Lutezia - 1
LUTEZIA
DI
ANTON GIULIO BARRILI
SECONDA EDIZIONE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1879.
Proprietà letteraria.
Tip. Treves.
AL
BARONE GIORGIO SONNINO
DEPUTATO AL PARLAMENTO
CON AFFETTO FRATERNO
ANTON GIULIO BARRILI.
LUTEZIA
I.
La ragione del viaggio.--Un'occhiata a Torino.--Savoia e Borgogna.--Il
deserto--Idea luminosa.--Parigi di sera.--Sul marciapiede.--Arabi
apocrifi e francesi autentici.--La storia del nastro.--Scaccini e
accattoni.--Tolleranza parigina.
Parigi, 15 settembre 1878.
Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di
cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste
ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le
voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero
perchè, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande
curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi
d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole.
L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato,
mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora.
Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.
Il mio viaggio può essere il viaggio di tutti, perciò le descrizioni
tornerebbero superflue; ciò nondimeno, permettetemi di buttarvi giù
quattro righe di storia. Ho passato un giorno a Torino, col rammarico
di non poterci rimanere più a lungo. La vecchia capitale del regno si
è grandemente abbellita; è florida, operosa e popolata più che mai.
Esempio ed insegnamento notevole di una città che pareva condannata
alla decadenza, e che ha trovato in sè stessa, nel suo coraggio, nella
sua volontà, le forze riparatrici, non sempre facili ad attingersi
dalle ricette degli Esculapii ufficiali.
Della galleria del Cenisio ho poco o nulla da dirvi. L'ho dormita tutta
quanta, e mi è parsa poca. Mi sono risvegliato in Francia, al suono di un
«_vos billets, messieurs_» profferito allo sportello, da un conduttore
gallonato d'oro. Ho visto il gendarme, in luogo del mio prediletto
carabiniere; mi han fatto scendere dalla carrozza e traversare il
binario; mi han chiuso in una corsia, nel cui punto più stretto un
gendarme aggradiva i nostri biglietti di visita e ne faceva raccolta, a
mano a mano che gli sfilavamo davanti, o, per dire più esattamente, sul
petto; mi hanno trattenuto un'ora nella stia, con una moltitudine di
altri infelici, senza darmi neanche licenza di uscire per un minuto
all'aperto; e tutto ciò alla gloria _de l'administration, de la
régularité, des exigences du service_. In nome e alla gloria di queste
cose, qui si sopporta anche di peggio. In Italia si eserciterebbe la
pazienza con qualche dozzina di giaculatorie, non registrate nella _Via
del Paradiso_, nè in altro libro di preghiere alla mano.
Rammento, per debito di giustizia, che a Modane, come in ogni altra
stazione ferroviaria, od anche ufficio pubblico di Francia e Navarra,
la rigidità della consegna, l'austerità del regolamento, sono
temperate dalla gentilezza dei modi. Toccate la molla del «_s'il vous
plaît, monsieur_» e quella del «_veuillez avoir la bonté_» e fate
tutto quel che volete del conduttore, del guardiano, del gendarme, del
sergente, del brigadiere, e perfino (almeno, c'è chi lo assicura)
perfino del maresciallo.
In grazia dei «_monsieur_» serviti a tutto pasto e con ogni razza di
gallonati, ho potuto uscir primo dalla gabbia, trovare il meno peggio
dei posti nel treno francese, e schiacciarmi un altro sonnellino
attraverso la Savoia. Nella stazione di Ambérieu, dove giungemmo a
giorno chiaro, ho bevuto un latte, che meriterebbe il viaggio da solo.
Il paese tutto intorno è bellissimo, colle sue balze che torreggiano
impervie come rocche ariostesche, i suoi villaggi mezzo nascosti tra i
pioppi, e il Rodano pur mo' nato che gorgoglia (quasi sarei per dire
che balbetta) sul greto bianchiccio della vallata.
Che dirvi della Borgogna, attraversata nel giorno, con uno splendido
sole? È la campagna meglio pettinata del mondo. I prati, i vigneti, i
campi di grano turco, i casolari, i castelli signorili, ogni cosa è
lisciata, cincischiata, fatta a pennello; ma badate, a pennello di
scuola antica, e non già con certe spazzole da denti che so io, e che
voi non ignorate di certo.
Questi prodigi d'agricoltura non vi occorrono mica nel più fertile dei
terreni possibili. La campagna, dove è nuda, si mostra sassosa e
gessosa, che è una disperazione a vederla. Ma ogni poggio, ogni falda,
ogni piano, ha la sua coltivazione più acconcia; l'azoto vi si ficca
in abbondanza e sotto tutte le forme più dottamente putride; i corsi
d'acqua, numerosi e ben distribuiti, vi dànno de' pascoli così verdi,
così ricchi, così appetitosi, da farvi qualche volta desiderare
d'esser nato bue veramente, per contribuire, nella calma di una onesta
ruminazione, all'incremento, alla prosperità di questo suolo
benedetto. Quante volte e per quanti guastamestieri di cui è pieno il
mondo, non sarebbe meglio che la _natural selection_ avesse portato un
tal giro nella scala degli esseri?
Il pensiero dei cinque miliardi e la dimostrazione sott'occhi del modo
in cui poterono esser pagati ai Prussiani senza danno del paese, si
alternano nella mia testa con le belle vedute di Macon e di Digione, e
con lo spettacolo dei contadini che maneggiano la vanga qua e là,
ritti sulla persona alla maniera toscana, quasi eleganti in vista, con
la loro camicia bianca, la fascia di lana intorno alla vita e il
cappello di paglia sulla testa. La via è lunga; ma, come vedete, non è
punto noiosa.
Parigi si annunzia come Roma, con un vasto deserto. Ma questo di
Parigi non è desolato come l'agro romano. Scarseggiano i paesi; si
vedono a tratti poche case disseminate nel verde: ma la strada ferrata
corre in mezzo a vigne, orti, semenzai e frutteti. Ho notato per un
cinquanta chilometri di questa coltivazione intensiva.
Partito da Torino alle otto e cinquanta di sera giunsi a passar la
Senna, sopra Parigi, dopo le cinque pomeridiane del giorno seguente.
Alle sei, o giù di lì, per un ritardo reso necessario dalla affluenza
dei treni, smontavo alla stazione di Bercy, o di Lione, se vi piace
meglio. Novità inaudita; non un omnibus d'albergo ad aspettare i
forastieri, poche carrozzelle, e tutte colla scritta «_louée_» su
d'una banderuola piantata a cassetta, sulla sinistra del cocchiere. Ma
non invano si è nati nella patria dei grandi scopritori. Scendo una
scala, che mi mette sul _boulevard de Mazas_; m'imbatto in un piccolo
Gavroche, che vuol portarmi la sacca da viaggio per venti centesimi;
resisto e gli prometto una lira, se gli dà l'animo di trovarmi un
_fiacre_. Il biricchino stacca un passo di corsa da disgradarne un
bersagliere, e dieci minuti dopo, mentre vicino a me, su di un rialto
isolato che fa cerchio intorno ad un lampione, quattordici o quindici
viaggiatori appiedati rappresentano la scena dei superstiti della
_Medusa_, io ci ho il mio _fiacre_, col Gavroche trionfante a
cassetta. Non invito nessuno a tenermi compagnia; non torno indietro a
cercare il bagaglio; infilo Parigi alla corsa.
Parigi è una città.... Ma, adagio; debbo proprio descriverla?
Smontiamo prima all'albergo, che è abbastanza lontano dalla stazione;
intavoliamo coll'albergatore i negoziati preliminari d'ogni trattato;
diamo ad un cameriere il biglietto e la chiave del baule, perchè possa
andare a ritirare il bagaglio dimenticato; scendiamo, cerchiamo il
primo _passage_, o galleria, che ci metta in comunicazione colla
grande arteria parigina; ed eccoci finalmente sul _boulevard_, anzi
proprio su quello famoso _des_ _Italiens_, che abbiamo intraveduto un
po' tutti, all'età di quindici anni, nelle pagine d'un romanzo
francese, tradotto da un Enrico Tettoni, o da un Gaetano Barbieri.
Parigi, per la prima volta, vuol esser veduta sui _boulevards_ e di
sera. Immaginate una via, non affatto rettilinea, larga una quarantina
di metri, con due marciapiedi, ognuno dei quali occupa un quarto di
questa misura, avendo sui margini dei grandi platani malati
d'insonnia, frammezzati da chioschi di ferro, con pareti di carta, e
un lume dentro, che ve li fa trasparenti, permettendovi di leggere un
subisso di annunzi. Uno di questi chioschi non annunzia che spettacoli
teatrali, ed è tutto chiuso, come una colonna traiana. Un altro serve
di bottega ad un venditor di giornali; un altro ancora, circondato
d'un chiuso di ferro, alto forse due metri, nasconde nei fianchi
quattro o cinque settori, dove un uomo può stare benissimo in piedi,
dando le spalle al prossimo. _Ne m'en demandez pas davantage_. Accanto
ad alcuni di questi chioschi, è una chiave d'ottone con una secchia. I
cocchieri aprono la chiave e riempiono la secchia, per abbeverare i
cavalli, quando fanno sosta sui margini della strada. I casamenti
sterminati, che corrono lungo la via, bucherellati di finestre,
gremiti d'insegne, scintillanti di fiammelle di gasse, non formano a
pian terreno che un solo caffè, una sola trattoria. Metà del
marciapiede è invasa da sedie e deschetti di zinco. Le persone sedute,
che mangiano e bevono, sono per lo meno in numero uguale a quelle che
guardano e passano. Il gasse, come vi ho detto, è gittato a
profusione; della luce elettrica in alcuni punti si fa spreco; per
esempio nel crocicchio e nella piazza attigua dell'Opera, dove vi par
d'essere nel giardino di Margherita, quando sta per finire il
terz'atto del _Faust_. Qui, per altro, le Margherite passeggiano a
migliaia tra la folla, riconoscibili dall'andar sole, perchè, come
dice il libretto, «_non hanno d'uopo ancor--del braccio d'un signor_.»
M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto
di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al
suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente
che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che
abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella
gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei
fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco;
ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe,
sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E
quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture,
di omnibus e di _tramways_?
La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di
forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una
certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi
pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col
turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa
sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi
mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi,
nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le
più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono
facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può
credere che tutti i decorati della Legion d'Onore si siano dati la
posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.
Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con
qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono
fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io
credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il
mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti
cavalieri visibili, e che un «_pardon_» e un «_s'il vous plaît_»
ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando
questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi
volentieri come il fumo negli occhi.
Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra
volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti
e che non occorre di mettere il _ruban_, salvo che lo si faccia per
cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in
Italia. Il _ruban_ è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un
grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri
delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate
alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete
ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo
d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava
decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a
raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.
A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per
contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una
sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad
una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio
sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si
adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di
santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi
sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i
custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese,
ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo
come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare,
per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non
c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A _Nôtre Dame_ accade anche
peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è
occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti
ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la
carità _pour leurs pauvres_, da sagrestani che ve la chiedono _pour
l'obole de saint Pierre_, e finalmente da un personaggio ambiguo, che
intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette
gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno
della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con
l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto
ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli
altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta
vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce:
«signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi
parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho
visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.
Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona
grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare
la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli,
virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune,
dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «_pardon_.» C'è del buono, vi
dico io, c'è del buono. Impariamo.
II.
Il cervello del mondo.--Caso e necessità politica.--Una fioritura
colossale--L'_article de Paris_--La virtù del cartellone.--La caccia
al compratore.--Gli occhi della padrona.--La scala dei prezzi.--L'arte
di pelare un pollo senza farlo stridere.
Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta.
Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e
tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è
forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del
mondo?»
Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si
vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima,
indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori
sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e
continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la
grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la
decima a' suoi gloriosi castellani.
Parigi, prendendola _ab ovo_, è la figlia del caso, maritato ad una
necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva
convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie
genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una
meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della
Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso.
L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli
imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi
fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi
perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e
Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della
Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose
umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col
benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa,
poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua
fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei
Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece
di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle
provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere,
saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si
sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre
di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo,
come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori
dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce
a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I
lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per
vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione,
il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito
in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta
dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi
di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo
moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.
Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il
padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come
capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre
Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi
perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non
escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e
le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione
che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla
coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende
di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a
Tebe; ma io credo che il parallelismo non corra. Parigi è il fiore
della Francia, e la Francia avrà sempre in qualche cosa il primato. Ci
saranno delle altre Madrid; Carlo V rinascerà in altri monarchi
fortunati; ma Parigi trionferà ancora, perchè cospireranno a
sostenerla altri Bajardi, altri Jean Goujon, altri Palissy ed altre
madame d'Etampes. Sicuro, anche le donne, e che donne! Anche questa è
stata una specialità, un _article de Paris_, composto di un terzo di
bellezza, e di due terzi di grazia. «E la bellezza è vinta dal lavoro»
direbbe il poeta.
Parigi ha i suoi barbari, i suoi odiatori domestici, peggiori a gran
pezza dei nemici e degli invidiosi di fuori. È da vedersi qui il punto
nero; ma, per istudiarlo a dovere, ci vorrebbe tempo d'avanzo, ingegno
addestrato a questa maniera d'indagini. E poi, basterebbe ciò, per
venire con qualche fondamento ai pronostici? Si ragiona male con certe
classi di moralisti, che gridano contro una corruzione da cui non
sanno sottrarsi eglino stessi, non si può capire dove mirino certi
artefici del lusso, che potrebbero contentarsi di meno, tornando
all'aratro, e non vogliono, perchè essi pure hanno nell'anima il baco
dei desiderii smodati, e credono di poter domandare come un loro
diritto ciò che agli uni concede la fortuna, agli altri il lavoro
accumulato di tre o quattro generazioni. Questa confusione di
dottrinarii e d'ignoranti sfugge ad ogni esame, manda a male ogni
calcolo. Ieri vi hanno sopportato un Dionigi; quest'oggi vi rovesciano
un Washington.
Torno all'_article de Paris_. Qualunque sia, a qualunque industria
appartenga, esso è la forza di questa città; ed è qui che la cosa
s'intende. La città è tutta un'insegna; ad ogni bottega, ad ogni
piano, ad ogni finestra, si vede una scritta in grosse lettere d'oro.
Il parrucchiere, il tabaccaio, il liquorista, affittano le loro
vetrine alla pubblicità di altre industrie, bisognose di richiamo.
Dove c'è un muro maestro che aspetta l'addentellato d'una casa nuova,
si legge sempre qualche avviso che ha le lettere alte due palmi. Il
_Petit Journal_, un foglio niente migliore di molti altri, vi annuncia
così la sua tiratura di 600,000 copie al giorno. Altrove non ne
annuncia che 500,000; in certi luoghi si mette a cavallo delle
550,000; dappertutto fa precedere il numero delle copie da queste
parole orgogliose: «_le plus grand succès de l'époque_». Scommetto che
qui farebbe fortuna un giornaletto il quale sapesse spendersi
venticinque mila lire per far scrivere su tutte le cantonate
disponibili: «_Le plus petit succès de l'époque! Le...., _n'importe
quoi_, journal politique quotidien: tirage de 999 exemplaires_». Si
riderebbe dei pochi, come si ride dei molti, ma il giornale avrebbe
uno spaccio incredibile. Tanta è qui la virtù dell'annunzio!
Che dire del foglietto che si distribuisce a mano su tutti i
marciapiedi, su tutti i crocicchi di strada? Il cappellaio che si
serve di questo richiamo non vi annunzia mica un cappello da dieci
lire; tutt'altro! ve lo annunzia da sedici, o da venti. Voi, che avete
appunto bisogno d'un cappello, dite in cuor vostro:--se questo me lo
vende a sedici lire, Dio sa quante ne vorrà il cappellaio che non
manda attorno i foglietti!--E andate subito da quell'altro e pagate
sedici lire, certo di aver cansato una spesa di venticinque. Nè solo
per questo, ci andate, ma anche per un poco di gratitudine. Certi
foglietti son meraviglie d'arte tipografica, e abbondano di utili
indicazioni. L'altro giorno, per esempio, vi davano in questo modo il
piano della rassegna militare a Vincennes. Molti, da quattro mesi, vi
danno quotidianamente la pianta topografica dell'Esposizione. Un mio
amico, presidente d'un Club Alpino dell'Alta Italia, fa raccolta di
tutte queste offerte gratuite, con intenzione di custodirle. Ne avrà
presto una montagna, e potrà farne l'ascensione.
L'_article de Paris_ è la cosa fatta con maggior garbo, il libro nuovo
meglio stampato, il drappo meglio tinto, la veste meglio aggiustata.
Una certa grazia biricchina, una certa sprezzatura artistica, un certo
modo di presentare l'oggetto, ve ne raddoppiano il valore. E questo è
il grande vantaggio. Del resto, qui i prezzi variano secondo le
strade. Il _boulevard_ è una ladronaia galante. Entrate in una bottega
per comperare una cravatta, o per farvi stampare un centinaio di
biglietti di visita; c'è dentro una donnina di garbo, che ragiona a
lungo con voi, vi fa strabiliare col suo buon gusto, e con la scoperta
del vostro. Non ve ne eravate accorto, ed avevate anche voi un gusto
squisito, sopraffine, _non plus ultra_. La signora, quando vi ha
lisciato e ridotto per benino, chiama il commesso, un artista fallito,
elegante di aspetto e rispettoso di modi, che è incaricato di darvi il
colpo di grazia. Vi si domandano cento lire per ciò che a casa vostra,
od anche cinquanta passi lontano, vi costerebbe a mala pena
venticinque. Ma come dirgli che è un indiscreto, là, sotto gli occhi
della padrona, che vi abbozza con le labbra un sorriso? Rinunziereste
al vostro buon gusto, di creazione così recente, vi gabellereste da
voi per un barbaro?
Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver
pranzato da Bignon, o al caffè _Riche_? Bisogna dunque passare sotto
le Forche caudine; andare al _Riche_, o da Bignon. Eppure, chiuso là
in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta
persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato
trenta lire, o giù di lì, una scarsa _julienne_, due piatti di carne,
o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al _Diner
parisien_ o al _Diner Valois_, e pagate cinque lire un pranzetto più
compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che
non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da
Tissot, o da un altro del _Palais Royal_, e lo stesso pranzo vi costa
a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un
pulitissimo ristoratore coll'insegna _Au Rosbif_, che promette di
farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come
non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi
pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non
c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri
di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie
(parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di
mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi
obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o
quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che
manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte
sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e
un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè
_Riche_, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello
che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno,
si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una
_piquette corrigée_, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal
cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in
Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo
vicino della campagna pisana.
Dunque io dico, l'_article de Paris_ varia secondo le strade e le
insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal
libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si
tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma
il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità
apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si
conosce l'arte di _plumer un poulet sans le faire crier_. Al gran
prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.
III.
Poliglottismo commerciale.--Eccezioni alla regola.--Orgoglio
legittimo.--La fratellanza dei popoli e la razza latina.--Non e ne
'ncaricà.--Retorica onesta.--La parabola del buon levatore.--_Laboremus_.
_English spoken,_
_Man spricht Deutsch,_
_Men spreeckt hollands,_
_Se habla español,_
e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il
testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in
ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe
vetrine di via Lafayette.
In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono
rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di
vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via
Castiglione, entro l'insegna d'un fotografo...italiano. L'eccezione
conferma la regola.
Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come
statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al
francese _attraper_ (preziosa notizia che ho trovata sul _Pays_, in un
articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a
Parigi che costui parla l'italiano «_comme le Dante_». È dunque da