Margherita Pusterla: Racconto storico - 21
taglia: giacchè provenivano da Milano, e coloro appunto eran nemici del
signore di Milano.
Pedrocco protestava che, nemici o no, egli di cose politiche non se
n'intendeva: ch'era roba dei frati, e che l'avrebbero a fare con tutti gli
Umiliati di Lombardia, e col papa che li proteggeva. Ma quei masnadieri
poco tenevano conto delle minaccie: e davano già mano a spogliarli, se
non che il Pusterla intese come fossero uomini d'Aurigino Muralto da
Locarno. Era questi, se vi ricorda, uno dei fidati del Pusterla,
intervenuto all'adunanza della sera fatale; e cercato a morte dal Visconte,
invece di fuggire cogli altri, erasi ridotto fra i patrj monti ed a
Locarno, ond'era signore, e quivi intesosi coi Rusconi, dominatori di
Bellinzona, aveva alzato bandiera contro Luchino.
Quel nome, quell'annunzio bastò per dissipare dall'animo del Pusterla
tutti i proponimenti di quiete, di fuga, di nascondiglio.--Aurigino?
(diceva agli uomini di masnada), grand'amico mio: guaj a colui che
toccherà un filo di questa roba! Siamo del partito istesso: vengo a far
causa con lui».
E ottenne di fatto che quei masnadieri, i quali avevano una specie di buona
fede al modo loro, e di diritto delle genti al modo dei moderni Beduini,
lasciassero quelle robe in deposito: mentre Pedrocco, che ripeteva non
intendersi nulla nè di partiti nè di causa comune, tornava a Varese
per impegnare gli Umiliati a riscattare le mercanzie. Il Pusterla si
imbarcò sul Lago Maggiore, ed oh come il piccolo Venturino pareva
deliziarsi al vedere tanta bellezza di cielo, di acqua, di rive, un pelago
circondato da scabre montagne o da spiagge ammantate da lussureggiante
vegetazione! Vi restava un tratto coll'occhio incantato, poi volgendosi al
padre,--Oh se ci fosse mamma!» esclamava: e l'uno premeva il volto al
volto dell'altro, e sospiravano. Ma se il cuore e la mente del fanciullo
non si pascevano che di amore, ben altre idee occupavano il genitore; il
quale già si figurava capo di un esercito di prodi e risoluti montanari,
terribile al Visconte; e via di vittoria in vittoria scorreva col pensiero
fino al momento di dettar patti a Luchino, e ricuperare per forza di armi
la patria e la consorte. Arrivando di fatti a Locarno, vi fu ricevuto
coll'entusiasmo onde si suole un nemico d'un nostro nemico; feste, tripudj,
e mostrargli ogni apparecchio, ed esagerargli le forze, e menarne trionfo,
quale forse gli Americani allorchè il giovane La Fayette andò a
spargere per essi il nobile sangue francese. Ma Aurigino Muralto era in
casa sua, era capo: per rinunziare al comando si vuole più virtù e
meno impeto che non avesse il giovane ribelle. Cortesie dunque senza fine
al Pusterla; dato libero l'andare al convoglio di Pedrocco; ma quanto fosse
ad autorità, nessuna ne concedeva al foruscito; al quale, il trovarsi
meno che secondo in piccola terra sapeva d'agresto, assai più che non
l'obbedire nella patria, in città grande, ad una grande famiglia. Alle
brevi illusioni tenne dunque dietro un prestissimo disinganno: e colla
solita irrequietudine, già si augurava in qualunque luogo prima che in
questo, ove gli amici stessi, diceva, l'abbandonavano, il tradivano.
Che far dunque? Ripigliare il duro viaggio dell'esule, che va e va, nè
sa dove riposi al fine dell'amara giornata.
Sopraggiunse intanto Pedrocco, che era corso ad avvisare gli Umiliati del
sorpreso convoglio; e mentre ringraziava Francesco di averglielo
riscattato, gli dava lettere di Buonvicino, ove, con tutto l'ardore
dell'amicizia, lo supplicava a fuggire, a scostarsi più che poteva, a
non lasciarsi allucinare dalle troppo facili speranze dei forusciti:
ricordasse che la vita della Margherita poteva dipendere da un suo moto:
pensasse al figliolino che aveva seco, e che doveva conservare all'amore di
quella sventurata; poi gli esponeva i preparativi che Luchino faceva, e
contro cui certamente non avrebbe potuto reggere un pugno di sollevati,
comunque coraggiosi.
In effetto Luchino, indispettito della resistenza oppostagli da quelli di
Locarno e di Bellinzona, e dei guasti che recavano alle sue terre con
correrie e rappresaglie incessanti, temendo anche il contagio tanto sottile
dell'insubordinazione, volle con uno sforzo straordinario domare la
straordinaria opposizione. Dal Po, dal Ticino, da Pizzighettone, da
Mantova, da Piacenza, raccolse nel Tesinello navi da tal servigio, ben
fornite in opera di battaglia; fece fabbricare sei _ganzerre_, barche di
grossissima portata, con cinquanta remi ed ampie vele e torri e macchine,
montate ciascuna da cinque o seicento armati. Capitanata da Giovanni
Visconti da Oleggio, la flotta venne pel Lago Maggiore ad assaltare
Locarno; mentre Sfolcada Melik da terra guidava un grosso di mercenari, che
sottoposero Bellinzona, e scesero di là contro i Muralti, assalendoli
così vigorosamente, che Locarno fu espugnato; i capi dovettero per le
montagne fuggirsene; i primarj borghesi furono trasportati a Milano; e per
tenere quel posto in soggezione, fu fabbricato un robusto castello;
sicchè i rimasti dovettero chinare il capo, rodere il freno, e
raccomandare ai loro figli pazienza e vendetta.
Prima che questi avvenimenti si compissero, Francesco Pusterla, secondando
in parte i consigli dell'amico e la prudenza, in parte il dispetto del
vedersi posposto, erasi ritirato da Locarno, ove si fecero di lui tante
beffe, quanti applausi dapprima: e in compagnia ancora di Pedrocco valicava
le Alpi per vie, segnate unicamente dallo scolo delle acque, e da qualche
croce che additava i passi ove altri viandanti erano caduti in precipizio.
Faceva uno strano spettacolo ai profughi nostri quella fila di muli, che,
tenendosi sempre sull'orlo dei precipizi, s'arrampicavano tortuosamente,
lenti e col capo basso, senza che per l'ampia solitudine altro si udisse
che il battere dei loro zoccoli, il tintinnio delle loro sonagliere, e
fioccare i giuraddii dei mulattieri. Nel centro della carovana Francesco
procedeva sopra un mulo più robusto, tenendosi in groppa il suo
Venturino: e pedestre a canto di lui camminava Pedrocco, accorrendo qua e
là a dar gli ordini opportuni come uomo esperto, poi tornando pur sempre
a sollevare con parole la noja del signore lombardo.
--Oh di qui in Francia si va d'un salto. Io vi sarò tornato trenta volte
alla larga. Paese d'ogni bene è quello: a petto suo, la Lombardia non
vale la metà.--Come vi si stia a Governo? Mah! di queste cose io non me
ne intendo.--Le strade? Faccia conto siano tutte sull'andare di questa che,
come sa, l'ha fatta il diavolo. Abissi, precipizi, rovine e frane tra i
monti; boschi, pantani alla pianura; ladri da per tutto. I muli però
sanno ove tenere i piedi, ed alle volte si compie il viaggio senza che uno
se n'accoppi. E poi, che serve aver paura? Se si muore, buona notte: tanto
una volta quella corbelleria la s'ha da fare.--Dice bene: il peggio sono i
malandrini. Non ha visto come l'abbiamo scappata bella con quelli
laggiù? Nel mille trecento, e non mi ricordo quanti, tornavamo da
Avignone con sessantamila fiorini d'oro che fumavano. Mi getto via nel
rammentare quel bel marsupio. Me gli aveva fidati il santo padre da recare
al cardinale del Poggetto, suo nipote o non so che altro, per pagare le
truppe ch'egli assoldava onde tenere in senno certe fazioni, ed altre cose
che io non me n'intendo. Il santo padre, perchè gli stavano sul cuore,
mi diede cencinquanta cavalieri per convogliare i miei trenta muli:
cavalieri, le so dir io, che ne tremava l'aria. Si va; si passa fiumi e
monti senza incontro: quando insaccatici in una valle della Savoja, io
comincio a notare certe faccie che non promettevano nulla di bene, ed
avvedermi di un certo armeggio. _Pas peur_, dissero quei cavalieri
francesi: _noi mangiare Italiani in un boccone._ Ma convien dire non si
fossero ben raccomandati a san Cristoforo pel buon viaggio: poichè i
Francesi hanno tutte le buone volontà, ma non la divozione. Mentre
stavamo, come si fa, votando non una bottiglia, ma una botte, eccoci
addosso una banda, Dio sa di quanti. Ferma, dagli, piglia, lascia: quei
Francesi parevano tanti Orlandi paladini. Ma bisogna confessare che, per
menar le braccia, gl'Italiani non hanno pari al mondo. Insomma quella
truppa, ch'erano di Pavia, gettarono a terra i Francesi, e sollevatili dal
peso dei cavalli, li rimandarono ad Avignone a piedi come pellegrini; a me
poi tolsero la metà giusta del denaro e dei somieri, cosa che non era
più accaduta dacchè i Pedrocchi vanno da Gallarate in Francia; e
dovetti condurre al cardinal legato quel che mi rimaneva».
Così Pedrocco dava risposta alle varie domande del Pusterla, risposte
meglio opportune a distrarlo che a confortarlo. Ma più che al disagio ed
al pericolo della via, accoravasi il Pusterla per l'abbandono della patria;
e quando giunse sul ciglio del monte che separa le due favelle, arrestossi,
guardò di qua, di là, il cielo, la terra: pareva le ginocchia gli
mancassero sotto, talchè Pedrocco gli domandò se si sentisse male.
Egli rispose sospirando:--Qui finisce l'Italia».
Anche questa era una delle tante cose che il buon cavallaro non intendeva,
pure il confortava alla meglio, raccontandogli siccome anche in Francia vi
fossero uomini simili a noi, e buone case, e monti, e fiumi, ed erba alla
primavera, e messi all'estate e all'autunno le delizie della vendemmia; i
Francesi amabili, dilettevoli, sociali, buoni e vattene là: Ma il
Pusterla ripeteva:--Non è l'Italia».
Ma una vera Italia (soggiungeva Pedrocco) ella potrà ritrovare in
Avignone. Là cardinali, là servi, là camerieri, là poeti, là
buffoni, tutto italiano».
Il Pusterla voleva far capire all'altro i disconci che venivano all'Italia
dallo starne fuori i pontefici, e le sconvenienze della politica e della
religione; ma Pedrocco, protestando che di queste cose non s'intendeva,
magnificava le splendidezze dei prelati, e il continuo andare e venire di
corrieri, di soldati, di ambasciatori, di roba, di denari, e i bei guadagni
che egli ne cavava.
--E conoscete voi colà Guglielmo Pusterla?
--Chi? l'arciprete di Monza? Se ve l'ho accompagnato io stesso.
--E come vi sta?
--Sta benissimo: grasso, trionfale, ha salute da campar cent'anni.
--Lo so: ma dico se il papa lo favorisce; se saprà le disgrazie della
sua famiglia a Milano: se in Corte è il ben veduto.
--Mah! di queste cose io non me n'intendo».
V'era però una materia, in cui Pedrocco s'intendeva come Manzoni nel far
versi, e che importava non poco anche ai Pusterla. I Lombardi, nel tempo
che si reggevano a comune, erano deditissimi al traffico, e frequentavano
Francia, Olanda, Fiandra, Inghilterra, fin l'estrema Russia, dove aprivano
case di commercio, e dove ancora se ne conserva memoria nel nome d'alcune
strade e quartieri. Lombardi anzi venivano colà per antonomasia chiamati
i banchieri; perchè davano opera principalmente al cambio del denaro e
agli imprestiti. Perduta coi governi a popolo l'energia della classe media,
primo elemento delle speculazioni ardite, ormai quel traffico era passato
nei Toscani: ma i più denarosi fra i Lombardi non s'erano ancora
immaginato che il guadagnare col commercio sporcasse la nobiltà, nè
quindi avevano ritirato dai negozianti i capitali, come fecero due secoli
dopo, quando l'albagia pitocca degli Spagnuoli diede, con questi
pregiudizj, l'ultimo tuffo alla vivacità commerciale del nostro paese,
uccidendone la prosperità mentre gli rapivano l'essere, il fare, il
pensare.
I Pusterla, ricchissimi non meno di terreni che di capitali, ne aveano
investiti dei grossissimi sulle banche dei Lombardi, dei Lucchesi, dei
Fiorentini a Parigi. Ora venivano a grand'uopo a Franciscolo per ristorarlo
dei beni confiscatigli in patria, e apprestargli il modo di potere, sopra
la terra straniera comparire, non solamente col decoro conveniente alla
grandezza di sua famiglia, ma col lusso ancora che la sua vanità
desiderava, e che trovavasi e si trova necessario per acquistare
considerazione fra gli sconosciuti, e non avere bisogno di quella
compassione, che tanto confina col disprezzo.
Da ciò avevano materia di ragionamenti i due viandanti, ove Pedrocco era
nella sua beva, e potè dare buon indirizzo all'innominato suo compagno.
E questo ne profittava grandemente, non solo per ciò, ma anche perchè
la vita di quel trafficante, tutta attiva di corpo e placidissima di
spirito, dava tregua alle agitazioni di lui, gli mostrava altre vie nella
società, che dapprima egli non aveva nè tampoco immaginate: gli
faceva qualche volta invidiare di trovarsi fuori delle politiche
turbolenze, o almeno di mutare la traditrice compagnia dei grandi, in
quella meno appariscente e più sincera delle persone occupate. Ma la
forza dell'antica consuetudine rivaleva: e non appena si vide sul suolo di
Francia, sicuro e con quanti denari bastavano per accattarsi amici, si
congedò dalla compagnia di Pedrocco, senz'altro conservarne se non la
ricordanza che si suole d'un buon galantuomo, incontrato su questa strada
che tutti battiamo senza sapere dove ci conduca.
E prima Franciscolo trascorse i varj paesi della Francia, cercando un poco
di svago, e cogliendo i fiori, che, sul cammino d'un ricco, naturali o
artefatti, spuntano da ogni terra. Venne poi a Parigi, la città del
fango (_Lutetia_), che tuttavia giustificava quel nome colla sozzura delle
sue strade. Da ogni parte del mondo vi accorrevano studenti
all'Università, metodo tanto opportuno d'educazione allorchè non
v'era la stampa e scarseggiavano i libri, quant'è ora disutile e
pernicioso. Era cancelliere di essa Università Roberto dei Bardi
fiorentino, il quale, facendo gli onori all'illustre arrivato,--L'Italia
(dicevagli) primeggia pel diritto, Parigi per la teologia e per le arti
liberali. A ragione il nostro Petrarca chiamò questa città un
paniere, ove si raccolgono le più belle e rare frutta d'ogni paese:
poichè vi convengono quelli che siano in qual vogliate facoltà
eccellenti. Il nostro sommo Alighieri, nell'esiglio suo, qui studiò dai
gran dottori della Sorbona, e il dirò per vergogna dei tempi, lasciò
di farsi addottorare solo perchè gli vennero meno le spese. Qui avemmo
anche Giovanni Boccaccio, un giovane che farà onore alla patria, e che
raccoglieva novelle da Francesi e Provenzali, e le riduceva in vulgar
nostro. Da Padova ci arrivarono dodici garzoni, che il signor Ubertino da
Carrara qui mantiene a scuola di medicina. Vive poi, e vivrà sempre la
memoria degli Italiani che qui lessero scienza: un Pier Lombardo novarese,
maestro delle sentenze; un Egidio Romano, un Albertino da Padova
agostiniano, il francescano Alessandro da Alessandria, i due astrologi
immortali Dionisio Roberti da Borgo San Sepolcro e Pietro d'Abano padovano,
e quei che valgono per tutti, il dottore Serafico e l'Angelico».
Denotavansi con tali nomi, chi nol sapesse, Bonaventura da Bagnarea e
Tommaso d'Aquino, gigante della scienza dei secoli cattolici, la cui
sintesi grandiosa da nessun posteriore tentativo fu eguagliata.
--Ed ora (proseguiva il valoroso Fiorentino, prodigo di lodi come un
segretario e di frasi come un accademico) ora piangiamo estinto Nicolao de
Lira l'autore della Postilla Perpetua sopra tutta la Bibbia, e del
Commento, opera di tanta lena, che a stento crederanno i posteri le abbia
potute un uomo terminare. A questo augusto concilio di dotti, non
altrimenti che a Bologna, ricorrono prelati e città e principi o per la
decisione di casi di coscienza, o compromettendo i loro litigi. Volete
più? lo stesso re d'Inghilterra Enrico II sottopose a noi le sue
differenze con Tommaso da Cantorbery. Le scienze sono il rifugio nei mali,
l'ha detto l'oratore d'Arpino. A queste volgete l'animo; qui fermate vostra
stanza, e provate quel che ne cantò Giovanni da Salisbery:
_Felix exilium cui locus iste datur_».
Il Pusterla trovava in fatto Parigi gajo, vivace, pieno di quel fecondo
movimento, che infonde ad un paese il fiore della gioventù radunata.
Tanti v'erano gli studenti, che a fatica trovavano alloggi sulle piazze; li
vedeva discorrere o disputare, seduti in circolo sopra la paglia: nella via
degli scrivani aveano tutto quel che occorresse per lo scrivere: diecimila
amanuensi attendevano continuamente a copiare libri. Gli scolari la mattina
badavano alle lezioni, il dopo pranzo alle dispute, la sera alle
ripetizioni. Quest'era il lato bello; ma Francesco scoprì ben presto le
magagne che vi covavano; attorno ai venditori di vino, che lo spacciavano
per le vie, quei giovani commettevano disordini d'ogni maniera: usurieri ed
ebrei traevano profitto dall'inesperta loro generosità: male donne li
corrompevano, per cui cagione non passava giorno che non si facessero
baruffe e sangue.
E poi la Francia non era il paese che potesse far dimenticare l'Italia a
chi non vi avesse passioni od interessi predominanti. Taciamo la
diversità di cielo, la coltivazione delle terre, trascurata a confronto
della Lombardia, il sudiciume delle città, la miseria delle borgate, il
disagio delle abitazioni: la Francia non erasi purgata dalle ferocie del
medioevo passando, come i nostri paesi, attraverso alla libertà
municipale. I governi a comune avevano tra noi fiaccato il potere feudale:
e quei baroni che nelle rocche minacciose, ricinti da vassalli e da servi
della gleba, facevansi unica legge il loro superbo e minaccioso talento,
erano stati rintuzzati dai campagnuoli, dai mercanti, dai giureconsulti, da
tutti i borghesi, e costretti a disarmare la loro prepotenza e farsi
cittadini. I tirannetti, che usurparono dappoi il comando, non fecero che
ajutare quest'opera; e, come vedemmo in Luchino, sebbene non per amore del
popolo, ma pel proprio vantaggio, vennero stringendo sempre più il freno
ai feudatarj aumentando le franchigie del vulgo per fare contrasto a
quelli; e dilatando viepiù i privilegi della popolazione campestre, la
quale, sotto le repubbliche, aveva cominciato a mutarsi dalla condizione di
schiavi in quella di coloni, e ricuperare l'umana dignità. In generale
dunque la nobiltà d'Italia non era più che un patronato, onde il
plebeo si affezionava e si legava col ricco.
Tutt'altrimenti in Francia: mille baroni erano altrettanti piccoli re, il
cui dominio viepiù pesava quanto in più angusto confine lo
esercitavano. Non una moltiplicità di repubblichette, non una lega di
queste gli aveva imbrigliati; e quantunque il re, il quale non era che il
primo fra di essi, s'ingegnasse di opporre a loro le comunità cui veniva
rinvigorendo, era ben lontano da riuscire a notevole risultamento; e il bel
regno di Francia consisteva allora in un re impotente, pochi forti
oppressori, la moltitudine oppressa.
Quindi prepotenze in ogni parte e di ogni genere: quindi miseria: quindi
l'arbitrio al posto della giustizia e delle leggi. E Pedrocco, tutto che
lodatore delle cose di Francia quanto alcuni miei amici che non la
conoscono, non poteva cessare i lamenti per gli spessi pedagi, per le
generose mancie che doveva dare ai capi degli uomini d'arme, per le
menzogne onde doveva ricoprire la ricchezza del suo convoglio. Poi
additando varj castelli al suo compagno di viaggio,--I vassalli di questo
(diceva) sono obbligati per turno a ripulire le stalle del padrone.--Questi
altri non possono far testamento, senza lasciare metà dei loro beni al
feudatario.--Il vescovo e principe di Ginevra succede nell'eredità di
chiunque muore senza figli.--Vede là quei villani colle pertiche in riva
a que' paludi? Sono obbligati a far la ronda, acciocchè i ranocchi non
disturbino il padrone mentre dorme». Tacio le prelibazioni oscene; tacio
quel che era comune, il contadino pareggiato nelle fatiche ai bovi che
l'ajutavano: alla porta di ogni castello, insieme col teschio di lupi e di
cervi, e cogli avoltoj confitti sulle imposte ferrate, spenzolava da una
carrucola la corda della tortura, in segno del diritto di sangue; e sulla
spianata ergevasi la forca, da cui a dozzine pendevano i giustiziati per le
più lievi cagioni, per un capriccio, per una vendetta.
Ben altro giudizio delle cose di Francia dovranno portare gli esuli
d'oggidì: ma i lamenti che da loro intesi mi fanno calcolare con quanto
maggior ragione il Pusterla dovesse dire allora, che, per amare assai la
sua patria, conviene aver veduta l'altrui.
E poi Parigi aveva già fin d'allora il privilegio funesto delle grandi
città, di poter uno vivervi, godere, spasimare, morire, senza che altri
gli badi o se n'accorga. Il che, se era il caso per un profugo bramoso di
pace e d'oscurità, non poteva per verun modo accomodare a Francesco,
sempre desideroso di primeggiare, sempre spinto all'azione, al movimento, e
che colà andava confuso, inosservato, fra una turbo che veniva e tornava
e cambiavasi ogni dì; fra un numero infinito di pitocchi, che beneficati
non facevano se non divenire più importuni, e chiedergli denaro
coll'insistenza del ladro, fra la spensierata scolaresca, fra i segregati
dottori, fra anime che non potevano neppur comprendere i patimenti d'un
esule italiano.
Ma una parte di Francia tutta italiana, siccome gli aveva detto Pedrocco,
erano il contado Venesino, padroneggiato dai papi, e la città d'Avignone
appartenente a Roberto re di Napoli; nella quale Clemente V, il 1305, aveva
trapiantato la sede pontificia, e per gridare e sperare che gli Italiani
facessero, e per quanto sembrasse strano che i papi preferissero restare
sudditi in Francia, anzichè sovrani a Roma, più non la tornarono sul
Tevere se non nel 1376.
Colà dunque si rivolse il Pusterla, e vi trovò una vita, un moto
straordinario. Dimessa l'idea di trasferirsi in Italia, Benedetto XII
faceva murare, per alloggiar come si conviene al capo della cristianità,
e tutti i cardinali ergevano palazzi, splendidi d'ogni suntuosità, e non
inferiori alla Corte di verun principe d'allora. Artisti italiani vi
accorrevano ad abbellirli, altri a lusingare coi canti, colle piacenterie,
colle novelle, cogli strologamenti: dei porporati ognuno v'avea condotto
numerosa famiglia di servi e camerieri e scrivani; talchè poteva dirsi
proprio una colonia d'Italia, con tanto maggiore verità, perchè quel
clima meridionale fa ricordare le dolcezze del nostro.
In un tempo quando il papa stava ancora disopra delle autorità temporali
come depositario della celeste, vale a dire della giustizia, vedevansi alla
sua Corte ambasciadori d'Ungheria, di Polonia, di Svezia, d'altri
potentati, che rimettevano all'inerme sua decisione le loro politiche
differenze: cosa che deve recare grande scandalo al secolo nostro, il quale
vuol piuttosto vederle risolte colle bajonette o rattoppate dai Castelreagh
e dai Talleyrand coi protocolli...
I cittadini di Monza, agitati dentro dalle fazioni dei Magantelli e degli
Stratoni, e minacciati fuori dalle armi dei Visconti e Torriani, avevano
(già ne abbiam toccato una parola) nascosto il prezioso tesoro della
loro basilica, che valeva ventiseimila fiorini, cioè un milione e mezzo
d'oggidì. Il nascondiglio non era conosciuto se non dal canonico Aichino
da Vercelli; il quale, venuto in caso di morte, ne fece la confidenza a
frate Aicardo arcivescovo di Milano, e questo al cardinal legato Bertrando
del Poggetto, che lo fece cavar fuori e trasferire in Avignone. Ora
quietati i tempi, per ricuperarlo avevano i Monzesi mandato il loro
arciprete Guglielmo Pusterla, insieme con lo storico Buonincontro Morigia.
E sebbene quell'arciprete non fosse ancora potuto venire a capo di nulla,
erasi però insinuato nella grazia dei papi, seguitando tre regole di
condotta, che a modo di proverbio egli ripeteva sovente; lasciar andare il
mondo co' suoi piedi, fare il dover suo piano e tranquillamente, e dir bene
de' superiori. Le aveva imparate in convento sin da quando era novizio, ed
ora con queste meritò di essere scelto prelato di Corte, ed in appresso
arcivescovo di Milano.
Di buon cuore com'era, fece egli una festa da non dire a suo nipote
Francesco, il quale, col mezzo di lui, potè collocarsi bene, ottenere
alla Corte rispetto ed amorevolezze, e speranza di acquistare entratura col
papa, nella cui assistenza ormai vedeva l'unica via di migliorare la
condizione sua e della patria. Ma quest'ultima corda non sonava bene allo
zio arciprete, il quale era il più nuovo uomo nei garbugli della
politica.
--Caro nipote (egli diceva) tu eri ricco; tu stavi da papa; tu invidiato da
tutti; che importava a te che regnasse Pietro o Martino? Lascia cuocere i
potenti nel loro brodo, e troverai maggior pace. Guelfi e Ghibellini,
l'imperatore e il pontefice, la tirannide e la libertà, tutte idee
astruse; è necessario che vi siano, come gli scandali: ma un galantuomo
può arare dritto senza intrigarsi di queste gerarchie. Credi a' miei
capelli grigi, _experto crede Ruperto_: lupo non mangia carne di lupo: e i
potenti se l'intendono quando si tratti di spalleggiarsi fra loro.
L'imperatore par che l'abbia col santo padre: ma se vedesse un altro sul
punto d'opprimere il santo padre, darebbe mano a questo per abbattere il
primo. E tanto meno ti riuscirebbero cotesti intrighi ora che il papa è
un uomo di pace e _bonæ voluntatis_. Giovanni XXII, nelle cose del mondo
e nelle questioni scolastiche (diciamolo, chè tanto e tanto è morto)
si affaccendava troppo; morì lasciando diciotto milioni di fiorini in
oro, e sette in vasellami e gioje e con questo marsupio poteva fare più
che non Archimede colla sua leva: _coelum terramque movebo_. Ma sono otto
anni ch'egli è in paradiso; e il papa adesso è di tutt'altro umore.
Per sapienza teologica non è un'aquila: degl'intrugli di gabinetto se
n'intende buccicata: tanto meglio: e così non desidera che metter acqua
là dove i suoi predecessori attizzarono il fuoco; ribenedire dove essi
avevano scomunicato. Quando, contro ogni sua aspettazione si sentì
chiamato papa, sai quel che disse ai cardinali? Cari fratelli, i vostri
voti si sono accordati sopra un asino. Tant'è umile! E con lui non han
nulla a sperare nipoti e parenti. Una sua carissima nipote gli fu chiesta
sposa da un gran barone, ed egli non consentì, perchè non era da par
suo, e la maritò ad un negoziante. Di sposa, ella col suo consorte venne
a trovarlo qui, e tutti dicevano,--Chi sa che regali!» Indovina mo?...
gli accolse bene, ma li rinviò senz'altro che rifarli delle spese di
viaggio, e dare la sua santa benedizione. Vedrai la sua anticamera zeppa di
abatini e di monsignoroni che vengono a sollecitare benefizj: ma egli
preferisce di lasciarli vacanti, anzichè, com'esso si esprime, adornare
di gioje il fango e l'argilla. Quando egli solleva qualcuno a dignità,
si può assicurare che egli ha trovato del merito sodo».
E in così dire, lo zio arciprete rizzava il capo con un sentimento di
decoro che non potevasi dire superbia. Franciscolo pensava:--Mio zio ha bel
dire che non gli piove addosso»; e s'ingegnava di fargli capir quella
ch'ei chiamava ragione, ma il buon uomo lo interrompeva:--Non hai tutti i
torti; molto hai perduto; hai lasciata quella donna, che la pari non si
trova al metodo. Ma tutto questo perchè? T'ho pur detto delle volte
assai che, per camparla bene, bisogna _facere munus suum taliter qualiter_.
Se mi avessi dato ascolto, non avresti voluto primeggiare: _bene vixit qui
bene latuit_. Ora l'esperienza ti ammaestri. Stavi bene, volesti star
meglio: vedi frutto? Almeno profitta di quel che ti avanzò per tirar
innanzi alla meglio questi pochi anni di vita. _Fugit irreparabile tempus._
Vuoi piaceri? vuoi spassi? vuoi pompe? qui non hai che a desiderare. Vuoi
conoscenze di letterati? vedi quanti poeti provenzali; vedi quel che tutti
li vale, il gran Petrarca. Vuoi discussioni fine e puntigliose di teologia
e di erudizione sterminata? ti farò conoscere il monaco calabrese
Barlaamo, quel che insegnò il greco al Boccaccio. Fu mandato qui da
Andronico imperatore di Costantinopoli per maneggiar la riconciliazione
della Chiesa greca colla latina. Quello è un uomo! L'avessi inteso jeri
a otto disputare contro gli onfalopsichi! Questi eretici dicono: Chiuditi
nella tua cella; siedi da un canto, leva lo spirito sopra le cose terrene;
appoggia la barba sul petto; fissa l'umbilico; tieni il respiro; cerca
nelle viscere tue il cuore, sede della potenza dell'anima, e vi troverai
dapprima tenebre, poi una luce limpidissima come quella apparsa sul Monte
Tabor. Ma frate Barlaamo risponde....»
signore di Milano.
Pedrocco protestava che, nemici o no, egli di cose politiche non se
n'intendeva: ch'era roba dei frati, e che l'avrebbero a fare con tutti gli
Umiliati di Lombardia, e col papa che li proteggeva. Ma quei masnadieri
poco tenevano conto delle minaccie: e davano già mano a spogliarli, se
non che il Pusterla intese come fossero uomini d'Aurigino Muralto da
Locarno. Era questi, se vi ricorda, uno dei fidati del Pusterla,
intervenuto all'adunanza della sera fatale; e cercato a morte dal Visconte,
invece di fuggire cogli altri, erasi ridotto fra i patrj monti ed a
Locarno, ond'era signore, e quivi intesosi coi Rusconi, dominatori di
Bellinzona, aveva alzato bandiera contro Luchino.
Quel nome, quell'annunzio bastò per dissipare dall'animo del Pusterla
tutti i proponimenti di quiete, di fuga, di nascondiglio.--Aurigino?
(diceva agli uomini di masnada), grand'amico mio: guaj a colui che
toccherà un filo di questa roba! Siamo del partito istesso: vengo a far
causa con lui».
E ottenne di fatto che quei masnadieri, i quali avevano una specie di buona
fede al modo loro, e di diritto delle genti al modo dei moderni Beduini,
lasciassero quelle robe in deposito: mentre Pedrocco, che ripeteva non
intendersi nulla nè di partiti nè di causa comune, tornava a Varese
per impegnare gli Umiliati a riscattare le mercanzie. Il Pusterla si
imbarcò sul Lago Maggiore, ed oh come il piccolo Venturino pareva
deliziarsi al vedere tanta bellezza di cielo, di acqua, di rive, un pelago
circondato da scabre montagne o da spiagge ammantate da lussureggiante
vegetazione! Vi restava un tratto coll'occhio incantato, poi volgendosi al
padre,--Oh se ci fosse mamma!» esclamava: e l'uno premeva il volto al
volto dell'altro, e sospiravano. Ma se il cuore e la mente del fanciullo
non si pascevano che di amore, ben altre idee occupavano il genitore; il
quale già si figurava capo di un esercito di prodi e risoluti montanari,
terribile al Visconte; e via di vittoria in vittoria scorreva col pensiero
fino al momento di dettar patti a Luchino, e ricuperare per forza di armi
la patria e la consorte. Arrivando di fatti a Locarno, vi fu ricevuto
coll'entusiasmo onde si suole un nemico d'un nostro nemico; feste, tripudj,
e mostrargli ogni apparecchio, ed esagerargli le forze, e menarne trionfo,
quale forse gli Americani allorchè il giovane La Fayette andò a
spargere per essi il nobile sangue francese. Ma Aurigino Muralto era in
casa sua, era capo: per rinunziare al comando si vuole più virtù e
meno impeto che non avesse il giovane ribelle. Cortesie dunque senza fine
al Pusterla; dato libero l'andare al convoglio di Pedrocco; ma quanto fosse
ad autorità, nessuna ne concedeva al foruscito; al quale, il trovarsi
meno che secondo in piccola terra sapeva d'agresto, assai più che non
l'obbedire nella patria, in città grande, ad una grande famiglia. Alle
brevi illusioni tenne dunque dietro un prestissimo disinganno: e colla
solita irrequietudine, già si augurava in qualunque luogo prima che in
questo, ove gli amici stessi, diceva, l'abbandonavano, il tradivano.
Che far dunque? Ripigliare il duro viaggio dell'esule, che va e va, nè
sa dove riposi al fine dell'amara giornata.
Sopraggiunse intanto Pedrocco, che era corso ad avvisare gli Umiliati del
sorpreso convoglio; e mentre ringraziava Francesco di averglielo
riscattato, gli dava lettere di Buonvicino, ove, con tutto l'ardore
dell'amicizia, lo supplicava a fuggire, a scostarsi più che poteva, a
non lasciarsi allucinare dalle troppo facili speranze dei forusciti:
ricordasse che la vita della Margherita poteva dipendere da un suo moto:
pensasse al figliolino che aveva seco, e che doveva conservare all'amore di
quella sventurata; poi gli esponeva i preparativi che Luchino faceva, e
contro cui certamente non avrebbe potuto reggere un pugno di sollevati,
comunque coraggiosi.
In effetto Luchino, indispettito della resistenza oppostagli da quelli di
Locarno e di Bellinzona, e dei guasti che recavano alle sue terre con
correrie e rappresaglie incessanti, temendo anche il contagio tanto sottile
dell'insubordinazione, volle con uno sforzo straordinario domare la
straordinaria opposizione. Dal Po, dal Ticino, da Pizzighettone, da
Mantova, da Piacenza, raccolse nel Tesinello navi da tal servigio, ben
fornite in opera di battaglia; fece fabbricare sei _ganzerre_, barche di
grossissima portata, con cinquanta remi ed ampie vele e torri e macchine,
montate ciascuna da cinque o seicento armati. Capitanata da Giovanni
Visconti da Oleggio, la flotta venne pel Lago Maggiore ad assaltare
Locarno; mentre Sfolcada Melik da terra guidava un grosso di mercenari, che
sottoposero Bellinzona, e scesero di là contro i Muralti, assalendoli
così vigorosamente, che Locarno fu espugnato; i capi dovettero per le
montagne fuggirsene; i primarj borghesi furono trasportati a Milano; e per
tenere quel posto in soggezione, fu fabbricato un robusto castello;
sicchè i rimasti dovettero chinare il capo, rodere il freno, e
raccomandare ai loro figli pazienza e vendetta.
Prima che questi avvenimenti si compissero, Francesco Pusterla, secondando
in parte i consigli dell'amico e la prudenza, in parte il dispetto del
vedersi posposto, erasi ritirato da Locarno, ove si fecero di lui tante
beffe, quanti applausi dapprima: e in compagnia ancora di Pedrocco valicava
le Alpi per vie, segnate unicamente dallo scolo delle acque, e da qualche
croce che additava i passi ove altri viandanti erano caduti in precipizio.
Faceva uno strano spettacolo ai profughi nostri quella fila di muli, che,
tenendosi sempre sull'orlo dei precipizi, s'arrampicavano tortuosamente,
lenti e col capo basso, senza che per l'ampia solitudine altro si udisse
che il battere dei loro zoccoli, il tintinnio delle loro sonagliere, e
fioccare i giuraddii dei mulattieri. Nel centro della carovana Francesco
procedeva sopra un mulo più robusto, tenendosi in groppa il suo
Venturino: e pedestre a canto di lui camminava Pedrocco, accorrendo qua e
là a dar gli ordini opportuni come uomo esperto, poi tornando pur sempre
a sollevare con parole la noja del signore lombardo.
--Oh di qui in Francia si va d'un salto. Io vi sarò tornato trenta volte
alla larga. Paese d'ogni bene è quello: a petto suo, la Lombardia non
vale la metà.--Come vi si stia a Governo? Mah! di queste cose io non me
ne intendo.--Le strade? Faccia conto siano tutte sull'andare di questa che,
come sa, l'ha fatta il diavolo. Abissi, precipizi, rovine e frane tra i
monti; boschi, pantani alla pianura; ladri da per tutto. I muli però
sanno ove tenere i piedi, ed alle volte si compie il viaggio senza che uno
se n'accoppi. E poi, che serve aver paura? Se si muore, buona notte: tanto
una volta quella corbelleria la s'ha da fare.--Dice bene: il peggio sono i
malandrini. Non ha visto come l'abbiamo scappata bella con quelli
laggiù? Nel mille trecento, e non mi ricordo quanti, tornavamo da
Avignone con sessantamila fiorini d'oro che fumavano. Mi getto via nel
rammentare quel bel marsupio. Me gli aveva fidati il santo padre da recare
al cardinale del Poggetto, suo nipote o non so che altro, per pagare le
truppe ch'egli assoldava onde tenere in senno certe fazioni, ed altre cose
che io non me n'intendo. Il santo padre, perchè gli stavano sul cuore,
mi diede cencinquanta cavalieri per convogliare i miei trenta muli:
cavalieri, le so dir io, che ne tremava l'aria. Si va; si passa fiumi e
monti senza incontro: quando insaccatici in una valle della Savoja, io
comincio a notare certe faccie che non promettevano nulla di bene, ed
avvedermi di un certo armeggio. _Pas peur_, dissero quei cavalieri
francesi: _noi mangiare Italiani in un boccone._ Ma convien dire non si
fossero ben raccomandati a san Cristoforo pel buon viaggio: poichè i
Francesi hanno tutte le buone volontà, ma non la divozione. Mentre
stavamo, come si fa, votando non una bottiglia, ma una botte, eccoci
addosso una banda, Dio sa di quanti. Ferma, dagli, piglia, lascia: quei
Francesi parevano tanti Orlandi paladini. Ma bisogna confessare che, per
menar le braccia, gl'Italiani non hanno pari al mondo. Insomma quella
truppa, ch'erano di Pavia, gettarono a terra i Francesi, e sollevatili dal
peso dei cavalli, li rimandarono ad Avignone a piedi come pellegrini; a me
poi tolsero la metà giusta del denaro e dei somieri, cosa che non era
più accaduta dacchè i Pedrocchi vanno da Gallarate in Francia; e
dovetti condurre al cardinal legato quel che mi rimaneva».
Così Pedrocco dava risposta alle varie domande del Pusterla, risposte
meglio opportune a distrarlo che a confortarlo. Ma più che al disagio ed
al pericolo della via, accoravasi il Pusterla per l'abbandono della patria;
e quando giunse sul ciglio del monte che separa le due favelle, arrestossi,
guardò di qua, di là, il cielo, la terra: pareva le ginocchia gli
mancassero sotto, talchè Pedrocco gli domandò se si sentisse male.
Egli rispose sospirando:--Qui finisce l'Italia».
Anche questa era una delle tante cose che il buon cavallaro non intendeva,
pure il confortava alla meglio, raccontandogli siccome anche in Francia vi
fossero uomini simili a noi, e buone case, e monti, e fiumi, ed erba alla
primavera, e messi all'estate e all'autunno le delizie della vendemmia; i
Francesi amabili, dilettevoli, sociali, buoni e vattene là: Ma il
Pusterla ripeteva:--Non è l'Italia».
Ma una vera Italia (soggiungeva Pedrocco) ella potrà ritrovare in
Avignone. Là cardinali, là servi, là camerieri, là poeti, là
buffoni, tutto italiano».
Il Pusterla voleva far capire all'altro i disconci che venivano all'Italia
dallo starne fuori i pontefici, e le sconvenienze della politica e della
religione; ma Pedrocco, protestando che di queste cose non s'intendeva,
magnificava le splendidezze dei prelati, e il continuo andare e venire di
corrieri, di soldati, di ambasciatori, di roba, di denari, e i bei guadagni
che egli ne cavava.
--E conoscete voi colà Guglielmo Pusterla?
--Chi? l'arciprete di Monza? Se ve l'ho accompagnato io stesso.
--E come vi sta?
--Sta benissimo: grasso, trionfale, ha salute da campar cent'anni.
--Lo so: ma dico se il papa lo favorisce; se saprà le disgrazie della
sua famiglia a Milano: se in Corte è il ben veduto.
--Mah! di queste cose io non me n'intendo».
V'era però una materia, in cui Pedrocco s'intendeva come Manzoni nel far
versi, e che importava non poco anche ai Pusterla. I Lombardi, nel tempo
che si reggevano a comune, erano deditissimi al traffico, e frequentavano
Francia, Olanda, Fiandra, Inghilterra, fin l'estrema Russia, dove aprivano
case di commercio, e dove ancora se ne conserva memoria nel nome d'alcune
strade e quartieri. Lombardi anzi venivano colà per antonomasia chiamati
i banchieri; perchè davano opera principalmente al cambio del denaro e
agli imprestiti. Perduta coi governi a popolo l'energia della classe media,
primo elemento delle speculazioni ardite, ormai quel traffico era passato
nei Toscani: ma i più denarosi fra i Lombardi non s'erano ancora
immaginato che il guadagnare col commercio sporcasse la nobiltà, nè
quindi avevano ritirato dai negozianti i capitali, come fecero due secoli
dopo, quando l'albagia pitocca degli Spagnuoli diede, con questi
pregiudizj, l'ultimo tuffo alla vivacità commerciale del nostro paese,
uccidendone la prosperità mentre gli rapivano l'essere, il fare, il
pensare.
I Pusterla, ricchissimi non meno di terreni che di capitali, ne aveano
investiti dei grossissimi sulle banche dei Lombardi, dei Lucchesi, dei
Fiorentini a Parigi. Ora venivano a grand'uopo a Franciscolo per ristorarlo
dei beni confiscatigli in patria, e apprestargli il modo di potere, sopra
la terra straniera comparire, non solamente col decoro conveniente alla
grandezza di sua famiglia, ma col lusso ancora che la sua vanità
desiderava, e che trovavasi e si trova necessario per acquistare
considerazione fra gli sconosciuti, e non avere bisogno di quella
compassione, che tanto confina col disprezzo.
Da ciò avevano materia di ragionamenti i due viandanti, ove Pedrocco era
nella sua beva, e potè dare buon indirizzo all'innominato suo compagno.
E questo ne profittava grandemente, non solo per ciò, ma anche perchè
la vita di quel trafficante, tutta attiva di corpo e placidissima di
spirito, dava tregua alle agitazioni di lui, gli mostrava altre vie nella
società, che dapprima egli non aveva nè tampoco immaginate: gli
faceva qualche volta invidiare di trovarsi fuori delle politiche
turbolenze, o almeno di mutare la traditrice compagnia dei grandi, in
quella meno appariscente e più sincera delle persone occupate. Ma la
forza dell'antica consuetudine rivaleva: e non appena si vide sul suolo di
Francia, sicuro e con quanti denari bastavano per accattarsi amici, si
congedò dalla compagnia di Pedrocco, senz'altro conservarne se non la
ricordanza che si suole d'un buon galantuomo, incontrato su questa strada
che tutti battiamo senza sapere dove ci conduca.
E prima Franciscolo trascorse i varj paesi della Francia, cercando un poco
di svago, e cogliendo i fiori, che, sul cammino d'un ricco, naturali o
artefatti, spuntano da ogni terra. Venne poi a Parigi, la città del
fango (_Lutetia_), che tuttavia giustificava quel nome colla sozzura delle
sue strade. Da ogni parte del mondo vi accorrevano studenti
all'Università, metodo tanto opportuno d'educazione allorchè non
v'era la stampa e scarseggiavano i libri, quant'è ora disutile e
pernicioso. Era cancelliere di essa Università Roberto dei Bardi
fiorentino, il quale, facendo gli onori all'illustre arrivato,--L'Italia
(dicevagli) primeggia pel diritto, Parigi per la teologia e per le arti
liberali. A ragione il nostro Petrarca chiamò questa città un
paniere, ove si raccolgono le più belle e rare frutta d'ogni paese:
poichè vi convengono quelli che siano in qual vogliate facoltà
eccellenti. Il nostro sommo Alighieri, nell'esiglio suo, qui studiò dai
gran dottori della Sorbona, e il dirò per vergogna dei tempi, lasciò
di farsi addottorare solo perchè gli vennero meno le spese. Qui avemmo
anche Giovanni Boccaccio, un giovane che farà onore alla patria, e che
raccoglieva novelle da Francesi e Provenzali, e le riduceva in vulgar
nostro. Da Padova ci arrivarono dodici garzoni, che il signor Ubertino da
Carrara qui mantiene a scuola di medicina. Vive poi, e vivrà sempre la
memoria degli Italiani che qui lessero scienza: un Pier Lombardo novarese,
maestro delle sentenze; un Egidio Romano, un Albertino da Padova
agostiniano, il francescano Alessandro da Alessandria, i due astrologi
immortali Dionisio Roberti da Borgo San Sepolcro e Pietro d'Abano padovano,
e quei che valgono per tutti, il dottore Serafico e l'Angelico».
Denotavansi con tali nomi, chi nol sapesse, Bonaventura da Bagnarea e
Tommaso d'Aquino, gigante della scienza dei secoli cattolici, la cui
sintesi grandiosa da nessun posteriore tentativo fu eguagliata.
--Ed ora (proseguiva il valoroso Fiorentino, prodigo di lodi come un
segretario e di frasi come un accademico) ora piangiamo estinto Nicolao de
Lira l'autore della Postilla Perpetua sopra tutta la Bibbia, e del
Commento, opera di tanta lena, che a stento crederanno i posteri le abbia
potute un uomo terminare. A questo augusto concilio di dotti, non
altrimenti che a Bologna, ricorrono prelati e città e principi o per la
decisione di casi di coscienza, o compromettendo i loro litigi. Volete
più? lo stesso re d'Inghilterra Enrico II sottopose a noi le sue
differenze con Tommaso da Cantorbery. Le scienze sono il rifugio nei mali,
l'ha detto l'oratore d'Arpino. A queste volgete l'animo; qui fermate vostra
stanza, e provate quel che ne cantò Giovanni da Salisbery:
_Felix exilium cui locus iste datur_».
Il Pusterla trovava in fatto Parigi gajo, vivace, pieno di quel fecondo
movimento, che infonde ad un paese il fiore della gioventù radunata.
Tanti v'erano gli studenti, che a fatica trovavano alloggi sulle piazze; li
vedeva discorrere o disputare, seduti in circolo sopra la paglia: nella via
degli scrivani aveano tutto quel che occorresse per lo scrivere: diecimila
amanuensi attendevano continuamente a copiare libri. Gli scolari la mattina
badavano alle lezioni, il dopo pranzo alle dispute, la sera alle
ripetizioni. Quest'era il lato bello; ma Francesco scoprì ben presto le
magagne che vi covavano; attorno ai venditori di vino, che lo spacciavano
per le vie, quei giovani commettevano disordini d'ogni maniera: usurieri ed
ebrei traevano profitto dall'inesperta loro generosità: male donne li
corrompevano, per cui cagione non passava giorno che non si facessero
baruffe e sangue.
E poi la Francia non era il paese che potesse far dimenticare l'Italia a
chi non vi avesse passioni od interessi predominanti. Taciamo la
diversità di cielo, la coltivazione delle terre, trascurata a confronto
della Lombardia, il sudiciume delle città, la miseria delle borgate, il
disagio delle abitazioni: la Francia non erasi purgata dalle ferocie del
medioevo passando, come i nostri paesi, attraverso alla libertà
municipale. I governi a comune avevano tra noi fiaccato il potere feudale:
e quei baroni che nelle rocche minacciose, ricinti da vassalli e da servi
della gleba, facevansi unica legge il loro superbo e minaccioso talento,
erano stati rintuzzati dai campagnuoli, dai mercanti, dai giureconsulti, da
tutti i borghesi, e costretti a disarmare la loro prepotenza e farsi
cittadini. I tirannetti, che usurparono dappoi il comando, non fecero che
ajutare quest'opera; e, come vedemmo in Luchino, sebbene non per amore del
popolo, ma pel proprio vantaggio, vennero stringendo sempre più il freno
ai feudatarj aumentando le franchigie del vulgo per fare contrasto a
quelli; e dilatando viepiù i privilegi della popolazione campestre, la
quale, sotto le repubbliche, aveva cominciato a mutarsi dalla condizione di
schiavi in quella di coloni, e ricuperare l'umana dignità. In generale
dunque la nobiltà d'Italia non era più che un patronato, onde il
plebeo si affezionava e si legava col ricco.
Tutt'altrimenti in Francia: mille baroni erano altrettanti piccoli re, il
cui dominio viepiù pesava quanto in più angusto confine lo
esercitavano. Non una moltiplicità di repubblichette, non una lega di
queste gli aveva imbrigliati; e quantunque il re, il quale non era che il
primo fra di essi, s'ingegnasse di opporre a loro le comunità cui veniva
rinvigorendo, era ben lontano da riuscire a notevole risultamento; e il bel
regno di Francia consisteva allora in un re impotente, pochi forti
oppressori, la moltitudine oppressa.
Quindi prepotenze in ogni parte e di ogni genere: quindi miseria: quindi
l'arbitrio al posto della giustizia e delle leggi. E Pedrocco, tutto che
lodatore delle cose di Francia quanto alcuni miei amici che non la
conoscono, non poteva cessare i lamenti per gli spessi pedagi, per le
generose mancie che doveva dare ai capi degli uomini d'arme, per le
menzogne onde doveva ricoprire la ricchezza del suo convoglio. Poi
additando varj castelli al suo compagno di viaggio,--I vassalli di questo
(diceva) sono obbligati per turno a ripulire le stalle del padrone.--Questi
altri non possono far testamento, senza lasciare metà dei loro beni al
feudatario.--Il vescovo e principe di Ginevra succede nell'eredità di
chiunque muore senza figli.--Vede là quei villani colle pertiche in riva
a que' paludi? Sono obbligati a far la ronda, acciocchè i ranocchi non
disturbino il padrone mentre dorme». Tacio le prelibazioni oscene; tacio
quel che era comune, il contadino pareggiato nelle fatiche ai bovi che
l'ajutavano: alla porta di ogni castello, insieme col teschio di lupi e di
cervi, e cogli avoltoj confitti sulle imposte ferrate, spenzolava da una
carrucola la corda della tortura, in segno del diritto di sangue; e sulla
spianata ergevasi la forca, da cui a dozzine pendevano i giustiziati per le
più lievi cagioni, per un capriccio, per una vendetta.
Ben altro giudizio delle cose di Francia dovranno portare gli esuli
d'oggidì: ma i lamenti che da loro intesi mi fanno calcolare con quanto
maggior ragione il Pusterla dovesse dire allora, che, per amare assai la
sua patria, conviene aver veduta l'altrui.
E poi Parigi aveva già fin d'allora il privilegio funesto delle grandi
città, di poter uno vivervi, godere, spasimare, morire, senza che altri
gli badi o se n'accorga. Il che, se era il caso per un profugo bramoso di
pace e d'oscurità, non poteva per verun modo accomodare a Francesco,
sempre desideroso di primeggiare, sempre spinto all'azione, al movimento, e
che colà andava confuso, inosservato, fra una turbo che veniva e tornava
e cambiavasi ogni dì; fra un numero infinito di pitocchi, che beneficati
non facevano se non divenire più importuni, e chiedergli denaro
coll'insistenza del ladro, fra la spensierata scolaresca, fra i segregati
dottori, fra anime che non potevano neppur comprendere i patimenti d'un
esule italiano.
Ma una parte di Francia tutta italiana, siccome gli aveva detto Pedrocco,
erano il contado Venesino, padroneggiato dai papi, e la città d'Avignone
appartenente a Roberto re di Napoli; nella quale Clemente V, il 1305, aveva
trapiantato la sede pontificia, e per gridare e sperare che gli Italiani
facessero, e per quanto sembrasse strano che i papi preferissero restare
sudditi in Francia, anzichè sovrani a Roma, più non la tornarono sul
Tevere se non nel 1376.
Colà dunque si rivolse il Pusterla, e vi trovò una vita, un moto
straordinario. Dimessa l'idea di trasferirsi in Italia, Benedetto XII
faceva murare, per alloggiar come si conviene al capo della cristianità,
e tutti i cardinali ergevano palazzi, splendidi d'ogni suntuosità, e non
inferiori alla Corte di verun principe d'allora. Artisti italiani vi
accorrevano ad abbellirli, altri a lusingare coi canti, colle piacenterie,
colle novelle, cogli strologamenti: dei porporati ognuno v'avea condotto
numerosa famiglia di servi e camerieri e scrivani; talchè poteva dirsi
proprio una colonia d'Italia, con tanto maggiore verità, perchè quel
clima meridionale fa ricordare le dolcezze del nostro.
In un tempo quando il papa stava ancora disopra delle autorità temporali
come depositario della celeste, vale a dire della giustizia, vedevansi alla
sua Corte ambasciadori d'Ungheria, di Polonia, di Svezia, d'altri
potentati, che rimettevano all'inerme sua decisione le loro politiche
differenze: cosa che deve recare grande scandalo al secolo nostro, il quale
vuol piuttosto vederle risolte colle bajonette o rattoppate dai Castelreagh
e dai Talleyrand coi protocolli...
I cittadini di Monza, agitati dentro dalle fazioni dei Magantelli e degli
Stratoni, e minacciati fuori dalle armi dei Visconti e Torriani, avevano
(già ne abbiam toccato una parola) nascosto il prezioso tesoro della
loro basilica, che valeva ventiseimila fiorini, cioè un milione e mezzo
d'oggidì. Il nascondiglio non era conosciuto se non dal canonico Aichino
da Vercelli; il quale, venuto in caso di morte, ne fece la confidenza a
frate Aicardo arcivescovo di Milano, e questo al cardinal legato Bertrando
del Poggetto, che lo fece cavar fuori e trasferire in Avignone. Ora
quietati i tempi, per ricuperarlo avevano i Monzesi mandato il loro
arciprete Guglielmo Pusterla, insieme con lo storico Buonincontro Morigia.
E sebbene quell'arciprete non fosse ancora potuto venire a capo di nulla,
erasi però insinuato nella grazia dei papi, seguitando tre regole di
condotta, che a modo di proverbio egli ripeteva sovente; lasciar andare il
mondo co' suoi piedi, fare il dover suo piano e tranquillamente, e dir bene
de' superiori. Le aveva imparate in convento sin da quando era novizio, ed
ora con queste meritò di essere scelto prelato di Corte, ed in appresso
arcivescovo di Milano.
Di buon cuore com'era, fece egli una festa da non dire a suo nipote
Francesco, il quale, col mezzo di lui, potè collocarsi bene, ottenere
alla Corte rispetto ed amorevolezze, e speranza di acquistare entratura col
papa, nella cui assistenza ormai vedeva l'unica via di migliorare la
condizione sua e della patria. Ma quest'ultima corda non sonava bene allo
zio arciprete, il quale era il più nuovo uomo nei garbugli della
politica.
--Caro nipote (egli diceva) tu eri ricco; tu stavi da papa; tu invidiato da
tutti; che importava a te che regnasse Pietro o Martino? Lascia cuocere i
potenti nel loro brodo, e troverai maggior pace. Guelfi e Ghibellini,
l'imperatore e il pontefice, la tirannide e la libertà, tutte idee
astruse; è necessario che vi siano, come gli scandali: ma un galantuomo
può arare dritto senza intrigarsi di queste gerarchie. Credi a' miei
capelli grigi, _experto crede Ruperto_: lupo non mangia carne di lupo: e i
potenti se l'intendono quando si tratti di spalleggiarsi fra loro.
L'imperatore par che l'abbia col santo padre: ma se vedesse un altro sul
punto d'opprimere il santo padre, darebbe mano a questo per abbattere il
primo. E tanto meno ti riuscirebbero cotesti intrighi ora che il papa è
un uomo di pace e _bonæ voluntatis_. Giovanni XXII, nelle cose del mondo
e nelle questioni scolastiche (diciamolo, chè tanto e tanto è morto)
si affaccendava troppo; morì lasciando diciotto milioni di fiorini in
oro, e sette in vasellami e gioje e con questo marsupio poteva fare più
che non Archimede colla sua leva: _coelum terramque movebo_. Ma sono otto
anni ch'egli è in paradiso; e il papa adesso è di tutt'altro umore.
Per sapienza teologica non è un'aquila: degl'intrugli di gabinetto se
n'intende buccicata: tanto meglio: e così non desidera che metter acqua
là dove i suoi predecessori attizzarono il fuoco; ribenedire dove essi
avevano scomunicato. Quando, contro ogni sua aspettazione si sentì
chiamato papa, sai quel che disse ai cardinali? Cari fratelli, i vostri
voti si sono accordati sopra un asino. Tant'è umile! E con lui non han
nulla a sperare nipoti e parenti. Una sua carissima nipote gli fu chiesta
sposa da un gran barone, ed egli non consentì, perchè non era da par
suo, e la maritò ad un negoziante. Di sposa, ella col suo consorte venne
a trovarlo qui, e tutti dicevano,--Chi sa che regali!» Indovina mo?...
gli accolse bene, ma li rinviò senz'altro che rifarli delle spese di
viaggio, e dare la sua santa benedizione. Vedrai la sua anticamera zeppa di
abatini e di monsignoroni che vengono a sollecitare benefizj: ma egli
preferisce di lasciarli vacanti, anzichè, com'esso si esprime, adornare
di gioje il fango e l'argilla. Quando egli solleva qualcuno a dignità,
si può assicurare che egli ha trovato del merito sodo».
E in così dire, lo zio arciprete rizzava il capo con un sentimento di
decoro che non potevasi dire superbia. Franciscolo pensava:--Mio zio ha bel
dire che non gli piove addosso»; e s'ingegnava di fargli capir quella
ch'ei chiamava ragione, ma il buon uomo lo interrompeva:--Non hai tutti i
torti; molto hai perduto; hai lasciata quella donna, che la pari non si
trova al metodo. Ma tutto questo perchè? T'ho pur detto delle volte
assai che, per camparla bene, bisogna _facere munus suum taliter qualiter_.
Se mi avessi dato ascolto, non avresti voluto primeggiare: _bene vixit qui
bene latuit_. Ora l'esperienza ti ammaestri. Stavi bene, volesti star
meglio: vedi frutto? Almeno profitta di quel che ti avanzò per tirar
innanzi alla meglio questi pochi anni di vita. _Fugit irreparabile tempus._
Vuoi piaceri? vuoi spassi? vuoi pompe? qui non hai che a desiderare. Vuoi
conoscenze di letterati? vedi quanti poeti provenzali; vedi quel che tutti
li vale, il gran Petrarca. Vuoi discussioni fine e puntigliose di teologia
e di erudizione sterminata? ti farò conoscere il monaco calabrese
Barlaamo, quel che insegnò il greco al Boccaccio. Fu mandato qui da
Andronico imperatore di Costantinopoli per maneggiar la riconciliazione
della Chiesa greca colla latina. Quello è un uomo! L'avessi inteso jeri
a otto disputare contro gli onfalopsichi! Questi eretici dicono: Chiuditi
nella tua cella; siedi da un canto, leva lo spirito sopra le cose terrene;
appoggia la barba sul petto; fissa l'umbilico; tieni il respiro; cerca
nelle viscere tue il cuore, sede della potenza dell'anima, e vi troverai
dapprima tenebre, poi una luce limpidissima come quella apparsa sul Monte
Tabor. Ma frate Barlaamo risponde....»
- Parts
- Margherita Pusterla: Racconto storico - 01
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