Margherita Pusterla: Racconto storico - 19
accaniti quanto più vicini; e nelle loro querele invocavano spesso o le
funeste armi o la più funesta mediazione dei comuni e più veri
nemici, gli stranieri.
Fra quelle lotte però sentivasi la vita: ciascuno capiva quel che
valesse di per sè, e quel che potrebbe d'accordo cogli altri; il
commercio, l'agricoltura, le arti erano salito in gran fiore; pittura,
scultura, architettura, offrivano modelli, che il difficile nostro secolo
non cessò di ammirare; e la lingua, venuta a mano di Dante Alighieri
morto venti anni prima, e del Petrarca e del Boccaccio, giovani ancora,
acquistava il primato che più non perderà, sopra l'altre d'Italia.
Come in quella Grecia, a cui per tanti lati somiglia la patria nostra, si
dimenticavano le mutue nimicizie per convenire ai giuochi in Olimpia,
così l'umore allegro dei Toscani li raccoglieva alle splendide feste,
onde solevano spesso ricrearsi le diverse città, o nelle solennità
dei loro santi patroni, o per memoria di antichi fatti, o per celebrazione
di nuovi. Pisa in quel tempo aveva appunto riportato vantaggio contro i
Moreschi, che dalle coste d'Africa infestavano il Mediterraneo e l'Italia;
onde, per solennizzare quel trionfo e la presa di alcune loro galee,
dovevasi finire il carnevale colla festa di Ponte. Nè d'altro che di
questa udiva Ramengo ragionare per tutta Toscana allorchè vi capitò:
chi poteva, preparavasi per andarvi; gli altri se ne struggevano di
desiderio.--Perchè non v'andrò anch'io?» disse Ramengo. «Fra
tale concorso di gente, nulla più probabile che incontrar quello ch'io
cerco».
E vi si drizzò.
Pisa in quel tempo era nel maggior suo fiore. Porto frequentissimo come
(fatta ragione ai tempi) oggi sono Amsterdam e Londra, nel 1283 aveva
armate fino centotrè galee per guerreggiare Genova, che gliene oppose
centosette: vedeva a' suoi mercati accorrere Mori d'Africa, Normanni del
Settentrione, Turchignoti di Levante; mandava i suoi legni verso le Indie
orientali a caricarsi di spezie, che poi diffondava per tutta Europa,
riportandone in cambio legnami, canapa, stoffe, denaro. Alle speculazioni
congiungendo l'amore per le arti belle, innato nella patria nostra, dalle
imbarbarite regioni dell'Asia i Pisani traevano marmi, colonne, sculture,
di cui abbellivano la patria: di Palestina recarono terra per riempiere il
loro cimitero, onde poter dormire in terra santa; attorno a quel cimitero,
i ristoratori delle arti belle fabbricavano, scolpivano, dipingevano,
più insignemente perchè l'originalità non era stata per anco
soffogata dall'imitazione, nè il raffinamento materiale aveva tolto la
mano alle idee ed al sentimento. Su quelle pareti era stata ridotta a
figure la _Divina Commedia_ di Dante, per leggere la quale avevano eretta
una cattedra nella nuova Università;--poesia, pittura, scuola nazionale
e religiosa: commercio, arti, devozione, sapere, libertà; begli elementi
della vita italiana d'allora.
Oggi Pisa è ben altro. Una borgata a mare, allora appena avvertita, le
tolse quel resto di commercio, che le mutate condizioni d'Europa lasciarono
alla Toscana; i cencinquantamila suoi abitanti sono ridotti ad un settimo
appena; la marmorea cattedrale, lo stupendo battistero, la mirabile Loggia
dei mercanti, gli altri edifizj di antica maestà fanno un melanconico
contrasto coll'erba crescente per le vie spopolate, col silenzio delle
ammutolite officine, coll'inoperoso vuoto del suo Lungarno; e la bizzarra
Torre sembra chinarsi in atto di compassione per deplorarne le perdute
grandezze.
--Potenzinterra! ei dee venire da in capo al mondo se mai non ha inteso
parlare della festa di Ponte»; diceva a Ramengo l'oste Acquevino, che,
venuto giovane da Pontedera senza un becco d'un quattrino, come egli
diceva, in sulla via di Pisa avea rizzato dapprima un frascato, ove dava
bere a' mulattieri, cavandone le spese e qualche zaccherello di vantaggio;
poi coi quattrini facendo quattrini, e spacciando gran nomi ai piccoli vini
che la sete faceva parere strabuoni, murò un'osterietta, che, se alcuno
gli diceva essere piccola, egli, senza certo aver mai letto di Socrate,
rispondeva,--Così potessi averla sempre piena di avventori». Posta
sur un dosserello, aveva dinanzi uno spazzo ove si giocava al pallamaglio,
e da cui vedevansi passar rasente quelli che si avviavano alla città, e
dominavasi la vasta pianura, che da un lato scende fino al mare, dall'altro
è chiusa da collinette biancheggianti nel verde degli olivi, e
tramezzata dall'Arno che poi a forma di semicerchio divide Pisa. Colà
Acquevino fatto maturo e grassotto, ma sempre fresco, snello, gran
chiacchierone, gran lodatore del suo paese, del bel cielo, della buon'aria,
della buona gente, quanto un poeta arcade, dava alloggio a qualche
forestiere, facendogli poi nello scotto pagare la colpa di non esser
toscano; somministrava bubbole e da bere a vetturieri e pedoni; e con
religiosa integrità serbava prosciutti del Casentino e fiaschetti
d'aleatico e di Montepulciano, che un professore dell'Università aveva
paragonati all'ambrosia e al nettare degli Dei; similitudine che Acquevino,
da venti anni ripeteva come nuova di zecca a tutti i signori, che (diceva
egli col tono onde una civettuola dice esser brutta per sentirsi raffermare
il contrario) venissero ad onorare quella sua catapecchia.--E (soggiungeva)
qui gente non ne manca mai. Perchè io non sono come que' miei
confratelli, che vogliono far commenti all'altrui starnuto. Libertà per
tutti; chi paga è buon amico».
Vedendo arrivare in sulla sera Ramengo solo e con magra valigia, gli aveva
dapprima fatto gli occhi grossi ed era stato con lui tant'alto; ma quando
lo intese comandare la camera migliore, i più squisiti bocconi, il
centellino più scelto, e gli balenarono all'occhio i fiorini d'oro
lampanti, onde aveva rigonfia la borsa, disse fra sè:--Costui vuol
riuscire meglio a pan che a farina»; e mutò cantare: non fu buon
garbo che non gli usasse, e mentre si dava fretta intorno alle pietanze e
ai forestieri, trovava qualche ritaglio di tempo per regalare due parole
all'ospite dalla buona borsa, e vantargli il suo paese e la sua
osteria.--Pisa (gli diceva) fior del mondo; senza far torto a nessuno, e
meno al suo paese, signor forestiere. E se non fosse stata Pisa, tutta
Toscana era a manco d'un pelo di venir turca, e non si berrebbe
vino.--Ch'io le ne mesca un altro bicchieretto?--Vogliono esser forse
trecent'anni, i Saracini avevano posto piede in Calabria: ma i Pisani,
nemici dei nemici di Dio, mandarono il fiore della nostra gioventù a
snidarli. Cosa pensano quei dannati? Con navi sottili e col diavolo che li
ajuta, nel fondo della prima notte di gennajo hanno faccia di entrare in
Arno, invadono il sobborgo, lesti e queti così che nessun popolano se
n'accorse, fuorchè ai colpi dei malnati e alla vampa degli incendj.
Allora tutti a fuggire senza guardarsi alle gambe, e senza pensare ad
avvertire la città perchè si mettesse in difesa. Una donna sola, oh
viva le donne toscane!--la sola Cinzica de' Sismondi, attraversa i
maledetti che già occupavano il ponte d'Arno, corre ad avvisare la
Signoria; e subito un dar delle campane, un sonar di trombe, un leva leva,
un presto presto, un corri corri, tutti, a vedere e non vedere, pigliano le
armi; fanno fronte ai Saracini che, rincacciati, n'hanno di grazia a fare
salva chi può, si tolgono di testa il baco di mai più tentare la
gente più valorosa di cristianità. In memoria di quel trionfo sul
ponte stesso...»
Qui Acquevino, richiesto da altri avventori, dovette interrompere la
narrazione di quel fatto, successo intorno al mille, e in memoria del quale
il borgo rifabbricato di là d'Arno fu nominato di Cinzica, ed istituita
la festa del Ponte. Noi meno, pressati dagli avventori che non fosse
Acquevino, procureremo supplirgli alla meglio nel divisarne il modo.
La smania di fazioni, di allegrie, di battaglie, di devozioni tutt'insieme,
che Pisa, colonia greca, aveva dalla Grecia portato, suggerì quel genere
di festa; lo tenne vivo il desiderio politico di alimentare gli spiriti
guerreschi, tanto necessarj per mantenere la pace e tutelare i diritti.
Imperciocchè in grazia di quella, i più valenti e animosi fra i
giovani pisani si addestravano continuamente nelle armi e nei movimenti del
corpo; e in tal guisa formavansi prodi e disciplinati sotto capitani, che,
come più esperti, erano a ciò trascelti per voce di popolo, e che,
dopo le finte lotte, poteano guidare anche alla vera.
La città e il territorio si dividevano in due fazioni, chiamate dei
Bianchi e di Borgo, ovvero di Sant'Antonio e di Santa Maria, da due chiese
una di qua, l'altra di là del fiume. Nappe di color diverso, per lo
più intrecciate e regalate dalle belle, distinguevano i parteggianti; e
per quindici giorni innanzi alla festa non era quasi nient'altro che
lottare e tambussarsi, ora in pochi, ora in più, con guasto anche di
molte vite. Giunto poi il dì solenne, i combattenti delle due fazioni,
protetti il capo di celate, con alla mano noderosi randelli che chiamavano
i targoni, schieravansi dai due capi del ponte di mezzo, formando una
fronte di forse quaranta. Non appena alzata la sbarra, si movevano
all'incontro, e venuti al colmo, allora era il menar delle mani, il
cozzare, il picchiarsi; e la baja diventava pur troppo da vero. I primi,
coi targoni appuntati al petto, pigiavano, spunzavano contro gli avversarj;
altri menavano, facendosi piazza; alcuni carpone si ficcavano tra le gambe
dei combattenti, o per arrovesciarli, o per alzarli di peso e buttarli in
Arno. Sulle spallette intanto venivano i capitani, col battacchio
anch'essi, dando un poco di regola a quel tumulto, rincorando, zombando, ma
coll'occhio attento a schivare gli avversarj, che, se vedevano il bello,
con uno spintone li sbalzavano dal ponte. Sotto a quei colpi, tra quella
furia, guaj a chi stramazzasse ai piedi della calca! Il men male era per
chi dai parapetti traboccassero in Arno, ove stavano pronte le barchette a
raccorli. Del resto si ferivano, si abbattevano, si disarmavano avversarj,
si facevano prigionieri; nè per tre quarti d'ora restava il calcare, il
ferire, l'accopparsi, come diceva Acquevino, con mirabile tripudio degli
spettatori. Dalle finestre, dai terrazzi, dalle bertesche, d'in su i tetti,
una calca di gente attendeva, smaniando di gioja, di timore, di applausi,
d'incoraggiamenti, di fischi, secondo che questa o quella parte piegava o
prevaleva; secondo che era in fortuna o in disdetta l'amico, il parente,
l'amante; secondo che Sant'Antonio o Santa Maria più acquistavano del
combattuto ponte; e sì gran fervore ponevano nel matto parteggiare, che
madri, sorelle, amiche, all'udirsi annunziare le ferite e fino la morte dei
loro cari, domandavano qual delle due parti avesse avuto il meglio, e se
l'annunzio rispondeva ai loro desiderj (Spartane fuor di tempo) obliavano i
più teneri e sacri affetti per prorompere in festose acclamazioni.
Spirato il termine concesso a quel furore, sonavasi a raccolta, calavansi
di nuovo le sbarre, e la parte che più avea preso dell'erta, veniva
gridata vincitrice. Qui le baldorie, il trionfo, e i più segnalati
campioni, incoronati dalla Signoria, abbracciati, baciati da chiunque avea
la fortuna d'esserne, in quel giorno, amico; e scornacchiare i vinti, e
cantare inni, come fossero stati distrutti i nemici della patria.
Poichè le usanze sopravvivono al loro motivo, i Pisani continuarono il
sanguinoso spasso anche quando il valore non solo era divenuto inutile, ma
si sarebbe reputato una colpa; e finalmente Pietro Leopoldo di Lorena,
trovandolo troppo per un giuoco, troppo poco per una guerra, lo proibì.
--Non ha mai visto, signor forestiero, in vita sua e per tutto il mondo, un
tal concorso di cristiani?» domandava l'oste a Ramengo, il quale, la
mattina dello spettacolo, stava sopra un terrazzino, ombreggiato da un
leccio, osservando Pisa e la folla che vi traeva. E girando in tondo la
mano distesa, seguitava:--Le par poco? Che sciali! Che bellezza! che brio!
Un toscano si discernerebbe anche di mezzo alla moltitudine di Val di
Giosafatte. Quelli che vede in lucco maestoso sono i Fiorentini; ricchi
sdondolati, sa, speculeranno anche sulla festa. Quest'altri, tutti in
fronzoli e in fiocchi, sono Pistojesi; quelli là, da Siena, la gente
più leale e sincera delle tre parti del mondo. Il desiderio di vedere le
nostre feste gli ha fatti dimenticare delle vecchie emulazioni; e a Pisa
tutti saranno i ben accolti, e nemmeno si temerà che ci portino la
peste. Oh veda la bella cavalcata! Sono signori della Versilia e della
Lunigiana, terribili nei loro castelli non meno che sul mare; lo sanno i
viandanti.--Buon divertimento a lor signori! Posso servirli di
nulla?--Questi sono di que' ricchi cogli arnioni, e vengono dalla val di
Nievole, fertile e ridente, ch'è il paradiso di Toscana, come Toscana
è il paradiso del mondo. Snidarono essi gli antichi baroni, e si
piantarono nei loro palazzotti per coltivar le vigne e gli uliveti.
Osservi, belle e robuste figure. E tutti hanno in groppa fanciulle e donne,
che, non v'è rimedio, le eguali non vede il sole, per quanto giri.--Viva
il bel sole, vivano le belle donne di Toscana».
Così, ma a spizzico e scappa scappa, raccontava l'ostiere a Ramengo,
intanto che dava ricapito agli altri, che cominciavano bene la mattinata
con un fiaschetto; e quel vivo spettacolo pareva ammansare il truce animo
di Ramengo, che, nella contentezza di sapersi padre, nella speranza di pur
trovare suo figlio, di riconciliarsi con esso, pareva entrare in una vita
nuova, e talora sentivasi preso da un tal accesso di benevolenza, che
proponeva lasciare la micidiale e infame sua scelleraggine, e cercare con
belle azioni la stima dei buoni, la tranquillità dell'animo, la
serenità che attorno a sè vedeva regnare nella turba festiva.
Alla quale intento, mirava dai poggetti, dagli scenderelli, dai tragetti,
sbucare i villani, a larghi cappelli di treccia bianchi, con nastri rossi e
neri; e quadriglie di contadinotte che, cammin facendo, trecciavano la
paglia.--Esse scendono dai colli di Signa (ripigliava Acquevino). Questi
sono i robusti montanari di Lucca. Cotesti pallidi e scialbi vengono dai
contorni del lago di Bientina»; ed ai vivaci colori del loro vestito
faceano contrasto i bigi e neri e bianchi delle tonache di tanti frati, e
il marrone dei mendicanti, che accattavano pei poveri e per Dio.
Su per l'Arno intanto vedeva un mondo di bacchette guizzare leggiere fra
mezzo ai grossi legni ancorati. Chi capitò a Pisa per la festa della
Luminara, che si rinnova nel giugno d'ogni terzo anno, ed ha goduto, per
non più dimenticarlo, l'incantevole prospetto di quella città, con
tutti gli edifizj, le cupole e i campanili accesi a lumicini e fiammelle, e
una quantità di navicelle illuminate vogare l'una a prova coll'altra,
potrà immaginare il tripudio che, in tempi tanto più prosperi ad
essa, vi si doveva fare alla festa di Ponte. Fra tutta quella moltitudine
era una curiosa allegria; eccitata viepiù dal felice rinnovarsi della
stagione, ed alimentata da capricciosi scherzi, da bizzarri motteggi, che
si facevano, che si slanciavano gli uni agli altri, nella dolcissima e
vivace loro favella. Un coro di giovani, dando fiato alle zampogne,
accompagnava gli accordi di altri che cantavano la nota ballata:
Vaghe la montanine pastorelle,
Donde venite sì leggiadre e belle?
E com'ebbero finito l'aria, una forosetta, che, per grandi occhi e per
guancie rubiconde come una melarosa, si discerneva dalle compagne,
rispondeva con voce più robusta che delicata, mentre appunto passava
sotto al balcone ove stava Ramengo:
E s'io son bella, io son bella per mene,
Nè mi curo d'aver de' vagheggini;
E non mi curo niun mi voglia bene,
Nè manco vo' ch'altri mi facci inchini.
--Guarda che bella tosa», esclamò un giovane, sbucando di dietro la
taverna, e spingendosi audacemente verso la fanciulla. Al suono della
parola e dell'accento forestiero si voltò Ramengo, e riconobbe un
crocchio di Lombardi. Quando ogni paese portava diversissime foggie di
vestimenti, bastava un'occhiata per discernere gente da gente; e i Lombardi
d'allora, dico i più ricchi e da festa, usavano nobili panni, assettati
alla persona, foderati di seta, o cappe tedesche foderate di vaj; cappucci
alle gote con fregi d'oro intorno alle spalle; ai piedi calze e calzeroni;
alla cintura larghe correggie con fibbie d'argento, da distinguerli al
primo sguardo.
Vibrò Ramengo un'occhiata fra loro; fissò con sguardo scrutatore quei
visi, ed accertatosi che fra quelli non v'era chi lo conoscesse per veduta,
o gli potesse interrompere i disegni suoi, scese, e col parlare si diede a
conoscere per loro compatrioto. Tosto gli furono essi intorno con
quell'amorevole premura, onde si suol salutare un concittadino su terra
lontana, dove basta la comunanza di patria per far riguardare siccome amico
anche uno sconosciuto.
In quella libera città avevano fatto capo i molti forusciti da ciascuno
dei varj paesi lombardi; e quivi, pascendosi delle speranze, dolce e
indigesto nutrimento dei profughi, preparavano maneggi ed armi contro al
tiranno della patria loro. Ma il tiranno della patria loro aveva il
vantaggio, che ha sempre chi già trovasi in possesso d'una cosa, sovra
colui che ne lo vuol privare; e mentre essi menavan trattati a danno di
lui, altri più vivi ne raggirava sott'acqua, Luchino; quelli andarono
sventati, questi riuscirono al loro intento.
Ma non anticipiamo gli eventi, e ci basti per ora mostrare come quella
festa, al pari di tutte le altre antiche e moderne, nostrali e forestiere,
potesse rassomigliare al color di rosa, che tinge le guancie d'alcuni
consumati da mal sottile: sul volto non appare che la sanità, ma dentro
cresce lo spasimo e il marasmo; oggi sorridono, domani morranno.
Ramengo, sicuro tra quei sicuri, salutava, rispondeva, abbracciava,
stringea la mano a questo o a quello, e sebbene potesse sperare che il nome
suo fosse tra i forusciti riguardato come quel d'un amico, d'un compagno di
sventura, gli parve però prudenza il dissimularlo, e si diede per un tal
Lanterio da Bescapè, nato all'ombra del Duomo di Milano, abitante alle
Cinque Vie, e come loro fuggiasco dalla patria,--perchè (diceva) chi
può reggere regga in una terra, a quel modo oppressa da così
scellerato tiranno. Tenga egli seco i suoi mastini, tenga il suo Sfolcada
Melik; non chi sentesi nelle vene stilla di sangue italiano».
Pensate se quelle parole andassero a' versi de' forusciti, e quasi il
parlare avventato fosse infallibile contrassegno di spiriti animosi e
sinceri, già, senza un sospetto al mondo, computavano il nuovo arrivato
per un acquisto; già prendevano occasione di narrargli ciascuno i torti
fatti da Luchino alla loro patria, a Cremona, Pavia, Lodi, Como, Bergamo,
ed i particolari loro disgusti, o domandarlo de' suoi, che immaginate
s'egli sapeva impiantare e colorire al vero. Ognuno poi si affrettava a
chiedergli di questo o di quello fra i parenti, fra gli amici che aveva
lasciato a Milano.
--A che partito sono gli Aliprandi?
--Morti per fame.
--E Bronzino Caimo, quel gran moderatone, sta sempre col tiranno?
--Sta col muso alla ferrata per aver osato difendere la verità, se pure
non gli è già capitato di peggio.
--E Matteo Visconte?
--Confinato a Morano di Monferrato.
--E Barnabò?
--In Corte dello Scaligero. E dicono farà un parentorio con quella
signora regina.
--E Galeazzino? sempre bello? sempre galante? sempre adoratore di madonna
Isabella?
--Oibò! Il signor Luchino dorme soltanto finchè vuole. Il bel
Galeazzo è vagabondo per povertà, e per far perder allo zio la sua
traccia. Dicono però sia in Fiandra»,
Così rispondeva Ramengo alle varie domande, lieto di mostrarsi informato
per guadagnare maggior fede, e di narrare quel che sapeva onde ricavarne
quel che cercava. Perocchè, come il marinaro nel riveder le onde quiete,
come il ladro al presentarglisi un bel tiro, come il beone all'entrar in
una bettola, dimenticano ogni proposito antecedente, così Ramengo
dissipò quei momentanei impulsi al bene, tosto che si vide innanzi
l'occasione di poter nuocere; volle mentire sulle prime, affine di
scoprire, se potesse, ove trovare Alpinolo, quindi, al solito, un peccato
il trasse all'altro, all'ebra necessità del delitto, a far il male per
il male istesso.
--Ma dunque (gli domandavano quegli infervorati), che vivere è oggi a
Milano?
--Il vivere (rispondeva Ramengo) dell'inferno e di ogni paese in
servitù. Luchino ogni giorno più imbaldisce, perchè vede che le
alre città, spaurite, vengono a lui, come il bove che volontario andasse
al macello. Dieci n'ebbe già Azone in obbedienza, non è vero? Ebbene,
costui già v'aggiunse Bobbio, Asti, Parma, Crema, Tortona, Novara,
Alessandria....
--Vili! così lor pute la libertà? così vogliono farsi puntello al
trono di uno scellerato?» l'interrompeva Aurigino Muralto da Locarno. Ed
Acquevino, che mesceva loro del più generoso, ripetendo,--Guardino
com'e' brilla, spruzza, salticchia! Resusciterebbe un morto», ascoltando
quegl'infervorati loro parlari, quel prendersela così d'impegno,
dimenava il capo ed esclamava:--Poveri paesi! Viva la libertà toscana!
Per dio bacone, viva il giardino d'Italia!... Ma trovato quest'aria, questo
vino, questa pace, cosa importa a loro chi sia e quale il padrone? Non
basta ciò alla vita beata?» E andandosene canterellava:--Nè per
tempo nè per signoria non ti dar malinconia».
Prediche al deserto. Ramengo, dopo vuotata una tazza con quei
compatrioti, proseguiva:--Giudichereste però che egli cresca per
questo in potenza? Tutt'al contrario: ingelosi le potenze vicine, e al
primo vento le barbe diverranno rami. I signori Gonzaga lo guatano da
Mantova in cagnesco; il conte di Savoja già levossi i guanti, e
prepara delle buone armi; il marchese di Monferrato non vede quell'ora
di romperla seco. Ma chi la romperà in modo da non rappiccarla
più, ve ne accerto, sarà Mastino della Scala. Nel paese poi non
vi dico altro. Sapete che gran ghibellino si è mostrato Luchino
finchè durò in condizione privata. Chi non avrebbe creduto che
dovesse ora in ogni cosa dar mano alla parte migliore? sostener i
nobili contro la ciurmaglia? Ma no, li tratta nè più nè meno
di quel che faccia coi Guelfi più marci nell'anima. Questi però
non gli credono, e lo tengono un impostore; gli altri se gli
rovesciano ogni di più; cosicchè gli è proprio il colosso di
Nabucco dai piedi di creta.
--Ma il sassolino che basti ad atterrarlo?» soggiungeva Caccino Ponzone
cremonese.
--Eh! il sassolino ci saria ben egli (rispondeva quel falso) e se... Ma
lingua taci...» e battevasi sulla bocca.
Era il miglior modo di metterli in savore, onde, stringendosegli viepiù
intorno e punzecchiandolo,--Che? dite su; c'è qualche nuvolo in aria?
c'è speranze? Abbiamo ben compreso che voi in cose di Stato pescate al
fondo. Perchè far misteri con noi? la causa dei Milanesi non è quella
pure di noi tutti? e siam qui per dare di spalla quanto valiamo. Non si
aspetta che quel momento del Signore, il _dies irae_. Ma chi dirigerebbe?
--Se Franciscolo Pusterla...» Proferito questo nome, Ramengo si recava
sulla sua, con una di quelle pause a tempo, che sono il giuoco dei
maliziosi, e girava uno sguardo aggressivo su tutti quegli impavidi visi,
come per succhiellarne il pensiero più arcano. Ma non facea bisogno di
tanto perchè l'imprudenza andava in essi di pari coll'ardor giovanile,
tanto che il tristo n'ebbe miglior mercato che non isperava.--E che? (gli
domandavano coloro) siete anche voi di quelli del Pusterla?
--Come! se sono dei suoi?... (ripigliava Ramengo) Chi aveva il mestolo di
tutta quella faccenda a Milano? e perchè m'ho avuto di grazia ad uscirne
colla pelle? Ora qui (e li mostrava) ho dispacci da recare a lui... ma,
acqua in bocca, che alcuno non mi ascoltasse. La prudenza non è mai
troppa. Coloro hanno bracconi da tutte le bande. Io ho lettere per lui dal
signor Mastino della Scala...»
Ramengo punzava, ed emetteva queste parole a scosse; balestrando gli occhi
in faccia a tutti: essi credevano per cautela, in fatto era per ispiare
l'impressione che su loro faceva, e se alcuno potesse o volesse dargli
notizie o modo d'averne. E notò alcuni che dimenavano il capo, come
volessero esprimere,--Non ne faremo niente»; sicchè continuò:--Ma!
quando si dice gli uomini!... Chi lo avrebbe creduto? Egli, che poteva, sol
che volesse, divenire capo e salvatore della patria, ora dorme... s'è
rimpiccinito... scappa come un fiacco paltone...
--E' bada a fare _mea culpa_ ai piedi di un fornaio...» uscì a dire
Aurigino Muralto.
Fornajo di mestiere, quindi _Fournier_ di soprannome era stato il padre di
Benedetto XII papa, allora sedente in Avignone. L'indicarlo a quella guisa,
anzichè spiattellarne il nome e il luogo, era stato una di quelle povere
transazioni che fanno colla prudenza coloro i quali sanno alle sue leggi
rassegnarsi solo fino ad un certo punto.
Aurigino non si sarà creduto d'aver fatto il minimo, male, non n'avrà
concepito il minimo rimorso, eppure avea messo lo spione sulla traccia, che
più non perderebbe. Ramengo toccava appena il suolo colle piante per
l'esultanza di questa scoperta, ma dissimulando e facendosene appieno
informato,--Di certo (proseguiva) e' s'è messo ad Avignone come un
chierico, il quale aspiri al cappel verde o al rosso, o come un basso
delinquente, che cerca sicurezza celando lo stocco micidiale fra le tonache
e le cocolle. Ma lo ridesteremo noi da codesto pigro sonno... oh, lo
ridesteremo!
--E qui (soggiungeva il Ponzone) troverete amici suoi, da potervi dare
indirizzo e ajuto.
--Vi saranno, m'immagino, suo fratello Zurione, Maffino da Besozzo, quel
della Pietrasanta...» domandava Ramengo. E gli rispondevano:--Sì, ma
chi ne mostra più amore e devozione è lo scudiere Alpinolo.
--Alpinolo?...» ripetè colui, sentendosi dai capelli alle piante
rimescolare.--Alpinolo? dov'è? ch'io lo veda tosto, ho estrema
necessità di parlargli per cosa che molto dappresso lo tocca. Dov'è?
dov'è?
--Che furia!» saltava su quel mezzo prudente da Locarno.--Finiamo di
bere, e poi venite con noi. Laggiù ve li faremo trovar tutti. Che festa
per loro a rivedervi!...
--Ma io voglio parlare con Alpinolo dapprima... con lui testa testa. Le
cose so come vanno trattate»; e mentre egli era dominato dall'ansietà
di trovare un figlio, e dalla speranza che, scoprendosegli padre, ne
avrebbe e perdono ed amore, essi continuavano a bere, a discorrere, a
ragionare, massimamente di Alpinolo.
--È un demonio colui quando si tratta di mettersi ad un'avventura.
--E per un proponimento non ha il pari. Ti ricordi, Ponzone, i primi
giorni? Noi lo credevamo muto: nè parlava nè faceva segno. Che è,
che non è, aveva fatto proposito di non proferire sillaba per sei mesi.
--E così giovane! (soggiungeva il Muralto.) Che gran soldato vuol
riuscire!
--Ed ai nostri giorni (replicava il Lambertengo) se n'è visto dei
soldati, con nient'altro che la propria spada, fare slanci, e toccare i
primi gradi. Costui lo vedo già a un gran posto.
--Di chi dicono? (s'inframmetteva Acquevino) Di quel garzonotto con quegli
occhi senza secondi? E come se lo conosco! Caspita! gli è di buon gusto
e vien a bere qui tal volta un par di gotti, e non mesce a miseria; e dice
che vini come i toscani, è inutile, non se ne trovano al mondo nè in
maremma. L'altro dì era con alcuni; e dagliene un sorso, dagliene un
secondo, erano brilli; e venuti a parole, uno gli disse:--Taci là, tu
che non hai nemmeno padre.--Non avea finito, che Alpinolo, senza dire,
guarda che ti do, stampandogli le cinque... volli dire le quattro dita
della sua mano sulla guancia, gli buttò tre denti in gola».
Che suono facessero ad un padre, ad un tal padre, siffatte parole,
immaginatelo. Sapeva d'esser vicino al figlio, e quel figlio lo sentiva
lodato: lodato per quell'unica virtù ch'egli valutava: l'unica che, in
tempi di quella sorta, potesse aprirgli facile varco alla glòria e alla
potenza. Che lusinghe per la vanità di Ramengo! come struggevasi di
vederlo, di abbracciarlo! Come si componeva in bocca le parole per calmare
funeste armi o la più funesta mediazione dei comuni e più veri
nemici, gli stranieri.
Fra quelle lotte però sentivasi la vita: ciascuno capiva quel che
valesse di per sè, e quel che potrebbe d'accordo cogli altri; il
commercio, l'agricoltura, le arti erano salito in gran fiore; pittura,
scultura, architettura, offrivano modelli, che il difficile nostro secolo
non cessò di ammirare; e la lingua, venuta a mano di Dante Alighieri
morto venti anni prima, e del Petrarca e del Boccaccio, giovani ancora,
acquistava il primato che più non perderà, sopra l'altre d'Italia.
Come in quella Grecia, a cui per tanti lati somiglia la patria nostra, si
dimenticavano le mutue nimicizie per convenire ai giuochi in Olimpia,
così l'umore allegro dei Toscani li raccoglieva alle splendide feste,
onde solevano spesso ricrearsi le diverse città, o nelle solennità
dei loro santi patroni, o per memoria di antichi fatti, o per celebrazione
di nuovi. Pisa in quel tempo aveva appunto riportato vantaggio contro i
Moreschi, che dalle coste d'Africa infestavano il Mediterraneo e l'Italia;
onde, per solennizzare quel trionfo e la presa di alcune loro galee,
dovevasi finire il carnevale colla festa di Ponte. Nè d'altro che di
questa udiva Ramengo ragionare per tutta Toscana allorchè vi capitò:
chi poteva, preparavasi per andarvi; gli altri se ne struggevano di
desiderio.--Perchè non v'andrò anch'io?» disse Ramengo. «Fra
tale concorso di gente, nulla più probabile che incontrar quello ch'io
cerco».
E vi si drizzò.
Pisa in quel tempo era nel maggior suo fiore. Porto frequentissimo come
(fatta ragione ai tempi) oggi sono Amsterdam e Londra, nel 1283 aveva
armate fino centotrè galee per guerreggiare Genova, che gliene oppose
centosette: vedeva a' suoi mercati accorrere Mori d'Africa, Normanni del
Settentrione, Turchignoti di Levante; mandava i suoi legni verso le Indie
orientali a caricarsi di spezie, che poi diffondava per tutta Europa,
riportandone in cambio legnami, canapa, stoffe, denaro. Alle speculazioni
congiungendo l'amore per le arti belle, innato nella patria nostra, dalle
imbarbarite regioni dell'Asia i Pisani traevano marmi, colonne, sculture,
di cui abbellivano la patria: di Palestina recarono terra per riempiere il
loro cimitero, onde poter dormire in terra santa; attorno a quel cimitero,
i ristoratori delle arti belle fabbricavano, scolpivano, dipingevano,
più insignemente perchè l'originalità non era stata per anco
soffogata dall'imitazione, nè il raffinamento materiale aveva tolto la
mano alle idee ed al sentimento. Su quelle pareti era stata ridotta a
figure la _Divina Commedia_ di Dante, per leggere la quale avevano eretta
una cattedra nella nuova Università;--poesia, pittura, scuola nazionale
e religiosa: commercio, arti, devozione, sapere, libertà; begli elementi
della vita italiana d'allora.
Oggi Pisa è ben altro. Una borgata a mare, allora appena avvertita, le
tolse quel resto di commercio, che le mutate condizioni d'Europa lasciarono
alla Toscana; i cencinquantamila suoi abitanti sono ridotti ad un settimo
appena; la marmorea cattedrale, lo stupendo battistero, la mirabile Loggia
dei mercanti, gli altri edifizj di antica maestà fanno un melanconico
contrasto coll'erba crescente per le vie spopolate, col silenzio delle
ammutolite officine, coll'inoperoso vuoto del suo Lungarno; e la bizzarra
Torre sembra chinarsi in atto di compassione per deplorarne le perdute
grandezze.
--Potenzinterra! ei dee venire da in capo al mondo se mai non ha inteso
parlare della festa di Ponte»; diceva a Ramengo l'oste Acquevino, che,
venuto giovane da Pontedera senza un becco d'un quattrino, come egli
diceva, in sulla via di Pisa avea rizzato dapprima un frascato, ove dava
bere a' mulattieri, cavandone le spese e qualche zaccherello di vantaggio;
poi coi quattrini facendo quattrini, e spacciando gran nomi ai piccoli vini
che la sete faceva parere strabuoni, murò un'osterietta, che, se alcuno
gli diceva essere piccola, egli, senza certo aver mai letto di Socrate,
rispondeva,--Così potessi averla sempre piena di avventori». Posta
sur un dosserello, aveva dinanzi uno spazzo ove si giocava al pallamaglio,
e da cui vedevansi passar rasente quelli che si avviavano alla città, e
dominavasi la vasta pianura, che da un lato scende fino al mare, dall'altro
è chiusa da collinette biancheggianti nel verde degli olivi, e
tramezzata dall'Arno che poi a forma di semicerchio divide Pisa. Colà
Acquevino fatto maturo e grassotto, ma sempre fresco, snello, gran
chiacchierone, gran lodatore del suo paese, del bel cielo, della buon'aria,
della buona gente, quanto un poeta arcade, dava alloggio a qualche
forestiere, facendogli poi nello scotto pagare la colpa di non esser
toscano; somministrava bubbole e da bere a vetturieri e pedoni; e con
religiosa integrità serbava prosciutti del Casentino e fiaschetti
d'aleatico e di Montepulciano, che un professore dell'Università aveva
paragonati all'ambrosia e al nettare degli Dei; similitudine che Acquevino,
da venti anni ripeteva come nuova di zecca a tutti i signori, che (diceva
egli col tono onde una civettuola dice esser brutta per sentirsi raffermare
il contrario) venissero ad onorare quella sua catapecchia.--E (soggiungeva)
qui gente non ne manca mai. Perchè io non sono come que' miei
confratelli, che vogliono far commenti all'altrui starnuto. Libertà per
tutti; chi paga è buon amico».
Vedendo arrivare in sulla sera Ramengo solo e con magra valigia, gli aveva
dapprima fatto gli occhi grossi ed era stato con lui tant'alto; ma quando
lo intese comandare la camera migliore, i più squisiti bocconi, il
centellino più scelto, e gli balenarono all'occhio i fiorini d'oro
lampanti, onde aveva rigonfia la borsa, disse fra sè:--Costui vuol
riuscire meglio a pan che a farina»; e mutò cantare: non fu buon
garbo che non gli usasse, e mentre si dava fretta intorno alle pietanze e
ai forestieri, trovava qualche ritaglio di tempo per regalare due parole
all'ospite dalla buona borsa, e vantargli il suo paese e la sua
osteria.--Pisa (gli diceva) fior del mondo; senza far torto a nessuno, e
meno al suo paese, signor forestiere. E se non fosse stata Pisa, tutta
Toscana era a manco d'un pelo di venir turca, e non si berrebbe
vino.--Ch'io le ne mesca un altro bicchieretto?--Vogliono esser forse
trecent'anni, i Saracini avevano posto piede in Calabria: ma i Pisani,
nemici dei nemici di Dio, mandarono il fiore della nostra gioventù a
snidarli. Cosa pensano quei dannati? Con navi sottili e col diavolo che li
ajuta, nel fondo della prima notte di gennajo hanno faccia di entrare in
Arno, invadono il sobborgo, lesti e queti così che nessun popolano se
n'accorse, fuorchè ai colpi dei malnati e alla vampa degli incendj.
Allora tutti a fuggire senza guardarsi alle gambe, e senza pensare ad
avvertire la città perchè si mettesse in difesa. Una donna sola, oh
viva le donne toscane!--la sola Cinzica de' Sismondi, attraversa i
maledetti che già occupavano il ponte d'Arno, corre ad avvisare la
Signoria; e subito un dar delle campane, un sonar di trombe, un leva leva,
un presto presto, un corri corri, tutti, a vedere e non vedere, pigliano le
armi; fanno fronte ai Saracini che, rincacciati, n'hanno di grazia a fare
salva chi può, si tolgono di testa il baco di mai più tentare la
gente più valorosa di cristianità. In memoria di quel trionfo sul
ponte stesso...»
Qui Acquevino, richiesto da altri avventori, dovette interrompere la
narrazione di quel fatto, successo intorno al mille, e in memoria del quale
il borgo rifabbricato di là d'Arno fu nominato di Cinzica, ed istituita
la festa del Ponte. Noi meno, pressati dagli avventori che non fosse
Acquevino, procureremo supplirgli alla meglio nel divisarne il modo.
La smania di fazioni, di allegrie, di battaglie, di devozioni tutt'insieme,
che Pisa, colonia greca, aveva dalla Grecia portato, suggerì quel genere
di festa; lo tenne vivo il desiderio politico di alimentare gli spiriti
guerreschi, tanto necessarj per mantenere la pace e tutelare i diritti.
Imperciocchè in grazia di quella, i più valenti e animosi fra i
giovani pisani si addestravano continuamente nelle armi e nei movimenti del
corpo; e in tal guisa formavansi prodi e disciplinati sotto capitani, che,
come più esperti, erano a ciò trascelti per voce di popolo, e che,
dopo le finte lotte, poteano guidare anche alla vera.
La città e il territorio si dividevano in due fazioni, chiamate dei
Bianchi e di Borgo, ovvero di Sant'Antonio e di Santa Maria, da due chiese
una di qua, l'altra di là del fiume. Nappe di color diverso, per lo
più intrecciate e regalate dalle belle, distinguevano i parteggianti; e
per quindici giorni innanzi alla festa non era quasi nient'altro che
lottare e tambussarsi, ora in pochi, ora in più, con guasto anche di
molte vite. Giunto poi il dì solenne, i combattenti delle due fazioni,
protetti il capo di celate, con alla mano noderosi randelli che chiamavano
i targoni, schieravansi dai due capi del ponte di mezzo, formando una
fronte di forse quaranta. Non appena alzata la sbarra, si movevano
all'incontro, e venuti al colmo, allora era il menar delle mani, il
cozzare, il picchiarsi; e la baja diventava pur troppo da vero. I primi,
coi targoni appuntati al petto, pigiavano, spunzavano contro gli avversarj;
altri menavano, facendosi piazza; alcuni carpone si ficcavano tra le gambe
dei combattenti, o per arrovesciarli, o per alzarli di peso e buttarli in
Arno. Sulle spallette intanto venivano i capitani, col battacchio
anch'essi, dando un poco di regola a quel tumulto, rincorando, zombando, ma
coll'occhio attento a schivare gli avversarj, che, se vedevano il bello,
con uno spintone li sbalzavano dal ponte. Sotto a quei colpi, tra quella
furia, guaj a chi stramazzasse ai piedi della calca! Il men male era per
chi dai parapetti traboccassero in Arno, ove stavano pronte le barchette a
raccorli. Del resto si ferivano, si abbattevano, si disarmavano avversarj,
si facevano prigionieri; nè per tre quarti d'ora restava il calcare, il
ferire, l'accopparsi, come diceva Acquevino, con mirabile tripudio degli
spettatori. Dalle finestre, dai terrazzi, dalle bertesche, d'in su i tetti,
una calca di gente attendeva, smaniando di gioja, di timore, di applausi,
d'incoraggiamenti, di fischi, secondo che questa o quella parte piegava o
prevaleva; secondo che era in fortuna o in disdetta l'amico, il parente,
l'amante; secondo che Sant'Antonio o Santa Maria più acquistavano del
combattuto ponte; e sì gran fervore ponevano nel matto parteggiare, che
madri, sorelle, amiche, all'udirsi annunziare le ferite e fino la morte dei
loro cari, domandavano qual delle due parti avesse avuto il meglio, e se
l'annunzio rispondeva ai loro desiderj (Spartane fuor di tempo) obliavano i
più teneri e sacri affetti per prorompere in festose acclamazioni.
Spirato il termine concesso a quel furore, sonavasi a raccolta, calavansi
di nuovo le sbarre, e la parte che più avea preso dell'erta, veniva
gridata vincitrice. Qui le baldorie, il trionfo, e i più segnalati
campioni, incoronati dalla Signoria, abbracciati, baciati da chiunque avea
la fortuna d'esserne, in quel giorno, amico; e scornacchiare i vinti, e
cantare inni, come fossero stati distrutti i nemici della patria.
Poichè le usanze sopravvivono al loro motivo, i Pisani continuarono il
sanguinoso spasso anche quando il valore non solo era divenuto inutile, ma
si sarebbe reputato una colpa; e finalmente Pietro Leopoldo di Lorena,
trovandolo troppo per un giuoco, troppo poco per una guerra, lo proibì.
--Non ha mai visto, signor forestiero, in vita sua e per tutto il mondo, un
tal concorso di cristiani?» domandava l'oste a Ramengo, il quale, la
mattina dello spettacolo, stava sopra un terrazzino, ombreggiato da un
leccio, osservando Pisa e la folla che vi traeva. E girando in tondo la
mano distesa, seguitava:--Le par poco? Che sciali! Che bellezza! che brio!
Un toscano si discernerebbe anche di mezzo alla moltitudine di Val di
Giosafatte. Quelli che vede in lucco maestoso sono i Fiorentini; ricchi
sdondolati, sa, speculeranno anche sulla festa. Quest'altri, tutti in
fronzoli e in fiocchi, sono Pistojesi; quelli là, da Siena, la gente
più leale e sincera delle tre parti del mondo. Il desiderio di vedere le
nostre feste gli ha fatti dimenticare delle vecchie emulazioni; e a Pisa
tutti saranno i ben accolti, e nemmeno si temerà che ci portino la
peste. Oh veda la bella cavalcata! Sono signori della Versilia e della
Lunigiana, terribili nei loro castelli non meno che sul mare; lo sanno i
viandanti.--Buon divertimento a lor signori! Posso servirli di
nulla?--Questi sono di que' ricchi cogli arnioni, e vengono dalla val di
Nievole, fertile e ridente, ch'è il paradiso di Toscana, come Toscana
è il paradiso del mondo. Snidarono essi gli antichi baroni, e si
piantarono nei loro palazzotti per coltivar le vigne e gli uliveti.
Osservi, belle e robuste figure. E tutti hanno in groppa fanciulle e donne,
che, non v'è rimedio, le eguali non vede il sole, per quanto giri.--Viva
il bel sole, vivano le belle donne di Toscana».
Così, ma a spizzico e scappa scappa, raccontava l'ostiere a Ramengo,
intanto che dava ricapito agli altri, che cominciavano bene la mattinata
con un fiaschetto; e quel vivo spettacolo pareva ammansare il truce animo
di Ramengo, che, nella contentezza di sapersi padre, nella speranza di pur
trovare suo figlio, di riconciliarsi con esso, pareva entrare in una vita
nuova, e talora sentivasi preso da un tal accesso di benevolenza, che
proponeva lasciare la micidiale e infame sua scelleraggine, e cercare con
belle azioni la stima dei buoni, la tranquillità dell'animo, la
serenità che attorno a sè vedeva regnare nella turba festiva.
Alla quale intento, mirava dai poggetti, dagli scenderelli, dai tragetti,
sbucare i villani, a larghi cappelli di treccia bianchi, con nastri rossi e
neri; e quadriglie di contadinotte che, cammin facendo, trecciavano la
paglia.--Esse scendono dai colli di Signa (ripigliava Acquevino). Questi
sono i robusti montanari di Lucca. Cotesti pallidi e scialbi vengono dai
contorni del lago di Bientina»; ed ai vivaci colori del loro vestito
faceano contrasto i bigi e neri e bianchi delle tonache di tanti frati, e
il marrone dei mendicanti, che accattavano pei poveri e per Dio.
Su per l'Arno intanto vedeva un mondo di bacchette guizzare leggiere fra
mezzo ai grossi legni ancorati. Chi capitò a Pisa per la festa della
Luminara, che si rinnova nel giugno d'ogni terzo anno, ed ha goduto, per
non più dimenticarlo, l'incantevole prospetto di quella città, con
tutti gli edifizj, le cupole e i campanili accesi a lumicini e fiammelle, e
una quantità di navicelle illuminate vogare l'una a prova coll'altra,
potrà immaginare il tripudio che, in tempi tanto più prosperi ad
essa, vi si doveva fare alla festa di Ponte. Fra tutta quella moltitudine
era una curiosa allegria; eccitata viepiù dal felice rinnovarsi della
stagione, ed alimentata da capricciosi scherzi, da bizzarri motteggi, che
si facevano, che si slanciavano gli uni agli altri, nella dolcissima e
vivace loro favella. Un coro di giovani, dando fiato alle zampogne,
accompagnava gli accordi di altri che cantavano la nota ballata:
Vaghe la montanine pastorelle,
Donde venite sì leggiadre e belle?
E com'ebbero finito l'aria, una forosetta, che, per grandi occhi e per
guancie rubiconde come una melarosa, si discerneva dalle compagne,
rispondeva con voce più robusta che delicata, mentre appunto passava
sotto al balcone ove stava Ramengo:
E s'io son bella, io son bella per mene,
Nè mi curo d'aver de' vagheggini;
E non mi curo niun mi voglia bene,
Nè manco vo' ch'altri mi facci inchini.
--Guarda che bella tosa», esclamò un giovane, sbucando di dietro la
taverna, e spingendosi audacemente verso la fanciulla. Al suono della
parola e dell'accento forestiero si voltò Ramengo, e riconobbe un
crocchio di Lombardi. Quando ogni paese portava diversissime foggie di
vestimenti, bastava un'occhiata per discernere gente da gente; e i Lombardi
d'allora, dico i più ricchi e da festa, usavano nobili panni, assettati
alla persona, foderati di seta, o cappe tedesche foderate di vaj; cappucci
alle gote con fregi d'oro intorno alle spalle; ai piedi calze e calzeroni;
alla cintura larghe correggie con fibbie d'argento, da distinguerli al
primo sguardo.
Vibrò Ramengo un'occhiata fra loro; fissò con sguardo scrutatore quei
visi, ed accertatosi che fra quelli non v'era chi lo conoscesse per veduta,
o gli potesse interrompere i disegni suoi, scese, e col parlare si diede a
conoscere per loro compatrioto. Tosto gli furono essi intorno con
quell'amorevole premura, onde si suol salutare un concittadino su terra
lontana, dove basta la comunanza di patria per far riguardare siccome amico
anche uno sconosciuto.
In quella libera città avevano fatto capo i molti forusciti da ciascuno
dei varj paesi lombardi; e quivi, pascendosi delle speranze, dolce e
indigesto nutrimento dei profughi, preparavano maneggi ed armi contro al
tiranno della patria loro. Ma il tiranno della patria loro aveva il
vantaggio, che ha sempre chi già trovasi in possesso d'una cosa, sovra
colui che ne lo vuol privare; e mentre essi menavan trattati a danno di
lui, altri più vivi ne raggirava sott'acqua, Luchino; quelli andarono
sventati, questi riuscirono al loro intento.
Ma non anticipiamo gli eventi, e ci basti per ora mostrare come quella
festa, al pari di tutte le altre antiche e moderne, nostrali e forestiere,
potesse rassomigliare al color di rosa, che tinge le guancie d'alcuni
consumati da mal sottile: sul volto non appare che la sanità, ma dentro
cresce lo spasimo e il marasmo; oggi sorridono, domani morranno.
Ramengo, sicuro tra quei sicuri, salutava, rispondeva, abbracciava,
stringea la mano a questo o a quello, e sebbene potesse sperare che il nome
suo fosse tra i forusciti riguardato come quel d'un amico, d'un compagno di
sventura, gli parve però prudenza il dissimularlo, e si diede per un tal
Lanterio da Bescapè, nato all'ombra del Duomo di Milano, abitante alle
Cinque Vie, e come loro fuggiasco dalla patria,--perchè (diceva) chi
può reggere regga in una terra, a quel modo oppressa da così
scellerato tiranno. Tenga egli seco i suoi mastini, tenga il suo Sfolcada
Melik; non chi sentesi nelle vene stilla di sangue italiano».
Pensate se quelle parole andassero a' versi de' forusciti, e quasi il
parlare avventato fosse infallibile contrassegno di spiriti animosi e
sinceri, già, senza un sospetto al mondo, computavano il nuovo arrivato
per un acquisto; già prendevano occasione di narrargli ciascuno i torti
fatti da Luchino alla loro patria, a Cremona, Pavia, Lodi, Como, Bergamo,
ed i particolari loro disgusti, o domandarlo de' suoi, che immaginate
s'egli sapeva impiantare e colorire al vero. Ognuno poi si affrettava a
chiedergli di questo o di quello fra i parenti, fra gli amici che aveva
lasciato a Milano.
--A che partito sono gli Aliprandi?
--Morti per fame.
--E Bronzino Caimo, quel gran moderatone, sta sempre col tiranno?
--Sta col muso alla ferrata per aver osato difendere la verità, se pure
non gli è già capitato di peggio.
--E Matteo Visconte?
--Confinato a Morano di Monferrato.
--E Barnabò?
--In Corte dello Scaligero. E dicono farà un parentorio con quella
signora regina.
--E Galeazzino? sempre bello? sempre galante? sempre adoratore di madonna
Isabella?
--Oibò! Il signor Luchino dorme soltanto finchè vuole. Il bel
Galeazzo è vagabondo per povertà, e per far perder allo zio la sua
traccia. Dicono però sia in Fiandra»,
Così rispondeva Ramengo alle varie domande, lieto di mostrarsi informato
per guadagnare maggior fede, e di narrare quel che sapeva onde ricavarne
quel che cercava. Perocchè, come il marinaro nel riveder le onde quiete,
come il ladro al presentarglisi un bel tiro, come il beone all'entrar in
una bettola, dimenticano ogni proposito antecedente, così Ramengo
dissipò quei momentanei impulsi al bene, tosto che si vide innanzi
l'occasione di poter nuocere; volle mentire sulle prime, affine di
scoprire, se potesse, ove trovare Alpinolo, quindi, al solito, un peccato
il trasse all'altro, all'ebra necessità del delitto, a far il male per
il male istesso.
--Ma dunque (gli domandavano quegli infervorati), che vivere è oggi a
Milano?
--Il vivere (rispondeva Ramengo) dell'inferno e di ogni paese in
servitù. Luchino ogni giorno più imbaldisce, perchè vede che le
alre città, spaurite, vengono a lui, come il bove che volontario andasse
al macello. Dieci n'ebbe già Azone in obbedienza, non è vero? Ebbene,
costui già v'aggiunse Bobbio, Asti, Parma, Crema, Tortona, Novara,
Alessandria....
--Vili! così lor pute la libertà? così vogliono farsi puntello al
trono di uno scellerato?» l'interrompeva Aurigino Muralto da Locarno. Ed
Acquevino, che mesceva loro del più generoso, ripetendo,--Guardino
com'e' brilla, spruzza, salticchia! Resusciterebbe un morto», ascoltando
quegl'infervorati loro parlari, quel prendersela così d'impegno,
dimenava il capo ed esclamava:--Poveri paesi! Viva la libertà toscana!
Per dio bacone, viva il giardino d'Italia!... Ma trovato quest'aria, questo
vino, questa pace, cosa importa a loro chi sia e quale il padrone? Non
basta ciò alla vita beata?» E andandosene canterellava:--Nè per
tempo nè per signoria non ti dar malinconia».
Prediche al deserto. Ramengo, dopo vuotata una tazza con quei
compatrioti, proseguiva:--Giudichereste però che egli cresca per
questo in potenza? Tutt'al contrario: ingelosi le potenze vicine, e al
primo vento le barbe diverranno rami. I signori Gonzaga lo guatano da
Mantova in cagnesco; il conte di Savoja già levossi i guanti, e
prepara delle buone armi; il marchese di Monferrato non vede quell'ora
di romperla seco. Ma chi la romperà in modo da non rappiccarla
più, ve ne accerto, sarà Mastino della Scala. Nel paese poi non
vi dico altro. Sapete che gran ghibellino si è mostrato Luchino
finchè durò in condizione privata. Chi non avrebbe creduto che
dovesse ora in ogni cosa dar mano alla parte migliore? sostener i
nobili contro la ciurmaglia? Ma no, li tratta nè più nè meno
di quel che faccia coi Guelfi più marci nell'anima. Questi però
non gli credono, e lo tengono un impostore; gli altri se gli
rovesciano ogni di più; cosicchè gli è proprio il colosso di
Nabucco dai piedi di creta.
--Ma il sassolino che basti ad atterrarlo?» soggiungeva Caccino Ponzone
cremonese.
--Eh! il sassolino ci saria ben egli (rispondeva quel falso) e se... Ma
lingua taci...» e battevasi sulla bocca.
Era il miglior modo di metterli in savore, onde, stringendosegli viepiù
intorno e punzecchiandolo,--Che? dite su; c'è qualche nuvolo in aria?
c'è speranze? Abbiamo ben compreso che voi in cose di Stato pescate al
fondo. Perchè far misteri con noi? la causa dei Milanesi non è quella
pure di noi tutti? e siam qui per dare di spalla quanto valiamo. Non si
aspetta che quel momento del Signore, il _dies irae_. Ma chi dirigerebbe?
--Se Franciscolo Pusterla...» Proferito questo nome, Ramengo si recava
sulla sua, con una di quelle pause a tempo, che sono il giuoco dei
maliziosi, e girava uno sguardo aggressivo su tutti quegli impavidi visi,
come per succhiellarne il pensiero più arcano. Ma non facea bisogno di
tanto perchè l'imprudenza andava in essi di pari coll'ardor giovanile,
tanto che il tristo n'ebbe miglior mercato che non isperava.--E che? (gli
domandavano coloro) siete anche voi di quelli del Pusterla?
--Come! se sono dei suoi?... (ripigliava Ramengo) Chi aveva il mestolo di
tutta quella faccenda a Milano? e perchè m'ho avuto di grazia ad uscirne
colla pelle? Ora qui (e li mostrava) ho dispacci da recare a lui... ma,
acqua in bocca, che alcuno non mi ascoltasse. La prudenza non è mai
troppa. Coloro hanno bracconi da tutte le bande. Io ho lettere per lui dal
signor Mastino della Scala...»
Ramengo punzava, ed emetteva queste parole a scosse; balestrando gli occhi
in faccia a tutti: essi credevano per cautela, in fatto era per ispiare
l'impressione che su loro faceva, e se alcuno potesse o volesse dargli
notizie o modo d'averne. E notò alcuni che dimenavano il capo, come
volessero esprimere,--Non ne faremo niente»; sicchè continuò:--Ma!
quando si dice gli uomini!... Chi lo avrebbe creduto? Egli, che poteva, sol
che volesse, divenire capo e salvatore della patria, ora dorme... s'è
rimpiccinito... scappa come un fiacco paltone...
--E' bada a fare _mea culpa_ ai piedi di un fornaio...» uscì a dire
Aurigino Muralto.
Fornajo di mestiere, quindi _Fournier_ di soprannome era stato il padre di
Benedetto XII papa, allora sedente in Avignone. L'indicarlo a quella guisa,
anzichè spiattellarne il nome e il luogo, era stato una di quelle povere
transazioni che fanno colla prudenza coloro i quali sanno alle sue leggi
rassegnarsi solo fino ad un certo punto.
Aurigino non si sarà creduto d'aver fatto il minimo, male, non n'avrà
concepito il minimo rimorso, eppure avea messo lo spione sulla traccia, che
più non perderebbe. Ramengo toccava appena il suolo colle piante per
l'esultanza di questa scoperta, ma dissimulando e facendosene appieno
informato,--Di certo (proseguiva) e' s'è messo ad Avignone come un
chierico, il quale aspiri al cappel verde o al rosso, o come un basso
delinquente, che cerca sicurezza celando lo stocco micidiale fra le tonache
e le cocolle. Ma lo ridesteremo noi da codesto pigro sonno... oh, lo
ridesteremo!
--E qui (soggiungeva il Ponzone) troverete amici suoi, da potervi dare
indirizzo e ajuto.
--Vi saranno, m'immagino, suo fratello Zurione, Maffino da Besozzo, quel
della Pietrasanta...» domandava Ramengo. E gli rispondevano:--Sì, ma
chi ne mostra più amore e devozione è lo scudiere Alpinolo.
--Alpinolo?...» ripetè colui, sentendosi dai capelli alle piante
rimescolare.--Alpinolo? dov'è? ch'io lo veda tosto, ho estrema
necessità di parlargli per cosa che molto dappresso lo tocca. Dov'è?
dov'è?
--Che furia!» saltava su quel mezzo prudente da Locarno.--Finiamo di
bere, e poi venite con noi. Laggiù ve li faremo trovar tutti. Che festa
per loro a rivedervi!...
--Ma io voglio parlare con Alpinolo dapprima... con lui testa testa. Le
cose so come vanno trattate»; e mentre egli era dominato dall'ansietà
di trovare un figlio, e dalla speranza che, scoprendosegli padre, ne
avrebbe e perdono ed amore, essi continuavano a bere, a discorrere, a
ragionare, massimamente di Alpinolo.
--È un demonio colui quando si tratta di mettersi ad un'avventura.
--E per un proponimento non ha il pari. Ti ricordi, Ponzone, i primi
giorni? Noi lo credevamo muto: nè parlava nè faceva segno. Che è,
che non è, aveva fatto proposito di non proferire sillaba per sei mesi.
--E così giovane! (soggiungeva il Muralto.) Che gran soldato vuol
riuscire!
--Ed ai nostri giorni (replicava il Lambertengo) se n'è visto dei
soldati, con nient'altro che la propria spada, fare slanci, e toccare i
primi gradi. Costui lo vedo già a un gran posto.
--Di chi dicono? (s'inframmetteva Acquevino) Di quel garzonotto con quegli
occhi senza secondi? E come se lo conosco! Caspita! gli è di buon gusto
e vien a bere qui tal volta un par di gotti, e non mesce a miseria; e dice
che vini come i toscani, è inutile, non se ne trovano al mondo nè in
maremma. L'altro dì era con alcuni; e dagliene un sorso, dagliene un
secondo, erano brilli; e venuti a parole, uno gli disse:--Taci là, tu
che non hai nemmeno padre.--Non avea finito, che Alpinolo, senza dire,
guarda che ti do, stampandogli le cinque... volli dire le quattro dita
della sua mano sulla guancia, gli buttò tre denti in gola».
Che suono facessero ad un padre, ad un tal padre, siffatte parole,
immaginatelo. Sapeva d'esser vicino al figlio, e quel figlio lo sentiva
lodato: lodato per quell'unica virtù ch'egli valutava: l'unica che, in
tempi di quella sorta, potesse aprirgli facile varco alla glòria e alla
potenza. Che lusinghe per la vanità di Ramengo! come struggevasi di
vederlo, di abbracciarlo! Come si componeva in bocca le parole per calmare
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