
del lido, della patria, la salutavano rallegrati.
Solo il Pusterla, tenendosi sulle ginocchia Venturino, sospirava in
silenzio, curva la testa sulle spalle del figliuolo, il quale, strettegli
le braccia al collo, piangeva dirottamente.
Oh! i pericoli, quando sopravvengono all'uomo libero di sè e delle sue
membra, che può volere, può tentare uno sforzo onde svellersi dalla
penosa situazione, se non altro, coll'avventarsi in una peggiore, pare che
raddoppino il coraggio. Ma qui, sopra una nave, coll'inevitabile aspetto
delle medesime cose, delle persone medesime, vedersi oncia ad oncia
avvicinare al precipizio, e non poter tampoco allungare un braccio al
riparo! Deh come allora invocava la tempesta, paventata i giorni innanzi,
avesse anche dovuto in quella perire! Ma calmo affatto era il cielo, e se
non fosse stato l'argenteo solco che la chiglia lasciavasi dietro,
sarebbesi potuto credere il legno fermo in un mare di cristallo; la tinta
carica della volta aerea confondevasi col colore dell'acqua; il sole faceva
scintillare mille vaghi splendori sulla liquida pianura, simili a diamanti
che tempestassero la sciabola di un guerriero.
Il Pusterla girava gli occhi per l'orizzonte, cercando una nube, una vela,
un qualunque oggetto ove aggrapparsi con un resto di speranza, e non vedea
nulla: gli alzava verso la Meloria, verso quelle coste d'Italia che di
tanto desiderio avea desiderate, verso i monti lucchesi... Per vederli da
lontanissimo, o piuttosto per indovinarli, s'era tante volte arrampicato
sui più erti picchi di Francia, stando ad osservarli col mesto tripudio
d'un ritorno più ambito che sperato. Ed ora che se gli facevano sempre
vicini, gli osservava collo spavento di chi, in buja notte smarrito per
deserta campagna abbia seguitato un lume lontano colla fiducia che gli
segnasse un ricovero amico; e si trova condotto invece ad una spelonca
d'assassini.
La nave intanto era stata veduta, e di dietro la Capraja sbucarono due
galere a remi battenti, movendosi alla volta di essa: la vipera viscontea
sciorinata in penna non lasciava dubitare di chi fossero. Il Pusterla le
guardò avvicinarsi; ardì gettare ancora un'occhiata sopra l'infame
Ramengo, ma senza trovargli in viso che una scellerata contentezza: onde
per disperato si aggruppò ancora col singhiozzante figliuolo, e chiuse
gli occhi aspettando l'inevitabile destino. Così prostrossi boccone
nella sua piroga il selvaggio indiano, che sentivasi irresistibilmente
strascinato verso la cascata del Niagara.
Non appena i due legni si furono avvicinati, chiamarono il _Caspio_
all'obbedienza, ed ammainate le vele, si venne all'arembaggio. Il capitano
Samminiato richiese i nomi dei passeggieri; e Ramengo traendosi innanzi, e
accennando quel pietoso gruppo, esclamò:
--Questo qua è Francesco Pusterla».
Colla turpe soddisfazione della sbirraglia quando giunse a ghermire la
preda, si lanciarono tosto i soldati addosso all'infelice, la cui unica
voce fu ancora,--Mio povero Venturino!» e caricato di catene, lo
gettarono nella stiva e seco il figliuolo;--colà almeno gli fu tolto
l'aspetto della ribalda gioja di Ramengo.
L'oro che seco portava il Pusterla divenne bottino del traditore, il quale
non si fidò di rimettere il piede in Pisa, ricordevole dell'avventura
dell'altra volta, e domandò al capitano del _Caspio_ che lo tragittasse
a Genova. Questi, volendo (ripeteva) esser libero come il mare, pose a
terra il suo carico, e tosto diede la volta per dove Ramengo gli comandava.
Il quale poi sbarcato, a gran giornate come chi reca una prospera novella,
attraversò la Liguria e il Monferrato, toccò a Vigevano i confini del
Milanese. Quivi però dovette subire una contumacia, essendo allora
sospetticcio di peste, e massime nella Toscana, ove la fame dei due anni
precedenti sviluppò la contagione in modo che la sola Firenze perdette
in quell'estate quindicimila cittadini. Veniva come un tremendo foriero di
quella che infierì sette anni dopo; intendo la troppo famosa, descritta
dal Boccaccio, che sterminò centomila persone in Firenze, ottantamila in
Siena, quarantamila a Genova, settantamila a Napoli, fra Sicilia e Puglia
cinquecentotrentamila, restando alcune città, come Trapani, affatto
disabitate; e perdendo tutta Europa tre quinti degli abitanti. Era ben
altro che il colèra.
In quell'occasione valse la severità di Luchino, che con rigorosissimi
cordoni tenne lontano l'imminente flagello. Per tanto Ramengo dovette
durare la quarantena a Vigevano, poi per lo stupendo castello di
Bereguardo, fabbricato dai Visconti, passò sopra il ponte gettato sul
Ticino, lungo un miglio, largo e sfogato a segno da potervi sopra correre
tre carri di fronte e sotto le navi più grosse; con ponti levatoj in
capo, e due rôcche di legno assai forti in ordine di battaglia.
Benchè fosse uno dei bei lavori architettonici, non credo che Ramengo
v'abbia posto gran mente; e tanto meno, nel venire da Abbiategrasso a
Milano lungo il Ticinello, avrà considerato l'ardimento d'una
piccolissima repubblica, che osava tentare una tanta opera, qual era
condurre artifizialmente il Ticino per trenta miglia fino alla città.
Entrò in Milano per la stessa porta Ticinese, dond'era entrato
quell'altra volta colla parata trionfale; passando dalla Palla, diede
un'occhiata al palazzo del Pusterla, ove in benemerenza abitava il capitano
Lucio; e coll'aria trionfale di chi sente d'avere compita una bella, se non
buona impresa, si presentò alla Corte di Luchino.
Il buffone Grillincervello stava nell'anticamera in mezzo a camerieri e
donzelli e paggi, insinuando la morale, e additando i buoni esempj con
certe sue storiacce, ond'era provvisto a dovizia.--E sicchè (diceva) non
vedendo ella altro modo di trovarsi col ganzo, ed egli non rifinendo di
richiederla, gli fece intendere che, la tal notte, entrasse nella camera
dove essa dormiva col marito, e si facesse alla proda del letto, dalla
banda di lei.--Ma, se il marito sente, e m'accoppa» diceva il baggiano.
Ed ella:--Portate in mano un par di guanti, e se vi accadesse di esser
sentito, scoteteli, imitando il batter delle orecchie di un cane. Egli vi
crederà il bracco suo fidato, che cuccia sempre nella stanza
vicina.--Non occorre altro; e l'uomo piano piano, quatto quatto, entra fin
al talamo beato. Un'anima di sambuco di quella sorte, pensate che paura!
che battisoffiola! Moveva i passi come camminasse sulle uova; teneva il
fiato, da gonfiare come una bôtta: ma quando si dice nascere
disgraziati! il diavolo ci mise la coda, e ser colui urtò della
maledetta nella cassapanca da piedi della lettiera. Il marito ode:--_Chi
è là?_ e il prode, che non aveva pelo che non gli tremasse, comincia
a dimenare i guanti. L'argo ripete l'intimata, e l'altro a scuoter più
forte. Il marito balza dal letto; e il gaglioffo, vedendo che l'agitare dei
guanti non bastava, credette far l'effetto coll'aggiungere, con una gorgia
da Cittadella, _Sont el brach_»[29].
Uno scoppio di risa vive e sguajate secondò ed interruppe quel racconto;
nel più vivo delle quali appunto ecco entrare Ramengo. Tutti gli sguardi
si volsero a lui, come al comparire d'un resuscitato; Grillincervello,
troncata a mezzo la favola, tese il dito verso lui con un _oh_ lungo e
strascicato, fece due capriole, ed entrato da Luchino roteando il suo
berretto e facendo mille attucci da babbuino,--Marcia, sparisci e torna
(esclamava). Quanto mi pagate, ed io colla mia polvere di biribara, vi fo
comparire qua in petto e in persona Ramengo da Casale?».
Luchino non mostrò nè meraviglia, nè piacere; già l'aspettava,
onde asciutto rispose:--Entri.
--Entri qui, o in carbonaja?» domandò Grillincervello meravigliato.
--Qui, qui,» replicò Luchino.
--E ch'io vada ad avvertire mastro Impicca di prontare i ferri del
mestiere?
--Meno scene», l'interruppe Luchino, bujo come un diesire: e
Grillincervello, che sentivasi ancora del le bôtte rilevate in
quell'ultima lezione alla rocchetta di porta Romana, non istette a farselo
dire due volte; e introdotto Ramengo, diceva agli scioperoni
dell'anticamera:--Non avevo mai visto i tordi andare a cena col
cacciatore».
Il vile cortigiano espose a Luchino di punto in punto tutta la sua
involtura e l'iniqua trama, mettendo nel racconto la furfantesca
soddisfazione che gli scaltriti usano nel narrare come trappolarono un
semplice ed innocente. Luchino gli attendeva colla severità consueta, e
s'avvicendavano in lui la contentezza della riuscita, e l'inesauribile
disprezzo che tutti provano pei traditori e per le spie.
--Ed ora (soggiungeva Ramengo dopo finito) se ho ben meritato della vostra
magnificenza, permetta ch'io la supplichi ad impegnarmi di nuovo la fede
sua per la promessa impunità da qualunque delitto, sì a me, sì a
mio figliuolo.
--Dove avete cotesto figliuolo?» chiese Luchino.
--A tempo la vostra magnificenza il saprà; ed io confido potrà farsi
al potere di essa robusto sostegno, quanto volonteroso fu il genitore».
Tratta di seno la pergamena dell'impunità, già speditagli, come
altrove abbiamo veduto, fece che Luchino vi apponesse di proprio pugno la
firma. Conteneva essa che a Ramengo da Casale e a quello che egli
indicherebbe per suo figliuolo, fosse conceduta intera impunità; col
solito ordine a tutti gli ufficiali di rispettare quella ordinanza. Ramengo
teneva in serbo questo colpo estremo per mostrare all'esacerbato Alpinolo
quanto l'amasse, e mitigarlo, e cancellato di bando e di condanna
restituirlo in patria agli onori ed alle ricchezze.
Ma ad onori e ricchezze aspirando, prese egli a mostrare a Luchino la
grandezza dei prestatigli servigi: come per questi si trovasse, non solo
scompigliato nelle proprie faccende domestiche--tacque della buona presa
fatta sopra il Pusterla,--ma disonorato in faccia dei cittadini: qualora se
ne sapesse: onde era del decoro del principe di conferirgli un grado, un
impiego che lo tornasse e mantenesse in riputazione e in grado di
continuargli i servigi. Nol lasciò finire Luchino, ed allumandolo
biecamente, con atto sprezzante ed iracondo, gettatagli ai piedi una borsa
di denaro,--Tieni (gli disse) i pari tuoi si pagano con argento e non con
dignità»: e gli volse le spalle, nè più ne volle udire.
Quanto sia al povero nostro Pusterla, non tardò molto ad arrivare
anch'egli: e il popolo corse a vedere quel famoso capo di ribelli, quel che
voleva mandare Milano sottosopra, disfare lo Stato e ristampare la
religione. Esso pure fu rinchiuso nella torretta di porta Romana; dove
appunto lo vide entrare la sciagurata Margherita, che noi lasciammo svenuta
a quella vista. Al male vogliamo credere il più tardi possibile; ed
essa, la infelice, s'ingegnava di non dar fede ai proprj occhi:--Vedendo
così a spicchio, mi sarò ingannata.--Sarà una illusione dell'amore
e del timore». Ma ogni dubbio le fu tolto un giorno, che il carceriere
Macaruffo entrò nella sua segreta con un portamento di manierato
sussiego, e con un viso schizzinoso, sciamando:--Che tanfo qua entro! Che
odor di chiuso! Perchè non date aria all'appartamento? Non vi si
regge»: e facevasi vento con una pezzolina di seta. La Margherita fu
presta a riconoscere il raso, sul quale ella aveva incominciato a ricamare
una margheritina, che poi non potè finire: quel raso che Buonvicino
aveva tolto dalla sala nell'ultimo giorno che vi entrò, e dato in
carissimo dono al Pusterla, il quale recollo sempre con sè. Ora nel
ravvisarlo, la Margherita si scosse tutta, come alla memoria di soavi
affezioni, di cari giorni, dell'ultimo istante di sue gioje tranquille:
e--Donde aveste quel ricamo?» domandò con ansietà all'aguzzino.
--Che? vi piace?» le rispose il ghiotto, scherzosamente
sciorinandoglielo sopra gli occhi.--Me l'ha dato un altro camerata,
alloggiato qui presso, e che voi conoscete.
--Franciscolo?
--Brava l'indovina! il signore, signorissimo Francesco.
--È veramente lui!» proruppe essa, piuttosto esclamando fra sè,
che non interrogando quel tristo, il quale seguitava:
--Lui appunto: ne dubitate? credereste non ci capitino che dei vestiti di
frustagno? Guardate. Sta sotto a questa chiave ch'è qui!
--E il figliuolo?
--Oh anch'esso, s'intende. Sarebbe una barbarie separar il figliuolo dal
genitore».
Già, per quanto s'industriasse di far inganno a sè stessa, la
Margherita era persuasa anche prima di aver qui vicino i cari suoi; e lo
sapeva la desolata stanza, riempiuta, quei giorni, di gemiti senza
consolazione; ma l'udirselo ora assicurare, ma il vedersi dalle schernevoli
guise di quel figuro strappato fin l'ultimo filo di speranza e di
illusione, faceva su lei quel che fa sopra un reo l'udirsi leggere la
sentenza di morte, benchè già prima ne conosca il tenore.
--E (seguitava colui) m'ha dato questo fiore; ve' come è bello!
perchè vi saluti voi e ve lo faccia vedere.
--Sa egli dunque che io sono qui?» domando la Margherita, ravvivando la
voce, affievolitale da quello stringimento di cuore.
--Se mi disse che vi salutassi, e che....
--E che altro mi manda a dire?
--Oh, vi manda a dire delle altre pappolate... uh! tanto da non venirne a
capo dentr'oggi. Ma non me le ricordo più.
--Deh! procurate ridurvele alla mente», diceva Margherita stendendo le
mani giunte verso il torto ceffo di colui, in atto di tale pietà, che
avrebbe commosso le pietre. Chi sa?... forse le doveva dire cose, che
importassero alla, vita di entrambi; se non altro, una parola d'amore da
colui, al quale tanto maggior bene voleva dopo che quel ricamo le mostrava
quanto viva e delicata memoria di lei serbasse. Ma quel rozzo, digiuno di
ogni sentir gentile, con un gesto espressivo le rispondeva:--Ridurmele a
mente? Non avrebbe ella, signora mia, qualche cosa allato per ajutarmi la
memoria?...
--Nulla; buon Dio! nulla. Voi lo sapete. Tutto quel poco che mi era rimasto
ve l'ho pur dato, tutto, tutto. Che cosa mi avanza più se non questo
trito vestire? Deh! una tal grazia vogliate farmela per carità. Oh, chi
sa che un giorno io non torni in grado di compensarvene? Se no, ve ne
rimeriterà Iddio».
E blanda, supplichevole, appoggiando le belle mani sulle spalle di colui,
tentava piegarne l'impassibile cupidigia, ma non faceva sovra di esso
maggior colpo che il sospiro di un vento di aprile sopra una montagna di
marmo.--Che Dio? che diavolo? che carità? che compensare? (egli saltava
su). La carità, io son uomo da riceverla, non da farla. I _chi sa_ e le
promesse di là da venire, il bettoliere non le scrive. Alle corte; o
avete qualcosa da darmi, e schiodo; se no, statevi colla vostra
curiosità in corpo, finchè non ve lo dica io».
E poichè essa non aveva proprio nulla sottratto all'ingordigia di lui,
nè potea dargli altro che lacrime, che una accorata supplicazione, e
inginocchiarsi a pregare il Signore, esso, rizzato un muso duro, le voltava
tanto di spalle, e facendo sonare più forte i chiavacci nel rinchiudere,
si allontanava pel lungo corridojo cantazzando, finchè la Margherita
più altro non intese fuorchè la sentinella, la quale di e notte
passeggiava dinanzi alle prigioni, alternando due passi uniformi, come
senza volontà, quasi due pesi metallici che a vicenda battessero
sull'ammattonato.
CAPITOLO XVIII.
IL SOLDATO.
Sdrajone sul pavimento se ne stava il carceriere Macaruffo nel corridojo
delle prigioni, facendo sue prove di appetito sopra un tozzo di pane
inferigno e una fetta di lardo, e succiando tratto tratto da una brocca di
vino, che con affettuosa devozione tenevasi fra le gambe, distese sul
terreno. Era notte e silenzio, nè altro splendeva se non un fioco
lampione sospeso alla volta e una lanterna sorda deposta a manritta di
favorire gli imperatori svevi ed Enrico VII e gli altri, accorrenti al
fiuto delle italiche ricchezze, i Pisani trascuravano di necessità il
commercio ed i lontani possedimenti; la Sardegna si videro tolta dagli
Aragonesi; dovettero abbandonare molti banchi della Siria, acquistati nelle
crociate, più non valendo a proteggerli contro i Musulmani per terra e
contro i corsari sull'acqua; e più non furono i più ricchi e
rispettati mercanti di Costantinopoli e dell'Adriatico.
Dentro provavano il contraccolpo delle scosse esteriori; ed era un
parteggiare micidiale, un odio, un sospetto, che distruggevano l'accordo,
necessario per la prosperità e la sicurezza dignitosa. Alcun tempo prima
la fazione popolare aveva avuto il sopravvento, e poichè questa pendeva
sempre alla bandiera guelfa, legò amistà con Firenze. Non potevano di
ciò darsi pace i nobili, ghibellini per affezione, per eredità, per
calcolo personale, e senza far mente ai reali vantaggi della patria; onde
stavano addocchiando ogni occasione d'umiliare i popolani, romperla con
Firenze, e tornar in auge la fazione imperiale. E l'occasione venne,
allorchè i Fiorentini, desiderando acquistare Lucca, posseduta allora da
Mastino della Scala, rifiutarono come sospetti gli ajuti che Luchino
esibì loro onde toglierla per forza, e la comprarono per
dugencinquantamila fiorini, a patto di lasciarle il governo a comune.
Un rumore senza pari levarono i Ghibellini pisani d'un tale acquisto, per
cui la città, loro nemica naturale, come caritatevolmente dicevano, si
accampava alle stesse porte di Pisa; e sparsero voce che i Fiorentini
avessero stabilito di ridurre Pisa a nulla più che un quartiere, col
nome di Firenzuola. Tali voci, appunto perchè esagerate, guadagnarono
fede tra il popolo; si gridava all'infamia del governo che aveva sopportato
un tale obbrobrio; e secondo le suggestioni dei mettimale, deliberarono di
romper guerra a Firenze.--Daremo ogni aver nostro (dicevano), fin le nostre
donne prenderanno le armi; ma perdio, non lasciamoci togliere Lucca; e il
Signore per certo darà vittoria al diritto contro l'iniquità
arrogante».
Tornati allora in posto i nobili, se l'intesero coi principali Ghibellini
di Toscana e, quel che più importa, con Luchino Visconte, il quale,
indispettito dal rifiuto dei Fiorentini, bramoso di fare onta all'abborrito
Scaligero, sperava inoltre di potere stendere così l'influenza sua sopra
quelle parti, e forse, poichè da cosa nasce cosa, anche il dominio; e
vantaggiarsi di tanto coll'aggiungere ai suoi Stati mediterranei anche un
porto di mare. Chiese dunque a' Pisani cinquantamila fiorini d'oro, l'annuo
omaggio di un palafreno, di due falconi pellegrini e di uno marino; e
consentitigli, ebbe a sè Giovanni Visconte d'Oleggio, soldato di
ventura, che da chierichetto del duomo di Milano salì fino a dominare
dappoi Bologna; e gli affidò duemila cavalli, dicendogli
all'orecchio:--Va, e muovi difilato sopra Pisa: entravi, e in sicurezza di
pace occupala; e fa che i molti partigiani nostri gridino me signore. Se
così ti vien fatto, buon per te».
Ventura fu che l'accortezza degli scaduti popolani rimediasse alla
ambiziosa cecità dei nobili signoreggianti; il colpo fu scoperto e
riparato, e Giovanni e Luchino, senza far mostra di nulla, ajutarono in
fatti Pisa ad ottenere Lucca.
Ma non va mai senza castigo un popolo libero, che attenta alla libertà
d'un altro.
L'alleanza di un tiranno subdolo e attivo qual era Luchino peggiorò i
costumi repubblicani di Pisa, e la trasse a consigli sleali e scellerati.
Che per la prima cosa egli domandasse lo sfratto dei rifuggiti lombardi,
facilmente l'immaginerete. Mandata la proposizione a partito, molti
generosi favellarono contro una domanda sì bassa e vergognosa, ma i
contrarj prevalsero, e quei miseri furono costretti cercare altrove nuovi
oltraggi.
Nelle piccole cose e nelle grandi, nei gabinetti delle dame e in quelli di
Stato, una concessione ne chiama un'altra, un passo dato in falso ne esige
un secondo. Io non vi enumererò i diversi errori, a cui trasse i Pisani
la funesta amicizia del tiranno, bastandomi dirvi che Luchino osò
chiedere di potere, nelle loro acque, appostare il naviglio che riconduceva
il Pusterla, col pretesto che questi fosse un suo gran nemico, un
insidiatore della pubblica quiete; il quale veniva a muovergli incontro una
maledetta trama.
I vili suggerimenti di pochi calcolatori ambiziosi, che si pretendevano
interpreti della pubblica volontà, impressero sulla libera Pisa questa
nuova macchia, senza che la popolazione generosa ne avesse colpa; e
consentirono che Buonincontro da Samminiato, condottiero agli stipendj di
Luchino, arrestasse in mare una galea sotto bandiera pisana, e ne
strappasse fuori il ribelle d'un altro Stato.
Così nera, sozza, avvilupata procedeva la politica--di quei tempi.
Varia fortuna corse sulle prime il vascello il _Caspio_, che di Francia
riconduceva il Pusterla: rovesci di pioggia, turbini di vento e tempeste
furiose, più che non sogliano mettersi in quel mare, parevano quasi
voler respingere gli sventurati dalla terra desiderata e funesta.
Venturino, riavendosi dal nauseato stupore in cui lo aveva gettato il
trabalzare del naviglio,--O padre (diceva) perchè ci siamo dipartiti da
quel paese? Là stavamo fermi in terra e sui nostri piedi».
E il Pusterla rispondeva:--Perchè quella non è la nostra patria.
--Ma ora dove si va?
--Nol sai? andiamo in Italia.
--In Italia? Oh dunque nel nostro caro paese, eh? Là udremo ancora
parlare come noi, è vero? Là vedremo tutta gente che si conosce. E la
mamma la troveremo noi subito?
--Povera mamma!» replicava Francesco sospiroso; e, carezzando i biondi
capelli del suo fanciullo,--Sì, la vedremo, se Dio vorrà. Ora prega
per lei.
--Pregare? Oh, non passa giorno ch'io nol faccia; non momento che io non me
la ricordi. Anche stanotte me ne sono insognato. Eravamo là nella
villeggiatura di Montebello; ma la villeggiatura era in città; stavamo
in sala, io e lei; e tu entravi a cavallo con un esercito... Oh, non mi
raccapezzo... ben so che non l'ho mai veduta più bella, nè più
cara. Oh fossi io grande! avessi io il braccio forte! forte come te, come
Alpinolo, correrei ben io a liberarla!»
Il Pusterla lo abbracciò intenerito, e alzando gli occhi verso Ramengo,
che teneva su loro intento lo sguardo, come la vipera sull'usignuolo
ammaliato,--O amico, (gli disse) qual consolazione nella solitudine, nelle
sventure, il trovarsi allato un figliuolo!»
Come al gettar olio sul fuoco, tal divampò Ramengo nell'intendere
parole, che gli rammentavano quanto esso pure avrebbe potuto godere di
quella consolazione; e come gli fosse stata rapita, diceva egli, da quel
Franciscolo che ora n'era beato.--Ma il sarai per poco!» urlò
stringendo le pugna verso il cielo, e precipitossi a sfogare il suo furore
giù nella stiva, tra la meraviglia dei compagni di viaggio.
Frattanto una mattina, al dissiparsi di una nebbia leggiera, simile al velo
che si getta sui mille ninnoli, sugli eleganti gingilli dei tavolini delle
nostre sale, che li copre senza nasconderli, il sole nascente mostrò
spiccate le coste d'Italia. Francesco le contemplava in un'estasi religiosa
piena di memorie, mentre la sua fantasia, stanca di prevedere il male, non
gli dipingeva che le immagini deliziose del passato, le lusinghevoli
dell'avvenire. E il fanciulletto, attenendosi alla mano del genitore, gli
andava col piccolo dito segnando le cime di terra ferma, miste alle
fantastiche apparenze di qualche bianca nuvoletta, sorta sull'orizzonte, e
chiedendo:--Che monte è quello che sporge là in mare? e quell'altro
così elevato e acuto? e questa vetta nevosa? Vedi l'altra laggiù che
fuma? Oh non è un paese quel bianco? Pisa sta forse dentro a quel seno?
Ve' ve' quel vascello che si avvicina! Ei porta sulla bandiera il biscione
come a Milano».
Stava in fatto così: ma quello che pel fanciullo era oggetto di
consolazione, fu di terribile pronostico per Francesco. A osservar la nave
che si accostava, trassero passeggieri sul ponte, e già distintamente,
insieme coll'arma di Pisa, discernevasi quella dei Visconti. Curiosi di
saperne la ragione, non più tosto furono a portata della voce, il
capitano del _Caspio_ chiese nuove a quell'altro.--Viva Pisa e i
Visconti!» fu la risposta; indi, colla concisione e il disordine solito
in tali incontri, informò come Pisa si fosse congiunta coi Visconti di
Milano, e che dal suo porto continuamente traversavano legni alla Sardegna,
ove Luchino, per recente eredità, possedeva il giudicato di Gallura.
--Pisa allearsi col Visconti! (esclamava qualche Pisano) Sarà la
società della pecora col lupo.
--Non dartene gran pena (gli soggiungeva un secondo). È un cavallo
bizzarro che per poco sopporterà il freno; e sbalzerà di dosso il
cavaliere. La servitù non è per le città ricche di marittimo
commercio.
--Per me (diceva il capitano, contemplando con occhio indifferente quella
nave, i passeggieri, il mare, il cielo), per me, comunque stia la patria,
poco me ne cale. Vivendo sempre sulla nave, io mi sento libero come
l'elemento che trascorro».
Questi e simili commenti facevansi a quella notizia; ma per Francesco
riusciva la più spaventosa che in quel momento potesse ascoltare.
Trattavasi nulla meno che della vita sua e del figliuolo, perdute
irreparabilmente se desse in quelle navi. Bianco dunque come le vele del
suo bastimento, coll'ansietà che gli cagionavano l'istinto della vita e
l'amore di padre, cominciò a supplicare il capitano perchè al più
presto desse la volta indietro e tornasse in Francia, esibendogli pagare,
non che le spese del tragitto, ogni danno che ne venisse a lui e agli altri
naviganti, e una grossa mancia per soprappiù; ne destava anche la
compassione col palesare chi fosse, perchè si trovasse colà, a quel
pericolo esposto; prendesse pietà di quel fanciulletto innocente. Udiva
il capitano quelle ragioni, quelle preghiere, seguitando a scompartire le
occhiate fra il supplicante, i passeggieri, il sole, l'acqua; poi,
stringendosi nelle spalle, disse:--Di tutte coteste fazioni io non
m'intrico: io sono libero come il mare. Ma devo stare agli ordini di quel
signore».
E accennò Ramengo, il quale bruscamente gli intimò:--Il vostro
dovere, e innanzi!»
Che benda squarciarono tali parole d'in sugli occhi del Pusterla! Ragioni,
suppliche, lacrime, che non adoperò a intenerire quell'atroce? Per
quanto gli repugnasse l'animo del piegarsi, di cui quel momento gli
rivelava tutta la turpitudine, pure, nulla credendo sconvenevole a un
padre, fino ai piedi gli cadde, e, unito al suo fanciullino, ne
abbracciò le ginocchia, gli rammentò le antiche benemerenze di sua
famiglia, il nome di Rosalia.--Anche voi dovete intender che cosa sia
l'amor paterno.... voi ancora un momento foste padre....»
Il satanico riso che guizzava sulle labbra di Ramengo nel contemplar
l'umiliazione, nell'udir le preghiere del suo nemico, e nel sentirsi
determinato a non esaudirle, si convertì in un ruggito feroce a queste
ultime parole, e,--Padre ancora e marito sarei, se tu non eri, o
maledetto!» esclamò, lanciando con un gesto brutale lontano da sè
il supplicante. Poi soggiungeva:--Ma ringrazio Dio che almeno ho gustato la
consolazione di veder tu pure straziato in quell'affetto onde hai privato
me».
Non poteva il Pusterla comprendere del tutto il senso di queste parole: la
beffarda e insieme atrocissima espressione del ribaldo, non consentiva di
chiederne una spiegazione; e poi il sentimento di sua dignità era
rinato: e colla superbia che sente l'uomo leale allorchè si trova
calpestato dall'infame, voltò dispettosamente le spalle a Ramengo, e,
senz'altro più dire se non:--Mio povero Venturino!» abbracciatosi al
suo fanciullo, sedette sopra la coffa in calma discorata. I passeggieri non
restavano indifferenti a quel patimento, alcuno interpose parola presso
Ramengo, e non profittò più che la voce di un mendicante sulla borsa
di un avaro; i Pisani volevano persuadere il Pusterla a non temere, che,
essendo in mare, su libera nave, non correrebbe rischio di sorta; altri gli
profondevano consolazioni generiche e triviali, giacchè gran filosofi
sono gli uomini nel sopportare le disgrazie altrui e nel consolarsene!
Scampati dai pericoli, vicini a uscire dalle noje della lenta e discomoda
navigazione, allettati da un bel giorno, da un prospero vento, dall'aspetto
del lido, della patria, la salutavano rallegrati.
Solo il Pusterla, tenendosi sulle ginocchia Venturino, sospirava in
silenzio, curva la testa sulle spalle del figliuolo, il quale, strettegli
le braccia al collo, piangeva dirottamente.
Oh! i pericoli, quando sopravvengono all'uomo libero di sè e delle sue
membra, che può volere, può tentare uno sforzo onde svellersi dalla
penosa situazione, se non altro, coll'avventarsi in una peggiore, pare che
raddoppino il coraggio. Ma qui, sopra una nave, coll'inevitabile aspetto
delle medesime cose, delle persone medesime, vedersi oncia ad oncia
avvicinare al precipizio, e non poter tampoco allungare un braccio al
riparo! Deh come allora invocava la tempesta, paventata i giorni innanzi,
avesse anche dovuto in quella perire! Ma calmo affatto era il cielo, e se
non fosse stato l'argenteo solco che la chiglia lasciavasi dietro,
sarebbesi potuto credere il legno fermo in un mare di cristallo; la tinta
carica della volta aerea confondevasi col colore dell'acqua; il sole faceva
scintillare mille vaghi splendori sulla liquida pianura, simili a diamanti
che tempestassero la sciabola di un guerriero.
Il Pusterla girava gli occhi per l'orizzonte, cercando una nube, una vela,
un qualunque oggetto ove aggrapparsi con un resto di speranza, e non vedea
nulla: gli alzava verso la Meloria, verso quelle coste d'Italia che di
tanto desiderio avea desiderate, verso i monti lucchesi... Per vederli da
lontanissimo, o piuttosto per indovinarli, s'era tante volte arrampicato
sui più erti picchi di Francia, stando ad osservarli col mesto tripudio
d'un ritorno più ambito che sperato. Ed ora che se gli facevano sempre
vicini, gli osservava collo spavento di chi, in buja notte smarrito per
deserta campagna abbia seguitato un lume lontano colla fiducia che gli
segnasse un ricovero amico; e si trova condotto invece ad una spelonca
d'assassini.
La nave intanto era stata veduta, e di dietro la Capraja sbucarono due
galere a remi battenti, movendosi alla volta di essa: la vipera viscontea
sciorinata in penna non lasciava dubitare di chi fossero. Il Pusterla le
guardò avvicinarsi; ardì gettare ancora un'occhiata sopra l'infame
Ramengo, ma senza trovargli in viso che una scellerata contentezza: onde
per disperato si aggruppò ancora col singhiozzante figliuolo, e chiuse
gli occhi aspettando l'inevitabile destino. Così prostrossi boccone
nella sua piroga il selvaggio indiano, che sentivasi irresistibilmente
strascinato verso la cascata del Niagara.
Non appena i due legni si furono avvicinati, chiamarono il _Caspio_
all'obbedienza, ed ammainate le vele, si venne all'arembaggio. Il capitano
Samminiato richiese i nomi dei passeggieri; e Ramengo traendosi innanzi, e
accennando quel pietoso gruppo, esclamò:
--Questo qua è Francesco Pusterla».
Colla turpe soddisfazione della sbirraglia quando giunse a ghermire la
preda, si lanciarono tosto i soldati addosso all'infelice, la cui unica
voce fu ancora,--Mio povero Venturino!» e caricato di catene, lo
gettarono nella stiva e seco il figliuolo;--colà almeno gli fu tolto
l'aspetto della ribalda gioja di Ramengo.
L'oro che seco portava il Pusterla divenne bottino del traditore, il quale
non si fidò di rimettere il piede in Pisa, ricordevole dell'avventura
dell'altra volta, e domandò al capitano del _Caspio_ che lo tragittasse
a Genova. Questi, volendo (ripeteva) esser libero come il mare, pose a
terra il suo carico, e tosto diede la volta per dove Ramengo gli comandava.
Il quale poi sbarcato, a gran giornate come chi reca una prospera novella,
attraversò la Liguria e il Monferrato, toccò a Vigevano i confini del
Milanese. Quivi però dovette subire una contumacia, essendo allora
sospetticcio di peste, e massime nella Toscana, ove la fame dei due anni
precedenti sviluppò la contagione in modo che la sola Firenze perdette
in quell'estate quindicimila cittadini. Veniva come un tremendo foriero di
quella che infierì sette anni dopo; intendo la troppo famosa, descritta
dal Boccaccio, che sterminò centomila persone in Firenze, ottantamila in
Siena, quarantamila a Genova, settantamila a Napoli, fra Sicilia e Puglia
cinquecentotrentamila, restando alcune città, come Trapani, affatto
disabitate; e perdendo tutta Europa tre quinti degli abitanti. Era ben
altro che il colèra.
In quell'occasione valse la severità di Luchino, che con rigorosissimi
cordoni tenne lontano l'imminente flagello. Per tanto Ramengo dovette
durare la quarantena a Vigevano, poi per lo stupendo castello di
Bereguardo, fabbricato dai Visconti, passò sopra il ponte gettato sul
Ticino, lungo un miglio, largo e sfogato a segno da potervi sopra correre
tre carri di fronte e sotto le navi più grosse; con ponti levatoj in
capo, e due rôcche di legno assai forti in ordine di battaglia.
Benchè fosse uno dei bei lavori architettonici, non credo che Ramengo
v'abbia posto gran mente; e tanto meno, nel venire da Abbiategrasso a
Milano lungo il Ticinello, avrà considerato l'ardimento d'una
piccolissima repubblica, che osava tentare una tanta opera, qual era
condurre artifizialmente il Ticino per trenta miglia fino alla città.
Entrò in Milano per la stessa porta Ticinese, dond'era entrato
quell'altra volta colla parata trionfale; passando dalla Palla, diede
un'occhiata al palazzo del Pusterla, ove in benemerenza abitava il capitano
Lucio; e coll'aria trionfale di chi sente d'avere compita una bella, se non
buona impresa, si presentò alla Corte di Luchino.
Il buffone Grillincervello stava nell'anticamera in mezzo a camerieri e
donzelli e paggi, insinuando la morale, e additando i buoni esempj con
certe sue storiacce, ond'era provvisto a dovizia.--E sicchè (diceva) non
vedendo ella altro modo di trovarsi col ganzo, ed egli non rifinendo di
richiederla, gli fece intendere che, la tal notte, entrasse nella camera
dove essa dormiva col marito, e si facesse alla proda del letto, dalla
banda di lei.--Ma, se il marito sente, e m'accoppa» diceva il baggiano.
Ed ella:--Portate in mano un par di guanti, e se vi accadesse di esser
sentito, scoteteli, imitando il batter delle orecchie di un cane. Egli vi
crederà il bracco suo fidato, che cuccia sempre nella stanza
vicina.--Non occorre altro; e l'uomo piano piano, quatto quatto, entra fin
al talamo beato. Un'anima di sambuco di quella sorte, pensate che paura!
che battisoffiola! Moveva i passi come camminasse sulle uova; teneva il
fiato, da gonfiare come una bôtta: ma quando si dice nascere
disgraziati! il diavolo ci mise la coda, e ser colui urtò della
maledetta nella cassapanca da piedi della lettiera. Il marito ode:--_Chi
è là?_ e il prode, che non aveva pelo che non gli tremasse, comincia
a dimenare i guanti. L'argo ripete l'intimata, e l'altro a scuoter più
forte. Il marito balza dal letto; e il gaglioffo, vedendo che l'agitare dei
guanti non bastava, credette far l'effetto coll'aggiungere, con una gorgia
da Cittadella, _Sont el brach_»[29].
Uno scoppio di risa vive e sguajate secondò ed interruppe quel racconto;
nel più vivo delle quali appunto ecco entrare Ramengo. Tutti gli sguardi
si volsero a lui, come al comparire d'un resuscitato; Grillincervello,
troncata a mezzo la favola, tese il dito verso lui con un _oh_ lungo e
strascicato, fece due capriole, ed entrato da Luchino roteando il suo
berretto e facendo mille attucci da babbuino,--Marcia, sparisci e torna
(esclamava). Quanto mi pagate, ed io colla mia polvere di biribara, vi fo
comparire qua in petto e in persona Ramengo da Casale?».
Luchino non mostrò nè meraviglia, nè piacere; già l'aspettava,
onde asciutto rispose:--Entri.
--Entri qui, o in carbonaja?» domandò Grillincervello meravigliato.
--Qui, qui,» replicò Luchino.
--E ch'io vada ad avvertire mastro Impicca di prontare i ferri del
mestiere?
--Meno scene», l'interruppe Luchino, bujo come un diesire: e
Grillincervello, che sentivasi ancora del le bôtte rilevate in
quell'ultima lezione alla rocchetta di porta Romana, non istette a farselo
dire due volte; e introdotto Ramengo, diceva agli scioperoni
dell'anticamera:--Non avevo mai visto i tordi andare a cena col
cacciatore».
Il vile cortigiano espose a Luchino di punto in punto tutta la sua
involtura e l'iniqua trama, mettendo nel racconto la furfantesca
soddisfazione che gli scaltriti usano nel narrare come trappolarono un
semplice ed innocente. Luchino gli attendeva colla severità consueta, e
s'avvicendavano in lui la contentezza della riuscita, e l'inesauribile
disprezzo che tutti provano pei traditori e per le spie.
--Ed ora (soggiungeva Ramengo dopo finito) se ho ben meritato della vostra
magnificenza, permetta ch'io la supplichi ad impegnarmi di nuovo la fede
sua per la promessa impunità da qualunque delitto, sì a me, sì a
mio figliuolo.
--Dove avete cotesto figliuolo?» chiese Luchino.
--A tempo la vostra magnificenza il saprà; ed io confido potrà farsi
al potere di essa robusto sostegno, quanto volonteroso fu il genitore».
Tratta di seno la pergamena dell'impunità, già speditagli, come
altrove abbiamo veduto, fece che Luchino vi apponesse di proprio pugno la
firma. Conteneva essa che a Ramengo da Casale e a quello che egli
indicherebbe per suo figliuolo, fosse conceduta intera impunità; col
solito ordine a tutti gli ufficiali di rispettare quella ordinanza. Ramengo
teneva in serbo questo colpo estremo per mostrare all'esacerbato Alpinolo
quanto l'amasse, e mitigarlo, e cancellato di bando e di condanna
restituirlo in patria agli onori ed alle ricchezze.
Ma ad onori e ricchezze aspirando, prese egli a mostrare a Luchino la
grandezza dei prestatigli servigi: come per questi si trovasse, non solo
scompigliato nelle proprie faccende domestiche--tacque della buona presa
fatta sopra il Pusterla,--ma disonorato in faccia dei cittadini: qualora se
ne sapesse: onde era del decoro del principe di conferirgli un grado, un
impiego che lo tornasse e mantenesse in riputazione e in grado di
continuargli i servigi. Nol lasciò finire Luchino, ed allumandolo
biecamente, con atto sprezzante ed iracondo, gettatagli ai piedi una borsa
di denaro,--Tieni (gli disse) i pari tuoi si pagano con argento e non con
dignità»: e gli volse le spalle, nè più ne volle udire.
Quanto sia al povero nostro Pusterla, non tardò molto ad arrivare
anch'egli: e il popolo corse a vedere quel famoso capo di ribelli, quel che
voleva mandare Milano sottosopra, disfare lo Stato e ristampare la
religione. Esso pure fu rinchiuso nella torretta di porta Romana; dove
appunto lo vide entrare la sciagurata Margherita, che noi lasciammo svenuta
a quella vista. Al male vogliamo credere il più tardi possibile; ed
essa, la infelice, s'ingegnava di non dar fede ai proprj occhi:--Vedendo
così a spicchio, mi sarò ingannata.--Sarà una illusione dell'amore
e del timore». Ma ogni dubbio le fu tolto un giorno, che il carceriere
Macaruffo entrò nella sua segreta con un portamento di manierato
sussiego, e con un viso schizzinoso, sciamando:--Che tanfo qua entro! Che
odor di chiuso! Perchè non date aria all'appartamento? Non vi si
regge»: e facevasi vento con una pezzolina di seta. La Margherita fu
presta a riconoscere il raso, sul quale ella aveva incominciato a ricamare
una margheritina, che poi non potè finire: quel raso che Buonvicino
aveva tolto dalla sala nell'ultimo giorno che vi entrò, e dato in
carissimo dono al Pusterla, il quale recollo sempre con sè. Ora nel
ravvisarlo, la Margherita si scosse tutta, come alla memoria di soavi
affezioni, di cari giorni, dell'ultimo istante di sue gioje tranquille:
e--Donde aveste quel ricamo?» domandò con ansietà all'aguzzino.
--Che? vi piace?» le rispose il ghiotto, scherzosamente
sciorinandoglielo sopra gli occhi.--Me l'ha dato un altro camerata,
alloggiato qui presso, e che voi conoscete.
--Franciscolo?
--Brava l'indovina! il signore, signorissimo Francesco.
--È veramente lui!» proruppe essa, piuttosto esclamando fra sè,
che non interrogando quel tristo, il quale seguitava:
--Lui appunto: ne dubitate? credereste non ci capitino che dei vestiti di
frustagno? Guardate. Sta sotto a questa chiave ch'è qui!
--E il figliuolo?
--Oh anch'esso, s'intende. Sarebbe una barbarie separar il figliuolo dal
genitore».
Già, per quanto s'industriasse di far inganno a sè stessa, la
Margherita era persuasa anche prima di aver qui vicino i cari suoi; e lo
sapeva la desolata stanza, riempiuta, quei giorni, di gemiti senza
consolazione; ma l'udirselo ora assicurare, ma il vedersi dalle schernevoli
guise di quel figuro strappato fin l'ultimo filo di speranza e di
illusione, faceva su lei quel che fa sopra un reo l'udirsi leggere la
sentenza di morte, benchè già prima ne conosca il tenore.
--E (seguitava colui) m'ha dato questo fiore; ve' come è bello!
perchè vi saluti voi e ve lo faccia vedere.
--Sa egli dunque che io sono qui?» domando la Margherita, ravvivando la
voce, affievolitale da quello stringimento di cuore.
--Se mi disse che vi salutassi, e che....
--E che altro mi manda a dire?
--Oh, vi manda a dire delle altre pappolate... uh! tanto da non venirne a
capo dentr'oggi. Ma non me le ricordo più.
--Deh! procurate ridurvele alla mente», diceva Margherita stendendo le
mani giunte verso il torto ceffo di colui, in atto di tale pietà, che
avrebbe commosso le pietre. Chi sa?... forse le doveva dire cose, che
importassero alla, vita di entrambi; se non altro, una parola d'amore da
colui, al quale tanto maggior bene voleva dopo che quel ricamo le mostrava
quanto viva e delicata memoria di lei serbasse. Ma quel rozzo, digiuno di
ogni sentir gentile, con un gesto espressivo le rispondeva:--Ridurmele a
mente? Non avrebbe ella, signora mia, qualche cosa allato per ajutarmi la
memoria?...
--Nulla; buon Dio! nulla. Voi lo sapete. Tutto quel poco che mi era rimasto
ve l'ho pur dato, tutto, tutto. Che cosa mi avanza più se non questo
trito vestire? Deh! una tal grazia vogliate farmela per carità. Oh, chi
sa che un giorno io non torni in grado di compensarvene? Se no, ve ne
rimeriterà Iddio».
E blanda, supplichevole, appoggiando le belle mani sulle spalle di colui,
tentava piegarne l'impassibile cupidigia, ma non faceva sovra di esso
maggior colpo che il sospiro di un vento di aprile sopra una montagna di
marmo.--Che Dio? che diavolo? che carità? che compensare? (egli saltava
su). La carità, io son uomo da riceverla, non da farla. I _chi sa_ e le
promesse di là da venire, il bettoliere non le scrive. Alle corte; o
avete qualcosa da darmi, e schiodo; se no, statevi colla vostra
curiosità in corpo, finchè non ve lo dica io».
E poichè essa non aveva proprio nulla sottratto all'ingordigia di lui,
nè potea dargli altro che lacrime, che una accorata supplicazione, e
inginocchiarsi a pregare il Signore, esso, rizzato un muso duro, le voltava
tanto di spalle, e facendo sonare più forte i chiavacci nel rinchiudere,
si allontanava pel lungo corridojo cantazzando, finchè la Margherita
più altro non intese fuorchè la sentinella, la quale di e notte
passeggiava dinanzi alle prigioni, alternando due passi uniformi, come
senza volontà, quasi due pesi metallici che a vicenda battessero
sull'ammattonato.
CAPITOLO XVIII.
IL SOLDATO.
Sdrajone sul pavimento se ne stava il carceriere Macaruffo nel corridojo
delle prigioni, facendo sue prove di appetito sopra un tozzo di pane
inferigno e una fetta di lardo, e succiando tratto tratto da una brocca di
vino, che con affettuosa devozione tenevasi fra le gambe, distese sul
terreno. Era notte e silenzio, nè altro splendeva se non un fioco
lampione sospeso alla volta e una lanterna sorda deposta a manritta di
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