Margherita Pusterla: Racconto storico - 08

zagaglie, corazze di lamina, di maglie, di squame, buffe, morioni, e scudi
rotondi, a cuore, a doccia, di frassino, di cuojo, di metallo, ne veniva al
giovane un sollucheramento, quale ad un avaro in contemplando mucchi di
zecchini in bisca; o più innocentemente ad un letterato, allorchè
traversa per una via dove siano libri di qua, libri di là e in fantasia
li compra, li legge, li studia, li adopera per far altri libri e
immortalarsi.
In alcune di quelle ferrarie entrava Alpinolo, e domandava quanto potesse
comprarsi un petto, quanto una cervelliera, quanto valesse un uomo arnesato
a piastra e maglia dal cimiero agli sproni: non comprava nulla, ma lasciava
intendere così in nube, che potrebbero venir a taglio e presto. I fabbri
l'ascoltavano e rispondevano:--Magari! Già noi braccianti, che cosa si
desidera? non già che ci diano i quattrini a ufo, ma che ce li facciano
guadagnare»; nè interrompevano il lavorìo per la ciarla.
Singolarmente sulla cantonata degli Spadari, per voltare dove allora era
l'unico forno del pan bianco, famoso sotto il nome di _prestiti della
Rosa_, e dove stette fino ai dì nostri un'effigie di sant'Ambrogio, cui
toccò, tempo fa, di andare prigione per aver voluto fare un miracolo che
ai Giacobini non garbava, stava casa e bottega un tale Malfiglioccio della
Cochirola, il cui padre lavorando s'era acquistato assai credito e dei
buoni denari. Il Malfiglioccio subentratogli, argomentando che, se il padre
suo avea fatto bene, anche egli dovea continuare sulle orme di esso senza
scattare d'un pelo, si guardò bene dal voler ammettere nella sua fucina
nessuno dei miglioramenti che, secondo va il tempo e la pratica, aveano gli
altri introdotto; anzi li derideva come novità, bizzarrie della moda,
che domani cascherebbero.
--Sempre s'è fatto così (diceva) e di ragione la sapevano più
lunga i padri nostri, i quali tornavano già di scuola quando codesti
guastamestieri non vi andavano ancora». Che ne avvenne? il solito
effetto. Le sue pratiche si sviarono, e mentre cresceva il da fare agli
altri, a lui non capitava più che da raccomodare qualche vecchia
armadura di qualche ambrosiano tagliato all'antica, e delle antiche usanze
tenace.
Alpinolo, vedendolo stare soletto in bottega a tirar con pace il mantice, e
con pace rivoltare un ferro nei carboni, non temendo scioperarlo,
attaccò più lungo discorso con esso, e lamentate le miserie dei
tempi, gli accennò che potrebbero anche mutarsi.
--Così fosse!» sospirava Malfiglioccio. «Vi so dire che non si
guadagna neppur l'acqua da lavare le mani. Chi ha famiglia bisogna stia a
stecchetto, e rosichi pan e pane: e la è bazza quando la festa possiamo
fare il miglio in vino. Uh, a rispetto di tempo fa! di quando la buon'anima
di mio padre era abbate della nostra maestranza! Che lavorare! che
coccagna! I fiorini fioccavano a casa nostra. Qua un palvese, là una
manopola, poi un frontale, poi schinieri: tre soprastanti e cinquanta
garzoni noi si aveva a servigio, e avessero avuto cento braccia, per tutti
v'era da lavorare accaniti notte e dì, che appena se avanzava tempo da
mangiare un boccone strozzato. Ora tutto pace, tutt'acque morte; pare non
si sentano più sangue nelle vene. Questi frati non sanno se non predicar
pace. Cosa credono, che Domeneddio ci abbia fatto le braccia per tenerle
spenzolone? Se la dura di questo piede, si può chiuder bottega e metter
baracca di ferravecchio.
--Vi piacerebbe dunque che tornassero quei tempi?» domandava Alpinolo.
--Se mi piacerebbe! Darei la metà del poco che ho per vedere ancora una
brava guerra. E ce n'ha di molti, sapete, in un Milano, ce n'ha di molti
cui pizzicano le mani. E, viva Dio, la guerra a chi non piacerebbe? Là
si vede quel che un uomo vale: si acquista onore, si acquistano stipendj;
un po' si guadagna, un po' si ruba, e tutto il mondo ne ha».
Alpinolo, straccontento d'aver anche il voto degli artigiani,--Ebbene
(soggiungeva) state di buon cuore: il rimedio non è lontano. Mettete
ordine ai ferri del vostro mestiere, che avrete a lavorare di buon polso:
ve lo prometto.
--Sì? davvero? (insisteva l'armajuolo). Bene! Il mio negozio godette
sempre credito assai, e non v'è arma colla lupa che regga al paragone
delle mie. E quanto ai prezzi, cortesia con tutti, e più con voi che
siete degli avventori».
Indi salutando Alpinolo che partiva, e ripetendogli,--Mi raccomando»,
gli faceva di berretta, poi mettevasi a sportello colle mani in mano a
disapprovare le novità, e masticarsi le speranze.
Non mi sarei arrischiato di degradare la dignità della storia con queste
trivialità, se fossero state per Alpinolo nulla più di quel che siano
per la maggior parte un mezzo di incantare la noja che strascinano da un
conoscente all'altro. Per esso al contrario erano un interrogare il
pubblico voto; erano nuovi fili di speranze, dietro ai quali più sempre
certo si rendeva che la cospirazione esistesse, che stava per sovvertirsi
da capo a fondo lo Stato.
Nei quali sogni pensate come egli mescolasse le affezioni sue private!
Abbatter quel giudice e surrogargli quell'altro: a quel podestà tutto
Visconti serbare la fine di Beno dei Gozzadini, cioè trascinarlo per la
città, poi buttarlo nel canale; Luchino, quel maledetto Luchino,
metterlo a brani, e al posto suo collocare (già ve lo immaginate)
collocare il Pusterla e quell'angelo della Margherita. Allora, giustizia in
ogni cosa; non più tributi, non più impacci; allora i buoni in alto e
i malvagi sotto; allora... Che bei tempi! che viver d'oro! quante nuove
glorie! quanta universale felicità!
Caldo, briaco di questi pensieri, e già parendogli trovarsi al fatto,
Alpinolo entrò nel Broletto Nuovo, quello che oggi chiamiamo Piazza dei
Mercanti. Credo che molti al pari di me si saranno fermati delle mezz'ore a
contemplare, in quel grandioso edifizio, la mescolanza degli stili, e a
leggere disegnata in essi la storia delle arti e delle variate dominazioni
di questa città. Siffatta mescolanza per altro non si vedeva quando
Alpinolo vi capitò.
Poichè il coraggio di spendere, e l'attività del fabbricare non son
nate da jeri nei Milanesi, avevano essi coll'animosa lautezza che dava la
libertà, comperato le case e l'area di quel centro della città, per
radunarvi i principali uffizj; e nel 1228 fecero la piazza quadrata, con
cinque porte, alle quali dai quartieri principali capitavano cinque vie
acciottolate, una dal Duomo, una da Porta Nuova, una dalla Comasina, una
dalla Vercellina; l'ultima usciva verso gli Orefici, e chiamavasi delle
Carceri, perchè colà appunto erano le carceri dette _Malastalla_, ove
si chiudevano i debitori fraudolenti e i giovani indisciplinati; ottimo
rimedio per spegnere i debiti di quelli e rimettere a questi il senno in
capo. Nel bel mezzo di quella piazza, essendo podestà quell'Oldrado de
Grassi da Tresseno, il quale, pel suo zelo nel bruciare gli Eretici si
meritò una statua a cavallo che ancora si vede colà incastrata nel
muro, si eresse nel 1233 dalle fondamenta il palazzo della Ragione, nella
cui parte superiore stava una capacissima sala pei tribunali, e nella
inferiore, fra triplice corso di sette archi, uno spazzo coperto, qual si
conveniva ai comodi del popolo in tempo che a popolo si governava la
città.
Tutt'in giro erano fabbriche, con archi, colonne e porticali, ove potere i
negozianti ripararsi dal mal tempo, e donde si aveva accesso alle varie
magistrature. Quivi, attigua al palazzo della Ragione, avea casa il
podestà, colle carceri: quivi, il palazzo di città, segnato di fuori
colla croce rossa in campo bianco, ornata di palme ed ulivi, per far
intendere che Milano era glorioso non meno in pace che in guerra; e dentro
il quale sedevano i padri della patria a deliberare il meglio, cioè
quello che i forti comandavano o che insinuavano gli scaltriti; quivi era
il collegio dei nobili giureconsulti, che portavano un vestone di porpora,
coi cappucci e i baveri foderati di vajo; quivi il collegio dei notari e
dei fisici, gente che impinguava sui morbi corporei e sui morali della
povera umanità: quivi ancora l'uffizio del Panigarola, ove i mercadanti,
colla solita sincerità, notificavano tutte le vendite e i contratti, ed
ove si conservavano ricavate nel sasso, le precise misure dello stajo,
delle tegole, dei mattoni, per risolvere le differenze, ed inoltre una
rozza pietra, la quale si faceva, come diceano, acculacciare dai mercanti
che _rompessero il banco_, cioè fallissero di pagare, se col sacco o per
mera disgrazia i giudici non guardavano poi tanto pel sottile. Quivi pure
Azone Visconti aveva, nel 1336, eretta la badia dei mercanti, con banchieri
e cambiatori là dove ora è l'uffizio dei telegrafi, e di rimpetto la
badia dei mercanti d'oro, d'argento, di seta: quivi i tribunali civili, ove
salivasi per una scala, presso cui è ancora esposta al pubblico una
lapide, la quale insegna come dal litigare nascono inimicizie, si getti
denaro, si turbi l'animo, si sciupi il corpo, si lasci l'onesto per
l'inonesto, non s'ingrassino che i procuratori; quei che sperano rimangono
con un pugno di mosche, e quando pure riescano, al tirar delle tende si
trovano avere, in spese e in mangerie legali, buttato tanto o più che
l'acquistato.
Così la lapide: ma le cronache soggiungono che pochi facessero pro
dell'avvertimento, perchè quelli che andavano colà a muover liti
aveano sugli occhi una benda postavi dall'amor proprio, sicchè da una
parte si davano a intendere d'aver ciascuno la ragione dalla sua,
dall'altra credevano che al mondo vi fosse giustizia. Noi però, meno
maliziosi delle cronache, pensiamo che al consiglio non si desse nè si
dia ascolto, perchè scritto con caratteri gotici e in latino.
Questo pezzo d'anticaglia è dei pochi scampati a quella, per non dir
altro, benedetta smania di rinnovare:[15] mercè la quale, della badia
dei mercanti più non rimane vestigio; il portico del collegio dei
dottori e dei fisici fu ridotto a più recente architettura, ed abbellito
il campanile che a mezzo di quelli era stato eretto nel 1272 da Napoleone
della Torre per dar i tocchi al mezzodì, alle due di sera, e quando
alcuno veniva condotto al supplizio: il palazzo della Ragione convertito in
archivio è chiuso e intonacato, sicchè a pena disotto a un erto
strato di calcina si discerne la forma delle antiche arcate, come un
pensiero maschio di sotto all'inviluppo d'un parlare artifizioso e
cortigiano. Anche le logge sono abbattute, ma per fortuna non potè, nel
Seicento, venir condotta a termine la fabbrica delle Scuole Palatine verso
gli Orefici, onde sussiste ancora parte della loggia degli Osj, cominciata
nel 1316 da Matteo Magno.
Questo edifizio era rivestito di lastre di marmo bianco e nero, diviso in
due porticati di cinque archi, un sovra l'altro: nei parapetti superiori si
vedono ancora scolpiti in altrettanti scudi le arme delle sei primarie
regioni della città: e ne aggetta un pulpito, sulla cui spalletta
un'aquila tiene fra gli artigli una scrofa, per segno dell'alto dominio
dell'Impero sopra questa città, che, come sanno i ragazzi, deriva il suo
nome dalla scrofa lanosa. Su quel pulpito, che il vulgo chiamava _parlera_,
comparivano il podestà o i consoli ad annunziare al popolo convocato i
bandi e le leggi ed a sentirne il parere; ora vi stanno sotto venditori di
fusi e rocche a travagliare, e guardar la sentinella tedesca, che
placidamente passeggia innanzi e indietro dei cannoni.
So bene che a coloro, ai quali piace veder le cose vecchie senza i moderni
guasti, chiamati miglioramenti, gradirebbe non poco che, anche a costo
della comodità, si fossero le fabbriche lasciate nell'antico assetto.
Benchè tali allora durassero, potete ben credere che Alpinolo neppur
d'un'occhiata le degnò, fissando invece la moltitudine ivi congregata di
gente serva, e che, al dir suo, fra pochi giorni tornerebbe libera,
magnanima, costumata:--fra pochi giorni.
Delle due piazze laterali, quella dov'è l'antico pozzo e la campana del
Comune serviva ai mercanti che trattavano di cambj e di traffici; l'altra
pel grano e il vino; era vietato, pena dieci soldi di terzoli, ingombrare
con panche e con altro le volte, come pure a male donne e ai loro mezzani
d'entrarvi, acciocchè a miglior agio vi potessero piazzeggiare i
negozianti e i gentilomini, pei quali erano anche disposte pancacce da
sedersi, e stanghe e traverse _per potergli ponere sopra,_ dice il Corio,
_falconi, astori et suoi sparvieri o altri uccelli, al piacer et
comodità di qualunque volea._
Stavano dunque colà chi cavillando un soldo, chi discorrendo di
novità, chi asolando scioperato, e lodando e confrontando i falchi di
Norvegia, d'Irlanda, di Danimarca; mentre alcuni ripetevano i miracoli,
onde in quei due ultimi anni aveva cominciato a rendersi famosa la Madonna
di San Celso, e così quelle di San Satiro, di San Simpliciano, di
Sant'Ambrogio; altri stavano intenti ad un pellegrino che, col bordone e il
sarrocchetto, montato sopra un tavolette, raccontava la meravigliosa storia
di Paolozzo da Rimini, che in Venezia viveva molte quaresime senz'altro che
bevere acqua calda, e che essendo dagli inquisitori tenuto prigione, non
fece che confermare la verità del portento: o ad un cantimbanco, che
sopra un cartellone segnava una folla di figure che chiamava uomini, e che
spiegava essere le venticinquemila persone che, il 27 marzo passato, si
erano raccolte a Corrigisior sul Cremonese, scalze e seminude,
flagellandosi a sangue e facendo limosine, dirette da una bellissima
giovane, avuta in concetto di santa; finchè scoperto che era raggirata
da un mal arnese, la fu condannata al fuoco.
Chi s'immaginasse una festa da ballo, numerosa, allegra ove ciascuno pensa
allo spasso, alla festività, allo spettacolo del momento: e in mezzo a
quella folla un uomo, il quale ha disposto una mina, cui fra un momento
vuol dare il volo e mandare in aria il festino, i sonatori, i danzanti, gli
spettatori, potrebbe aver un'idea di ciò che sentisse Alpinolo in mezzo
a quella turba. Sotto ai portici ove stanno coloro che rivendono usati i
nostri libri, dopo che se ne annojarono coloro che o li comprarono nuovi a
bottega, o gli ebbero per attestazione dell'ossequio e dell'amicizia degli
autori, passeggiava bravamente Alpinolo, misurando e pesando coll'occhio
quanti incontrava, come per dire--Tu sei con me, tu sei contro me».
Ed ecco, mal per lui, capitargli fra' piedi Menclozzo Basabelletta, quel
desso, se vi ricorda, il quale un giorno lo proverbiò su le visite che
la signora Pusterla riceveva da Luchino, e n'ebbe da Alpinolo quell'iroso
rabbuffo. Al vederlo sentì questi risuscitar in cuore tutto il dispetto
che aveva allora provato, aggiunta la vergogna che provò dappoi, quando,
in apparenza almeno, lo trovò veritiero. E gli parve che uno sguardo
maligno, un maligno sorriso del Basabelletta volessero dirgli:--Non avevo
io ragione allora?» Accostatolo dunque siccome per rispondere a lingua
al rimprovero che si credeva diretto a occhi,--Ebbene? (gli disse) con
quanto ingiusti denti avevi allora morso la signora Margherita.
--Eh! tu il devi sapere meglio di me», riprese l'altro con fredda
ironia.
Ed Alpinolo, frenando a stento la rabbia,--Guarda! vorrei cacciarti in gola
codesti insulti a furia di sergozzoni, se non sovrastasse il momento, che
tu stesso hai da veder chiaro più che per le mie parole.
--Bravo ragazzo! (ripigliava il Basabelletta) ora profitti nel viver del
mondo. Bada a me: prometti sempre sulle generali; altrimenti col venire a
precise particolarità, ti toccherebbe poi a trovarti di nuovo smentito,
e deriso dei tuoi millanti.
«--Eh no!» replicava Alpinolo, sempre più infervorandosi.--Non
sono millanti: derisioni non temo: ti so dire che questa condizione di cose
tentenna: che costoro hanno a regnarci per poco.»
E il Basabelletta:--Ci regneranno, perchè il diavolo ajuta i suoi e
perchè son troppi quelli che sanno cianciare come te, e poi all'opera
non valgono la metà di quel che mostrano a parole».
Considerate se Alpinolo sentisse pizzicarsi le dita! ma parendogli in
quelle espressioni ravvisare uno, su cui fare fondamento per l'ideata
rivoluzione, mandò giù, e stringendogli convulsivamente la mano, il
trasse verso un canto ove fosse men gente, e guardandosi intorno e
abbassato la voce,--Quel che è stato è stato (gli diceva): ma
poichè tu pensi diritto, sappi che le ciancie prenderanno corpo, che le
speranze non sono in aria questa volta: che dove il popolo tutto è
malcontento, dove il principe esecrato, basta una favilla a destare un
incendio maledetto. E la favilla, ti assicuro, v'è già chi batte la
pietra per suscitarla.
--Sai che?» ripigliava il Menclozzo.--Si vorrebbe che men pieghevoli
avessero le schiene cotesti nobili; men ligi al padrone fossero e più
amorosi alla plebe. Credilo: gli uomini sono come le nespole: per maturare
vogliono la paglia. Sulla paglia dei casolari troveresti ancora dei cuori
generosi: ma mentre il popolo s'invigorisce sulle glebe e nelle officine, i
ricchi si smaschiano in giuochi e tornei, a caccie, a balli, a far
tavolacci, e a cercar gloria nell'ostentare codardia alla Corte. I nostri
buoni vecchi era loro vanto il sostenere la plebe nella Credenza di
sant'Ambrogio, francheggiarne i diritti contro chi voleva soperchiarla...
Ma il mondo invecchia peggiorando e di quella santa razza più neppur uno
ce n'è: neppur uno.
--E tu sempre (così soggiungeva Alpinolo, sentendosi brillar dentro il
cuore a quel parlare), sempre tu pigli san Michele pel diavolo. La razza
dei buoni vive, ed io la conosco; e pensano al popolo più che tu non
credi, e se l'intendono, e frappoco... e sapranno rendere giustizia a chi
sente come te generosamente. Credimi e spera.
--Ch'io speri? Da senno me ne dà cagione il veder anche quelli che meno
dovrebbero lasciarsi pigliar per la gola. Il tuo Pusterla per uno. Che non
otterrebbe se egli stesse con noi? Invece, appena Luchino gli gettò
quell'osso dell'ambasceria, accomodò l'anima alla servitù, e fatto
dolce come un miele, se la campa a Verona senza un pensiero nè di sè,
nè della patria, nè di qualche altra cosa che gli stringe più
sulla pelle.
--Sta colà, non ci pensa eh!» saltò Alpinòlo tutto fuoco. Or
--sappi invece... ma stia in te, sappi che il mio signore non è
--altrimenti a Verona: se v'andò fu solo per intendersela con Mastino;
--ed ora è qui in Milano, in petto ed in persona: e... Insomma, ti
--basta? sei ora convinto?
--Belle fandonie!» esclamava ridendo il Menclozzo--Povero ragazzo! tu
sei buono, e ti fanno bevere grosso. Qualche servitore te l'avrà dato a
intendere: forse qualcuno avrà cantato per farti cantare...
--A chi farla bere?» interrompeva Alpinolo, rosso come bragia.--Ma per
chi m'hai tolto? Non ho io a credere a questo par d'occhi? Sappi dunque che
jer sera, in casa i Pusterla, io persona prima, ho parlato con lui, con
Zurione, con una mano di persone tutte di primo conto, e han detto quel che
basta: e già dispongono: e non s'andrà all'altro sabbato a pagar le
partite...» e seguitò via contando tra quel ch'era vero, e quel
ch'egli si era immaginato. Ma l'altro, o incredulo davvero, o per
quell'umore suo di contraddizione,--Va là, va là (replicava); c'è
chi lo terrà indietro: e quell'acqua cheta della signora Margherita...
--Chi? Margherita? che celii?» continuò l'improvvido.--Essa non vede
anzi quella sant'ora di nettar il paese da queste sozzure. Ella ci narrò
la storia di Galvagno Visconti suo antenato, il quale, al tempo del
Barbarossa, andava attorno vestito da buffone, colla cerbottana in mano,
fingendo strologare: e intanto macchinava, e conduceva maneggi per la
liberazione della patria. Ha fino soggiunto: «Allora i savj facean da
matti; oggi i matti si credono troppo savj.»
Qui è da sapere che, fosse arte o piuttosto accidente, gli archi del
portico, sotto al quale discorrevano Alpinòlo e il Menclozzo, sono
combinati in maniera da produrre il fenomeno delle così dette _sale
parlanti_; fenomeno che alcuno de' miei lettori avrà potuto osservare in
san Paolo di Londra, nella galleria di Glocester, nella cattedrale di
Girgenti, e più vicino, nel palazzo ducale di Piacenza, nella sala dei
Giganti a Mantova, e fin in una volta del parco di Monza. Consiste in
ciò, che uomo non può dire paroluzza sì cheta presso ad uno dei
quattro angoli estremi di esso portico, che non sia inteso da chi si
collochi al pilone diagonalmente opposto all'arco. I fisici ne diano la non
difficile spiegazione; la storia nostra si contenta di dire che v'era chi
ne traeva profitto. Queto come non fosse fatto suo, mentre i due
disputavano, gli ascoltava a quel modo Ramengo da Casale, di cui più di
una volta ci occorse di far menzione. Adulatore di Luchino, come abbiam
detto, però sapeva anguillare in modo da non inimicarsi i nemici di
questo; blande erano le sue parole, ambigui i fatti: mai non sarebbesi
posto colle une e cogli altri in manifesta contraddizione con veruna parte,
cercando anzi andare a versi a tutti, e riusciva ad illudere molti. Fra
quei molti che non penetravano entro la scellerata anima di Ramengo, era
Alpinolo, al quale la cieca persuasione della bontà di sua causa faceva
credere che ogni uomo dovesse parteggiare colle sue opinioni. Quindi nè
ombra di sospetto gli nacque allora quando Ramengo, come lo vide scostarsi
dal Menclozzo, se gli avvicinò, ed avendo già inteso quanto bastasse
per iscalzarne il resto,--Imprudente! (gli disse) tu parlavi or ora col
Menclozzo... gli avresti mai detto!...» e ammicava con aria
d'intelligenza.--Sei ben certo ch'egli sia dei nostri? Non t'ha dato
Franciscolo il segno per riconoscerci?
--No», rispose Alpinolo.
E l'altro continuava:--A me l'ha dato Zurione, e non credo aver buttato il
giorno invano, ma spero con maggiore prudenza di te. Tu a chi n'hai
parlato?»
Qui Alpinolo nominò parecchi di coloro cui n'avea fatto motto, e degli
altri cui volea farlo: e Ramengo, che non ne perdeva parola, gli
chiese:--Ma non ti sei tu inteso con Galeazzo e Bernabò?
--Non io: ma l'avranno fatto gli altri che c'erano jer sera.
--Eh! non so chi tra loro abbia con essi bastante entratura, o chi voglia
avventarsi a corpo perduto come te e me.
--Come? dite poco? (seguitava l'imprudente). I due Liprandi non son tutta
cosa con loro? dove trovar gente più animosa che il Besozzo e quel da
Castelletto?
--Milanesi! (esclamava l'altro scotendo il capo). Buona gente; di cuore; ma
per darsi moto, per voler risolutamente, è inutile, bisogna ricorrere a
quei di provincia.
--E per questo (seguitava il garzone) v'è il Torniello da Novara: e
stamattina l'ho già veduto parlare con...
Così rinvesciava e ciò che sapeva, e ciò che immaginavasi; ed
esponeva come fatti veri e successi quei che erano sogni di sua fantasia.
Poi, contento di aver conosciuto un nuovo apostolo, abbracciatolo con un
movimento generoso e cordiale, voltava via per cercarne altri, mentre
Ramengo si difilava al palazzo, e faceva dire al Signor Luchino d'avere a
comunicargli cosa della più grave urgenza. Luchino comandava che
entrasse.
Ma gli è tempo che diamo a conoscere ai nostri lettori questo malnato.
Ramengo era detto da Casale appunto dal luogo donde nasceva nel Monferrato,
e donde, bambino in fasce, era stato portato via nel 1209, quando quella
terra si era ribellata a Matteo Visconti per darsi a Giovanni marchese di
Monferrato ed ai Pavesi. Il padre di lui, soldato di ventura, senz'altra
ricchezza che la spada, era venuto a Milano a procacciare sua ventura al
soldo dei Visconti. Morto poi nelle battaglie, sulla stessa via lo avea
seguito Ramengo, siccome l'unica nella quale sperasse acquistar nome e
ricchezze, e contentare l'avara ambizione che lo struggeva. Nè il
sollevarsi era difficile cosa in quei tempi agitati, quando Dante si
lamentava che diventasse un Marcello ogni villano, il quale venisse
parteggiando. Che se ognuno non avesse in pronto esempj di subite fortune,
potrei ricordare Giovanni Visconte da Oleggio, povero fanciullo, raccolto
di quei di appunto dai Visconti, e messo chierichetto in Duomo, poi fatto
cimiliarca, poi podestà di Novara, poi generale di tutte le armi di
Luchino, e suo logotenente e capitano per tutto il Piemonte: ovvero la
bizzarra storia di Pietro Tremacoldo, detto il vecchio, mugnajo lodigiano,
che divenuto famiglio dei Vestarini che colà dominavano, ottenuta da
essi in custodia una porta della città, una bella notte v'introdusse
certi suoi assoldati, levò Lodi a rumore, prese i Vestarini, e chiusi in
un _vestaro_, come il vulgo chiama l'armadio, ve li fece morir di fame,
proclamando sè stesso signore di Lodi.
--Se questi e quelli, perchè non anch'io?» diceva Ramengo tra il suo
cuore, ogni qualvolta udisse tali o siffatti racconti: e poichè si
sentiva incapace di salire con arti buone, disponevasi a quelle qualunque
fossero che il potessero giovare, adulazioni, viltà, tradimenti.
I Pusterla, che avevano lauti poderi nel Monferrato, ed erano per alcun
tempo stati feudatarj di Asti, aveano tolto in protezione il padre di
Ramengo, acquistandogli credito e posto nelle milizie. Ma persone, la cui
vista rammenti il dovere di una gratitudine che non si ha, divengono
esecrate al malvagio. Ramengo, cresciuto con cuor tristo, se al mondo un
n'era, uno di quei cuori per cui è necessità l'odiare, abborriva
svisceratamente la famiglia Pusterla, perchè n'era stato beneficato; ma
avendone tratti molti vantaggi, e molti altri sperandone, dissimulava; e
fattasi una fronte inesplorabile, mostravasi coi Pusterla devoto sino alla
viltà e piaggiatore, mentre con inquieta scontentezza procurava alzarsi
sulle loro rovine.
Ruppesi intanto la guerra fra Ghibellini e Guelfi, e il papa, scomunicato
Matteo Visconti, mandò l'esercito a sostenere gli anatemi, tanto che
Matteo, atterritone, rinunziò il potere a Galeazzo suo figliuolo; e
datosi a vita devota, morì poi nella canonica di Crescenzago. Allora
Galeazzo spinse vivamente le ostilità; e fattosi confermare signore di
Milano, chiese sussidj a tutte le città vicine. E poichè i Guelfi
fautori dei Torriani, guidati da Simone Crivelli, da Francesco di
Garbagnate e dal cardinal legato, tentavano passare l'Adda per entrare su
quello di Milano, tutto al lungo di quel fiume dispose corpi
d'osservazione, e rinforzò le rôcche. A Trezzo stava quel Marco
Visconti di cui un amico mio sì bene vi espose le bravure e i patimenti:
il castello di Brivio, un forte eretto a Olginate e la rocchetta di Lecco
erano governati dal padre di Franciscolo Pusterla: il quale, volendo che
suo figlio facesse il noviziato delle armi, gli affidò quest'ultima,
ponendogli però ad ajutante Ramengo. Ciò avveniva nel 1322.
Lecco in quel tempo era poco meglio che un mucchio di rovine. Imperocchè
essendosi esso ammutinato contro i Visconti nel luglio del 1296, Giavazzo
Salimbene podestà di Milano, coi collaterali del capitano e tutti gli
stipendiati della repubblica, cavalcò a Merate, e quivi congregati molti
fanti della Martesana, mosse sopra Lecco, ne levò dugencinquanta
ostaggi, che spedì a Milano, poi ordinò che fra tre giorni tutti i
terrieri uscissero dal luogo, e a Valmadrera si collocassero colle loro
robe a cielo scoperto, e guai a chi si movesse. Infelici! dovettero
obbedire, e di là dal lago videro bruciare la patria loro, non
conservata che la rocchetta per tenerli in soggezione; poi intesero
pubblicarsi un bando, che mai più quel borgo non fosse rifabbricato.
Simili vendette erano a tutt'altro opportune che a far amare il dominio: e
in quelle parti più sempre si infervorò l'animosità contro dei
Visconti, alimentata dalla intelligenza che manteneano colà i Torriani,
oriondi della vicina Valsassina. E sebbene le replicate vittorie dei
Visconti avessero fiaccato la potenza di questi, ogni qualvolta però
riuscissero a sollevare il capo, i Torriani trovavano appoggio in questi
terrieri. Devotissimi a loro v'erano i Ticozzi, i Manzoni, gli Invernizzi e
principalmente Gualdo della Maddalena. Col volgere dei casi, la famiglia di
questo era stata disfatta, egli ucciso in battaglia; l'unico figlio
Giroldello, menato ostaggio, era riuscito a camparsi, e aveva ultimamente
preso servigio nelle truppe guelfe: nè rimaneva in Lecco che una sorella