Margherita Pusterla: Racconto storico - 17

della scala onde restò sì mal concio, che per tutta la vita ebbe ad
andare sciancato. I cortigiani, la famiglia: che tutti gli volevano il
peggior male del mondo in grazia di quella lingua, onde per dritto e per
traverso scornacchiava ognuno, accennavansi un coll'altro, e gonfiando le
gote, e a fatica reprimendo gli scrosci delle risa, si dicevano
sottovoce:--Ve' ve': e' rotola come un battufolo. Questa è lezione col
sale e col pepe!» Alcuno anche più caritatevole tentava aizzargli
contro i cani, e passando dappresso a lui che sanguinava dal capo rotto e
sdolorava delle peste membra, gli sgrignava sul viso ripetendogli a mezza
voce:--Ben ti sta malignaccio!»
Quindi tacitamente s'avviavano dietro a Luchino, che saltato a cavallo, si
cacciò di carriera verso il palazzo. Non era amore che lo
martellasse,--poteva mai tale sentimento pigliar vigore in un'anima
logorata dalle voluttà? Era corso di piacere in piacere sfiorando quel
che di bello gli occorreva sulla perversa sua vita; se costei resisteva,
che doveva importarne a lui? Cento altre il potrebbero compensare. Ma,
d'altra parte, ebbro d'orgogliosa ambizione, aveva veduto i signorotti
d'Italia cercarlo amico o paventarlo nemico; avea veduto umiliarsegli
davanti quelli che, mentre durava in condizione privata, lo soperchiavano:
avea veduto (quel che più valutava) inchinarsegli certi cittadini, gran
vantatori delle patrie libertà: all'intorno tutto pendeva da un suo
cenno: ed ora una donna, una sua prigioniera, osava resistergli,
insultarlo,--poichè nel vocabolario dei tiranni chiamasi insulto il
protestare contro le loro iniquità. Di ciò l'amor suo proprio non
sapeva darsi pace, e si rodeva entro, e il ciglio corrugato, e
l'aggrondatura della fronte davano spia dell'animo esagitato. La gente, che
lo vedeva venir via per le strade a spron battuto, con dietro la turba e la
famiglia, salvavansi a precipizio; e se alcuno gli alzava gli occhi in
volto, avvertendo quello iroso cipiglio, esclamava:--Acqua grossa
oggi!» e facendo di berretto, tirava muro muro.
Non ebbe questa precauzione un fanciullo di forse dieci anni, il quale era
stato messo da' suoi genitori sull'uscio di via con un canestrino di
ciliegie primaticcie, per offrirlo al principe, sperandone, come altre
volte gli era successo, una buona mancia. Attento ad ubbidire senza più
altro guardare, il garzone si postò in mezzo alla strada con un
ginocchio a terra e il canestro sovra il capo: ma Luchino quando se
n'accorse fe' un cenno ai mastini suoi fedeli compagni, e questi gittatisi
sul malcapitato, l'addentarono, lo pestarono, senza che nessuno, nemmanco i
parenti, ardissero dare il ben gli sta a quegli animali.
Arrivato poi al palazzo, Luchino smontò senza far parola; salì,
stette un poco da solo; chiamò quindi il cancelliere, come per distrarsi
dalle proprie cure collo spacciare gli affari altrui, e chiese che
l'informasse. Prese questi alcune pergamene, e scorrendole coll'occhio--Qui
(diceva) il castellano di Robecco avvisa che fu colto un pastore, il quale
tagliava un palo nei boschi di vostra serenità.
--Segargli le mani», diceva Luchino.
Il segretario inchinavasi, e proseguiva:--Nel borgo di Abbiategrasso, dove
è la villa della magnificenza vostra, alloggiò un pellegrino
proveniente di Toscana: e s'è scoperto qualche caso di peste.
--S'abbruci l'albergo, il pellegrino, gli ospiti e tutto», rispondeva
Luchino.
--Scrive da Lecco il connestabile Sfolcada Melik, come uno dei suoi soldati
rubò la marra ad un bifolco.
--S'impicchi colla marra a canto.
--Fu fatto così appunto, ed al villano pagata la marra. Ma costui la
notte, andò a levar via dalla forca quell'arnese.
--Ebbene, si appenda anch'esso alla forca medesima, e la marra fra loro
due.
--Sarà obbedita. Qui poi c'è una lettera di Ramengo da Casale...
--Ramengo? e donde?» l'interruppe Luchino con sollecitudine.
--Da Pisa sul punto d'imbarcarsi: e scrive in cifra che ha fiutato, dice,
il covile della preda che vostra serenità, intende, e fra breve confida
di consegnargliela.
--Sì? bene, bene! approposito davvero!» esclamò Luchino battendo
palma a palma come per applaudire a sè stesso, e con un riso di
selvaggia consolazione.
--Ma (ripigliava il segretario) esso Ramengo, oltre gli augurj e baciamani
di formalità, fa a vostra serenità una domanda.
--Una domanda? che non è mai sazio? Genia infame cotesti spioni! non
basta la confidenza che se ne mostra? Feccia vilissima, che si schiverebbe
fino di toccar col piede, se non tornasse necessaria a tener in dovere
cert'altri. Ma cosa vuole? dite su, udiamo.
--Egli rammenta che, a chi consegna un bandito, il capo 157 degli statuti
di Milano concede di poter liberare un altro da qualunque...
--Che viene ora a metter in mezzo gli statuti? La legge sono io. Ma insomma
cosa vuole, cosa chiede?
--Implora che la vostra serenità conceda, senza restrizione, impunità
d'ogni delitto commesso sì a lui, sì a suo figliuolo.
--Suo figliuolo? Dove l'ha? nol conosco.
--Soggiunge in fatto che si riserba di farlo conoscere alla serenità
vostra.
--Sì sì bene!» rispose Luchino--Speditegli subito il breve
d'impunità la più intera, la più assoluta, ma a patto che al
più presto abbia consegnato nelle mie mani chi deve. Largheggiate pure
in promesse; ma insistete perchè sia presto, infallibile. Capite?
presto.
--Sempre nuovi argomenti della sovrana clemenza» esclamò il
cancelliere strisciando una riverenza e ritirandosi: e Luchino, lieto in
viso più che non potesse essere in cuore, stropicciava le mani, chinava
a scosse il capo con una ferina voluttà e pensava:--Ecco, il castigo
segue davvicino all'oltraggio. Superba! sarai contenta. Mi sentiva proprio
bisogno di questo balsamo. Ora mi trovo sollevato».
Non occorre dirvi che dei severi ordini di quel giorno, buona parte ricadde
sopra la Margherita. Non solamente esso le levò quel ristoro
giornaliero, ma la fe' gettare in una prigione assai peggiore e,
sotterranea. Il carceriere, essere miserabile, contento di bistrattare a
baldanza le persone a lui consegnate, come le vide tolto quel cibo ch'era
un sacrifizio gradito alla sua ghiottoneria, le divenne oltre misura
severo, quasi per vendicarsi di lei che avesse demeritato un favore,
unicamente a lui profittevole. Che se dapprima il corruttibile animo suo
scendeva con essa a qualche cortesia, almeno di parole e a modo suo, ora
con atti dispettosi, con arguzie che fan tanto male a chi soffre,
compiacevasi esacerbare le vendette del suo signore.
La carcere dove essa fu mutata nel recinto istesso del castelletto di porta
Romana, era proprio conveniente a quei tempi, in cui furono fabbricate le
Zilie di Padova da Ezelino, e da Galeazzo i Forni di Monza, nei quali i
condannati si calavano per un foro della volta, e posavano sopra un
pavimento scabro e convesso, in tanta angustia di spazio, da non potersi
nè tirar ritti sulla persona, nè distendere per terra. In quei forni
era stato custodito Luchino per alcun tempo dall'imperatore Lodovico il
Bavaro: e poichè la sventura ai tristi non fa se non peggiorarli, volle
che poco migliori riuscissero queste, che stava fabbricando.
La Margherita nella sua poteva appena mutare quattro passi: nessun'altra
luce che la scarsa d'un alto finestruolo, il quale usciva a fior di terra
in un cortile, per modo che nei giorni piovosi l'umidità vi scolava e ne
rivestiva d'afronitro le pareti. Passati i giorni vernerecci, era allora
incominciato il maggio, quando le tiepide arie fanno brulicare la vita nei
campi, e infondono un ineffabile sentimento di gioja negli animali e
nell'uomo. Dalla primitiva sua stanza, Margherita aveva veduto rinfrescarsi
il verde dei prati, le gemme degli alberi gonfiare e sbocciarne le foglie
primaticcie, delle quali, coll'amore e colla compiacenza che solo i
prigionieri conoscono, ella osservava dì per dì e misurava il
crescere, il dilatarsi, il verdeggiare; aveva sentito i venticelli fecondi
alitarle sul viso: garruli stormi di augelletti rinnovare i canti e gli
amori sotto al soave raggio del sole, che più sempre inalzandosi, faceva
men lungo il tedio delle notti, sì caro il rosseggiare della mattina e
del tramonto, invitando i mortali a ringraziare il Signore, che all'inverno
fa succedere la primavera, ai patimenti le consolazioni.
Ma qui, nulla di tutto ciò, non più il sole, non più spaziare
colla vista sopra le sterminate campagne, e lontan lontano, verso
occidente, posarla sulle montagne, appena distinte dall'orizzonte: qui non
più una pianta, non una zolla erbosa, non vedere un uomo che a suo
talento vada o resti o torni; non potersi affissare nei melanconici
splendori della luna: solo tenebria e lezzo e il tacere di un deserto, o le
querule bestemmie di un inferno. Eppure le lagrime della Margherita
scorrevano più libere, meno angosciose.
Al primo entrare in quella tana, si prostrò ginocchione a ringraziare la
Madonna; aveva salvato il suo pudore, e di più aveva appresa quella
vitale novella. Oh come lo disacerbavano i patimenti! come le sorrideva
l'immaginazione! E poichè il prigioniero ama gettarsi lontano colla
fantasia, e fermarsi su casi che possono succedere dopo molti anni,
anzichè considerare quelli più vicini che troppo crudamente lo
richiamano alla spietata sua situazione, le veniva nel pensiero e nella
speranza un giorno, in cui col marito e col figliuolo ritornerebbe libera
nella città, alla campagna, a tuffarsi nelle onde di luce, che così
limpido versa il sole sulle terre lombarde, a rivedere le rive del lago
Maggiore, piene delle vergini memorie dell'età sua più gioconda
perchè più spensierata; e poi invecchiare nella propria casa, colmata
di dolcezza da un figlio, degno di tutto l'amor suo, e con lui, coi
figliuoli che nascerebbero da lui, ritesserne piacevolmente il viaggio
della vita. Immaginando quel tempo, se ne figura al vero le gioje, e ne
ringrazia Dio, e già le pare essere con Francesco suo, col suo
Venturino, nei luoghi usati, fra cari amici, e più di tutti gli amici
caro quel Buonvicino, che le aveva dato la maggior prova possibile di
amore, quella di trionfare del proprio amore.
Nulla era accaduto che l'avesse pur d'un capello avvicinata all'avveramento
di questi sogni: ma era fatta certa che que' suoi cari vivevano tuttavia; e
la speranza è tanto ingegnosa a ordir le sue tele, appena trovi un filo
pur debole a cui attaccarle!
Quindi, allorchè la mattina un tardo raggio di fioca luce scendeva
attraverso le ferriate della sua prigione, col primo pensiero ella correva
ai suoi cari, che godrebbero intera la delizia della luce; ad essi mille
volte fra le monotone cure del suo giorno; ad essi principalmente nell'ora
che il dì se ne andava; ora feconda di tanti sospiri all'esule, al
solitario, a chiunque ama, a chiunque patisce. Li sapeva liberi; dunque ne
andava seguitando le orme;--dove? con chi? non poteva indovinarlo, ma
poteva essere per tutto ove non giungesse la tirannide viscontea: tanto
più vasto campo alla fantasia della paziente. E le idee carezzate fra il
giorno le si riproducevano poi nel dormire, e le facevano consolati almeno
gli istanti del sonno. Soffriva, deh se ancora soffriva! pure un pacato
raggio a volta a volta diradava quell'oscurità, sicchè talora
l'avresti fin detta allegra.
Più d'una volta Macaruffo si accostava origliando all'uscio della
prigione, forse per il barbaro gusto di sentirla mormorare e indispettirsi,
e tutt'al contrario l'udiva, con sommessa voce ma soave quanto un flauto
che risuoni di lontano fra il tacer della notte, cantare le litanie,
pregando la Madre degli afflitti che pregasse per noi.--Malann'aggia
costei!» esclamava lo scortese.--Che mai non deva io vederla
impazientirsi?» Egli ignorava che ella sapeva invocare Iddio. A
sturbarle però almeno un istante quella calma, il villano bussava,
rumoreggiava attorno alla porta, alzava in tono minaccievole quella sua
voce rantolosa e squarciata: un ribrezzo correva per la persona alla
Margherita, e lunga pezza il cuore le batteva convulso: il canto per tutto
quel giorno era interrotto: lugubri fantasie si attraversavano alla sua
mente, e piangeva, e invocava il nome del Signore, e lo supplicava di
potere una fiata, una sola, per un sol momento rivedere lo sposo, il suo
figlioletto!
Qualche volta anche le giungeva all'orecchio il vagire di un bambino, una
voce fanciullesca che chiamava la mamma, o ripeteva la parola
dell'innocenza sicura. Erano forse figliuoli di qualche soldato, o chi sa?
di qualche prigioniera, con cui dividevano e della quale alleviavano il
castigo. Ma alla Margherita quanti pensieri suscitavano, quanti affetti!
che non avrebbe dato per poterli vedere, vedere quell'età, somigliante
agli angeli, quei cari occhi da cui non traspare che ingenuo affetto e un
amore non simulato, non calcolatore, e una placida curiosità; nulla di
maligno, nulla di crudele, nulla di bugiardo! Se mai potesse almen da lungi
rimirarli, inerpicavasi ella verso il pertugio da cui riceveva lume ed
aria. Ah! non vedeva che mura scabre, altissime, con alte finestruole
ferrate, entro alle quali altri languivano, forse innocenti al pari di lei,
forse il ladro, l'assassino. Ne intendeva le voci: per lo più erano o
sucidi parlari, o bestemmie, o un batter rabbioso dei ceppi contro le
spranghe: nessuna parola di pace, nessuna di benevolenza, di perdono. Per
implorare su di essi il dono della pazienza, essa pregava il Signore, e in
quell'atto alzando i begli occhi, vedeva un piccolo campo di aria, e
fermavasi a contemplarlo. Oh come il prigioniero conosce ogni stella, ogni
nube, ogni accidente del palmo di cielo, in cui tante volte ha fissato lo
sguardo!
Poi se miravasi dinanzi, a fiore della sua finestra era lo sterrato del
cortile, per cui passeggiava una sentinella: tratto tratto vedea giungere
qualche nuovo infelice, e rabbrividiva; qualche altro uscirne liberato, e
con lui consolavasi: alcuno anche partire pel patibolo, ed era volta che
esclamava:--Almeno quegli ha finito». E l'occhio le si empiva di
lagrime; scendeva, pregava; poi, come se l'idea del morire, la quale fa
tanto spavento ai fortunati, recasse a lei la consolazione di sapere che
quei mali non durerebbero eterni, e che un altro ordine doveva venire
appresso, sedevasi più tranquilla sul rozzo suo trespolo, e quivi
rincorreva i tempi passati, tempi di virtuosa giocondità, di benefica
floridezza; pensava a' suoi cari, alle speranze.
Talvolta perfino intonava le canzoni che aveva intese, che aveva ella
medesima ripetute mentre giovinetta attendeva al donnesco lavoro, o quando
colle compagne vagava di primavera cogliendo mazzolini di primolette e
virgulti di mirtillo, ovvero nell'estate, in una barchetta, lungo le
floride rive del Vergante, lasciandosi in balìa di un placido
venticello, salutava le bellezze della natura, e al creatore di essa
porgeva l'omaggio di un cuore puro e giocondo. Erano cantilene di amore;
più spesso erano arie melanconiche, la cui mesta armonia meglio si
addiceva allo stato dell'animo suo. Singolarmente le andava al cuore una
romanza, in altri tempi composta da Buonvicino, e che egli medesimo più
volte aveva accompagnata col liuto, mentre essa la cantava sopra le note,
pure da lui ritrovate. Ed era questa:
AMALIA
--Torni alfin, diletto Piero!
Ti vedrò col nuovo dì».
Lieta Amalia in tal pensiero
S'addormì.
Ecco il mira. In armi splende
Qual l'Olrisio fe' tremar.
Sul suo cuore il cuor ne intende
Palpitar.
Oh il tripudio del ritorno
Fra le braccia dell'amor!
Volge in riso quel bel giorno
Il dolor.
A lui narra i lunghi affanni,
Notti insonni, ansiosi dì:
Pa lui sente i casi, i danni
Che patì.
Ahi, fu un sogno! Spirto lieve
Ei serena il suo dormir
Con delizie onde non deve
Mai gioir.
Sanguinoso al nuovo giorno
Le presentano un cimier:
È il cimiero ond'ella adorno
Ha il suo Pier.
--Già vicino al patrio lido;
Man rival l'assassinò:
Cadde, e l'ultimo suo grido
Te chiamò.--
Chiusa Amalia in pio recinto
Fra le suore del Signor,
Canta Iddio, ma al caro estinto
Vola il cor.
Dal seren di miglior vita,
Dolce spirto, miri al suol?
Odi il gemer dell'attrita?
Vedi il duol?
Dolce spirto, l'ora affretta
Che, disciolto il mortal vel,
Presso a te la tua diletta
Goda in ciel.

Fermavasi alquanto la Margherita, poi ripeteva:
Oh il tripudio del ritorno
Fra le braccia dell'amor!
Volge in riso quel bel giorno
Il dolor.
E dopo un altro istante di silenzio pensierosa tornava a cantare:
Ahi fu un sogno! Spirto lieve
Ei serena il suo dormir
Con letizia onde non deve
Mai gioir [22].
A che pensava ella? di chi si ricordava? Un giorno, là, sul far della
notte, le interruppe questo canto uno scalpicciare nel cortile, maggiore
del consueto, un tuono di sghignazzi, d'insulti, fra cui si distingueva un
rammarichio più gentile che non soglia fra prigionieri, ed affatto
discorde dalle aspre voci che oramai sole era abituata a udire. Il cuore
dello sventurato è così aperto sempre alla paura! Coll'ansietà di
una colomba, che abbia veduto il cuculo fissare gli occhi sul fecondo suo
nido, balzò la Margherita allo spiraglio, colle delicate mani si
ghermì alle grosse sbarre, gettò lo sguardo verso quel rimescolamento,
vide un fanciulletto che, scomposta la bionda capellatura sopra gli
occhi, strillando e dibattendosi fra le braccia degli sgherri, andava
gridando:--Babbo! babbo!» verso di un altro che tutto in catene e
col volto dimesso, lo seguitava.
Ah!--La Margherita mise uno strillo come d'uomo percosso nel cuore, e cadde
svenuta sul pavimento. L'occhio, l'orecchio, benchè di lontano,
benchè a lume incerto, le avevano in quei due infelici fatto avvisare il
suo Franciscolo, il suo Venturino.
Poveretta! Si fosse almeno ingannata.


CAPITOLO XIII.
RICONOSCIMENTO.

Camminerebbe pur bene il mondo, se, nell'effettuare lodevoli disegni,
ponessero i buoni tanto impegno, quanto nei loro scellerati i ribaldi, pei
quali le malvagità che non han potuto compire, sono un debito che si
credono obbligati di spegnere. Luchino e Ramengo avevano raggiunto la
Margherita e molti dei presunti congiurati: ma si eran lasciati sfuggire
Franciscolo, e tanto bastava perchè considerassero il colpo come
fallito. Ramengo specialmente rodevasi dentro, che il suo nemico avesse
potuto camparsi col figliuolo; il figliuolo che tanto gli faceva stizza e
invidia, come quello che gli rammentava l'unica gioia innocente che esso
agognasse sulla terra, e che, come voleva credere, per colpa di
Franciscolo, eragli stato tolto di godere.
--Che importa (diceva tra sè) che costui deva andare ramingo sopra la
terra? Egli ha un figliuolo. Io vivo in patria, ma solitario; non avrò
mai un figlio, le cui bellezze e le glorie si riflettan sopra di me, che
m'aiuti a salire, che faccia me invidiato quant'io invidio altrui.
E più smaniava di vendetta allorchè rifletteva come quel fanciullo
l'avesse avuto in propria mano, e gli fosse stato rapito con forza e con
ischerno da quell'abborrito Alpinolo, a cui sempre più male voleva, come
sogliono i ribaldi a coloro che ne sfuggirono gl'inganni o la violenza.
Nell'ebbrezza pertanto della sua scelleraggine, propose al signor Luchino
di uscire all'inchiesta del gran cospiratore e dei complici suoi. Per
colorire la cosa, Luchino comprenderebbe anche Ramengo nella lista degli
indiziati e degli sbanditi: talchè egli, in aspetto di perseguitato,
entrerebbe creduto e compatito in mezzo ai forusciti, e potrebbe così,
sotto l'ombra d'una fraternità di sentimenti e di castigo, discoprirne
le trame; ritrovare il nascondiglio del Pusterla, e forse trarlo nelle
reti. Così leali mezzi adoperavano i principi--allora.
Ben fornito a denaro, ma in apparenza di fuggiasco, e travisandosi col
mutar foggia di barba, di capelli, di vestito, uscì dunque Ramengo di
città, e prima scorse lo Stato dentro ai confini, se mai s'avvenisse a
qualche amico dei profughi che stesse macchinando, o che gli desse fumo di
ciò che gli importava. Da per tutto ritrovava la gente bassa intenta ai
lavori dei campi, al traffico, alla domestica economia; i baroni nei loro
castelli desiderosi di godere la vita e di conservare il poco potere che
avevano ancora; i giovani cupidi di imprese in guerra e in amore; e per
mezzo a tutti, preti e frati che predicavano la necessità di amarsi, di
compatirsi, di negar la propria volontà, chi voglia vivere meno male
questi fugaci giorni dell'esilio. Ramengo entrava fra loro narrando,
chiedendo, tentando; essi gli rispondevano senza sospetto, senza doppiezze;
rimembravano migliori tempi, l'udivano volentieri quando esso per
suggestione accennava la probabilità che rinascessero, ma tutto finiva
qui; ed egli, domanda, guarda, rifrusta, nessuna potè trarre alla luce
delle bramate iniquità. Fermò dunque in animo di proseguir le sue
indagini verso il cuore d'Italia, e dirizzossi al Po. Schivando
Pizzighettone e Cremona, come faceva di tutte le città lombarde, dopo
Grotta d'Adda piegò in quel terreno che scende laddove l'Adda mette foce
nel re dei fiumi; terreno allora del tutto incolto, ghiajoso e sterpigno,
in cui le acque esercitavano a baldanza i loro guasti, non frenati dalla
mano dell'uomo. Nel fendere quella lama, un improvviso temporale, come suol
avvenire sul mettersi dell'autunno, colse Ramengo in sulla sera, ove, non
che vedere alcun ricovero, nè tampoco un sentiero discerneva che lo
avviasse. Cacciato dalla pioggia battente e dalla notte che cadeva,
spronò il cavallo senza sapere verso dove, ma secondo il terreno gli
pareva abbassarsi, sperando che in riva al fiume troverebbe una casipola,
un navalestro, un pescatore. Di fatto la sua fortuna, o la disgrazia
altrui, gli fece discernere un giovane mugnajo, che a mazzate cacciavasi
innanzi l'asinello colla soma del grano, per riparare la quale erasi cavata
la giubba, buttandovela addosso al modo di sargia.
--Ehi! quel ragazzo! c'è a trovar un ricovero da queste bande?
--La venga con me. Qua a mancina sta un macchione di pioppi, indi il fiume
e il mulino di mio babbo».
Così rispose il ragazzetto, ma poichè il somarello andava più di
buona voglia che di buon passo, Ramengo n'ebbe abbastanza di
quell'indicazione, e toccò via di trotto serrato, sotto all'incessante
acquazzone, finchè alcuni lastroni di macina l'avvertirono del mulino
cui era già addosso, senza peranco vederlo. Un lampo gli mostrò sopra
un dosserello la casipola, in riva al fiume, coperta da due pioppi
piramidali e da un cespuglio di ontani, e vicina ad un barcone da mulino.
Da un finestruolo e dalle fessure degli assi mal confitti sbucavano liste
di fumo e traluceva la vampa di un fuoco allegro, sul quale una donna
veniva rosolando una frittella, come ne davan l'avviso e l'odore oleoso e
lo scroscio che confondevasi con quello della pioggia esterna.
Ramengo, scavalcato, bussò risoluto alla mal chiusa portella; un cane
alzò subito vivi latrati: la donna di dentro abbandonando il fuoco e
rompendo a mezzo un'_Ave Maria_, corse ad alzare il saliscendo, gridando:
--È lui: è Omobono: entra: tu devi essere lavato come un....
Interruppe il paragone al vedere, invece del somaro, un puledro che ansava
e fumava, e invece del figliuolo ch'ella aspettava, uno sconosciuto;
però men dispiacente che maravigliata, con rusticale cortesia
l'invitò ad entrare. Entrò di fatto Ramengo in una cucina bassa,
tuffata, fumicosa, col pavimento di terra battuta e disuguale; nel mezzo
quattro sassi fermavano il focolare, dove ardeva una fiammetta, e sebbene
fosse appena di settembre, la famiglia stava a godersela come di gennajo,
mentre recitava il rosario. La vampa che se ne diffondeva mostrava gli
utensili più necessari a preparare i cibi grossolani; la madia, una
cassapanca, un par di scannelli; poi appiccati agli arpioni, alle
rastrelliere, nasse, fiocine, bertovelli, lenze, e insieme vagli e sacchi
d'un bianco polveroso come il vestire di quegli abitatori.
Al comparire dell'ignoto, un ragazzo ed un vecchio si levarono da sedere;
Ramengo senza tampoco salutarli si fece al fuoco, dicendo:--Che tempo del
diavolo! Ho dovuto ritirarmi qua entro per non annegare.»
Il vecchio, riponendo la coroncina e racchetando il cagnuolo,
soggiungeva:--Se vossignoria si contenta di ciò che v'è, è a suo
piacere.»
Egli, accomodandosi al fuoco, donde quelli con rispettosa cordialità
s'erano ritirati,--Sopratutto (disse) vorrei riparato bene il mio cavallo.
--Oh per questo (replicò il sere di casa) vossignoria non si dia pena:
ci abbiamo uno stallino pel nostro giumento, con riverenza parlando, e dove
i bardotti stabbiano qualche volta i rozzi che tirano l'alzaia. Vi
troverà anche la compagnia di un puledro, che le so dire vale il suo.
Ehi! Dondino, va a riporlo.»
--Un altro puledro? (chiese sbadatamente Ramengo) e di chi? Vostro?
--Mi corbella, signoria? nostra una bestia di quella fatta? È d'un
cavaliere nostro amico.
--Un cavaliere vostro amico? (ripetè Ramengo con un certo sogghigno
beffardo). E come si chiama?
--Si chiama... Oh vossignoria deve conoscerlo... è tanto nominato! Si
chiama il signor Alpinolo».
E proferiva questa parola con una dignitosa compiacenza, col tono solenne
d'un medico che pronuncia il nome greco della malattia considerata,
sicchè era una squisitezza il vederlo. Ma Ramengo a quel nome rizzò
la testa, tese le orecchie, siccome il suo cavallo quando udisse schioccare
la frusta, ed esclamò:--Alpinolo? che veniva da Milano? un tòcco di
giovane ben complesso? sui diciott'anni, capelli neri, ricciuti, occhi di
fuoco?
--Ma sì, ma sì, (interruppe il buon mugnajo a quella descrizione da
passaporto). Forse che vi sono due torrazzi di Cremona o due Alpinoli a
questo mondo? Signoria, sì, quel desso in petto e in persona.
--Oh come capitò da queste bande, che non ci verrebbe uno se non
perduto? e lo dite amico vostro?» Ed ora dov'è? continuò Ramengo,
mal celando l'ansietà messagli in animo da questa notizia.
L'altro, tutto pacato, se non che un'aria del più perdonabile orgoglio
rideva sul suo volto, proseguiva:--Ebbene, ha da sapere vossignoria.... Oh,
l'è una favola a dirla. Ma prima si accomodi. Ehi, Omobono, (così
diceva a quel tale garzoncello, figliuol suo, ch'era giunto anch'esso, e
che tanto volentieri avrebbe trovato sgombro il focolare e lesta la cena),
accosta un trespolo, reca una bracciata di legna, poi va a dare un'occhiata
al mulino se tutto è bene. Vossignoria si faccia presso al fuoco, che
non abbia a pigliarsi una infreddatura. Oh, questa pioggia le ha passato la
gabbanella: la dia qui alla mia donna da sciorinare.
--Sì, sì, ma continuate quel che v'ho chiesto.
--La sappia dunque che il signor Alpinolo.... tale quale mi vede, io son
suo padre... cioè... egli deve a me la vita. Anzi sono più che suo
padre, perchè suo padre è stato... che so io?... qualche crudelaccio
che lo buttò via; che, quanto fu da lui, tentò di mandarlo a male
e...
--Non dite così» gli dava sulla voce la Nena, sua moglie; giacchè
il lettore può essersi accorto ch'erano quel Maso e quella Nena, da cui
Ottorino Visconti avea portato via Alpinolo ancor fanciullo.--Non dite
così; siete troppo facile a pensar sinistro.
--Eh!» rispondeva Maso, dimenando il capo e stringendo le labbra con un
garbo fra di bonarietà e di importanza:--Tu non hai perduto mai di vista
i pioppi di questa riva. Ma io del mondo n'ho veduto la parte mia, e ho
sempre trovato che chi pensa male pensa bene. Fatto è che Alpinolo
moriva se non ci fossi stato io.
--Ed io?» soggiungeva la donna.
--Sì; anche tu: ma la storia è lunga e vossignoria vorrà dormire,
neh?