Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 25

E non pertanto
Dar consiglio ad alcuno io non vorrei
Di tener questa via. Te da gran tempo
La gloria segue e la fortuna; ad essi
Util tu sei, tu necessario e caro,
Terribil forse: e tu la prova hai vinta;
Se pur può dirsi che sia vinta ancora.
IL CONTE.
Che dubbi hai tu?
GONZAGA.
Tu, che certezza? Io vedo[952]
Dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
Segni d’amor; ma pur, l’odio che teme,
Altri ne ha forse?
IL CONTE.
No: di questo io nulla
Sono in pensier. Troppo a regnar son usi;
E san che all’uom da cui s’ottiene il molto
Chieder non dessi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:
Questa cupa arte lor, questi intricati
Avvolgimenti di menzogna, questo
Finger, tacere, antiveder, di cui
Tanto li loda e li condanna il mondo,
È meno assai di quel che al mondo appare.
GONZAGA.
Se pur non era di lor arte il colmo
Il parer tali a te.
IL CONTE.
No: tu li vedi,
Con l’occhio[953] altrui: quando col tuo li veda[954],
Tu cangerai pensiero. Havvene[955] assai
Di schietti e buoni; havvene[955] tal che un’alta
Anima chiude, a cui pensier non osa
Avvicinarsi che gentil non sia:
Anima dolce e disdegnosa, in cui
Legger non puoi, che tu non sia compreso
D’amor, di riverenza, e di desio
Di somigliarle. Non temer; non sono
Di me scontenti; e quando il fosser mai,
Io lo saprei ben tosto.
GONZAGA.
Il Ciel non voglia
Che tu t’inganni.
IL CONTE.
Altro mi duol: son stanco
Di questa guerra che condur non posso
A modo mio. Quand’io non era ancora
Più che un soldato di ventura, ascoso
E perduto tra i mille, ed io sentia
Che al loco mio non m’avea posto il cielo,
E dell’oscurità l’aria affannosa
Respirava fremendo, ed il comando
Si bello mi parea.... chi m’avria detto
Che[956] l’otterrei, che a gloriosi duci,
E a tanti e così prodi e così fidi
Soldati io sarei capo; e che felice
Io non sarei perciò!....
(_entra un Soldato_)
Che rechi?
SOLDATO.
Un foglio
Di Venezia.
(_gli porge il foglio, e parte_)
IL CONTE.
Vediam.[957]
(_legge_)
Non tel diss’io?
Mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
Chiede la pace,[958] e conferir con meco
Braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?
GONZAGA.
Io vengo.
IL CONTE.
Che dì tu di tal pace?
GONZAGA.
Ad un soldato
Tu lo domandi?
IL CONTE.
È ver; ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, tra poco
Io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
Questo è contento al certo. Eppur[959] del tutto
Esser lieto non so: chi potria dirmi
Se un sì bel campo io rivedrò più mai?
_Fine dell’atto quarto._
[949] imponevi
[950] sarien
[951] varcato non l’hanno
[952] veggio
[953] Coll’occhio
[954] veggia
[955] Avvene.—_Il Manzoni rimase oscillante, nelle tragedie, circa il
modo di scrivere le voci composte di codesto verbo. In questa stessa
tragedia, lasciò correre, p. es., un ~avvi~ nella scena quinta dell’atto
I (pag. 191)._
[956] Ch’io
[957] Veggiam.
[958] a lor la pace Domanda il Duca,
[959] E pur


ATTO QUINTO.

SCENA I.
Notte.—Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.
IL DOGE, i DIECI, e IL CONTE seduti.
IL DOGE.
(_al CONTE_)
A questi patti offre la pace il Duca:
Su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.
IL CONTE.
Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
Promisi allor: vi piacque. Io attenni in parte
Quel che promesso avea: ma lunge ancora
Dalle parole è il fatto; ed or non voglio
Farle obbliar però; sul labbro mio
Imprevidente militar baldanza
Non le mettea[960]. Di novo[961] avviso or chiesto,
Altro non posso che ridirvi il primo.
Se intera e calda e risoluta guerra
Far disponete, ah! siete a tempo[962]: è questa
La miglior scelta ancora. Ei vi abbandona
Bergamo e Broscia; e non son vostre? L’armi
Le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi
Quanto sperar di torgli v’è concesso.
Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede
Voi non volete altro che il ver, se il modo
Mutar di questa guerra a voi non piace,
Accettate gli accordi.
IL DOGE.
Il parlar vostro
Accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
Parer vi si domanda.
IL CONTE.
Uditel dunque.
Scegliete un duce, e confidate in lui:
Tutto ei possa tentar; nulla si tenti
Senza di lui: largo poter gli date;
Stretto conto ei ne renda. Io non vi chiedo[963]
Ch’io sia l’eletto: dico[964] sol che molto
Sperar non lice da chi tal non sia.
MARINO.
Non l’eravate voi quando i prigioni
Sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra
Più risoluta non si fea per questo,
Nè certa più. Duce e signor nel campo,
Forse concesso non l’avreste.
IL CONTE.
Avrei
Fatto di più: sotto alle mie bandiere
Venian quei prodi; e di Filippo il soglio
Voto[965] or sarebbe, o sederiavi un altro.
IL DOGE.
Vasti disegni avete.
IL CONTE.
E l’adempirli
Sta in voi: se ancor nol son, n’è cagion[966] sola
Che la man che il dovea sciolta non era.
MARINO.
A noi si disse altra cagion: che il Duca
Vi commosse a pietà, che l’odio atroce
Che già portaste al signor vostro antico,
Sovra i presenti il rovesciaste intero.
IL CONTE.
Questo vi fu riferto? Ella è sventura
Di chi regge gli Stati udir con pace
L’impudente menzogna, i turpi sogni
D’un vil di cui non degneria privato
Le parole ascoltar.
MARINO.
Sventura è vostra
Che a tal riferto il vostro oprar s’accordi,
Che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.
IL CONTE.
Il vostro grado io riverisco in voi,
E questi generosi in mezzo a cui
V’ha posto il caso: e mi conforta almeno
Che il non mertato onor di che lor piacque
Cingere il loro capitan, lo stesso
Udirvi io qui, mostra ch’essi han di lui
Altro pensiero.
IL DOGE.
Uno è il pensier di tutti.
IL CONTE
E qual?
IL DOGE.
L’udiste.
IL CONTE.
È del Consiglio il voto
Quello che udii?
IL DOGE.
Si: il crederete al Doge.
IL CONTE.
Questo dubbio di me?....
IL DOGE.
Già da gran tempo
Non è più dubbio.
IL CONTE.
E m’invitaste a questo?
E taceste finor?
IL DOGE.
Sì, per punirvi
Del tradimento, e non vi dar pretesti
Per consumarlo.
IL CONTE.
Io traditor! Comincio
A comprendervi alfin: pur troppo altrui
Creder non volli. Io traditor! Ma questo
Titolo infame infino a me non giunge:
Ei non è mio; chi l’ha mertato il tenga.
Ditemi stolto: il soffrirò, chè il merto:
Tale è il mio posto qui; ma con null’altro
Lo cambierei[967], ch’egli è il più degno ancora.
Io guardo, io torno col pensier sul tempo
Che fui[968] vostro soldato: ella è una via
Sparsa di fior. Segnate il giorno in cui
Vi parvi un traditor! Ditemi un giorno
Che di grazie e di lodi e di promesse
Colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando
Io venni a questo che alto onor parea,
Quando più forte nel mio cor parlava
Fiducia, amor, riconoscenza, e zelo....
Fiducia no: pensa a fidarsi forse
Quei che invitato tra[969] gli amici arriva?
Io veniva all’inganno! Ebben, ci caddi;
Ella è così. Ma via; poichè gettato
È il finto volto del sorriso ormai,
Sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
Che anch’io conosco. A voi parlare or tocca;
E difendermi a me: dite, quai sono
I tradimenti miei?
IL DOGE.
Gli udrete or ora
Dal Collegio segreto.
IL CONTE.
Io lo ricuso.
Ciò che[970] feci per voi, tutto lo feci
Alla luce del sol; renderne conto
Tra insidiose tenebre non voglio.
Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
Voglio scolparmi a chi m’intenda; voglio
Che il mondo ascolti le difese, e veda[971]....
IL DOGE.
Passato è il tempo di voler.
IL CONTE.
Qui dunque
Mi si fa forza? Le mie guardie!
(_alzando la voce, si move per[972] uscire_).
IL DOGE.
Sono
Lunge di qui. Soldati!
(_entrano genti armate_)
Eccovi ormai
Le vostre guardie.
IL CONTE.
Io[973] son tradito!
IL DOGE.
Un saggio
Pensier fu dunque il rimandarle: a torto
Non si pensò[974] che, in suo tramar sorpreso,
Farsi ribelle un traditor potria.
IL CONTE.
Anche un ribelle, si: come v’aggrada
Ormai[975] potete favellar.
IL DOGE.
Sia tratto
Al Collegio[976] segreto.
IL CONTE.
Un breve istante
Udite in pria. Voi risolveste, il vedo[977],
La morte mia; ma risolvete insieme
La vostra infamia eterna. Oltre l’antico
Confin l’insegna del Leon si spiega
Su quelle torri, ove all’Europa è noto
Ch’io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
Ma intorno a voi, dove non giunge il muto
Terror del vostro impero, ivi librato,
Ivi in note indelebili fia scritto
Il benefizio[978] e la mercè. Pensate
Ai vostri annali, all’avvenir. Tra poco
Il dì verrà che d’un guerriero ancora
Uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia. Or sono
In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
Ch’io non ci[979] nacqui, che tra gente io nacqui
Belligera, concorde: usa gran tempo
A guardar come sua questa qualunque
Gloria d’un suo concittadin, non fia
Che straniera all’oltraggio ella si tenga.
Qui c’è[980] un inganno: a ciò vi trasse un qualche
Vostro nemico e mio: voi non credete
Ch’io vi tradissi. È tempo ancora.
IL DOGE.
È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo
Affrontavate chi dovea punirlo,
Tempo era allor d’antiveggenza.
IL CONTE.
Indegno!
Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
Ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi[981]:
Tu forse osasti di pensar che un prode
Pe’ giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai
Come si mor[982]. Va: quando l’ultim’ora
Ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
Non le starai con quella fronte al certo,
Che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.
(_parte il CONTE tra i soldati_[983]).
[960] ponea
[961] nuovo
[962] in tempo. _Cfr. pag. 226._
[963] chieggio
[964] io dico
[965] Vuoto
[966] ragion
[967] Il cangerei
[968] Ch’io fui
[969] in fra (_ma cfr. pag. 240!_).
[970] Quel ch’io
[971] veggia
[972] _fa [ra] per_
[973] Or
[974] stimò
[975] Omai
[976] tribunal
[977] veggio
[978] beneficio
[979] vi
[980] v’è
[981] _Questi due versi furono aggiunti nell’ediz. del 1845._
[982] muor
[983] _fra le genti armate._

SCENA II.
Casa del CONTE.
ANTONIETTA, e MATILDE.
MATILDE.
Ecco l’aurora; e il padre ancor non giunge.
ANTONIETTA.
Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
Tardi, aspettati giungono, e non sempre.
Presta soltanto è la sventura, o figlia:
Intraveduta appena, ella c’è sopra.
Ma la notte passò: l’ore penose
Del desio più non son: tra pochi istanti
Quella del gaudio sonerà[984]. Non puote
Ei più tardar; da questo indugio io prendo
Un fausto augurio: il consultar sì a lungo
Tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro, e per gran tempo.
MATILDE
O madre,
Anch’io lo spero. Assai di notti in pianto,
E di giorni in sospetto abbiam passati.
È tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni
Novella, ad ogni susurrar del volgo
Più non si tremi, e all’alma combattuta
Quell’orrendo pensier più non ritorni:
Forse colui che sospirate, or more[985].
ANTONIETTA.
Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.
Figlia, ogni gioia col dolor si compra.
Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre
Tratto in trionfo, tra[986] i più grandi accolto,
Portò l’insegne de’ nemici al tempio?
MATILDE.
Oh giorno!
ANTONIETTA.
Ognun parea minor di lui;
L’aria sonava[987] del suo nome: e noi
Scevre dal volgo, in alto loco intanto
Contemplavam quell’uno in cui rivolti
Eran tutti gli sguardi: inebbriato[988]
Il cor tremava, e ripetea: siam sue.
MATILDE.
Felici istanti!
ANTONIETTA.
Che avevam noi fatto
Per meritarli? A questa gioia il cielo
Ci trascelse tra mille. Il ciel ti scelse,
Il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte;
Tal don ti fece, che a chiunque il rechi,
N’andrà superbo. A quanta invidia è segno
La nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
Con queste angosce.
MATILDE.
Ah! son finite.... ascolta;
Odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa...
Si spalancan le porte.... ah! certo ei giunge:
O madre, io vedo[989] un’armatura; è lui.[990]
ANTONIETTA.
Chi mai saria s’egli non fosse?... O sposo...
(_va verso la scena_).
[984] suonerà
[985] muore
[986] in fra
[987] suonava
[988] inebrïato
[989] veggio
[990] è desso

SCENA III.
GONZAGA, e DETTI.
ANTONIETTA.
Gonzaga!... ov’è il mio sposo? ov’è?... Ma voi
Non rispondete? Oh cielo! il vostro aspetto
Annunzia una sventura.
GONZAGA.
Ah che pur troppo
Annunzia il vero!
MATILDE.
A chi sventura?
GONZAGA.
O donne!
Perchè un incarco si crudel m’è imposto?
ANTONIETTA.
Ah! voi volete esser pietoso, e siete
Crudel: tremar più non ci fate. In nome
Di Dio, parlate; ov’è il mio sposo?
GONZAGA.
Il cielo
Vi dia la forza d’ascoltarmi. Il Conte....
MATILDE.
Forse è tornato al campo?
GONZAGA.
Ah! più non torna...
Egli è in disgrazia de’ Signori.... è preso.
ANTONIETTA.
Egli[991] preso! perchè?
GONZAGA.
Gli danno accusa
Di tradimento.
ANTONIETTA.
Ei traditore?[992]
MATILDE.
Oh padre!
ANTONIETTA.
Or via, seguite: preparate al tutto
Siam noi: che gli faran?
GONZAGA.
Dal labbro mio
Voi non l’udrete.
ANTONIETTA.
Ahi l’hanno ucciso!
GONZAGA.
Ei vive;
Ma la sentenza è proferita.
ANTONIETTA.
Ei vive?
Non pianger, figlia, or che d’oprare è il tempo.
Gonzaga, per pietà, non vi stancate
Della nostra sventura: il ciel v’affida
Due derelitte: ei v’era amico: andiamo,
Siateci scorta ai giudici. Vien meco,
Poverella innocente: oh! vieni: in terra
C’è[993] ancor pietà: son sposi e padri anch’essi.
Mentre scrivean l’empia sentenza, in mente
Non venne lor ch’egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
È una parola di lor bocca uscita,
Ne fremeranno anch’essi; ah! non potranno
Non rivocarla: del dolor l’aspetto
È terribile all’uom. Forse scusarsi
Quel prode non degnò, rammentar loro
Quanto[994] per essi oprò; noi rammentarlo
Sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
Noi pregheremo.
(_in atto di partire_)
GONZAGA.
Oh ciel, perchè non posso
Lasciarvi almen questa speranza! A preghi
Loco non c’è[995]: qui i giudici son sordi,
Implacabili, ignoti: il fulmin piomba,
La man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v’è concesso, il tristo
Conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
È la prova; ma il Dio degl’infelici
Sarà con voi.
MATILDE.
Non c’è[996] speranza?
ANTONIETTA.
Oh figlia!
(_partono_)
[991] Egli è
[992] Ei traditore!
[993] V’è
[994] Quel che
[995] v’è
[996] v’è

SCENA IV.
Prigione.
IL CONTE.
A quest’ora il sapranno. Oh perchè almeno
Lunge da lor non moio[997]! Orrendo, è vero,
Lor giungeria l’annunzio; ma varcata
L’ora solenne del dolor saria;
E adesso innanzi ella ci sta: bisogna
Gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
O sol diffuso! o strepito dell’armi!
O gioia de’ perigli! o trombe! o grida
De’ combattenti! o mio destrier! tra voi
Era bello il morir. Ma... ripugnante
Vo dunque incontro al mio destin, forzato,
Siccome un reo, spargendo in sulla via
Voti impotenti e misere querele?
E Marco, anch’ei m’avria tradito! Oh vile
Sospetto! oh dubbio! oh potess’io deporlo
Pria di morir! Ma no: che val di novo[998]
Affacciarsi alla vita, e indietro ancora
Volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
Io le provai quest’empie gioie anch’io:
Quel che vagliano or so. Ma rivederle!
Ma i lor gemiti udir! l’ultimo addio
Da quelle voci udir! tra quelle braccia
Ritrovarmi.... e staccarmene per sempre!
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr’esse
Un guardo di pietà.
[997] muojo
[998] di nuovo

SCENA V.
ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE.
ANTONIETTA.
Mio sposo!....
MATILDE.
Oh padre!
ANTONIETTA.
Così ritorni a noi? Questo è il momento
Bramato tanto?....
IL CONTE.
O misere, sa il cielo
Che per voi sole ei m’è tremendo. Avvezzo
Io son da lungo a contemplar la morte,
E ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
Ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
Tormelo, è vero? Allor che Dio sui boni[999]
Fa cader la sventura[1000], ei dona ancora
Il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
Alla sventura[1000] or sia. Godiam di questo
Abbracciamento: è un don del cielo anch’esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte!.... Ah! quando
Ti feci mia, sereni i giorni tuoi
Scorreano in pace; io ti chiamai compagna
Del mio tristo destin: questo pensiero
M’avvelena il morir. Deh ch’io non veda[1001]
Quanto per me sei sventurata!
ANTONIETTA.
O sposo
De’ miei bei dì, tu che li festi; il core
Vedimi; io moio[1002] di dolor; ma pure
Bramar non posso di non esser tua.
IL CONTE.
Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
Non far che troppo il senta.
MATILDE.
Oh gli omicidi!
IL CONTE.
No, mia dolce Matilde; il tristo grido
Della vendetta e del rancor non sorga
Dall’innocente animo tuo, non turbi
Quest’istanti: son sacri. Il torto è grande[1003];
Ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
Un’alta gioia anco riman. La morte!
Il più crudel nemico altro non puote
Che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
Inventata la morte: ella saria
Rabbiosa, insopportabile: dal cielo
Essa ci[1004] viene; e l’accompagna il cielo
Con tal conforto, che nè dar nè tôrre
Gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
Le mie parole estreme: amare, il vedo[1005],
Vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
Qualche dolcezza a rammentarle insieme.
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
Questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
La riconduci: ella è lor sangue; ad essi
Fosti sì cara un dì! Consorte poi[1006]
Del lor nemico, il fosti men; le crude
Ire di Stato avversi fean gran tempo
De’ Carmagnola e de’ Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
Dell’odio è tolto: è un gran pacier la morte.
E tu, tenero fior, tu che tra l’armi
A rallegrare il mio pensier venivi,
Tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
Sopra di te! tu tremi, ed al singulto
Più non regge il tuo sen; sento sul petto
Le tue infocate lagrime cadermi;
E tergerle non posso: a me tu sembri
Chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
Può far per te; ma pei diserti in cielo
C’è[1007] un Padre, il sai. Confida in esso, e vivi
A[1008] dì tranquilli se non lieti: ei certo
Te li prepara[1009]. Ah! perchè mai versato
Tutto il torrente dell’angoscia avria
Sul tuo mattin, se non serbasse al resto
Tutta la sua pietà? Vivi, e consola
Questa dolente madre. Oh ch’ella un giorno
A un degno sposo ti conduca in braccio!
Gonzaga, io t’offro questa man che spesso
Stringesti il dì della battaglia, e quando
Dubbi eravam di rivederci a sera.
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
Darmi che scorta e difensor sarai
Di queste donne, fin[1010] che sian[1011] rendute
Ai lor congiunti?
GONZAGA.
Io tel prometto.
IL CONTE.
Or sono
Contento. E quindi, se tu riedi al campo,
Saluta i miei fratelli, e dì lor ch’io
Moio[1012] innocente: testimon tu fosti
Dell’opre mie, de’ miei pensieri, e il sai.
Dì lor che il brando io nol macchiai con l’onta
D’un tradimento: io non macchiai: son io
Tradito. E quando squilleran le trombe,
Quando l’insegne agiteransi al vento,
Dona un pensiero al tuo compagno antico.
E il dì che segue la[1013] battaglia, quando
Sul campo della strage il sacerdote,
Tra il suon lugubre, alzi le palme, offrendo
Il sacrifizio[1014] per gli estinti al cielo,
Ricordivi di me, che anch’io credea
Morir sul campo.
ANTONIETTA.
Oh Dio, pietà di noi!
IL CONTE.
Sposa, Matilde, Ormai[1015] vicina è l’ora;
Convien lasciarci.... addio.
MATILDE.
No, padre....
IL CONTE.
Ancora.
Una volta venite a questo seno;
E per pietà partite.
ANTONIETTA.
Ah no! dovranno
Staccarci a forza.
(_si sente[1016] uno strepito d’armati_)
MATILDE.
Oh qual fragor!
ANTONIETTA.
Gran Dio!
(_s’apre la porta di mezzo, e s’affacciano genti armate; il capo di esse
s’avanza verso il CONTE: le due donne cadono svenute_).
IL CONTE.
O Dio pietoso, tu le involi a questo
Crudel momento; io ti ringrazio. Amico,
Tu le soccorri, a questo infausto loco
Le togli; e quando rivedran la luce
Dì lor.... che nulla da temer più resta.
_Fine della tragedia._
[999] Iddio sui buoni.—_«Quando.... nel “Carmagnola„ corresse ~allor che
Dio sui boni~.... il Manzoni cominciava a profanare con una pedanteria
la serena compostezza dell’opera sua.... Veramente, si fermò a codeste
inezie, senza manomettere tutto il tesoro della lingua arcaica e
poetica di cui s’era largamente valso.... Perfino si lasciò sfuggire il
perseguitato dittongo nella scena quinta dell’atto I del “Carmagnola„:
~i buoni mai Non fur senza nemici~»._ D’OVIDIO, _Le correzioni_ ecc., pag.
209-10.
[1000] sciagura
[1001] veggia
[1002] muojo
[1003] È grande il torto
[1004] Ella ne
[1005] veggio
[1006] poscia
[1007] V’è
[1008] Ai
[1009] destina
[1010] infin
[1011] sien
[1012] Muojo
[1013] alla
[1014] sacrificio
[1015] omai
[1016] _ode_


APPENDICE
IL PRIMO GETTO DEL “CONTE DI CARMAGNOLA„

Anche del _Conte di Carmagnola_ rimangono, tra i manoscritti manzoniani,
tre forme: un primo abbozzo; una minuta messa al pulito del primo e del
secondo atto; una minuta netta di tutta la tragedia.
Nel primo abbozzo, avanti all’atto I è segnata la data: «15 gennaio
1816»; avanti all’atto II: «18 dicembre 1816»; in principio dell’atto
III: «5 luglio», in fine: «15 luglio»; in principio dell’atto IV: «20
luglio»; e del V: «6 agosto»; in fine: «12 agosto». Le scene e i brani,
non più compresi nella forma definitiva della Tragedia, che noi diamo
qui, seguendo, e qua e là correggendo, il Bonghi (_Opere inedite o rare
di A. M._; vol. I, pp. 204-235), son tratti appunto da questo primo
abbozzo.
La seconda e la terza minuta offrono poche e poco notevoli divergenze
dalla stampa.
SCHERILLO.

_Atto I, sc. 1.ª e 2.ª, cancellate poi dall’autore._

SCENA I.
Sala del Senato.
STEFANO, MARINO [_Senatori_].
STEFANO.
Io, Marino, per me non credo mai
Esser venuto tanto inutilmente
In Senato, quant’oggi: e son ben fermo
D’udir tacendo; chè ogni mia parola
In questo affar saria parola al vento.
MARINO.
Dunque credete risoluta affatto
La guerra?
STEFANO.
Oh risoluta, e così certa
Qual se intimata io la vedessi e rotta.
Dubbio ancor forse ci rimane? Il Doge
Quanto se l’abbia a cor, voi lo sapete.
D’altro ei non parla: e gli parria l’estremo
Giorno della Repubblica esser giunto,
Se fosse vinto ch’ella resti in pace.
Gran parte del Senato egli e l’ardente
Orator di Firenze in questo avviso
Avean già tratto. E quando io ’l vidi in prima
Porre a tutti l’assedio, instar, pregare,
E d’ognuno indagar l’animo: a questo,
Gli ampj disegni riandar del Duca,
E che il dì che Firenze alfin cadesse
Tremerìan di Venezia i fondamenti:
Dipinger lieve la vittoria a quello,
Anzi certa: a quest’altro, dello Stato
Allargati i confini; ognuno, insomma,
Da quel lato tentar donde più aperta
Al suäder fosse la via; ben vidi
Che i più ne avrebbe persuasi, e a voi,
Se vi ricorda, io lo predissi.
MARINO.
È il vero.
STEFANO.
Se ciò non basta, non vi par che brami
La guerra il Duca di Milano, anch’egli,
Mentre manda Oratori a chieder pace?
Che ambasceria! la petulanza al senno
Quasi per gioco unita. E che buon frutto
I savii detti di Giovan d’Arezzo
Han prodotto fin qui, che tosto in nulla
Del Lampugnano non mandasse il modo?
Tal noncuranza nel pregar, che male
Starebbe a quei che la preghiera ascolta;
E un vagar curioso e da contento
Viaggiator, qual se ai palagi e ai tempj
Fosse inviato: un orator davvero
A nozze o ad un torneo. Se il Duca vuole
Davver la pace, non potea costui
Meglio tradire il suo signor. Non parlo,
M’intendete, per ben ch’io voglia al Duca
(Foss’egli in fondo!): ben mi duol che tutto
Ei spinga a inutil guerra, anzi (bugiardi
Faccia, io nel prego, i miei presagj il Cielo!)