Lutezia - 5

Parigi non si mostri usurpatrice del diritto delle provincie, o, per
dir meglio, sostenitrice accanita di quella legge d'accentramento, da
cui ha derivata la maggior parte della sua stessa importanza.
Tra le rarità del museo, vuol esser notato il quadrante solare di
Gabio, su cui sono scolpite in cerchio le teste dei dodici Dei
maggiori, colla giunta di un tredicesimo, piccolino, paffutello e
sorridente, che apparisce tra Venere e Marte, e sembra collegarli in
un abbraccio filiale. Avete indovinato che quel birichino è Cupido,
che fa rima con _infido_, come sanno i vecchi e gli esperti. Degno di
molta attenzione il planisferio greco egiziano, detto del Bianchini,
dal nome del suo primo illustratore. Curiose le tavole di marmo, su
cui si leggono scolpiti i nomi di tutti i cittadini ateniesi morti
presso il nemico, nella 84.^a olimpiade; e quell'altra che reca incisa
con eleganza mirabile una legge civile di Atene, e che i discendenti
di Costantino avevano ridotta ad abaco di capitello, come si rileva
dalle croci greche, scolpite rozzamente sui lati. Non si può passare
indifferenti a' piedi di una Pudicizia, statua di donna tutta chiusa
nella sua _rica_, che somiglia grandemente alla sua omonima dello
scalone del museo Capitolino. Bisogna fermarsi davanti ad un Marte,
che va eziandio sotto il nome di Achille, e non si può negare un
tributo d'ammirazione a due o tre busti d'Antinoo, forse i migliori
che si conoscano di questo bellissimo favorito dell'imperatore
Adriano. Spero che avrete notato, passando, quel Giove colossale,
lavorato con molta finitezza, ma ridotto poco degnamente ad Erme,
perchè mancante lui delle parti inferiori, e mancanti gli artisti
moderni del coraggio bisognevole per restaurarlo sul serio. Non
badate, ve ne prego, a tutte quelle Veneri, che arieggiano il tipo
conosciutissimo della Venere di Gnido, ma sono lontane dal poter
rivaleggiare colla Medicea di Firenze e colla Capitolina di Roma. In
materia di Veneri, io non conosco ora, non vo' veder altro che quella
di Milo. M'è parso d'intravvederla, in fondo ad un androne. Sicuro è
lei, proprio lei; la riconosco all'atteggiamento imperioso e alla
mancanza delle braccia. Compatite la mia debolezza, sono innamorato
cotto di quella bella monchina. L'amavo prima di conoscerla, come
Goffredo Rudel amava la contessa di Tripoli; l'amavo sulla fede di ciò
che ne aveva scritto il visconte di Marcellus, che andò a farle visita
nella sua isola, entro la stalla del villano Jorgos; l'amavo per le
forme di gesso, che ne portavano attorno i lucchesi. Nel 1871, quando
corse la voce che i petrolieri della Comune avessero appiccato il
fuoco al Louvre, il mio primo pensiero fu per quella bella
prigioniera: non ebbi pace se non quando si riseppe che il Louvre era
illeso dalle fiamme, e che del resto la divina immagine stava in
sicuro da un pezzo, avendola i conservatori del museo calata in un
sotterraneo, al riparo dalle granate e dalle bombe prussiane. Debbo
confessarvi proprio ogni cosa? Un po' per far come gli altri ero
venuto a Parigi, ma molto (l'avevo lasciato nella penna, per non
parervi matto alle prime) molto per veder da vicino questa contessa di
Tripoli.... cioè, no, volevo dire questa duchessa, principessa,
regina, meraviglia di Milo e del mondo.
Studiamo il passo, se non vi rincresce, ed entriamo nel sacrario. La
dea è là, nel mezzo della sala, su d'un piedistallo di granito;
intorno al piedistallo è un cancellino di ferro, e intorno a questo si
affollano, si stringono, si pigiano centinaia di Mozambicchi.
Mozambicchi! che vuol dir ciò? Non vi scandolezzate; è il nome che
Parigi ha superbamente appioppato ai suoi provinciali, venuti coi
treni di piacere a vedere l'Esposizione, ed anche un pochettino ai
forastieri che invadono i suoi caffè, i suoi marciapiedi, i suoi
teatri, le sue trattorie, non lasciando aver pace ai Sibariti della
Senna. Cari, quei Mozambicchi! Ci stiano pure, facciano siepe intorno
al cancello; amano quello che io amo, e non mi posso dolere. Se
madonna fosse viva, sarei geloso, non ho vergogna a confessarlo; ma è
di marmo, e di marmo corallitico, che va annoverato tra i più duri
della creazione, e, come son certo che non me la possono rubare, così
mi sostiene il pensiero che essa non farà l'occhiolino a nessuno. Del
resto, ad un per uno se ne andranno di lì, e, appena mi riuscirà di
ficcarmi là dentro, di aggrapparmi alla ringhiera, vedremo.
Lavoro di gomiti e giungo alle spalle di una giovine coppia. Sono di
sicuro due sposi novelli; lo dice quel tenersi a braccetto con tanta
mollezza confidente; lo dice la loro gioventù; la loro snellezza, e
quel pallore di giglio che tinge la guancia della signora, da me
veduta in isbieco. Stanno un tratto silenziosi a guardare; poi la
signora arriccia il naso, dà una stretta al braccio dello sposo, e con
accento strascicato dalla noia gli dice:
--Non è che questo? (_n'est-ce que ça?_)
Sposina delle mie viscere, come capisco ora i parigini! Sì, è vero, ci
sono dei Mozambicchi a Parigi, ce ne son troppi, e voi siete la regina
della tribù.
Che cosa abbia risposto il _cacico_ alla sua giovine metà, non
rammento; forse non ci ho badato. So che la giovine coppia se ne andò
e che io mi ficcai dentro, guadagnando venti centimetri di ringhiera.
Intorno a me si era fatto un gran vuoto ed un grande silenzio; non
c'erano più Mozambicchi, nè Mozambicche. Non potevo muovermi, è vero;
ma di questo non occorreva dar cagione alla folla. Anch'io ero di
sasso, o, se vi piace meglio, di stucco.


XI.
Inno a Venere.--Un po' di storia.--L'editto di Teodosio.--Senza
braccia--Il nome dell'autore.--Induzioni ragionevoli.--Ho detto la
mia.--Una massima di Lisippo.--Imperatori romani.--Messalina.... col
bambino.

Come una statua monca, e rotta per di più in cinque o sei pezzi, abbia
potuto infiammare la fantasia, non solamente a me, che son l'ultimo
degli ultimi, ma a parecchie generazioni di poeti e di dotti, di
orecchianti e di orecchiuti, è cosa veramente degna di nota, ed anche
un pochino di studio.
È giovata a questa Venere la storia del suo ritrovamento; poi la
controversia lunghissima, e non ancora finita, intorno al vero suo
essere; da ultimo, e più di tutto, il carattere singolare della sua
bellezza. Come vedete, c'è qui l'embrione d'un panegirico, diviso in
tre punti, secondo le buone regole della sacra eloquenza. Adottiamo
quest'ordine prestabilito, che si conviene alla divinità del soggetto,
e aiuterà in pari tempo a chetare i bollori della nostra ammirazione.
Ecco la storia.
L'isoletta di Melos, oggi di Milo, è una delle Cicladi, ossia
dell'Arcipelago greco. Aveva, _in illo tempore_, su d'una collina
davanti all'ingresso della rada, un colmo di case, che parve un
villaggio a Tucidide, ma che divenne una città bella e buona, con
tanto di teatro, come attesta Diodoro Siculo e come le sue rovine
dimostrano. Oggi la città è tornata un villaggio, e dicesi Castro.
Lassù, nel febbraio del 1820, presso alcune grotte sepolcrali sotto la
cinta delle vecchie mura di Melos, un povero contadino, a nome Jorgos,
stava lavorando di zappa intorno ad un vecchio ceppo d'albero, che
voleva sradicare da un ciglione di terra. Ai colpi del contadino, il
ceppo, scambio di balzar fuori, si affonda in una buca. Jorgos, senza
volerlo, ha scoperto un ipogèo, una specie di grotta quadrata, larga
da quattro a cinque metri e profonda altrettanto, rivestita
d'intonaco, non senza indizii di quadrature policrome. Da buon greco
moderno, che conosce il pregio di simili incontri, Jorgos discende nel
sotterraneo, e trova, mezzo affondate nel terriccio, parecchie erme di
Dei, come un Mercurio, un Bacco indiano, e finalmente il torso d'una
Venere, mancante delle braccia e di tutta la parte inferiore,
dall'anca in giù. Lavora indefessamente e trova il resto della statua,
fino al plinto, insieme con rottami di braccia e di mani, di zoccoli,
d'iscrizioni e via discorrendo. Da quegli avanzi non c'è modo di
ricomporre le braccia della Dea. Ci sono, per esempio, tre mani; ma
quali sono veramente le due che le convengono? Jorgos non sta a
beccarsi il cervello; ha il grosso della statua, e questo gli basta
per capire che egli tiene in poter suo un capolavoro dell'arte antica
e che potrà cavarne un bel gruzzolo di piastre.
Quella Venere, evidentemente, era stata calata entro la buca da
qualche divoto, ai tempi in cui prevaleva la religione ufficiale di
Costantino, e forse qualche anno dopo il famoso editto di Teodosio,
quando i vescovi andavano attorno, armati del braccio secolare, ad
abbattere i simulacri, a diroccare i templi della vecchia religione
pagana. È noto che la più parte delle antiche statue furono conservate
alla posterità con questi inganni pietosi; tra l'altre la Venere
Capitolina e l'Ercole Mastai.
Fatta la scoperta di Milo, il signor Brest, agente consolare della
Francia in quell'isola, ne avvisò prontamente il suo ambasciatore a
Costantinopoli, che spedì a Milo un suo segretario, il visconte di
Marcellus. Nel frattempo, aveva toccato a Milo la _Chevrette_, su cui
era imbarcato un giovine uffiziale, il Dumont d'Urville, che vide la
Venere, e l'avrebbe comperata per milledugento lire, se il comandante
della corvetta non gli avesse dimostrata l'impossibilità di prendere
quel sopraccarico a bordo. Giunto il Marcellus colla nave dello Stato
l'_Estafette_, trovò che appunto allora la Venere era stata venduta
per quattromila lire ad un frate. Come, ad un frate? Sicuro, al P.
Economos, che, accusato di malversazioni a' suoi superiori, e chiamato
a Costantinopoli per render conti, voleva con quel donativo ottenere
la protezione di un Nicolaki Morusi, dragomanno dell'Arsenale. Si
oppose a quel contratto il Marcellus presso i primati dell'isola, e,
quantunque la statua fosse già stata imbarcata su d'un brigantino
greco sotto carica per Costantinopoli, ottenne di farla trasbordare
sull'_Estafette_, pagandola seimila lire al contadino, in nome del suo
ambasciatore, il marchese di Rivière. Dispiacque la cosa al Morusi,
cui il frate era andato a lagnarsi; i primati di Milo furono presi,
bastonati senza misericordia e condannati a pagare una multa di
settemila piastre. Li rimborsò il generoso signor di Rivière; ottenne
che il governo turco facesse delle scuse; ma le bastonate nessuno potè
più levarle ai poveri anziani dell'isola.
La Venere di Milo giunse a Costantinopoli il 24 di ottobre. Vederla e
desiderare di trovare le braccia mancanti, fu un punto solo pel
marchese di Rivière. Ma le ricerche riuscirono infruttuose, quantunque
andasse egli in persona. Certe estremità, rinvenute nell'ipogèo, o
poco lunge di là, non offrivano la medesima bontà di lavoro; altre,
come ho già detto, ridotte a pochi frammenti, non si prestavano ad un
restauro neanche approssimativo. C'era quel pezzo di mano col pomo,
che poteva far credere ad una Venere vincitrice del giudizio di
Paride; ma, senza contare la nessuna certezza che fra tre mani
rinvenute nell'ipogèo, quella del pomo fosse proprio da attribuirsi
alla statua, parve che con questa faccenda del pomo non si accordasse
troppo il ritrovamento contemporaneo d'un pezzo di zoccolo, o plinto
che si voglia dire, la cui frattura combaciava col plinto della
Venere, e la prolungava in modo da far supporre la presenza di una
seconda statua, più piccola, e non certamente di proporzioni
corrispondenti alla prima. Sul piano di quel frammento vedevasi
appunto una incavatura, adatta a ricevere il piede della statua
minore; sull'orlo, poi, si leggeva una iscrizione, che, supplita di
tre lettere in ognuno de' due capiversi, diceva così:--_Agesandro,
figlio di Menide,--d'Antiochia sul Meandro,--fece_.
Il ritrovamento di questo zoccolo, a cui non si pose troppa attenzione
da principio, guasta le uova nel paniere a coloro che pretendono la
Venere di Milo essere stata accompagnata ad un Marte, come si vede in
parecchi gruppi dell'antichità. Quello zoccolo non presenta la
larghezza necessaria a sostenere un Marte. Inoltre, esso è alquanto
più alto del plinto su cui poggia la Venere; il qual plinto,
precisamente sotto il piè sinistro della Dea, s'innalza un pochettino
anch'esso, come per accompagnarsi a quell'altro. C'era proprio bisogno
di alzare la base, per collocarvi il dio della guerra, già
naturalmente più alto della sua pretesa compagna?
Ma allora? che cosa ci poteva stare su quello zoccolo di giunta? O un
cippo, un'erme, come si ha in un esemplare d'Afrodite, conservato nel
Museo britannico; oppure.... oppure quell'unico tra gli Dei che, oltre
l'avere una stretta relazione con Venere, ha la statura più piccola e
fa intendere e rende naturalissimo quel rialzamento di base. È un'idea
mia, nata da un pezzo, fortificata da una visita al Museo nazionale di
Napoli, diventata certezza davanti a quel frammento di base, o, per
dire più esattamente, al disegno che ne ha fatto nel 1821 il signor
Debay.
Andate nel Museo Nazionale di Napoli e vedrete laggiù la Venere
Vincitrice, così detta di Capua. È nel medesimo atteggiamento della
Venere di Milo; gli occhi a mezz'aria, il piede sinistro su d'un
elmetto posato a terra; il braccio sinistro levato, per sostenere una
lancia; il destro abbassato, coll'indice teso in atto di comando.
Davanti a lei, e molto accosto è Cupido, coll'ali dimesse; nella mano
sinistra tien l'arco, e nella destra una freccia, che offre riverente
alla madre. Guardate al Louvre la Venere di Milo. L'elmo sotto i piedi
non c'è; ma di queste varianti d'esecuzione son molti gli esempi.
Abbiamo per contro l'assoluta somiglianza nei rispettivi atteggiamenti
degli omeri, indizio certo di una identica azione delle braccia. Se a
questo aggiungete il resto di base, la cui frattura perfettamente
combacia col plinto, mentre il piccolo spazio del suo piano e
l'incavatura nel mezzo paiono fatti a posta per dar luogo ad una
figura d'adolescente, in grande dimestichezza colla Dea, non avrete
più modo di dubitare. La Venere di Capua ha una sorella; sorella
maggiore, mi affretto a confessarlo. Quanto alla storiella della
Vittoria, sul fare di quella in bronzo del Museo di Brescia, non è più
il caso di parlarne. La Venere di Milo non può essere una Vittoria,
più di quello che lo sia la Vittoria di Brescia, che è una Venere
anche lei, alla quale un bel giorno, probabilmente sotto Vespasiano,
fondatore del tempio in cui essa è stata rinvenuta, furono aggiunte le
ali e lo scudo. La posteriorità della raffazzonatura è evidente. Del
resto, sia Vittoria, o Venere, quella di Brescia ha il peplo, e quella
di Milo è sempre più Venere di lei, perchè ha il torso nudo. E che
torso, e che nudo!
La statua, per dirvi tutto, è di marmo corallitico; un marmo d'Asia,
assai lodato da Plinio, che lo dice nella bianchezza e nell'apparenza
molto vicino all'avorio. L'ipogèo, nel quale fu rinvenuta, è a
cinquecento passi dal recinto del teatro di Milo, che forse era
dedicato a Venere, come quello di Pompeo in Roma, e come in generi
tutti i teatri antichi. La famosa Venere d'Arles fu appunto scoperta
nelle rovine del teatro romano di quella città provenzale. Salviano,
nel suo libro _De gubernatione Dei_, lasciò scritto: «_colitur Venus
in theatris._»
Quanta erudizione, buon Dio! Ma essa non è che la millesima parte di
ciò che si è stampato intorno alla meraviglia di Milo. E anch'io, dopo
tutto, ci avevo da dire la mia.
Resterebbe da aggiungere qualche cosa intorno alla bellezza scultoria
dell'opera, che è veramente singolare, e corrisponde per l'appunto a
quel ritorno allo studio del vero, che tenne dietro alla scuola di
Policleto. Una certa sprezzatura artistica nel trattare i capegli
denota l'epoca avanzata dell'arte. Quell'impercettibile mancanza di
simmetria tra i due lati del viso, quella lieve irregolarità nelle
proporzioni del collo, ed altre piccole licenze, che non isfuggono
all'occhio esercitato dell'artista, accennano alla copia d'un modello
vivente, anzi che alla stretta osservanza dei cànoni. Il pensiero
corre involontariamente a Lisippo, che teneva in molta stima i
trattati di Policleto, da cui confessava di aver cavato tutto il suo
sapere, ma che, additando i viandanti a' suoi giovani allievi, diceva
loro: «siano questi i vostri esemplari.» Massima eccellente in bocca a
Lisippo, il quale non perdeva di vista i principii, e ricordava con
reverenza i maestri.
Qualunque sia, Agesandro o Lisippo, l'autore, questa Venere è un
felice impasto di grazia soave e di grandezza eroica. È monca e piena
di rappezzi; ma la divinità di quel torso e di quella faccia,
l'eleganza snella e giovanilmente materna delle sue proporzioni, sono
tutto quello che si può immaginare di più bello in arte e in natura.
Veduta lei, manca la voglia di veder altro, e ci si scalda poco per
quella raccolta d'imperatori romani, che è veramente tra le più ricche
d'Europa. Figuratevi che d'ogni imperatore, busto o statua, ci sono
due, tre, quattro, fino a sei esemplari. Tra i più rari ho notato un
Pertinace, nudo e colossale, e un Nerone, alquanto più grande del
vero; per contro, essendo in marmo, dee ritenersi meno briccone del
vero.
Finirò con una statua di Messalina Augusta, che mi ha grandemente
colpito; grassotta, genialotta, cogli occhi un po' grossi, alla guisa
di certi miopi, i ricciolini sulla fronte, ravvolta in una sontuosa
rica, e con un bambino nelle braccia: il suo generoso Britannico, di
cui parla Giovenale, in un verso orridamente famoso.
È strano l'effetto di quella statua. Se in cambio di trovarla a Roma
dugent'anni addietro, vale a dire in terra di pagani e in un tempo
assai più pagano del nostro, l'avessero scoperta dieci anni fa, sul
territorio di Lourdes, si sarebbe gridato al miracolo, e la portentosa
immagine di Nostra Signora, innalzata sugli altari, farebbe prodigi a
bizeffe, coi ciechi, con gli storpi, e magari anche con le donne
sterili.
Debbo confessare tuttavia che un miracolo essa lo ha fatto per me,
quantunque non trasformata da nessuna apoteòsi. Dopo averla
considerata un bel pezzo, mi sono appressato a lei e le ho bisbigliato
un nome; non già quello di Claudio, non già quello di Silio; il nome
di Pietro Gossa. E quella briccona mi ha fatto il bocchino.
Lo credo, io!


XII.
Le grandi cose e le piccole.--Teatri e concerti.--_Incipit
lamentatio._--Il più costoso tra tutti i rumori.--Caffè
cantaiuoli.--_Il faut que jeunesse se passe._--I sette castelli del
diavolo.--Cavalli e pantomimi.--L'amore al lavoro.

Abbiamo veduto il palazzo del campo di Marte con tutte le sue
_dépendances_, e abbiamo veduto il palazzo del Louvre; l'esposizione
del presente e l'esposizione del passato, la transitoria e la
permanente; a farla breve, le due grandi cose di Parigi.
Ma Parigi non vive solamente di grandi cose; vive molto e sopratutto
di piccole. Chi non ha lette _Les petites industries_ di Edmondo
Texier, uno studio pubblicato sulla famosa Guida di Parigi del 1867,
dove l'arguto scrittore del _Siècle_ racconta come, vadano a finire i
trecentomila mozziconi di sigaro buttati quotidianamente per via, come
si faccia il pan grattato per le trattorie di quart'ordine, come si
fabbrichino le creste di pollo e le ossa di prosciutto, e via
discorrendo, non sa quanto ingegno ci voglia per cavare il nuovo dal
vecchio, nè quanta fortuna arrida a questi sforzi di una civiltà
sopraffina. Qui niente d'inutile, niente di perduto o di buttato via;
dei rilievi d'un pranzo della _Maison dorée_ si fa un _arlequin_ dei
Mercati; cogli avanzi dell'_Acadèmie nationale de musique_ (che così
pomposamente si chiama il teatro dell'Opera) si possono fare le
musichette dei _cafés chantants_. Qualcheduno pretende che ci sia uno
scambio, come un movimento di flusso e riflusso; ma io non ardisco
andare tant'oltre.
All'Opera si spende troppo e non è dato a tutti di entrarci. Il
_bureau de location_ si apre un'ora prima dello spettacolo; bisogna
far coda all'ingresso, per sentirsi a dire, un'ora dopo, che primi,
secondi e terzi posti, tutto è andato a ruba da cinque giorni, e
magari da quindici. Volete un biglietto d'anfiteatro, d'orchestra, o
di loggia, per la medesima sera? Lo troverete sicuramente, ma ad uno
di quegli uffici di rivendita, che sono frequentissimi nelle vicinanze
dei teatri, e specialmente sui _boulevards_, pagando, secondo le
circostanze, quaranta o sessanta lire quello che è segnato per
quindici sui prezzi correnti del _bureau de location_, il quale non ha
mai nulla per voi.
Tra parentesi, che cosa ne avviene? Quello che è avvenuto due
settimane fa, appunto alla grande _Académie nationale de musique_. Un
tenore si ammala, poche ore prima dello spettacolo. Come supplirlo, da
un momento all'altro, e senza la possibilità di una prova d'orchestra?
Cambiar lo spartito! Magari; ma, per far ciò, mancano le decorazioni,
il vestiario, le scene. In quella gran mole, così bella, quantunque
farragginosa, dell'architetto Garnier, non c'è posto per un magazzino,
per una attrezzeria proporzionata al bisogno. Ci vuole almeno un
giorno per introdurre e mettere a posto tutto ciò che occorre allo
scenico allestimento del _Profeta_ o del _Faust_. Dunque? Bisogna
rimandare la gente che sta per entrare in teatro e restituirle i
danari: cioè, intendiamoci, promettere di restituirli la mattina
vegnente, con comodo, e mediante il sistema della coda al _bureau de
location_.
L'impresario non sa darsene pace. È una brutta cosa dover restituire
22,000 lire, chè tante ne erano entrate in cassa quel giorno. Ma il
caso dello spettatore è anche più brutto. Il biglietto d'ingresso,
secondo la tarifia del teatro, val quindici lire? Gli restituiscono
puntualmente le sue quindici lire. Ma quel biglietto egli lo aveva
pagato sessanta in un _bureau_ di fuori via, che naturalmente non
restituisce nulla, perchè non era lui il mallevadore della
rappresentazione. E così avviene che il sullodato spettatore abbia
pagato quarantacinque lire per non veder nulla, e per sentire
altrettanto. In verità, è troppo caro.
Del resto non vi lagnate; se siete buongustai, non avete perduto altro
che l'occasione d'un disinganno. L'esecuzione musicale è meschina; le
decorazioni son tutto. Questi famosi spettacoli (e qui non parlo
solamente per l'_Académie nationale de musique_) si reggono per la
moltitudine degli spettatori, che si dànno la muta ogni sera; il buon
esito è assicurato da una _claque_ intelligente: la riputazione è
formata da una critica, anche più intelligente della _claque_.
Per queste ragioni, ed anche un pochino per questi pericoli,
rinunzieremo a certe musiche grandiose e andremo a sentire la
musichetta dei caffè cantaiuoli. Sono veri teatri, questi caffè,
somiglianti a certe arene d'Italia; platea all'aperto, qualche volta
protetta da un velario; quattro alberi intorno, ma non sempre; il
palcoscenico in fondo, elegantissimo, con grandi specchiere,
lampadari, fiammelle di gasse; queste poi a centinaia, a migliaia,
sotto tutte le forme conosciute dal cavaliere Ottino, ed altre ancora,
dentro e fuori del recinto, imprigionate in bellissimi globi di
cristallo. Bisogna trovarsi sull'imbrunire ai Campi Elisi, in questa
amenissima passeggiata che dalla piazza della Concordia mette all'Arco
della Stella e al Bosco di Boulogne; le fiammelle di tutti quei caffè,
vedute attraverso le piante, riescono d'un effetto magico, fantastico,
e.... trovate voi gli altri epiteti, perchè io ci perdo la scrima. Di
tanto in tanto un concertino di corni da caccia vien fuori ad
avvertirvi che quelle fiammelle dei Campi Elisi non sono le anime dei
giusti, e che potete entrare liberamente anche voi. Entrate di fatti,
o all'_Alcazar_, o agli _Ambassadeurs_, o all'_Horloge_; ai primi
posti sborserete tre lire, ai secondi la metà, sotto forma di
pagamento per un gotto di birra, o per un _mazagran_ (caffè in
bicchiere) che avrete domandato al tavoleggiante e che egli vi avrà
posto su d'un listello orizzontale di latta, appiccicato alla
spalliera d'una sedia, che sarà in linea perpendicolare davanti alla
vostra. Inutile il dirvi che per una seconda portata si paga da capo,
ma non più così caro.
Frattanto, sul palcoscenico le cantilene si succedono e si
rassomigliano. La più parte sono sciocchezze, senz'altro sugo che
quello di un doppio senso fatto abilmente capire, o dalla bellezza, o
dalla grazia, di chi canta e gesticola; bene inteso, se chi canta e
gesticola appartiene al «devoto femmineo sesso.» Le voci, per solito,
si fanno desiderare; gli abbigliamenti sono elegantissimi e spesso
anche limitatissimi. Intorno alla cantante, o al cantante, sedute su
certi canapè, come in un salotto e durante un concerto di società, si
vedono spesso dieci dodici tra baronesse e contesse di princisbecco,
le quali non hanno altro ufficio che di muovere il ventaglio, di
guardare a destra e a sinistra _sicut leo rugiens_, e di mostrare i
denti, _quaerens quem devoret_. Di queste dame non è piccol numero
neanche in platea. Guai a voi, se siete Mozambicco, cioè a dire non
avvezzo a queste magnificenze; la testa vi gira, e, nell'uscire dal
tempio, non vedete più i meandri della sacra selva, donde vi bisogna
uscire, per tornarvene a casa. Fortunatamente, non è lontana la piazza
della Concordia, coi suoi mille lampioni accesi, colle sue statue
colossali in giro e col suo obelisco nel mezzo. Arrivate là, guidato
da quella gran luce; vi parrà d'essere in Alessandria d'Egitto.
L'obelisco di Cleopatra vi guarda; se non siete Marc'Antonio, ci
scatta poco.
Ho citato tre caffè cantaiuoli, ai Campi Elisi. Poco distante è il
Mabille, un giardino dove si balla, cioè, correggo la frase, dove si
vede ballare. Il luogo ha più fama che non meriti; i forastieri ci
vanno in folla e ne ritornano disillusi, qualche volta stomacati.
Bullier, una variante, o riscontro di Mabille, è sull'altra riva della
Senna; gli studenti ci abbondano. _Il faut que jeunesse se passe._ Non
dico di no; purchè passi all'esame!
Un teatro, o caffè, o giardino, più curioso di tutti è parso a me
quello delle _Folies Bergères_, poco discosto dal _boulevard_
Montmartre. C'è un teatro chiuso, con gallerie, platea ed orchestra;
c'è un giardino, colla sua brava fontana zampillante nel mezzo, ma
tutto coperto da cristalli e anch'esso con gallerie che corrono torno
torno; un medesimo vestibolo vi conduce al bivio, anzi al trivio del
giardino, della platea, delle scale, che mettono su, alle gallerie
dell'uno e alle logge dell'altra. Da per tutto i deschetti di zinco;
da per tutto i tavoleggianti, pronti a servirvi; in alcuni punti di
passaggio i banchi, a cui siedono le rappresentanti dell'autorità
padronale; tra queste una giovine donna, con veste scollata, i baffi e
le fedine lunghe un palmo, che sta a sentire, col suo sigaro ai denti,
le giaculatorie dei _gommeux_, in adorazione davanti a lei. Lungo gli
anditi e le gallerie è una processione continua di viscontesse e di
duchesse Christophle, sfarzosamente vestite, che vi passano daccanto,
distribuendo occhiate imperatorie. Potete offrir loro un rinfresco; la
galanteria francese non lo impedisce, e Baiardo nei panni vostri
farebbe lo stesso. Se non lo fate, niente di male; son tanto alla
mano, quelle gran dame, che quel rinfresco, alla vostra tavola, sono
capaci di offrirselo da sè.
Qui, lo confesso, fui Mozambicco, rimasi a bocca aperta, cogli occhi
sbarrati, davanti a tanto spreco di luce, di eleganze, ed anche di
povera carne umana. Triste spettacolo, per un moralista dell'antica
maniera! Uno della nuova vi asserirà che il chiudere questi ritrovi
non muterà le condizioni fisiologiche, o patologiche, del «cervello
del mondo.» Io credo che sarebbe già un tanto di guadagnato a togliere
la mostra, e che tante disgraziate coscienze perderebbero l'incentivo.
Un tempo si diceva: _le roi s'amuse_: ora Parigi ha preso il posto e
fa le veci del re; per divertire Parigi e i suoi centomila ospiti di
tutto l'anno, occorre molta gente in scena, qualunque sia lo
spettacolo. L'operaia del giorno è _figurante_ di sera; il figlio di
Parigi, chiusa la bottega, va a fare il _romain_, il _claqueur,
n'importe quoi_, in un teatro qualunque; magari il ballerino a
Mabille. Egli pure si diverte, e si diverte _gratis_, aiutando a