Margherita Pusterla: Racconto storico - 01
CESARE CANTÙ
MARGHERITA PUSTERLA
RACCONTO STORICO
Quarantesima Edizione Milanese con incisioni
MILANO
LIBRERIA DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE DI PAOLO CARRARA EDITORE.
Proprietà Letteraria.
L'EDITORE AI LETTORI
Nel 1834 l'autore di questo libro trovavasi nelle prigioni di Stato
dell'Austria. Il suo processante, Paride Zajotti, trentino, era letterato,
e però conscio del tormento che maggiore dar si può ad un letterato,
quel di privarlo di ogni mezzo di leggere e di scrivere. Brutalità tanto
peggiore in quanto, al fine dell'inquisizione, si dovette dichiarare che
non reggevano alla prova neppure gli _indizj_ e i _sospetti_, pei quali era
stato sì lungamente carcerato; e in quanto agli altri detenuti non
letterati si permetteva perfino di abbonarsi a gabinetti di lettura.
In quella atroce solitudine, il Cantù trovò modo di farsi
dell'inchiostro col fumo della candela, penna cogli steccadenti; e su carte
straccie, dategli per altri usi, scrisse il presente romanzo. Egli si
ricordava del fatto in di grosso e dei tempi: gli mancavano i nomi proprj e
le date sicure, talchè i personaggi nacquero con nomi suppositizj,
siccome variarono alcune circostanze di fatto allorchè, sprigionato,
potè limare il suo lavoro, e dopo lunga quarantena alla censura di
Vienna, perchè la censura milanese non credette poterlo ammettere, il
diede alla stampa.
Questi fatti non importano al pubblico, eppure sono tutt'altro che
indifferenti per intendere molte parti del lavoro, nel quale l'autore volle
ritrarre, o forse non volendo, ritrasse i proprj patimenti e le proprie
consolazioni sotto figura altrui, mentre Silvio Pellico aveva in persona
dipinto i suoi.
Bensì è noto con quanto favore fu questo romanzo accolto in Italia, e
tradotto in tutte le culte lingue. Ciò non recherebbe meraviglia,
giacchè è fortuna comune a quasi tutti i libri di tal genere. Ben
importa l'accertare che il successo della _Margherita Pusterla_ si sostenne
dopo il primo bollore; e da quarant'anni va ristampandosi continuamente in
edizioni numerose; prova di meriti intrinseci e letterarj e politici e
morali, indipendenti dalla moda e dalla novità.
Testè uno di quei critici, a cui pute ciò che sa di italiano,
lagnavasi che, in tanti romanzi e drammi nostri, non apparisse un tipo di
donna. Al tempo stesso il barone Niccola Taccone Gallucci, lodato autore
del _Saggio d'Estetica_, in un lavoro sull'_Arte cristiana_ asseriva che
«poeti ed interpreti del perfetto pensiero dell'epoca moderna e della
fede viva, profondi scrutatori degli affetti romantici, sono il Manzoni, il
Cantù ed il Grossi.»
E soggiungeva:
«Il Cantù, che insieme al Manzoni e al Grossi formano il triumvirato,
direi quasi, dell'epoca più prospera della moderna poesia italiana, si
fa a sublimare la beltà del patire con la squisita pittura dell'amore,
della sofferenza, della rassegnazione, della morte della sua Margherita
Pusterla. L'affanno dell'affetto terreno negli ultimi istanti della sua
vita è patetico in quelle parole, che suonano angosciose in ogni cuore:
_Morire! morire così giovane.... e morire innocente!_ Ma nello estremo
quadro del dolore terribile e divinamente malinconico, risalta una morale
leggiadria ed una purità di colorito, che seduce nel martirio anche sul
palco.
«La nobile figura di frate Buonvicino, l'immagine più perfetta
dell'ideale ascetico e cavalleresco, che, collocato accanto alla bella
Margherita, guarda il cielo, e mormora quelle sublimi parole: _Lassù,
sono le speranze che non falliscono mai_, manifesta il generoso carattere,
la fede, l'invincibile fiducia, l'ineffabile amore del Cantù, che arriva
fino all'apogeo dell'ideale doloroso e malinconico, allorchè la faccia
di Margherita, fatta più pallida, si volge anch'ella cogli occhi
lagrimosi al cielo, e si fa santa nel Dio, padre degli infelici,
esclamando: _Signore, la volontà vostra e non la mia_.»[1]
Noi dunque facendo questa 42ª edizione, sotto gli occhi dell'autore,
pensiamo ben meritare della moralità e della letteratura diffondendo un
libro che crediamo rinvigorisca il sentimento del nobile e del giusto,
mediante l'amore pei buoni e l'indignazione pei ribaldi.
Milano, maggio 1880.
--Lettor mio, hai tu spasimato?
--No.
--Questo libro non è per te.
1833.
CAPITOLO PRIMO.
LA PARATA.
Entrando il marzo del 1340, i Gonzaga signori di Mantova avevano aperta una
corte bandita nella loro città, con tavole disposte a chiunque venisse,
con musici, saltambanchi, buffoni, fontane che sprizzavano vino, tutta
insomma la pompa colla quale i tirannelli, surrogatisi ai liberi governi in
Lombardia, procuravano di stordire i generosi, allettare i vani, ed
abbagliare la plebe, sempre ingorda dietro a queste luccicanti apparenze.
Fra i tremila cavalieri concorsi a quella festa con grande sfoggio d'abiti,
colle più belle armadure che uscissero dalle fucine di Milano, con
destrieri ferrati persino d'argento, v'erano comparsi molti Milanesi per
fare la corte al giovinetto Bruzio, figliuolo naturale di Luchino Visconti,
signor di Milano. Sono fra essi ricordati Giacomo Aliprando, Matteo
Visconti fratello di Galeazzo e di Bernabò, che poi divennero principi;
il Possidente di Gallarate, il Grande de' Crivelli, e sovra gli altri
segnalato Franciscolo Pusterla, il più ricco possessore di Lombardia, e
sarebbesi potuto dire il più felice, se la felicità potesse con beni
umani assicurarsi, e se da quella non fosse precipitato al fondo d'ogni
miseria, come il processo del nostro racconto dimostrerà[2].
Questi campioni milanesi avevano riportato il premio della giostra ivi
combattutasi, il quale consisteva in un superbo puledro del valore di 400
zecchini, nero come una pece, colla gualdrappa color di cielo, ricamata ad
argento; in un altro, mezzano di grossezza, baio di colore e balzano di due
piedi: oltre a due abiti, uno di scarlatto, l'altro di sciamito foderato di
vaio. Per farne mostra, erano i vincitori girati trionfalmente per Cremona,
Piacenza e Pavia, donde s'erano vôlti dalla patria, appunto il 20 Marzo
dell'anno predetto. Liete accoglienze ricevevano per tutto, poichè un
istinto dominante e pericoloso dell'uomo fece al valore fortunato tributare
rispetto ed ammirazione in ogni tempo, ma più ancora in quello, tutto di
forza materiale. I signorotti poi vedeano volontieri che il coraggio si
esercitasse in tornei e finte battaglie, come in altre età videro
volontieri sfogato l'umore curioso e contenzioso in fazioni da teatro e in
letterarj garriti. Perciò anche da Milano uscì ad incontrare i prodi
una cavalcata della Corte e de' più nobili, che ricevutili nello
splendido castello di Belgioioso, voltarono con essi alla città.
Entrati con solenne pompa per la via di Sant'Eustorgio, attraversato quel
sobborgo, già cinto di mura e chiamato la Cittadella, vennero alla porta
Ticinese, che si apriva laddove ora è il ponte sul canale _Naviglio_.
Quel canale segna ancora la fossa che, larga quanto è ora la strada,
aveano scavata attorno alla risorgente patria i Milanesi per difendersi dal
Barbarossa: e col cavaticcio avevano formato un terrapieno (_il
Terraggio_), unico riparo ma bastante quando ogni cittadino era
guerriero,--guerriero per la patria e per la libertà. Ma pochi anni
prima di quello di cui scriviamo, Azone Visconti aveva in quel luogo
fabbricato la mura, lunga in giro diecimila braccia, con saracinesche e
ponti levatoj a ciascuna delle undici porte, incoronata di cento torri e di
migliaja di merli.
Passati i cavalieri per l'arco, che tuttavia sussiste a malgrado dei
novatori, costeggiarono le famose colonne di San Lorenzo, logora e
venerabile reliquia romana, e giunsero al crocicchio, detto _Carrobio_
perchè dava luogo ai carri, qualità allora comune a poche vie. Il
vulgo, sospendendo i lavori, traeva a quello spettacolo, invitato dal
festoso sonare dei banditori della città, i quali, tutti in rosso, colle
trombe d'argento, insieme coi sei portieri in corsaletto a quarti di bianco
o scarlatto, e coi mantelli del colore istesso, precedevano la comitiva,
togliendosi in mezzo il banderajo, che portava il gonfalone cogli stemmi
delle varie porte, distribuiti attorno alla vipera nera in campo d'argento.
E--Chi è quella signora tutta a velluto e oro?»--domandava qualche
fanciulletto.
--È (gli rispondevano i genitori) è la signora Isabella del Fiesco,
moglie di quel là, tutto lucente di acciajo, con sul cimiero una biscia
che mangia un figliuolo cattivo. Si chiama il signor Luchino, nostro
padrone. Vedi mo fortuna nostra d'avere un padrone così valoroso e una
sì bella padrona!
--E vedete (soggiungeva un compare maliziosamente pigiando col gomito) che
occhiatine ella si ricambia col bel Galeazzo.
--Eh eh! (replicava un terzo strizzando l'occhio) gli è un pezzo che se
la intendono zia e nipote».
Qui cominciavano a leggere sulla cronaca scandalosa, e contare i torti, con
cui la signora Isabella ricambiava i torti che riceveva dal marito. Luchino
in fatto, senza una vergogna al mondo, veniva dietro circondato dai suoi
figliuoli Forestino, Borsio e il già nominato Bruzio, partoritigli da
diverse madri.
Luchino nasceva dal Magno Matteo, quello che, dopo dell'arcivescovo Ottone
Visconti, col valore e colle brighe aveva ottenuto il dominio di Milano
sotto il titolo di Vicario dell'Impero, poi di capitano e difensore della
libertà. A Matteo era successo nel comando Galeazzo, a questo il figlio
Azone, e morto lui, Luchino era stato, il 17 agosto dell'anno precedente a
questo, assunto signore dal consiglio generale de' Milanesi. Ma perchè
poco bene prometteva la sgovernata gioventù di lui, consumata a correre
avventure fra libertini, gli avevano dato a compagno il fratello Giovanni,
vescovo e signore di Novara.
Mostrerebbe conoscere pur poco il popolo chi si meravigliasse perchè,
sapendolo un tristo arnese, non avessero eletto tutt'altri o nessuno.
Quando Luchino si trovò in potere, parte coll'astuzia, parte colla
prepotenza, eliminò il fratello, che, prete, credenzone e voglioso di
godersi i vantaggi di una lauta fortuna e di una rara avvenenza,
abbandonò ad esso ogni pubblica cura.
Luchino, ricchissimo di quel valore militare che può associarsi con
tutti i vizj e sino colla viltà, austero men di lingua che di fatti,
scarso nel promettere, saldo nel mantenere, spedito nel prendere una
risoluzione e nell'effettuarla, molto paese acquistò, nulla perdette:
non sentì benevolenza per altri che pe' suoi bastardi: non perdonò
mai, mai non si fidò in chi una volta avesse offeso: ma per dissimulare
o l'odio o la vendetta, per seguitare con lunghi giri una preda, per
consumare un'iniquità col più ipocrito aspetto di giustizia, pochi
l'eguagliarono fra i signori di sua casa, che pur sapete se ve ne furono di
tristi.
Di giustizia gli meritò lode l'aver liberato il paese dai ladri, frenato
le prepotenze dei feudatarj, dato eguale ascolto a Guelfi e Ghibellini,
chiamato i nobili al par de' plebei a sopportare le pubbliche gravezze. Ma
in quel che riguardava lui stesso, aveva intitolato giustizia il proprio
interesse. Fu unico in ciò?
Semplice era la sua politica: conservarsi ad ogni costo. Tornava opportuno
il dar favore al commercio, alle arti? lo faceva. Conveniva meglio la
guerra? la rompea, che che lagrime e che che sangue dovesse costare.
Secondo il credea buono, favoriva letterati e poeti, ovvero ergea patiboli,
empiva prigioni. Considerandosi come un custode di belve che lo
sbranerebbero appena cessasse di mazzicarle o di mostrarsi necessario al
loro sostentamento, ai buoni, cioè ai vili, comparire unico autore della
pubblica felicità; coi malvagi, cioè con quelli che osassero guardare
nei fatti suoi, esacerbava per calcolo la naturale e dissimulata fierezza:
spie, giudici comprati, forza armata davano tratto tratto dei buoni esempj:
cioè accusando, incarcerando, ammazzando, insegnavano agli altri a
dimenticare le libertà un tempo godute, a credere unico dovere del capo
il comandare, unico diritto dei sudditi l'obbedire.
Non però sempre violenti erano i mezzi, da Luchino messi in opera, e
sembra che i Milanesi o non avvertissero o trovassero piacevole quell'altro
suo accorgimento di domarli corrompendoli. Al vulgo feste, baccani,
taverne, bordelli; ai nobili giovani, i cui costumi severi e riflessivi gli
avrebbero fatto ombra, offriva alla Corte esempj e comodità di
dissolutezza, affinchè, chiuse le vie alla gloria ed agli onori,
badassero a cogliere il fior della vita fra spassi e gavazze.
Narrano che questa via lo guidasse più presto e meglio alla meta.
Nè la coscienza taceva in lui: ma ne soffocava o illudeva la voce con
pratiche devote: recitava ogni giorno od ascoltava l'uffizio della Madonna;
teneva a tavola spesso i suoi cani, ma altre volte vecchi e pitocchi, ai
quali con fastosa umiltà ministrava egli stesso: mai non mangiò che
cibi quaresimali al sabbato e ne' giorni comandati; tassò le spese dei
funerali, e stabilì gravi pene contro i medici che visitassero tre volte
un malato senza farlo confessare.
Che i sudditi lo amassero glielo ripetevano cagnotti, ambasciatori e poeti:
quanto egli sel credesse potevasi argomentare dal giaco di maglia che mai
non deponeva, dalle raddoppiate guardie, e da due enormi alani, che, come i
soli non capaci di desiderare miglioramento nè libertà purchè
mangiassero, si teneva ai fianchi dovunque andasse.
Pure, al veder le dimostrazioni che gli facevano in quel tragitto per la
città, avreste potuto supporre Luchino un padre del suo popolo. E non
tutte dovevano dirsi adulazioni e vigliaccheria. Nessun governo si dà
che sia tristo affatto, nessuno che non profitti a qualche classe. I
Lombardi erano corsi attraverso un'età d'interne turbolenze, ove la
libertà, acquistata a prezzo di sangue e di sforzi generosi, erasi
andata guastando tra fraterni dissidi, ire di fazioni, soperchierie di
prepotenti: talchè, stanchi d'un assiduo tempestare ove il grosso del
popolo arrischiava tutto senza nulla vantaggiare, vedeano di buon occhio un
governo robusto che poneva un freno a tutti, si avvezzavano a chiamare pace
la comune servitù, come la chiamavano libertà quelli che ne facevano
il fatto loro. Luchino, inoltre conferiva gl'impieghi quasi solo a
nostrali, talchè seimila cittadini vivevano sopra i pubblici stipendj:
nella carestia che allora affliggeva il paese, quarantamila bisognosi erano
mantenuti a spese della città: della città dico, non del principe: ma
il popolo è sempre disposto ad attribuire a questo i beni come i mali
che prova.
Quanto ai nobili, erano impazzati nel tempo che regolavano il pubblico
interesse: ciascuno amò sè più che la patria, più le proprie
soddisfazioni che le comuni libertà, più il comodo che la gloria,
più la vita che la virtù: ora mangiavano del cibo che s'erano
preparato. Alcuni, vedendo di non potere nè sopportar così, nè
volgere in meglio la sorte del loro paese, o viveano ritirati in violenta
pace, od uscivano in esteri paesi: col che più libero lasciavano il
campo all'ambizione di coloro che, non più nella patria, ma alla Corte
cercavano primeggiare, operando non all'utilità di tutti ma di quel solo
da cui ricevevano o speravano lustro e ricompense.
Se non che Luchino, o insospettito o geloso, aveva dato lo sfratto a tutti
coloro che erano stati in auge sotto di Azone, per attorniarsi di nuova
brigata sul far suo, compagni alle sue giovanili dissolutezze, disposti a
fare com'egli voleva e peggio. Nella cavalcata che noi descriviamo, si
potevano discernere i nuovi dagli scaduti al rimanere quelli vicini al
principe, e tal ora accostategli pronunziando qualche parola; allo
sfoggiare in pompa di codardia; allo stringersi fra loro baliosi, e
celiare, e sbizzarrire sui briosi palafreni; mentre gli altri si tenevano
estremi, taciturni e fra loro scambiando qualche parola sommessa e
dispettosa. La plebe naturalmente supponeva senno, valore e prudenza nei
favoriti dal principe, il contrario negli altri: sberretteva i primi,
assomigliava gli ultimi a patarini e scomunicati; e tenuta indietro dal
ceffo arcigno del tedesco Sfolcada Melik, capitano alla guardia del corpo
di Luchino, sbirciando sott'occhio quel muso baffuto, gridava:--Viva il
Visconti, viva il biscione!»
Senza discernere gl'infimi dai sommi, tra la parata galoppava un buffone,
razza di cui ogni Corte era provvista e più lautamente la milanese, che
in simile genia spendeva ogni anno trentamila fiorini[3];--ottimo uso delle
pubbliche entrate. Vi facevano costoro l'uffizio, che altre volte
adempirono i poeti e sempre gli adulatori; lisciar i padroni, far ridere
alle proprie spalle, trattenere con imbecillità corruttrici e velar
l'orrore d'un delitto sotto la vivacità d'un'arguzia. Se non che (tanto
in ogni istituzione vanno misti il male e il bene) in mezzo ai loro lazzi
avventuravano qualche verità, che altrimenti non sarebbe giunta fino
alle orecchie dei gran signori. Grillincervello, come chiamavasi il buffone
di Luchino, copriva la zucca monda con un berretto bianco a cono,
sormontato da un cimiero scarlatto a guisa di una cresta di gallo; con due
brache e un farsettaccio di traliccio larghi e sciamannati, con enormi
bottoni e ciondoli sonori; ed impugnava un bastone, il cui pomo figurava
una testa di pazzo colle orecchie asinine. Messosi per isproni due
ravanelli (fabbrica di Pavia, com'esso diceva), stuzzicava con essi un
orecchiuto destriero di Barlassina (altra sua frase), tutto a fiocchetti e
sonagliuzzi; e colla bocca atteggiata sempre a un riso fra idiota e
maligno, con certi occhi sgranati e guerci, saltabellava di qua, di là,
or dando la caccia ai porcelli e alle galline che liberamente pascolavano
per le vie; ora ficcandosi attraverso ai passi del terzo e del quarto, e
scagliando a questo un motto, a quello una zaffata. Farfogliando al Melik
qualche frase mezzo tedesca, gli tirava i severi mustacchi, e mentre colui,
senza scomporre di sua gravità, gli assestava una sciabolata di piatto,
egli era guizzato un pezzo lontano. A Matteo Salvatico (scrittore
dell'_Opus pandectarum medicinæ_, la più diligente opera intorno alla
virtù delle erbe), il quale, secondo il lusso de' medici, cavalcava con
un vestone di porpora e preziosi anelli e sproni dorati, il buffone,
facendo al suo somarello un cenno ch'io non voglio descrivere,
diceva:--Toccagli il polso»; poi indirizzandosi all'astrologo Andalon
dal Nero, altro mobile indispensabile delle Corti d'allora, il quale
procedeva contegnoso e sopra pensieri, gli batteva in sulla nuca,
dicendo:--Questa non te l'avevano indovinata le stelle».
Lo udiva Luchino, e ne sorrideva, sinchè, passato appena il palazzo che
egli aveva eretto per propria abitazione da privato in faccia a San
Giorgio, ed inoltrandosi fra la turba che, presso alla chiesa di
Sant'Ambrogino in Solariolo, affollavasi al mercato, o come dicevano, alla
_Balla_ degli olj e dei laticinj, cominciò a fissare gli occhi sopra una
signora, che stava sur un terrazzino, sporgente dalla torre in angolo della
via che di là mette a Sant'Alessandro. Questa era Margherita Pusterla,
anch'ella di casa Visconti e cugina del principe, ma troppo da lui
dissomigliante. Erasi fatta ad osservare il corteggio, non per capriccio di
femminile curiosità, ma per cercare fra questo il marito suo Franciscolo
Pusterla, uno, come abbiam detto, dei vincitori della giostra, e che
teneasi in fondo tra gli scontenti. La dama, la quale era tutto il bello
che dev'essere l'eroina d'un racconto, reggeva sulla spalletta del verone
un caro fanciullo di forse cinque anni: e tendendo la destra candida e
morbida come di cera, gli additava lontano un cavaliero superbamente
vestito e montato, alla cui vista il bambino, trasalendo di gioia fra il
seno e le braccia materne, esclamava:--Babbo! babbo!» e con ingenuo
vezzo infantile sporgeva verso quello le braccia. Assorta in quest'episodio
di famiglia che per lei era tutto, la Margherita non poneva mente nè
agli applausi del vulgo, nè alla pompa del corteo, nè agli occhi che
ammiravano la sua bellezza, nè a Luchino, sebbene questi, allorchè fu
sotto al balcone, avesse rallentato il passo, e fatto sbraveggiare e
atteggiar vagamente il superbo stallone bianco che cavalcava, bramoso di
attirarsi uno sguardo della bella.
Ma invano: onde una nube di dispetto gli passò sul volto severo. Se non
che Ramengo da Casale, uno dei cortigiani sempre disposti a piaggiare,
qualunque essa sia, la passione dei potenti, si fece accosto a lui, ed
inchinandolo con adulatoria sommessione, esclamò:--Se vuolsi trovare
qualcosa di grande negli uomini, o qualcosa di bello nelle donne, è
forza ricorrere al nome de' Visconti».
Luchino, non mosso dall'incensata che come uomo avvezzo alle vigliaccherie,
rispose:--Sì: ma a costei pare che puta il nostro cognome: nè voi
altri fra quanti siete sapeste mai farne belli i circoli nostri.
--Vero! (ripigliava Ramengo) Ella è tanto schifa ed orgogliosa quanto
bella ed aggraziata. Ma più la vittoria è difficile, più torna a
onore, e ad un sospiro del principe qual ritrosia durerebbe?»
Guizzò fra loro il buffone, e ghignando beffardamente sul viso
dell'adulatore, poi di Luchino, disse a questo, vagliando la persona in
modo da sonar tutto:--Non dargli ascolto, padrone; leccane i barbigi, che
non la è carne pe' tuoi denti.
--E perchè no, sfacciato?» saltò su mezzo in collera Luchino.
--Perchè no», ripetè il mariuolo, e toccata la cavalcatura, in un
batter d'occhio fu lontano, mentre Luchino, senza curare nè le
piacenterie dei cortigiani, nè i viva del popolo, seguitava innanzi a
rilento, volgendosi tratto tratto verso la signora Pusterla. Essa invece
non distoglieva gli occhi dal marito, il quale procedeva fra un giovine e
un frate, che pedestri uscitigli incontro, l'accompagnavano discorrendo. Il
giovane era tutto fuoco nel gesto, negli sguardi, nel favellare; la faccia
dell'altro, composta a gravità severa e pur dolce, annunziava una lotta
profonda ma calma tra la violenza dei sentimenti e la robustezza della
volontà; e nella fronte facile a corrugarsi, nelle guance scarne e
affossate, nel labbro serrato, portava il marchio onde la sventura impronta
le sue vittime, quasi per dar loro la consolazione di conoscersi a vicenda,
e di allearsi per reggerle incontro.
La rincrescevole attenzione e il frequente rivolgersi del principe non
isfuggirono al Pusterla, il quale, voltosi ai non meno accorti compagni,
domandò loro:--Vedeste?
--Vidi», rispose il frate chinando le ciglia in atto di persona abituata
a gravi pensieri.
--Sfacciato!» saltava con occhi sfavillanti il giovane.--Quest'altra ci
mancava! Ma che non può aspettarsi da un tiranno? Oh perchè non ci ha
a Milano cento persone deliberate al par di me! E voi, oh perchè non vi
risolvete, signor Francesco, di far suonare alto il vostro nome e metter
fine alle servitù della patria ed all'obbrobrio comune?»
Franciscòlo Pusterla col gesto e colla voce imponeva silenzio ad
Alpinòlo (quest'era il nome del garzone), mentre il frate, colla
posatezza abituale alle persone costrette a riflettere, a concentrarsi, a
vivere in sè, diceva:--All'uomo scontento rimane un partito! spiccarsi
dai viziosi, e senza paventare la dimenticanza de' suoi concittadini,
cercare nella dignitosa ilarità de' domestici affetti la pace e la
sicurezza della coscienza e del proprio onore. Così ha saputo fare tuo
suocero Uberto Visconti: così avresti a far tu: e mille segni ti
mostrano che n'è venuta l'ora. Con un tesoro qual è la tua
Margherita, non è angolo del mondo così riposto, non solitudine
così romita, che non ti possa convenire in un paradiso».
La voce del frate erasi animata a questo parlare, come anche il color delle
guancie; egli se n'avvide, chinò il capo e tacque. Ma Franciscòlo,
punto non mostrandosi convinto alle parole dell'amico:--Sì, frà
Buonvicino (diceva); ritirarmi, questo è il sogno delle mie veglie. Ma
poi? cos'è mai un uomo fuor degli affari? Come parrei dirazzato da' miei
padri, sempre attenti alle pubbliche cure! Finchè il signor Azone
governò, sai se continuamente adoperai al bene della mia patria; sai se
fin d'allora ho usato ogni maniera di riguardi dilicati a questo Luchino,
benchè fosse in urto collo zio, nella fiducia che, giungendo alla sua
volta al comando, me ne saprebbe buon grado, mi terrebbe fra' suoi vicini,
e così potrei dirizzarlo al meglio comune. Or vedi frutto! Appena
impugnò quel bastone del comando, che tanto noi oprammo, per affidargli,
non che dimenticare i meriti nostri recenti, fino gli antichi pare ci
ascriva a colpa: e sbalzati noi tutti, si è posto attorno gente nuova e
plebea, assurda consigliera, insana adulatrice, feccia tale, che mille
miglia ne vorrei esser lontano, se non mi trattenesse la speranza di tornar
utile alla famiglia mia, ed ai miei concittadini».
Applaudiva Alpinòlo a quel risentito parlare: ma frà Buonvicino,
avvisando che, sotto al velo dell'utile pubblico, s'ascondevano l'ambizione
e un naturale, che, non sapendo provare godimenti se non nella tempesta,
metteva a pari la calma e la morte, trovava facilmente come ribattere le
apparenti ragioni dell'amico, ma non come destargli una virile vergogna:
onde, qual persona usata a concedere indulgenza alle debolezze degli uomini
per non essere costretto a doverle disprezzare, finiva col seguitarlo
tacendo, finchè si divisero allo sbucare sulla piazza del Duomo.
Se però volete figurarvi al vero gli uomini di quel tempo, vestiti di
ferro e di sfarzosi mantelli, e pellicce, e collane d'oro, e berretti a
piume ondeggianti, e spadoni ai fianchi, ed enormi mazze ferrate agli
arcioni, e sul guanto astori e falchi, non dovete collocar loro d'attorno
queste fabbriche d'oggidì, le vie larghe, allineate, selciate che sasso
non eccede, fiancheggiate da case a tre o quattro solaj, colle finestre
simmetriche, protette da gelosie, con botteghe d'ogni lusso, con tutta
quella bellezza che ha per carattere il gentile, e che rivela tempi quieti,
gente educata a non pensare gran fatto all'avvenire. L'architettura, come
sempre fa, erasi foggiata ai costumi e alle opinioni correnti, tutta
solidità nei palazzi, nel resto appena quel che fosse necessario per
riparare dalle intemperie la plebaglia, perpetuamente condannata a faticare
e patire, giovare ed essere disprezzata. Alte e massiccie torri accanto a
bassi tugurj, pareano simbolo della società, divisa in due condizioni,
una altissima, infima l'altra. Le poche abitazioni che si elevassero sopra
il pian terreno, s'intitolavano _solari_; e da uno appunto di siffatti
aveva ricevuto il nome la chiesa di Sant'Ambrogino in Solariolo, che fu poi
detto _alla Balla_, da un atrio ove, tre volte alla settimana, tenevasi
mercato d'olio, di pollami e latticinj. Colà presso può vedersi
ancora[4] uno di quei torrazzi, che ajutano l'immaginazione a ricostruire
il Milano antico; e da non molto tempo fu diroccato l'altro che faceva
cantonata alla via che volge a Sant'Alessandro. Formava esso parte dello
splendido palazzo dei signori Pusterla, il quale distendeasi fino
all'Olmetto e ai Piatti, in apparenza più di fortezza che di abitazione.
Tutto di pietre tagliate, verso la strada non aveva che due finestre alte,
protette da robuste inginocchiate, siccome chiamavano le ferriate sporgenti
a pancia: grossi anelli impiombati nelle bugne offrivano la comodità di
legarvi i cavalli, per salir sui quali erano disposti lungo i muri ed alla
porta, dei dadi di granito; la porta chiusa con enormi battenti ferrati e
col suo ponte levatojo, aprivasi sotto una torretta quadrata, posta in
fondo alla via mozza, che ancora nominiamo Vicolo Pusterla. Sull'accennato
torrione di angolo sventolava lo stendardo della famiglia, coll'aquila nera
in campo giallo; e dal mezzo ne sportava il verone, sul quale si era
mostrata la signora Margherita. I Pusterla, famiglia delle più nobili e
la più ricca di Milano, avevano nei tumulti antecedenti parteggiato ora
coi Torriani ora coi Visconti: Matteo Magno aveva sposata una figliuola di
Filippo Torriani, dalla quale era nato il Franciscòlo di cui parlammo.
- Parts
- Margherita Pusterla: Racconto storico - 01
- Margherita Pusterla: Racconto storico - 02
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