Margherita Pusterla: Racconto storico - 05

per alcun tempo attese alle cure comuni del nuovo suo stato; risolto poi di
ordinarsi prete, sì per esercizio di pazienza, sì per acquistare una
cognizione, buona a tutti, indispensabile a un sacerdote, prese ad
esemplare la Sacra Bibbia. Oh allora, che pascolo trovò all'intelligenza
e al cuore! Oltre la rivelazione delle superne verità, quanto conforto
ne trasse a' suoi casi, quante consolazioni! quanto impulso al bene! Nei
canti dei profeti sentiva continuo l'amor di patria, ond'esso aveva caldo
il petto; la sventura v'è ogni tratto ricreata di speranze;
l'ingiustizia che signoreggia, o manifesta, o colla maschera del diritto,
trova colà un continuo appello ad altri giorni, ad altro giudice;
concordia, amore, eguaglianza, giustizia, animano da capo a fondo quel
libro, nel cui studio frà Buonvicino, accorgendosi quanto gli uomini ne
deviassero operando a fini personali anzichè al bene comune, dividendosi
in oziosi che godono e faticanti che stentano, in ribaldi che ingannano e
sopraffanno, e leali che beneficano e soffrono, non che prendere odio per
gli uni, disprezzo per gli altri, gli abbracciava tutti in generosa
benevolenza, e nell'intento di amicarli, di concordarne gli sforzi a quella
che è prima condizione di ogni sociale progresso: la moralità.
Molto durò, discosto da ogni pratica di gente; cominciò poi ad uscire
predicando, e allora gran fama si levò, non tanto della sua bravura,
come della grande sua bontà. Diffondevasi tra il popolo, massime della
campagna; giacchè pel popolo, diceva egli, pei poveri specialmente, ha
parlato Cristo, fra vulgari scelse i seguaci suoi, le primizie della
Chiesa. Ne istruiva dunque l'ignoranza sulla eguale origine degli uomini,
sulla comune destinazione; mostrava donde veniamo; dove si va; i più
semplici doveri, le più schiette virtù di padri, di figli, di sposi,
di operaj, erano perpetuo suo tema; ingenuo e fin vulgare nel dir suo,
sminuzzando il pane della parola secondo la capacità; facendosi, come
Eliseo, piccolino per ravvivare le piccole membra.
Passava quindi in concetto di santo, poichè, sebbene non fosse andato
pellegrino al Monte Gargàno, a Roma, in Terrasanta, sebbene non facesse
di quei miracoli, di cui smoderata era allora la frequenza, operava il
miracolo più insigne, quello di rendere buoni gli uomini colla voce e
coll'esempio. E poichè allora pur troppo fra quelle razze ineducate
succedevano frequenti battibugli di contumelie e peggio, tutto egli davasi
nel ricomporre la concordia, e mirabili effetti otteneva di conversioni.
Molti potrei raccontarne, se non udissi alcuno de' miei lettori domandarmi
se questa sia una leggenda di santi. Dirò dunque soltanto come una volta
(questo accadde in Varese mentre egli trovavasi colà nella Cavedra, casa
del suo Ordine) uno dei Bossi ed uno degli Azzati, primarj borghesi, erano
venuti a parole, dalle parole ai fatti, e dietro loro una turba
parteggiante minacciava un sanguinoso scompiglio.--Bisogna chiamare fra
Buonvicino», suggerì alcun prudente. Così fanno; egli accorre,
procura mitigare gl'irritati, rammentando le promesse e le minacce di
Cristo che ci vuole umili al pari di sè; ma il Bossi, che era dei due il
più tracotante e bizzarro, cieco nella collera, volse il furore contro
il frate, e bestemmiando Dio, le chieriche, le cose più riverite,
cominciò a picchiarlo.
Picchiare un religioso era tenuto tale sacrilegio, che gli astanti parte si
ritrassero come atterriti, parte si accingevano a volerne vendetta.
E frà Buonvicino, su quel primo momento, sentendo più l'impulso delle
antiche abitudini, che non la legge d'abnegazione, che erasi da sè
medesimo imposta, afferrato l'assalitore, l'ebbe sbattuto a terra, e alzava
il pugno contro di esso; ma l'ira diede luogo subitamente; rientrò in
sè; mise un sospiro, quasi dolente che l'antico uomo ad ora ad ora
ricomparisse; sollevato il temerario, se gl'inginocchiò davanti, e
incrociando le braccia sul petto, con umiltà tanto più sincera quanto
che era generosa, gli disse: «Perdonatemi! non sapevo quel che
facessi».
L'atto pio commosse il prepotente, il quale cadde egli medesimo ai piedi
dell'offeso, chiedendo a gran voce perdono, misericordia; e tornato a
coscienza, diventò esempio di quelle cristiane virtù, di cui la somma
è la carità.
Nè meno famoso venne frà Buonvicino a Milano. In quei tempi che tutto
andava per collera e fazioni nella Chiesa, nel foro, nelle scuole, nei
conventi, nel campo, i contendenti si ingegnavano di trarre il frate dalla
loro. Nel più vivo erano le questioni teologiche, se la luce apparsa sul
Taborre fosse creata od increata: se il pane che mangiavano e la tunica che
vestivano Cristo e i suoi fosse loro proprietà o di uso soltanto; se gli
angeli e i santi godessero della beatifica visione della divinità,
ovvero stessero sotto l'altare di Dio, cioè sotto la protezione e
consolazione dell'umanità di Cristo, fino al dì del giudizio. Ma qual
volta alcuno volesse metter Buonvicino sul ragionarne, e risolvere tra il
dottor Angelico, il dottor Sottile, e il dottor Singolare, esso rispondeva
che il nostro non è il Dio delle contese, che vuolsi studiare nella
religione per rendere un ossequio ragionato, non per introdurre la superbia
dell'umana sapienza nelle cose che il savio venera tacendo.
Che ne avvenne?
Sulle prime, tutte le parti egualmente il disapprovarono, e chi il
chiamò pusillanime cristiano, chi troppo cieco credente. Egli non
rispose, continuò, e, come accade sempre, tutte le parti egualmente
finirono per rispettarlo. Piuttosto avendo conosciuto i vizj della
città, penetrato nelle sale dei grandi come nelle officine del fabbro, e
sotto la trabacca del soldato, sapeva dove occorressero i rimedj: alla
libertà del paese, guasta non tanto dalla prepotenza de' dominatori,
quanto dalla corruttela dei dominati, trovava ottimo ristoro predicare il
Vangelo, scuola della libertà vera, vera opposizione e alla tirannia dei
capi e alla sfrenatezza dei soggetti; vera soluzione del più importante
problema sociale, quello di render soddisfatti coloro che non posseggono,
assicurando il riposo di quei che posseggono. Per tal modo riusciva caro ai
sofferenti che sollevava con superne consolazioni, e riverito dai potenti,
i quali, nell'uomo probo, non ligio ai superbi loro capricci, sono
costretti a venerare l'imperio della nobile virtù.
Margherita, già non crederete che egli la dimenticasse; più non si
dimentica quando si è amato così. Nè della donna sua temeva egli
lo spregio: non ne aveva egli veduto le lagrime in quel terribile momento?
La ricordava sempre come la persona più cara che avesse lasciata in un
mondo da cui si era diviso. Per lungo tempo ne schivò affatto la vista;
la prima volta che osò domandarne conto a Francesco Pusterla, che, come
altri amici, veniva tratto tratto a salutarlo, quel nome, quasi avesse
dovuto bruciargli le labbra, tornò più fiate a morirgli in gola: pur
finalmente lo pronunziò con un rossore, con un tremito convulso di tutta
la persona.
Al fine la materia restò domata dallo spirito, e quando Franciscòlo
gli parlava della sua domestica felicità, sentivasi inondato, non più
da invidia, ma da tutta pura compiacenza. Nelle orazioni sue, la persona
prima e più caldamente raccomandata, era la Margherita, senza che per
questo il pensiero disviasse dal Creatore alla creatura: anzi, una dolce
speranza il lusingava, che le espiazioni sue, le sue preghiere dovessero
acquistare alla Margherita una serie di felicità.
Non doveva essere esaudito, perchè la felicità vera non è
germoglio di queste glebe terrestri.
Allorchè si sentì sicuro di sè, tornò una volta a casa della
signora Pusterla; ripassò con altro cuore su quel ponte, sotto quegli
atrj, su per quelle scale: entrò nel memore salotto; e vi trovò la
Margherita che fanciulleggiava col suo Venturino.
Qual momento fu quello pei due amanti! Ma l'una e l'altro vi si
presentavano col vigore acquistato in lunga risoluzione virtuosa.
Frà Buonvicino ragionò di Dio, della fralezza dell'uomo; toccò del
passato come una rimembranza cara e dolorosa; chiese perdono; si staccò
dalla cintola un rosario di grani di cedro a faccette, su ciascuna delle
quali era intarsiata una stella di madreperla, e con pendente una croce,
allo stesso modo lavorata. Era paziente fatica del suo ritiro, e
consegnandola a Margherita,--Tenetela per mia memoria. Possa questa un
giorno venirvi di consolazione! e nel recitarne le orazioni, pregate Dio
per un peccatore».
Queste parole, quell'atto non furono senza lacrime dell'uno e dell'altra.
Margherita si strinse al seno e premette alle labbra quel dono, che
assumeva un carattere sacro innanzi all'intelletto, nel mentre al cuore
lasciava indovinare quante volte frà Buonvicino dovette pensare a lei
nel lungo tempo duratovi intorno.
Quel rosario, quella croce, doveano mischiarsi, deh come! nelle avventure
di quella infelice!


CAPITOLO IV.
L'ATTENTATO.

All'erta!--piglia!--segui!--lascia!
Queste voci schiamazzate dai cacciatori, ed un urlare e guaire di segugi e
di levrieri, un sonare di corni, uno sparnazzare di falchi e di sparvieri,
uno scalpiccìo di palafreni e di giumenti, il ragliare della cavalcatura
del buffone Grillincervello, traevano i Milanesi a vedere una grossa
comitiva, che, col signor Luchino, usciva a caccia dalla porta Comasina, e
che dai cittadini faceva esclamare:--Oh bello!» ed ai contadini:--Povere
le nostre campagne!»
A chi esce di quella porta verso Como, dopo corso un dieci miglia, fra
Boisio e Limbiate, si affaccia sulla mancina un vago palazzotto, a cui la
lieta situazione fece dare il nome di Mombello. Sta sul colmo di un
poggetto, ultimo ondeggiamento del terreno che, via via digradando dopo le
altissime vette delle Alpi, qui viene a perdersi nell'interminabile pianura
lombarda. Di lassù spazia lo sguardo sopra le feconde campagne del
Milanese, da cui sorgono tratto tratto casali, grosse terre, borgate, e
più in là la metropoli dell'Insubria, colla meravigliosa mole del
Duomo, monumento dell'originalità e della potenza dei tempi robusti e
credenti; dall'altra parte vagheggia un cerchio di ubertose colline, poi di
superbe montagne, che a mattina e a tramontana limitano l'orizzonte, varie
di forma, di altezza, di tinte: alcune verdeggianti e coltivate a grano e a
vigne: altre non vestite che di boscaglie; altre in fine brulle e
squallide, siccome la vecchiaja dell'uomo che male trascorse la sua
gioventù.
Quel palazzo, come ora è, fu rifabbricato dai signori Crivelli nel
secolo scorso; negli ultimi anni del quale venne in celebrità,
allorquando il giovane Buonaparte, sceso a nome della repubblica francese a
rendere serva la Lombardia col solito titolo di liberarla, colà si
piacque di porre alcun tempo il suo quartiere generale.
Ivi, attorno al giovane eroe, figlio della libertà e che credevano
intento a dispensarla, mentre non mirava che a farsene erede, accorrevano a
portare servilissimi omaggi i deputati delle improvvisate repubbliche
d'Italia, alle quali la prepotenza militare aveva diminuito il numero delle
azioni libere, cresciuto quello delle obbligatorie; concesso licenza di
pagare assai più, e di piantare sulle piazze un grande albero, intorno a
cui far gazzarre e risa e balli e canti, finchè a qualche burbanzoso
ufficiale piacesse intimare il silenzio. Di tali dimostrazioni rideva il
Buonaparte in quella villa; rideva della sincerità dei pochi, e si
giovava dell'astuzia dei più; e intanto preparavasi a mercatare Venezia,
ed a spianare a sè medesimo la via di salire a un trono, innalzatogli da
coloro che dianzi, coll'abbatterne un altro, aveano proclamato al mondo lo
sterminio dei regnanti e l'era della libertà e dell'eguaglianza,--non
però della giustizia.
Non ti spaventare, lettor benigno; non temere che noi vogliamo qui
tracciare il pendio, per cui l'Italia passò dal dominio dei Visconti
sino a quello di Napoleone: il cenno fatto di lui non è che una delle
tante e troppe digressioni del nostro racconto, alla quale ci recò la
menzione di quel palazzo. Poco prima dei tempi da noi descritti, era stato,
con isplendidezza pari alle loro dovizie, fabbricato dai signori Pusterla
per villa suburbana; abbellito di tutti gli artifizj, onde allora si
sapesse far lieta una casa campestre; giardini con ogni maniera di belle
piante e rare, bei poggi di vigne, grotte, zampilli e ruscelletti da lungi
condotti, davano amenità e frescura, mentre gli appartamenti offrivano
tutte le agiatezze, non disgiunte da esteriore apparenza di forza.
Poichè ai quattro angoli della fitta muraglia che lo girava, sorgeano
torri di pietra, capaci ad ogni occasione di tener fronte a qualche
improvviso attacco che, in tempi di tante agitazioni fra i privati e di
sì poca forza nel Governo, potea venire o dal popolo ammutinato, o da
bande di masnadieri, o da emuli baroni.
Quivi appunto erasi ridotta la signora Margherita allorquando il suo
Franciscòlo, lusingato dalla confidenza mostratagli da Luchino Visconti,
si era, mal per lui, assunta la esibita ambasceria a Mastino della Scala.
Nè le dissuasioni di frà Buonvicino, nè le carezze della donna sua
erano valse a stornarlo da incarichi, i quali, vergognosi sotto vergognoso
dominio, potevano sembrare un assenso dato all'oppressione della patria:
nè ad indurlo a vivere in decoroso ritiro, muta protesta che ognuno
può senza pericoli opporre ai cattivi reggimenti. Come egli dunque si fu
partito, essa preferì togliersi alla città, e nella quiete campestre
risparmiarsi il dispiacere di veder il trionfo dei tristi, e cercare più
frequenti le occasioni di fare il bene.
Altrimenti la intese o volle intenderla quel Ramengo da Casale, adulatore
di Luchino, che altra volta ci venne occasione di nominare. Il quale,
presentatosi al Visconti, pochi giorni dopo che Francesco Pusterla se ne fu
andato per Verona,--Signore (gli disse), madonna Margherita si o collocata
a Mombello. Certamente ella cercò la solitudine perchè ad alcuno
piacesse di consolargliela. Non vorrà la serenità vostra onorarla di
una sua visita?»
Il partito più destro che i cattivi signori traggono dai cortigiani,
è il farsi suggerire da loro il male, di cui già avevano
l'intenzione, e così scusarsi in alcun modo davanti alla propria
coscienza. Luchino, dissimulatore dei proprj sentimenti, non mostrò fare
caso di un suggerimento che tanto gli diede per lo genio: ma pochi giorni
dopo, ordinava una gran caccia clamorosa nei boschi di Limbiate.
Era la caccia passione dominante in Luchino, siccome negli altri signori,
che vi trovavano una imitazione ed un esercizio preparatorio della guerra.
Immensa quantità di selvaggina si annidava pei frequenti boschi,
moltiplicandosi protetta dall'impunità, poichè le leggi, riservando
questi animali al diletto dei principi o dei feudatarj, punivano di
gravissime pene il contadino che avesse ardito turbarli, non che ucciderli,
quand'anche li vedesse correre sopra i suoi campi e desolarli. Ma i
patimenti di questi, che importavano? non erano che vulgo: e il principe
intanto si ricreava, e attorno a lui altri signori venivano in grossa
comitiva, tutti, benchè da caccia, in abiti eleganti. Imperocchè i
nobili, scemate le occasioni di distinguersi dagli altri nelle magistrature
e fra le armi, s'erano vôlti a gareggiare di vestiti e di lusso; e
siccome uno scrittore contemporaneo dice, _cominciò la gente
ismisuratamente mutare, abiti sì di restimenta sì della persona:
cominciò a fare li pizzi delli cappucci lunghi: cominciò a portare
panni stretti alla catalana e collare, portare scarselle alle coreggie, e
in capo portare cappelletti, sopra lo cappuccio. Poi portavano barbe grandi
e folte, come bene giannetti spagnuoli volessero seguitare. Dinanzi a
questo tempo, queste cose non erano anco. Si radevano le persone la barba,
e portavano vestimenta larghe e oneste; e se alcuna persona avesse portato
barba, fora stato avuto in sospetto d'essere uomo di pessima ragione, salvo
non fosse spagnuolo, ovvero uomo di penitenza. Ora è mutata condizione,
idea, diletto. Portano cappelletto in capo per grande autorità; folta
barba a modo di eremitano; scarsella a modo di pellegrino. Vedi nuova
divisanza! E che più è, chi non portasse cappelletto in capo, barba
folta, scarsella in cinta, non è tenuto covelle, o vero poco, o vero
cosa nulla. Grande capitana, è la barba. Chi porta barba è temuto_.
Che se l'ingenuità, soverchia davvero, di questo narratore non vi
tediasse, vorrei lasciare ad esso il descrivervi i costumi di Luchino, poco
mutando delle sue parole. Facciamolo, e a chi non piace, salti al fondo.
_Luchino visse in signoria anni nove in tanta pace e giustizia, che non si
trovava un terreno che si crollasse. Con l'oro in mano gira l'uomo franco.
Fu uomo severo senza alcuna pietà. Mai non perdonava. Secondo lo
peccato, secondo la fallanza puniva. Questo messer Luchino, benchè
guardie avesse d'uomini da piede e da cavallo a modo regale, niente di meno
ebbe una speziale e nuova guardia con seco. La guardia sua erano due cani
alani grandi e_ _terribili, grossi come leoni, lanuti come pecore; gli
occhi avevano rossi e terribili. Questi due cani alani sempre lo
seguitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta, l'altro dalla parte
manca. Quando mangiava solo stavano a tavola tuttavia con esso quattro
grandi cani e della carne dava ora ad uno ora all'altro. Quando stava in
piedi, la molto baronia gli faceva intorno piazza con silenzio per temenza
dei cani: nulla si crollava, nulla parlava. Che se per ventura lo signore
un poco guardasse alcuno con malo sguardo, subito li cani li erano sopra in
canna, e davanlo per terra. Anche questo messere Luchino fu uomo molto
giusto, nè per oro nè per argento lasciava di fare giustizia,
sicchè sua terra era franca. Molto amava lo popolo minuto_.
Quale amor di popolo e di giustizia fosse quel di Luchino, di Luchino che
solo nei cani si fidava, il dica chi (come il Maj nei palimsesti) sa
leggere altre parole sotto alle apparenti. È vero ch'egli favoriva _lo
popolo minuto_, ma per deprimere i grandi, non già per sentimento del
bene: son però queste le vie della Provvidenza, che fa dai despoti
stabilire l'eguaglianza in faccia ad un padrone, finchè vengano tempi
che avverino l'eguaglianza in faccia alla legge.
Se l'annunzio del venire di Luchino conturbasse la Margherita, non occorre
che io ve lo dica. Acconcia colla leggiadria che ai campi si conviene,
atteggiata d'ogni grazia ma pur maestosa, ella accolse la brigata
allorchè si dirizzò per riposarsi al suo palazzo: nella sala e nei
tinelli avea fatto disporre lauti e delicati rinfreschi pei signori e per
la famiglia; goduti i quali fra l'allegria ed i festosi motteggi, e fra le
sguajate smancerie di Grillincervello, cui la dama opponeva un dignitoso
silenzio, Luchino chiese di ammirare a parte a parte la bella posta e la
ben intesa eleganza del luogo. La signora il compiacque, e dal poggio
spaziandosi giù per la pendice, tutto mostrava a Luchino, mentre i suoi
seguaci animavano quel quadro, spargendosi in gruppi ad ammirare quel cielo
così salutevole alla vita, e le ridenti circostanze, ove in quella
stagione ogni cosa appariva nel colmo della bellezza e della bontà.
Ma la dama traevasi continuamente a mano il suo Venturino; una grave
damigella non le si dipartì mai da fianco; e dietro, alcuni famigli in
aspetto di far onore all'ospite, il quale trovò appena agio di poter
dirle alcune galanterie, che essa mostrò accettare come nulla meglio che
gentilezze universali e insignificanti. In sul partire adunque, Luchino,
dopo aver levato a cielo la situazione gli adornamenti,--Ma per una
solitudine (susurrò a Margherita) sarebbe bene che voi foste più
sola».
Sperò il temerario averle fatto intendere l'animo suo; lo sperò tanto
più, in quanto cortesissime gli erano parse le accoglienze della bella
cugina; e la virtù conosciuta in questa, non che rimoverlo dai turpi
suoi divisamenti, più ve lo infervorava, per quel mendo umano
d'impuntarsi maggiormente ove più difficoltà si affaccia. Nè
mancavano d'aggiungere legna al fuoco Ramengo e gli altri cortigiani,
esaltando i meriti della bella e gli atti cortesi onde aveva accolto e
onorato il principe parente. Unico il buffone osava lanciare motti al
signor suo, di caccia fallita, di non so che altre baje, le quali, mentre
moveano a riso Luchino, più ne istigavano l'amor proprio a voler ridurre
ad effetto il suo capriccio.
Quella prima gita non era stata se non come la correria che si fa sotto una
piazza nemica, tanto per riconoscere il luogo e le opportunità
dell'accampamento e degli assalti. Non passarono molti giorni, e Luchino,
con poco seguito di fidati, ricomparve baldanzoso a Mombello. Ricomparve
sgradito ma non inaspettato: chè troppo la donna erasi avveduta come e
le lusinghe della parentela, e l'autorità del grado, e il bagliore delle
ricchezze dirigesse egli ad un iniquo fine. Era dunque cresciuto il
pericolo, non per la virtù di Margherita, ma per la pace sua, la quale
rimase turbata dal contrasto durato in frenare e respingere le proposizioni
dell'audace, dall'incertezza del fin dove egli spingerebbe altre volte le
sue persecuzioni.
Mentre Luchino tornava quel giorno verso Milano, computando dentro di sè
i progressi che potesse aver fatti verso il fine delle sue voglie, e
coll'allegria propria e col fragore della brigata cercando di lasciar
indovinare un trionfo che sperava, che voleva agevolare col darlo già
per ottenuto, Grillincervello gli disse:--Guarda, guarda, padrone! Colui
là certo è un tuo debitore»; ed accennava un giovane che a cavallo
veniva via a rotta per la strada, e che, come s'avvide del corteggio del
principe, la diede attraverso i campi per iscansarlo.
Egli era quell'Alpinòlo che, se vi ricorda, abbiamo incontrato nel primo
capitolo, a fianco del Pusterla, e del quale, poichè avrà molta parte
nel nostro racconto, conviene che diciamo. Passava per un di quei tanti
senza genitori, cresciuti come una pianta in mezzo al deserto.
Ottorino Visconti, fratello della nostra Margherita (quel desso sulle cui
avventure vi ha fatto piangere un amico mio) avea nel 1329 dall'imperatore
Ludovico il Bavaro ottenuto in feudo Castelletto sul Ticino e le
giurisdizioni del Novarese, dominj restati poi nei Visconti d'Aragona,
discendenti da quella famiglia. Per gratitudine egli andò ad
accompagnare quel sovrano a Pisa; e reduce di là, varcato il Po non
lontano da Cremona, gli accadde di fermarsi ad un casolare sulla riva, in
cui stava una famigliuola di mugnaj, che nei barconi guidavano i mobili
loro mulini a cercare la più opportuna corrente, e che, quando ne
capitassero, tragittavano i passeggieri. Quivi desiderando un tratto
riposarsi, Ottorino chiese che alcuno dei fanciulli gli tenesse il cavallo,
mentre sbrucava un poco di erba sul pratello quivi innanzi.--Io no.--Neppur
io» rispondevano dispettosetti, e scappavano volgendosi ad ora ad ora a
guatar il cavaliero e la bestia con una meraviglia sospettosa. Ma uno di
essi, che al corpo pareva di più età, ma in fatto contava appena
sette anni, si fece innanzi baldanzoso, e--Che paure? a me». E preso
alla briglia il palafreno, lo osservava, lo palpeggiava, godeva di
porgergli l'erba di propria mano, di sentirsene il fiato sopra il volto,
facendosi bello di poter dominare un sì grosso e generoso animale; poi,
con un sospiro, qual non sarebbesi atteso dalla verde età e dal contegno
ingenuo e risoluto di lui, esclamò:
--Oh ne avessi uno io!»
Ottorino, che compiacevasi al vedere quella vispa franchezza,--Che ne
faresti tu?» gli chiese.
--Eh! so ben io che ne farei, io. Correrei per mari e per terre a cercar di
mio padre».
--Ma il padre tuo non l'hai tu qui?» replicò Ottorino.
--Oh! signor no!» rispose crollando il capo con mesta tenerezza il
garzoncello. «M'hanno trovato su queste rive; m'hanno portato in quella
casa; m'hanno tirato su... Ma... non aver i suoi! non poter mai dire come
tutti gli altri, caro babbo!»
--E tua madre?»
Si rimbambolarono gli occhi al fanciullo, e mentre col dosso d'una mano li
tergeva, tendendo il dito dell'altra proferì:--Eccola là»; e
mostrava una croce sur un rialto, alla quale era appesa una fresca
ghirlanda di margaritine e garofanetti.
Ne prese pietà Ottorino, e--Verresti tu meco?»
--Se stesse a me! Ma recherei dispiacere a questa povera gente... mi
vogliono tanto bene!... Ma non ci ho mio padre!»
Quei mugnaj avevano di fatto messo un grande amore nel ragazzo: quando
però il Visconti chiese glielo lasciassero condur via, l'uomo
rispose:--Oh signoria, la è troppo buona. Se lo porti pure. Tutta
bontà di Vossignoria».
Ma la Nena, moglie di lui, forse che avesse in astratto sentito parlare dei
guaj del mondo e delle bisbeticherie dei signori, cagliava, e al garzone
diceva:--Non badargli! rimani qui. Pane non te ne verrà meno se vorrai
lavorare: e sarai quieto e dabbene e timorato di Dio».
Maso invece (così chiamavasi il mugnajo), uomo che aveva girato il
mondo, cioè era andato a prendere grano e riportar farina sino a Cremona
e a Casalmaggiore, e che davasi a intendere d'aver conosciuto gli uomini
perchè aveva conosciuto molti gastaldi e molti granaj, le dava sulla
voce, e--Come? vorresti tu rubargli questa fortuna? Non vedi? egli è un
diavoletto. Gran salute, gran coraggio, grande appetito; ha tutte le
condizioni per diventare un grand'omo. Lascia pure che sua signoria se lo
conduca, e vedrai, farà passata. Già non è nato mugnajo, nè il
deve diventare».
Le ragioni del marito, come succede, prevalsero: la Nena, sul congedarlo,
mentre rassettava indosso quel po' di cenci al fanciulletto che balzava
tant'alto dalla contentezza, gli diceva:--Guardati dai pericoli, fuggi le
cattive compagnie, le donne e le bettole», come dicono tutte le madri
nel licenziar i figliuoli, Maso gli soggiungeva:--Rispetta sua signoria e
fa fortuna»: e Ottorino si menò seco il ragazzetto.
Quest'era appunto il nostro Alpinòlo, e Ottorino destinava farsene uno
scudiero; e intanto che venissero gli anni, lasciarlo per paggio a Bice sua
moglie. Ma ohimè! tornando in patria scoperse che Bice l'avea tradito,
ed erasi fuggita a viver male nel castello di Rosate con Marco Visconti suo
cugino; il quale poi, sazio o insospettito, un giorno la trabalzò dalla
finestra nella fossa, salvo a piangerla dirottamente dopo morta.
Ottorino ne patì come uomo di sentir generoso che vedesi ingannato da
persona carissima; andò cercando distrazione fra le imprese e nei
viaggi, ed il cordoglio lo trasse a morte sul meglio del vivere: e nel 1336
fu sepolto in Sant'Eustorgio di Milano, presso suo padre Uberto.
Lasciò egli raccomandato Alpinòlo specialmente alla Margherita,
consolatrice sua in quel crepacuore; onde il garzone attaccassimo a lei,
con essa passò nella casa Pusterla, ove serviva a Franciscòlo in
uffizio di scudiere. Animo esuberante di affetto, non trovandosi al mondo
persona su cui per naturale legame potesse rivolgerlo, tutto l'aveva
diretto, dirò meglio, avventato sulla famiglia in cui era aggrandito: e
ne amava le persone e gli interessi coll'impeto di una passione, qual
poteva essere in un giovane che, non disciplinato da consigli di superiori,
conservava in tutto il vergine loro vigore la foga, l'irriflessione,
quell'estremo bisogno di sensazioni e di felicità, che sono pregio e
difetto della giovinezza. Un desiderio, anzi una vera mania di libertà
avevano ispirato in esso i bollenti discorsi del suo giovane signore, e le
compagnie che in Milano frequentava di giovani acuti alle novità, e di
veterani memori delle franchigie antiche e dispettosi della presente
servitù. Si sarebbe detto che, al modo onde gli uomini sollevati da
bassa fortuna s'ingegnano di farla dimenticare, così egli volesse far
dimenticare altrui, dimenticare egli stesso di non avere nè parenti
nè patria di nascita, coll'amare oltre misura quelli di adozione. Alla
sua balda imperturbabile volontà non era sacrifizio che paresse grave
per servire la repubblica milanese o i figli di Uberto Visconti e il
Pusterla: mettere per essi la vita gli saria parso ben poca cosa.
Tali caratteri che, qualora si fissino sopra un'idea o sopra una persona,