Margherita Pusterla: Racconto storico - 02

Trascorso quel palazzo, la cavalcata tirò innanzi per la via de'
_Banderaj_, detta poi de' _Pennacchiari_, indi per quella che fu poi
nominata dei _Mercanti d'Oro_ per le botteghe dei tessuti d'oro e seta,
introdotti appunto dominando Luchino[5]. Le vie erano state, fin dal 1272,
solate a mattoni per taglio o acciottolate: poi il signor Azone aveva fatto
scavare cloache per tenerle monde, e ordinato che restassero sgombre da
sozzure e impedimenti: ma altro è ordinare, altro è essere obbedito.
Ove le fitte case lasciassero un poco di largo, il sole versava la limpida
sua luce: ma generalmente basse tettoje ed acuminate, sporgendo in brutta
guisa, se salvavano dalla pioggia il pedone e gl'indifesi balconi,
impedivano però il circolare dell'aria e davano sgradevole vista.
Dalle anguste o distorte vie mal argomentereste la miseria della città;
che quanto anzi fosse ricca e popolosa ce ne dà indizio una statistica
di quei giorni. Contava essa (per dirne alcun che) tredicimila porte con
seimila pozzi, uno più uno meno: quattrocento forni di pane, s'intende
di mescolanza, che pel bianco n'aveva uno solo alla Rosa; mille taverne,
oltre cencinquanta locande: tremila macine da molino, servite da seimila
bestie da soma: a duecentomila salivano gli abitanti, di cui un quinto atti
alle armi, ducento causidici, altrettanti medici, mille notaj, settanta
maestri d'elementi, quindici di grammatica e logica, cinquanta copisti di
libri, i Remondini ed i Bodoni di allora; oltre ottanta fabbri-ferraj e
maniscalchi, quattrocento beccai, trecentottantacinque pescivendoli, trenta
fabbricatori di sonagli, cento d'armadure, e innumerabili lavoratori,
negozianti e ritagliatori di panni e di sete, per cui comodità si
tenevano quattro fiere all'anno e mercati quotidiani.
Non accompagnerò in altre minuzie lo statistico, il quale sa fin dirvi
che si consumavano in città ogni anno cinquantamila carra di legna, il
quadruplo di fieno, seimilacinquecento staja di sale: ogni settimana si
ammazzavano da settanta a ottanta bovi ingrassati; e al tempo delle
ciliegie ne entravano sessanta carra al giorno; che nella sola città si
numeravano seimila novecento quarantotto cani; fra la città e la
campagna cento astori nobili e il doppio falconi, oltre sparvieri senza
numero.
Io che, per prova, non mi fido alle cifre esibite dalle statistiche
odierne, molto meno voglio spacciarvi per di fede queste d'allora:
bastandomi vi diano in di grosso un'idea del quanto allora si vivesse
diverso dal presente.
Ancor più diversi erano gli uomini che popolavano la Lombardia e tutta
Italia. Prima di ogni altra nazione si erano alzati dall'invilimento, cui
gli avevano ridotti le orde settentrionali: il commercio, le navigazioni,
le ricordanze e i resti degli antichi municipj, la necessità della
difesa, le lettere, la religione gli avevano ajutati a costituirsi in
altrettante repubbliche quante erano le città.
La lotta degli imperatori tedeschi non fece che consolidare la civile e la
politica libertà, fra cui si svilupparono le forze tutte del corpo, del
cuore, dell'intelletto. Soldati valorosissimi, i più arditi marinaj, i
più lauti negozianti, essi ridestarono la pittura, l'architettura, la
poesia:--visitate l'Italia, e ad ogni città chiedete quando si cinse di
mura, quando frenò o guidò quei fiumi, quando fabbricò quei porti,
quelle ampie dogane, quei palazzi del Comune, quelle cattedrali, e tutte vi
risponderanno che fu nei tre secoli de' governi popolari, quando
nell'integrità di sue forze, usciva dal feudalismo, e ricuperava il
sentimento della propria esistenza. Prosperità originata dagli sforzi
individuali di persone, che ciascuna credevasi qualche cosa da sè; onde
l'impulso indipendente dei singoli produceva l'avanzamento di tutti. Caduti
quei governi in mano de' tirannelli, ben s'ingegnarono questi di soffocare
quel vivo sentimento dell'individualità, ma il riuscirvi era serbato a
tempi di pacata oppressione, in cui il popolo non fosse più valutato se
non per la quota che contribuisce all'esattore.
Ma per allora, quelle cento repubblichette erano altrettanti centri di
attività, di cognizioni, d'emulazione artistica e mercantile; sicchè,
per tacere l'incontrastata primizia del sapere e dello arti belle, Italia
da sola era più ricca di denaro che tutta la restante Europa: Romeo de'
Pepoli bolognese aveva col commercio acquistata una rendita di cenventimila
fiorini cioè un milione e mezzo di franchi: Mastino della Scala dalle
città sue traeva settecentomila fiorini, quanti appena ne ricavava dalle
sue il più ricco re, quello di Francia; fra i Bardi e i Peruzzi di
Firenze prestarono alla Corona d'Inghilterra sedici milioni e mezzo di
franchi; e sì che allora il denaro era cinque o sei volte più raro
d'adesso.
Dovrò io al lettore italiano domandare perdono se, qui sulle prime, svio
dal soggetto per rammentare con compiacenza gli antichi vanti della patria
nostra? Pur troppo nel seguito del nostro racconto ci accadranno tutt'altro
che piacevoli argomenti di digressione.
I Visconti a Milano, come gli altri signorotti, davano favore al commercio
e all'industria; ma procuravano stornare il popolo dalle armi, conoscendo
quale salvaguardia siano dei diritti in mano del popolo; e Luchino, col
pretesto di alleviarli d'un peso, aveva dispensati i cittadini dalla
milizia; sicchè godevano un riposo da gran tempo ignorato, senza
accorgersi come ne patissero i diritti civili, sino ai quali la
considerazione del popolo di rado s'innalza, o non mai.
Fra la plebe e il principe stavano i nobili, cioè i possessori delle
terre; non genìa baldanzosa e prepotente, come nei paesi ove la
feudalità conservava quell'antico rigoglio, che qui le era stato
fiaccato dalle repubbliche. Anzi i nobili, da una parte facevansi amare
dalla plebe proteggendola, spendendo, sfoggiando: dall'altra non recavano
ombra al principe, perchè non vantavano annosi diritti, nè si
stringevano in robusta federazione, nè andavano cinti di vassalli ligi
ed armati così, da limitare il loro potere.
In tal modo viveano a fronte uno dell'altro il Comune, l'aristocrazia ed il
tiranno, il quale, se era scaltro e di polso, profittando della
superiorità che dona un potere costituito, far poteva liberamente ogni
suo volere. In fatto, nella cavalcata che allora entrava in Milano, la
plebe guardava e applaudiva; i nobili o piaggiavano o temevano; il
principe, dando pane e feste a quella, mutando questi da feudatarj in
cortigiani, facea suo pro dell'una e degli altri.
Da quelle callaje sbucò il corteggio sulla piazza, ove, mezzo secolo
dopo, fu cominciato questo Duomo, e che poco prima Azone avea fatto
sbrattare dalle botteghe e dalle baracche ond'era tutta ingombra. Accanto
al tempio di Santa Maria Maggiore (rifatto ai tempi della Lega Lombarda coi
giojelli offerti dal patriottismo delle brave Milanesi) aveva egli
fabbricato un superbo campanile, su cui campeggiavano le insegne dei
Visconti, del papa, dell'impero, di Milano e di ciascuna delle porte, ma
sì poco solido, che non guari dopo crollò, mentre ancora sussiste
l'altro assai bello, da lui parimenti eretto a canto a San Giovanni delle
Fonti, battistero dei maschi, che ora chiamiamo San Gottardo, come
chiamiamo _delle Ore_ la via che lo rasenta, perchè su quella torre
appunto venne collocato il primo orologio di Milano e il secondo di tutta
Italia.
Dove sorge il palazzo reale, stava allora quello dei dodici Savj della
Provvisione, e avanti ad esso tenevasi mercato di vestiti ogni settimana.
Lo spazio quasi occupato ora dal Duomo denominavasi _Piazza dell'Arrengo_,
perchè vi si radunavano i cittadini finchè si governarono a popolo,
per fare e per udire le arringhe intorno ai pubblici interessi. Colà il
sincero amor patrio de' pochi e l'ambizioso egoismo dei più lottarono
lungamente, agitando tra varie fazioni il paese, finchè, sazj di quel
tempestare, risolsero commettere il supremo comando ai Torriani, indi ai
Visconti. Dei quali primo Ottone arcivescovo fu eletto signore, indi Matteo
Magno, poi il costui figliuolo Galeazzo, da cui nacque l'Azone che più
volte ci occorse di nominare in questa rassegna, che pur troppo sentiamo
quanto a ragione i lettori potranno paragonare al passar delle immagini di
una lanterna magica sulla parete, senza profondità e senza lasciare
traccia.
Esso Azone, inteso a mascherare la servitù, aveva, oltre assai fabbriche
cittadine, abbellito a meraviglia il palazzo, in cui, come in sua reggia,
ora entrava Luchino. Una torre s'innalzava a molti piani, con camere, sale,
corridoj, bagni ed orti: al piede innumerevoli stanze con doppie imposte e
portiere e ori, che era una ricchezza a vedere; in un camerone, chiuso da
una rete di fili di ferro, svolazzavano d'ogni razza uccelli; nè vi
mancava un serraglio di orsi, babbuini, altre fiere, tra cui uno struzzo e
un leone, lusso che parrà stravagante solo a chi non abbia pratica coi
costumi di quel tempo. Ma non conviene tacere le pitture onde ogni cosa era
adornata: un laghetto, in cui quattro leoni versavano acqua continuamente,
e che figurava il porto di Cartagine, colle navi e tutto disposto per la
guerra punica: in fine la chiesa, ricca di arredi pel valore di ventimila
fiorini d'oro e di reliquie miracolose.
Fra questo lusso entrato il corteo principesco, un bellissimo giovane,
d'occhi vivaci, lunga barba e capellatura cascante e anella sovra le
spalle, splendido nel vestire quanto dir si potesse, e con gran piume
ondeggianti tutt'in giro al capo, fu lesto a scavalcare, e dar braccio alla
signora Isabella per ismontare dal palafreno. Era Galeazzo Visconte, il
quale, susurrandole galantemente all'orecchio, l'accompagnò su per lo
scalone con dietro tutta la comitiva.
E giunti alla gran sala, detta della Vanagloria, tanto splendida che altro
non gridano le storie, mentre il buffone faceva inchini ad Ettore, ad
Ercole, ad Azone, agli altri eroi in essa effigiati, la folla raccoglievasi
in crocchi e capannelli per legare quella conversazione piena di parole e
vuota di pensieri e di sentimenti, che formava e forma l'allettamento delle
brigate; chiedevano e davano le notizie del paese, discorrevano della Corte
dei Gonzaga, chi lodandola, chi tassandola: della maestria e de' bei colpi
dei nostri giostratori, ai quali, per quanto avessero fresca la memoria de
la libertà, pure dava superbia un sorriso, un'approvazione del principe.
A lui facevano particolarmente omaggio i messi delle varie Corti de'
tirannelli di Lombardia; e quello di Mantova singolarmente esaltava la
cortesia e la bravura di Bruzio e di Franciscòlo Pusterla.
Il lodare quest'ultimo sarà parso una sinistraggine ai cortigiani
consumati, che sapevano come poco egli andasse a sangue a Luchino; ma qual
dovette essere la loro meraviglia, allorchè, su questo discorso,
Luchino, avviatosi verso il Pusterla, più cortese che con loro non
solesse, gli dirizzò la parola, ripetè le lodi dategli or ora dal
Mantovano, e le molte che già soleva dargli Azone; e insinuatosi col
genere di encomj che più lusinga, quelli che sono riferiti d'altrui
bocca, entrò a ragionare con esso come con persona di cui facesse gran
caso. E poichè n'ebbe con fina arte palpeggiate le passioni, in tono di
confidenza gli soggiunse:--Franciscòlo, l'amicizia che in condizione
privata ci legava, non l'ho dimenticata, siatene certo, nè aspettavo che
l'occasione di farvene chiaro. Ora Mastino Scaligero, vedendo non potermi
sopportare nemico, implora l'amicizia nostra. Una pratica sì delicata
non conoscerei a chi meglio affidarla che a voi, saputo al pari nelle cose
della pace e della guerra, ben voluto da quel potente, e capace di
sostenere il decoro milanese in faccia ai forestieri. Innanzi che il mese
finisca, vorrete dunque recarvi ad esso a Verona con nostre credenziali,
che abbiamo ordinato di spacciarvi».
L'animo del Pusterla, esacerbato contro di Luchino non tanto per la
servitù cui aveva ridotto la patria, quanto per la trascuranza che di
lui mostrava, e per trovarsi ridotto ad una nullità di rappresentanze e
d'azione, che a lui pareva, non che indecorosa, infame, in un baleno si
mutò a questo primo segno di favore, al vedersi oggetto di invidia fra'
cortigiani, cui forse testè era di sprezzo; ebbe dimenticato gli antichi
oltraggi, dimenticato i propositi di solitudine e di ritiro, dimenticato il
geloso sospetto che gli avevano desto i procaci sguardi di Luchino sopra la
moglie sua; nè tampoco gli nacque dubbio che questo incarico fosse
un'astuzia per rimoverlo e disonorarlo; e ringraziò il principe,
accettando con riconoscenza. Tanto accieca l'ambizione!
E più lieto e baldanzoso tornò al suo palazzo, dove gli amici si
erano raccolti per festeggiarlo. Alla Margherita, che gli correva incontro
col figlioletto, appena rese l'abbraccio, ed esclamando,--Buone nuove»,
le raccontò la missione. Se ne congratulavano alcuni; ma
quell'Alpinòlo che conosciamo, scosse il capo, esclamando:--Dalla vipera
può venir altro che veleno?» La Margherita poi impallidì e
mostrando con un gesto eloquentissimo il loro Venturino,
--Oggi appena (diceva al marito) tu ritorni, e già vuoi abbandonarci?
V'è luogo migliore nella propria casa, compagnia più dolce che quella
dei suoi domestici, missione più onorevole che quella di beare chi ci
vuol bene?»
Francesco le stringeva la mano amorevolmente, levavasi in collo il bambino,
e si mostrava intenerito: ma quello spontaneo moto di natura rimaneva ben
tosto compresso dal desiderio di figurare, dall'abito di cercare la
felicità fuori di sè. Anche il frate, allorchè l'amico gliene
portò la notizia nel convento di Brera, con ogni modo si adoprò per
distoglierlo da quell'andata. La cella solinga e meditativa dov'esso
abitava, pareva accordarsi alle ragioni ch'egli addusse onde persuadere
Franciscòlo a togliersi giù dalle pubbliche brighe quando non poteano
essere che scompagnate dal decoro e dal sentimento di un nobile dovere.
Anzi, dopo che frà Buonvicino vide l'amico sordo a tutti gli altri
argomenti, quasi per ricordargli le osservazioni di jeri, e per tentar
quello che a lui pareva il più robusto, gli chiese:--E Margherita?»
Pensò un tratto il Pusterla, poi rialzando il capo come un ostinato che
pur voglia mostrare d'aver ragione, rispose:--La Margherita è un
angelo.»
Il frate lo sentiva, e sentiva in conseguenza quanto disdicesse
l'abbandonarla: pure non osò insistere su quel punto per non mettere a
repentaglio la domestica tranquillità di Franciscòlo.
Ma chi era il frate, e perchè tanta parte prendeva alla sorte di questa
famiglia?


CAPITOLO II.
L'AMORE.

Buonvicino dei Landi, famiglia principalissima di Piacenza, da giovinetto
era stato posto in Bologna agli studj, cui con fervore si dirizzava la
gioventù della risorta Italia, trovando in essi un'altra via per salire
colà, ove dapprima si giungeva solo colle armi e colla prodezza della
persona. Tali studj si riduceano, è vero, a pedantesche regole di
grammatica e di retorica, alla filosofia dei commentatori d'Aristotele, e
alla cognizione delle Decretali; ma l'amor delle belle lettere e la ricerca
dei classici latini ravvivata poteano, qualora trovassero terreno da
ciò, far negli animi germogliare affetti e sensi generosi. Così
accadde di Buonvicino, il quale appunto, su quei primi anni, pascendosi nei
detti e nei fatti gloriosi degli antichi, sollevava l'animo sopra le minute
gare del suo tempo. E sebbene ne traesse idee, lontane affatto dalla nuova
civiltà, di quelle idee che pur troppo nocquero al felice ordinamento
delle repubbliche italiane, però quel nome di patria, perpetuo tema
degli scrittori romani, aveva infervorato la fantasia del garzone, il quale
non ambiva se non di crescere cogli anni, per potere o nelle magistrature
servir il suo paese, o difenderlo in campo.
Infelice! Gli anni vennero, ma con essi la sventura e i desolati
disinganni, che così spesso tormentano le anime generose.
Piacenza sua patria era caduta in podestà di Matteo Visconti, poi di
Galeazzo. Questo qua, meno astuto e più corrotto del padre, credeasi
lecito ogni suo talento nelle città dominate; e per tacere altre
soperchierie onde aggravò la servitù dei Piacentini, tentò
disonorare Bianchina, moglie di Opizino Lando detto Versuzio, fratello del
nostro Buonvicino. Mal per lui: giacchè nella donna trovò virtù,
trovò vendetta nel marito: il quale, fatta un'intelligenza con alcuni
fidati, abolì nella sua città il dominio dei Visconti, e la
consegnò al cardinal Poggetto, legato del papa.
Buonvicino, su quell'età in cui si vagheggiano i sentimenti più che
non si calcolino le circostanze, pieno delle idee del patriottismo antico,
modificato dalle nuove che faceano guardare come straniero l'abitatore
d'ogni altra città, e servitù l'essere signoreggiati dal vicino,
appena ebbe fumo di quella pratica, accorse con buon numero di suoi
condiscepoli, ed arrivò a Piacenza in tempo, come di giovar col valore,
così di mostrare generosità. Perocchè, il giorno che scoppiò la
rivolta, trovavasi in quella città Beatrice moglie del signor Galeazzo,
col figlioletto Azone, alla salvezza del quale unicamente intesa, la madre
lo fece trafugare, rimanendo essa in palazzo per non dar sentore della
fuga, ed affrontando lo sdegno e la brutalità d'un popolo sollevato,
purchè ne andasse salvo il bambino. Come la cosa fu nota a Buonvicino,
rispettando e venerando gli affetti di una madre, non che impedire le fosse
fatta violenza di sorta, egli medesimo la scortò sino ai limiti del
distretto piacentino, quivi consegnandola sicura alle guardie del marito.
Accadea questo fatto nel 1322, e da quell'ora si rimetteva in Piacenza il
governo a popolo, giacchè il dominio papale potevasi riguardare come una
libertà, sì perchè i pontefici, sedendo allora in Avignone, non
esercitavano da così lontano che una autorità di protezione, sì
perchè erano stati fautori del franco stato, se non altro per isvigorire
i Ghibellini, tendenti a scemare le franchigie lombarde a pro dell'Impero.
Negli otto anni successivi, Buonvicino maturò fra le generose cure d'una
libera patria, coll'altezza di sentimenti che ispira il togliersi alla vita
privata per vivere la pubblica, il curare meno le domestiche cose che le
comuni; educazione che tanto contribuì a migliorare l'Italia durante le
sue repubbliche.
Andava in quel mezzo ognora più in basso la fortuna dei Visconti,
guerreggiati da Lodovico il Bavaro imperatore, il quale era sostenuto dai
molti nemici che si erano procacciati, e da Versuzio Lando che non mai
desistette dal combattere contro di essi; tanto che Galeazzo, Luchino,
Giovanni e Azone finirono coll'essere chiusi nelle orribili prigioni di
Monza, dette i Forni, ove stentarono dal 5 luglio del 1327 fino al 25 marzo
del seguente.
Ma quando Galeazzo morì, e con lui cessò il mal animo eccitato nei
popoli e nei principi, piegarono a meglio le cose dei Visconti: Azone,
miglior del padre, gridato signore di Milano il 14 marzo 1330, pensò a
ricuperare le città che aveva perdute, come di fatto riuscì con
Bergamo, Vercelli, Vigevano, Pavia, Cremona, Brescia, Lodi, Crema, Como,
Borgo San Donnino, Treviglio e Pizzighettone. Anche sovra Piacenza fissava
cupidi gli occhi, ma il conseguirla non era così agevole impresa;
poichè, tenendo essa la sua libertà a nome del papa, non avrebbe
potuto il Visconti insidiarla senza venire in rotta con questo. Cominciò
dunque la sorda guerra de' politici tranelli, fece un capo grosso per non
so che violazioni e rappresaglie dei Piacentini contra i sudditi suoi:
minacciò, fu duopo mandare dei messi e degli ostaggi a Milano, fra i
quali Buonvicino. Morto era il fratello Versuzio; morti i più vicini
parenti; morti i più cari amici nelle guerre passate; aveva potuto
vedere come all'atto gli affari riescano diversissimi da ciò che
l'immaginazione figurava; vie più gli si disabbellirono le splendide
fantasie di gioventù allorquando, venuto alla Corte milanese, conobbe
con quanti viluppi e lacciuoli e coperte vie e secondi fini vi si
guidassero i pubblici interessi; scaltrimenti che un'anima schietta neppure
indovina, ma che i prudenti del mondo dicevano e dicono necessarj per
reggere e prosperare gli Stati. Sulle prime egli si indispettì,
s'infuriò anche; ma col lungo vederne, contrasse quella sentita
melanconia che nasce dalla chiara cognizione di un fine, unita
coll'impossibilità di raggiungerlo.
Del resto, in questa sua qualità media fra di ostaggio e di
ambasciatore, ed anche per memoria del segnalato servigio reso alla signora
Beatrice, Buonvicino era stato accolto e trattato con ogni onoranza; e
sì egli, sì i compagni suoi, allogati presso le prime famiglie di
Milano, colla speranza che l'ospitalità legasse le amicizie, e queste
col tempo surrogassero ai rancori municipali quella che chiamavano
universale benevolenza, e volea dire tolleranza del giogo comune.
Buonvicino era stato appoggiato alla famiglia di Uberto Visconti, il quale
abitava tra la via di San Clemente e una fornace di vetri posta in quella
delle Tanaglie, dove poi venne allargata la piazza Fontana, e dove
l'osteria del Biscione rammenta ancora gli antichi possessori.
Uberto Visconti, padre della Margherita da cui s'intitola il nostro
racconto, sebbene, come fratello di Matteo Magno, fosse molto riguardato
nella città, non partecipava però al comando, o che l'integro animo
rifuggisse dal mescolarsi nei sozzi avvolgimenti della politica onde i suoi
tendevano a conservare o crescere la signoria; ovvero che questi ad arte
tenessero lontano un uomo, il quale si poco conoscevasi del mondo, che
avrebbe preteso di gettare la parola di giustizia, fino a traverso ai passi
dell'ambizione. Aggiungi che i Visconti, siccome ghibellini, cioè
fautori dei diritti imperiali, erano sinistramente veduti dai papi, che coi
Guelfi sostenevano i diritti della Chiesa e del popolo; e poichè le
passioni politiche facilmente si avviluppavano cogli affari religiosi,
accadeva non di rado che i Ghibellini professassero errori in fatto di
fede, e i pontefici colpissero di pene spirituali i loro temporali nemici;
e il popolo riguardasse come eretici anche coloro che contrariavano le mire
terrene dei papi.
Quindi non poche anime timorate si faceano coscienza di seguitare la
bandiera del Biscione: ed Uberto non favoriva i parenti suoi che
repugnante, e quel tanto solo che pareva esigere il suo decoro e la fede di
cavaliero. Però in una mischia avvenuta in Milano quando, nel 1302 i
Torriani fecero un estremo sforzo per rientrarvi, Uberto era stato
abbattuto da sella, e lì tra la folla e sotto ai piedi dei cavalli, si
era per alcuni minuti vista la morte ad un pelo. Onde avea promesso alla
Madonna di smettere le armi, impugnate per causa non giusta; ed avea
creduto effetto di quel voto la generosità, colla quale un capo de'
nemici, Guido della Torre, gli aveva dato mano a sorgere, tornar a cavallo
e camparsi, dicendogli:--Non sia mai vero ch'io di cittadini pari tuoi
privi la patria mia, che fortunata se molti ne contasse».
Allora Uberto si tolse dal parteggiare pei Visconti, tanto che questi
disgustati lo confinarono ad Asti, poi richiamato, gli conferirono di
quegli onori che possono contentare l'amor proprio senza crescere
l'ingerenza; come l'andare podestà in questo o quel Comune, accompagnare
a Roma l'imperatore, sostenere ambascerie di complimento.
I Visconti invece vennero in aperta rottura col papa; talmente che il
cardinal legato, spiegato il vessillo delle sante chiavi sopra il solajo
del suo palazzo in Asti, predicò che qualunque uomo o donna lo
seguitasse per distruggere Matteo e i suoi, rimarrebbe assolto (dicono le
rozze cronache) dalla pena d'ogni trascorso; scomunicò il Visconti fino
alla quarta generazione, perchè eretico e reo di venticinque misfatti,
fra i quali d'aver esercitata giurisdizione sui beni e le persone
ecclesiastiche, impedito ai suoi di armarsi per le crociate, repressa la
santa inquisizione, e procurato di campare dal fuoco l'eretica Mainfreda.
Il trovarsi involto in questa scomunica tanto più spiaceva a Uberto
quanto più egli venerava l'autorità papale, e non tralasciò fatica
per calmare gli animi, per riconciliare i Milanesi alla Chiesa: anzi pare
doversi alle sue persuasioni se Matteo si diede a vita devota e a visitare
chiese, finchè in Duomo, convocato il clero ed il popolo, recitò
tutto il _credo_, protestando quella essere la propria sua fede. Il papa
non giudicò sincero quel pentimento e quell'abjura, onde non ritirò
l'anatema; Matteo morì con questo; e Uberto, più non volendo
intendere di pubbliche cure, visse da privato, sebbene splendidamente, ora
in Milano, ora sulle ridenti spiaggie del Lago Maggiore, dove ampj
possedimenti teneva a Invorio inferiore, a Oleggio e altrove nel Vergante,
là sulla sponda occidentale intorno a Lesa. Quivi confortavasi tutto
nelle cure casalinghe, e poichè i suoi tre figli Vittore, Ottorino e
Giovanni, di spiriti guerreschi, poco tempo rimanevano con lui, spendeva
tutta l'attenzione sua a educare l'unica figliuola Margherita, con modi ben
diversi da quelli che sogliono quei molti, cui supremo intento sembra
formar savie fanciulle e donne cattive.
Disingannato del mondo in vecchia età, ben accordavasi con chi nella
fresca se ne trovava disgustato, com'era Buonvicino. Si legò dunque
un'intima amicizia tra il vecchio e questo giovane, il quale, non avendo
più padre, come tale riguardava Uberto, come fratelli i figli di esso, e
come sorella la Margherita. I discorsi dell'uomo pratico anticipavano a
Buonvicino l'esperienza del mondo: sui pochi libri che allora correvano,
egli esercitava gli involontarj riposi: scriveva anche qualche verso, come
rozzamente allora e qui si poteva; per città brillava nelle gualdane e
negli esercizj di corpo: mai non mancava di intervenire, come a scuola di
filosofia sociale, ai pubblici dibattimenti; nelle brigate piaceva
singolarmente per un far gentile, non iscompagnato mai da maschia
franchezza: anche quelli che sedevano al governo lo riverivano, perchè
sapeva accoppiare la soggezione, che la forza e la vittoria pretendono,
colla dignità della sventura non meritata.
Un sì gentile e peregrino cavaliero non vi farà meraviglia se ottenne
ricambio d'amore dalla Margherita. Poteva egli contare i trent'anni, mentre
essa arrivava ai quindici appena, onde le gentilezze che Buonvicino usava
all'ospite sua, nel cuore di lei, mal conscio di sè stesso e inesperto
dell'amore, destavano un senso di pudica compiacenza. Ma questa
inclinazione, come suole, restò gran tempo un segreto per tutti, e sino
pei due amanti. Giammai non le aveva egli detto, _Vi amo_; parola che suol
venire dopo che già l'eloquente linguaggio dell'affetto in cento altri
modi l'espresse. Ella poi nè tampoco sapeva di amarlo, almeno non lo
confessava, anzi nol chiedeva pure a sè stessa. Se non che al comparire
di lui il cuore le batteva forte forte: quand'egli partiva rimanea
sconsolata, come le mancasse alcuna cosa di necessario, di suo; egli non le
aveva indicato che tornerebbe, nè quando, eppure essa lo attendeva: se
tardasse era come sulle spine; al rivederlo provava una compiacenza
interiore, una pienezza di vita, come (almeno pareva a lei), come al veder
suo padre, le sue amiche, un'alba di maggio, una vigna in settembre.
Avrebbe voluto piacergli, parergli bella; parergli buona e brava: quasi
senza avvedersene, allorchè lo aspettava, adornavasi con più attenta
cura: una parola ch'egli le dirigesse sentivasi ravvivare; ambiva ch'egli
voltasse gli occhi sopra di lei, ma non appena la fissasse, ella abbassava
i suoi arrossendo; nel rispondere alle domande, alle cortesie di lui,
balbettava, si confondeva; sbagliava le note quando d'accordo toccavano il
liuto; poi si pentiva, si vergognava, si rimproverava, accusava sè
stessa come di una fanciullaggine; proponevasi di fare altrimenti, e
tornava a far lo stesso. Le ajuole del suo giardino avevano un fiore
preferito, un preferito albero il boschetto: il fiore della margaritina,
ch'_egli_ aveva mostrato prediligere; la pianta sotto cui, un giorno che ne
piangeva la lontananza, _egli_ le era comparso davanti improvviso.
Così, desiderarlo, rivederlo, fantasticare, staccarsene, desiderarlo di
nuovo, formavano la storia della sua vita; vita povera di casi, ricca di