Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 17
Che prima amai di questa casa, il sai?
Parla a questa infelice: odio la voce
D’ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all’amor somiglia.
—Lascia ch’io ti rimiri, e ch’io mi segga
Qui presso a te: son così stanca![330] Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non partir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch’io mi levi
Inebbriata[331] del mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia[332] del destarsi. Oh giorni!
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S’io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia[333] capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh! consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M’inonda, e il getta nell’obblìo.
(_ricade_)
ANSBERGA.
Tranquilla
Ella morìa!
ERMENGARDA.
(_in delirio_)
Se fosse un sogno! e l’alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle di pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo,
Di poca fè mi rampognasse!
(_ricade in letargo_).
ANSBERGA.
O Donna[334]
Del ciel, soccorri a questa afflitta!
PRIMA SUORA.
Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.
ANSBERGA.
O suora!
Ermengarda! Ermengarda!
ERMENGARDA.
(_riavendosi_)
Oh! chi mi chiama?
ANSBERGA.
Guardami; io sono Ansberga: a te d’intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie,
Che per la pace tua pregano.
ERMENGARDA.
Il cielo
Vi benedica.—Ah! sì: questi son volti
Di pace e d’amistà.—Da un tristo sogno
Io mi risveglio.
ANSBERGA.
Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.
ERMENGARDA.
È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol[335] traetemi: l’estrema
Fatica è questa che[336] vi do; ma tutte
Son contate lassù.—Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.
[311] Su le
[312] chieggo
[313] dei
[314] ragunati
[315] Caggia
[316] veggia
[317] Gioja
[318] rejetta
[319] chiegga
[320] Le estreme
[321] dei
[322] dei
[323] Caccialo
[324] su gli
[325] Cacciate
[326] rispingi
[327] veggio
[328] ebrezza
[329] muojo
[330] sì stanca io sono!
[331] Inebriata
[332] gioja
[333] gioja
[334] donna
[335] letticciuol
[336] ch’io
CORO.
Sparsa le trecce morbide
Sull’[337] affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo[338] cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
S’innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una[339] man leggiera
Sulla[340] pupilla cerula
Stende l’estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblìo di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de’[341] santi ascendere,
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra[342] il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl’irrevocati[343] dì;
Quando ancor cara, improvida
D’un avvenir mal fido,
Ebbra[344] spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra[345] le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle[346] sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De’[347] corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir dei veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L’irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Rigar di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea[348] repente, pallida
D’amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l’empia
Virtù d’amor fatica,
Discende il refrigerio
D’una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d’un altro amor.
Ma come il sol che reduce
L’erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L’immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblìo torna immortale
L’amor sopito, e l’anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.
Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l’offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com’era allor che improvida
D’un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge[349] il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente:
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.
[337] Su l’
[338] Guardo
[339] Fronte una
[340] Su la
[341] dei
[342] Fra
[343] Gli irrevocati
[344] Ebra
[345] fra
[346] su le
[347] Dei
[348] Torcea
[349] svolve
SCENA II
Notte.—Interno d’un battifredo sulle[350] mura di Pavia. Un’armatura nel
mezzo.
GUNTIGI, AMRI.
GUNTIGI.
Amri, sovvienti di Spoleti?
AMRI.
E posso
Obbliarlo, signor?
GUNTIGI.
D’allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni; ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?
AMRI.
Ubbidienza[351] e fede,
Fino alla morte.—O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?
GUNTIGI.
No; ma l’istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.
AMRI.
Imponi.
GUNTIGI.
Tocca quest’armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Nè per timor nè per lusinghe, fia,[352]
Mai, dal tuo labbro rivelato.
AMRI.
(_ponendo le mani sull’armi_)
Il giuro:
E, se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d’un Romano.
GUNTIGI.
Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
È la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco[353] che al re. Su questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn’altro
Guerriero allontanai. Tendi l’orecchio,
E osserva[354] al lume della luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà... Perché così mi guardi[355]
Attonito? egli[356] è Svarto, un che tra[357] noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perchè seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo[358] scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo,[359] se un respiro ascolti,[360]
Entra ed avvisa.
AMRI.
Come imponi, io tutto
Farò.
GUNTIGI.
Tu servi a gran disegno, e grande
Fia il premio.
(_AMRI parte_).
[350] su le
[351] Obbedienza
[352] ei fia
[353] Obbedisco
[354] guata
[355] guati
[356] Egli
[357] fra
[358] su lo
[359] un’orma
[360] intendi
SCENA III.
GUNTIGI.
Fedeltà?[361]—Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all’estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar.—Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m’invia, mi vuole amico,
M’invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia...
A che, sempre respinta[362], ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all’importuno? e sempre in mezzo
De’[363] miei pensier si getta, e la consulta
Ne turba?—Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir.—Chi ’l dice?
Quello per cui si muor.—Ma l’universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d’onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici.—Davver? Ma, s’egli è degno,
Perchè è mendico e derelitto? E voi
Che l’ammirate, chi vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l’ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que’[364] felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m’udrei: rigetta
L’offerte[365] indegne; de’ tuoi re dividi,
Qual ch’ella sia, la sorte.—E perchè tanto
A cor questo vi sta? Perchè, s’io cado[366],
Io vi farò pietà; ma se, tra[367] mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v’aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio.—Oh! Carlo anch’egli
In cor ti spregerà.—Chi ve l’ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m’onori, il core a voi
Chi ’l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d’estinta
Fortuna, e favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; nè di toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto; e un dì saprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perchè, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch’ei traditori, e Carlo
Noma Fedeli.... oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,[368]
Ch’io quel non sia.
[361] Fedeltà!
[362] rispinta
[363] Ai
[364] quei
[365] Le offerte
[366] caggio
[367] fra
[368] veglio
SCENA IV.
GUNTIGI, SVARTO,[369] AMRI.
SVARTO.
Guntigi!
GUNTIGI.
Svarto!
(_ad AMRI_)
Alcuno
Non incontrasti?
AMRI.
Alcun.
GUNTIGI.
Qui intorno veglia.
(_AMRI parte_).
[369] _condotto da_
SCENA V.
GUNTIGI, SVARTO.
SVARTO.
Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.
GUNTIGI.
E tu n’hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.
SVARTO.
E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D’un popolo e la tua?
GUNTIGI.
Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l’ira di nemico a volger pronto
In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni[370] mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me[371]; tosto de’ Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio: e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?
SVARTO.
Dubbiar ne puoi?
GUNTIGI.
Ch’io sappia
Ciò ch’ei desìa, ciò ch’ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe’ dono altrui;
Nè resta a me che un titol vano.
SVARTO.
E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
Implacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l’hai lasciato
Che per salir. Carlo a’ tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti; il Conte,
Prendi, sei di Pavia.
(_gli porge un diploma_).
GUNTIGI.
Da questo istante
Io l’ufizio[372] ne assumo; e fiane accorto
Dall’opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.
SVARTO.
Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re: l’impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi: tranne pochi, ognuno
Brama d’uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L’altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell’indugio ancora,
Cadon[373] tutte in un dì, membra disciolte
D’avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro
Ostinato ubbidir[374] manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v’è.
GUNTIGI.
Sì, certo:
Pavia gli è d’uopo; ed ei l’avrà: domani,
Non più tardi l’avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà.—Ch’io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda[375]; io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici; e il mio
Nome d’inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.
SVARTO.
Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui!—Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insiem seco[376]
Precipitar, son molti ancora? o all’astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L’altra già fu, questa vittoria estrema?
GUNTIGI.
Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D’ogni pensier s’affaccia una parola
Che gli spaventa: tradimento. Un’altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando....
SVARTO.
Ebben, prometti;
Tutti guadagna.
GUNTIGI.
Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir: senz’essi
Tutto compir si può.
SVARTO.
Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de’ Franchi io qui favello
A un suo Fedel; ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d’amici? in una folla
Di salvati da noi?
GUNTIGI.
Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto....
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia, non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.
SVARTO.
Saggio tu parli e schietto.—Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo; ma d’inciampi è sparsa
E d’insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà.—Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All’opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla[377] tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.
GUNTIGI.
La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.
SVARTO.
In vita e in morte
GUNTIGI.
Pegno la destra.
(_gli porge la destra: SVARTO la stringe_).
Al re de’ Franchi, amico,
Reca l’omaggio mio.
SVARTO.
Doman!
GUNTIGI.
Domani.
Amri!
(_entra AMRI_)
È sgombro lo spalto?
AMRI
È sgombro; e tutto
Tace d’intorno.
GUNTIGI.
(_ad AMRI, accennando SVARTO_)
Il riconduci.
SVARTO.
Addio.
_Fine dell’atto quarto._
[370] ch’ogni
[371] Ei domandò
[372] ufficio
[373] Caggion
[374] obbedir
[375] chiegga
[376] Vecchio poter salvare han fermo, o seco
[377] Su la
ATTO QUINTO.
SCENA I.
Palazzo Reale in Verona.
ADELCHI, GISELBERTO DUCA DI VERONA.
GISELBERTO.
Costretto, o re, dell’oste intera io vengo
A nunziarti il voler: duchi e soldati
Chiedon le resa. A tutti è noto, e indarno
Celar si volle, che Pavia le porte
Al Franco aprì; che il vincitor s’affretta
Sopra Verona; e che pur troppo ei tragge
Captivo il re. Co’ figli suoi Gerberga
Già incontro a Carlo uscì, dell’aspro sire
Più ancor fidando nel perdon, che in una
Impotente amistà. Verona attrita
Dal lungo assedio, di guerrier, di scorte
Scema, non forte assai contra il nemico
Che già la stringe, non potrà la foga
Dei sorvegnenti sostener; nè quelli
Che l’han difesa fino[378] ad or, se pochi
Ne traggi, o re, vogliono al rischio starsi
Di pugna impari, e di spietato assalto.
Fin che del fare e del soffrir concesso
Era un frutto sperar, fenno e soffriro:
Quanto il dover, quanto l’onor chiedea,
Il diero: ai mali che non han più scopo
Chiedono[379] il fine.
ADELCHI.
Esci: la mia risposta
Tra[380] poco avrai.
(_GISELBERTO parte_).
[378] in fino
[379] Chieggono
[380] Fra
SCENA II.
ADELCHI.
Va, vivi, invecchia in pace;
Resta un de’ primi di tua gente: il merti;
Va, non temer; sarai vassallo: il tempo
È pe’[381] tuoi pari.—Anche il comando udirsi
Intimar de’[382] codardi, e di chi trema
Prender la legge! è troppo. Han risoluto!
Voglion, perchè son vili! e minacciosi
Li fa il terror; nè soffriran che a questo
Furor di codardia s’opponga alcuno,[383]
Che resti un uom tra[384] loro!—Oh cielo! Il padre
Negli artigli di Carlo! I giorni estremi
Uomo d’altrui vivrà, soggetto al cenno
Di quella man, che non avria voluto
Come amico serrar; mangiando il pane
Di chi l’offese, e l’ebbe a prezzo! E nulla
Via di cavarlo dalla fossa, ov’egli
Rugge tradito e solo, e chiama indarno
Chi salvarlo non può! nulla!—Caduta
Brescia, e il mio Baudo, il generoso, astretto
Anch’ei le porte a spalancar da quelli
Che non voglion morire. Oh più di tutti
Fortunata Ermengarda! Oh giorni! oh casa
Di Desiderio, ove d’invidia è degno
Chi d’affanno morì!—Di fuor costui,
Che arrogante s’avanza, e or or verrammi
Ad intimar che il suo trionfo io compia;
Qui la viltà che gli risponde, ed osa
Pressarmi;—è troppo in una volta! Almeno
Finor, perduta anche[385] la speme, il loco
V’era all’opra; ogni giorno il suo domani,
Ed ogni stretta il suo partito avea.
Ed ora.... ed or, se in sen de’[386] vili un core
Io piantar non potei, potranno i vili
Togliere al forte, che da forte ei pera?
Tutti alfin non son vili: udrammi alcuno;
Più d’un compagno troverò, s’io grido:
Usciam costoro ad incontrar; mostriamo
Che non è ver che a tutto i Longobardi
Antepongon la vita; e... se non altro,
Morrem.—Che pensi? Nella tua rovina[387]
Perchè quei prodi strascinar? Se nulla
Ti resta a far quaggiù,[388] non puoi tu solo
Morir? Nol puoi? Sento che l’alma in questo
Pensier riposa alfine: ei mi sorride,
Come l’amico che sul volto reca
Una lieta novella. Uscir di questa
Ignobil calca che mi preme; il riso
Non veder del nemico; e questo peso
D’ira, di dubbio e di pietà, gittarlo!...
Tu, brando mio, che del destino altrui
Tante volte hai deciso, e tu, secura
Mano avvezza a trattarlo.... e in un momento
Tutto è finito.—Tutto? Ah sciagurato!
Perchè menti a te stesso? Il mormorio
Di questi vermi ti stordisce; il solo
Pensier di starti a un vincitor dinanzi
Vince ogni tua virtù; l’ansia di questa
Ora t’affrange, e fa gridarti: è troppo!
E affrontar Dio potresti? e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi chiami; il posto
Che m’assegnasti, era difficil troppo;
E l’ho deserto!—Empio! fuggire? e intanto,
Per compagnia fino alla tomba, al padre
Lasciar questa memoria; il tuo supremo
Disperato sospir legargli! Al vento,
Empio pensier.—L’animo tuo ripiglia,
Adelchi; uom sii. Che cerchi? In questo istante
D’ogni travaglio il fin tu vuoi: non vedi,
Che in tuo poter non è?—T’offre un asilo
Il greco imperador. Sì; per sua bocca
Te l’offre Iddio: grato l’accetta: il solo
Saggio partito, il solo degno è questo.
Conserva al padre la sua speme: ei possa
Reduce almeno e vincitor sognarti,
Infrangitor de’ ceppi suoi, non tinto
Del sangue sparso disperando.—E sogno
Forse non fia: da più profondo abisso
Altri già sorse: non fa patti eterni
Con alcun la fortuna: il tempo toglie
E dà: gli amici, il successor li crea.[389]
—Teudi!
[381] pei
[382] dei
[383] un solo
[384] fra
[385] anco
[386] dei
[387] ruina
[388] qua giù
[389]
Altri già sorse: tutto cangia: eterni
Patti non stringe con alcun fortuna.
SCENA III.
ADELCHI, TEUDI.
TEUDI.
Mio re.
ADELCHI.
Restano amici ancora
Al re che cade?
TEUDI.
Sì: color che amici
Eran d’Adelchi.
ADELCHI
E che partito han preso?
TEUDI.
L’aspettano da te.
ADELCHI.
Dove son essi?
TEUDI.
Qui nel palazzo tuo, lungi[390] dai tristi
A cui sol tarda d’esser vinti appieno.
ADELCHI.
Tristo, o Teudi, il valor disseminato
Tra[391] la viltà!—Compagni alla mia fuga
Io questi prodi prenderò: null’altro
Far ne poss’io; nulla ei per me far ponno,
Che seguirmi a Bisanzio. Ah! se avvi alcuno
Cui venga in mente[392] un più gentil consiglio,
Per pietà, me lo dia.—Da te, mio Teudi,
Un più coral servigio, un più fidato
Attendo ancor: resta per ora; al padre
Fa che di me questa novella arrivi:
Ch’io son fuggito, ma per lui; ch’io vivo,
Per liberarlo un dì; che non disperi.
Vieni, e m’abbraccia: a dì più lieti.—Al duca
Di Verona dirai che non attenda
Ordini più da me.—Sulla[393] tua fede
Riposo, o Teudi.
TEUDI.
Oh! la secondi il cielo.
(_escono dalle parti opposte_[394]).
[390] scevri
[391] Fra
[392] A cui soccorra
[393] Su la
[394] dai lati opposti
SCENA IV.
Tenda nel campo di CARLO sotto Verona.
CARLO, un ARALDO, ARVINO, CONTI.
CARLO.
Vanne, araldo, in Verona; e al duca, a tutti
I suoi guerrier questa parola esponi:
Re Carlo è qui: le porte aprite; egli entra
Grazioso signor; se no, più tarda
L’entrata fia, ma non men certa; e i patti
Quali un solo li detta, e inacerbito.
(_l’Araldo parte_).
ARVINO.
Il vinto re chiede parlarti, o sire.
CARLO.
Che vuol?
ARVINO.
Nol disse; ma pietosa istanza
Egli ne fea.
CARLO.
Venga.
(_ARVINO parte_)
Vediam colui,
Che destinata a un’altra fronte avea
La corona di Carlo.
(_ai Conti_)
Ite: alle mura
La custodia addoppiate; ad ogni sbocco
Si vegli in arme: e che nessun mi sfugga.
SCENA V.
CARLO, DESIDERIO.
CARLO.
A che vieni, infelice? E che parola
Correr puote tra[395] noi? Decisa il cielo
Ha la nostra contesa; e più non resta
Di che garrir. Tristi querele e pianto
Sparger dinanzi al vincitor, disdice
A chi fu re; nè a me con detti acerbi
L’odio antico appagar lice, nè questo
Gaudio superbo che in mio cor s’eleva,
Ostentarti sul volto; onde sdegnato
Dio non si penta, e alla vittoria in mezzo
Non m’abbandoni ancor. Né, certo, un vano
Da me conforto di parole attendi.
Che ti direi? ciò che t’accora, è gioia[396]
Per me; nè lamentar posso un destino,
Ch’io non voglio mutar. Tal del mortale
È la sorte quaggiù[397]: quando alle prese
Son due di lor, forza è che l’un piangendo
Esca del campo. Tu vivrai; null’altro
Dono ha Carlo per te.
DESIDERIO.
Re del mio regno,
Persecutor del sangue mio, qual dono
Ai re caduti sia la vita, il sai?
E pensi tu, ch’io vinto, io nella polve,
Di gioia[398] anco una volta inebbriarmi[399]
Non potrei? del velen che il cor m’affoga,
Il tuo trionfo amareggiar? parole
Dirti di cui ti sovverresti, e in parte
Vendicato morir? Ma in te del cielo
Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
Dio m’inchinò, m’inchino: a supplicarti
Vengo; e m’udrai; chè degli afflitti il prego
Parla a questa infelice: odio la voce
D’ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all’amor somiglia.
—Lascia ch’io ti rimiri, e ch’io mi segga
Qui presso a te: son così stanca![330] Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non partir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch’io mi levi
Inebbriata[331] del mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia[332] del destarsi. Oh giorni!
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S’io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia[333] capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh! consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M’inonda, e il getta nell’obblìo.
(_ricade_)
ANSBERGA.
Tranquilla
Ella morìa!
ERMENGARDA.
(_in delirio_)
Se fosse un sogno! e l’alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle di pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo,
Di poca fè mi rampognasse!
(_ricade in letargo_).
ANSBERGA.
O Donna[334]
Del ciel, soccorri a questa afflitta!
PRIMA SUORA.
Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.
ANSBERGA.
O suora!
Ermengarda! Ermengarda!
ERMENGARDA.
(_riavendosi_)
Oh! chi mi chiama?
ANSBERGA.
Guardami; io sono Ansberga: a te d’intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie,
Che per la pace tua pregano.
ERMENGARDA.
Il cielo
Vi benedica.—Ah! sì: questi son volti
Di pace e d’amistà.—Da un tristo sogno
Io mi risveglio.
ANSBERGA.
Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.
ERMENGARDA.
È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol[335] traetemi: l’estrema
Fatica è questa che[336] vi do; ma tutte
Son contate lassù.—Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.
[311] Su le
[312] chieggo
[313] dei
[314] ragunati
[315] Caggia
[316] veggia
[317] Gioja
[318] rejetta
[319] chiegga
[320] Le estreme
[321] dei
[322] dei
[323] Caccialo
[324] su gli
[325] Cacciate
[326] rispingi
[327] veggio
[328] ebrezza
[329] muojo
[330] sì stanca io sono!
[331] Inebriata
[332] gioja
[333] gioja
[334] donna
[335] letticciuol
[336] ch’io
CORO.
Sparsa le trecce morbide
Sull’[337] affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo[338] cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime
S’innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una[339] man leggiera
Sulla[340] pupilla cerula
Stende l’estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblìo di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de’[341] santi ascendere,
Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra[342] il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl’irrevocati[343] dì;
Quando ancor cara, improvida
D’un avvenir mal fido,
Ebbra[344] spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra[345] le nuore Saliche
Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle[346] sciolte redini
Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia
De’[347] corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir dei veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L’irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere
Rigar di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea[348] repente, pallida
D’amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l’empia
Virtù d’amor fatica,
Discende il refrigerio
D’una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d’un altro amor.
Ma come il sol che reduce
L’erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L’immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue
Obblìo torna immortale
L’amor sopito, e l’anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.
Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l’offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com’era allor che improvida
D’un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole
Si svolge[349] il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente:
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.
[337] Su l’
[338] Guardo
[339] Fronte una
[340] Su la
[341] dei
[342] Fra
[343] Gli irrevocati
[344] Ebra
[345] fra
[346] su le
[347] Dei
[348] Torcea
[349] svolve
SCENA II
Notte.—Interno d’un battifredo sulle[350] mura di Pavia. Un’armatura nel
mezzo.
GUNTIGI, AMRI.
GUNTIGI.
Amri, sovvienti di Spoleti?
AMRI.
E posso
Obbliarlo, signor?
GUNTIGI.
D’allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni; ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?
AMRI.
Ubbidienza[351] e fede,
Fino alla morte.—O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?
GUNTIGI.
No; ma l’istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.
AMRI.
Imponi.
GUNTIGI.
Tocca quest’armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Nè per timor nè per lusinghe, fia,[352]
Mai, dal tuo labbro rivelato.
AMRI.
(_ponendo le mani sull’armi_)
Il giuro:
E, se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d’un Romano.
GUNTIGI.
Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
È la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco[353] che al re. Su questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn’altro
Guerriero allontanai. Tendi l’orecchio,
E osserva[354] al lume della luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà... Perché così mi guardi[355]
Attonito? egli[356] è Svarto, un che tra[357] noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perchè seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo[358] scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo,[359] se un respiro ascolti,[360]
Entra ed avvisa.
AMRI.
Come imponi, io tutto
Farò.
GUNTIGI.
Tu servi a gran disegno, e grande
Fia il premio.
(_AMRI parte_).
[350] su le
[351] Obbedienza
[352] ei fia
[353] Obbedisco
[354] guata
[355] guati
[356] Egli
[357] fra
[358] su lo
[359] un’orma
[360] intendi
SCENA III.
GUNTIGI.
Fedeltà?[361]—Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all’estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar.—Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m’invia, mi vuole amico,
M’invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia...
A che, sempre respinta[362], ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all’importuno? e sempre in mezzo
De’[363] miei pensier si getta, e la consulta
Ne turba?—Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir.—Chi ’l dice?
Quello per cui si muor.—Ma l’universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d’onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici.—Davver? Ma, s’egli è degno,
Perchè è mendico e derelitto? E voi
Che l’ammirate, chi vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l’ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que’[364] felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m’udrei: rigetta
L’offerte[365] indegne; de’ tuoi re dividi,
Qual ch’ella sia, la sorte.—E perchè tanto
A cor questo vi sta? Perchè, s’io cado[366],
Io vi farò pietà; ma se, tra[367] mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v’aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio.—Oh! Carlo anch’egli
In cor ti spregerà.—Chi ve l’ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m’onori, il core a voi
Chi ’l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d’estinta
Fortuna, e favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; nè di toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto; e un dì saprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perchè, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch’ei traditori, e Carlo
Noma Fedeli.... oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,[368]
Ch’io quel non sia.
[361] Fedeltà!
[362] rispinta
[363] Ai
[364] quei
[365] Le offerte
[366] caggio
[367] fra
[368] veglio
SCENA IV.
GUNTIGI, SVARTO,[369] AMRI.
SVARTO.
Guntigi!
GUNTIGI.
Svarto!
(_ad AMRI_)
Alcuno
Non incontrasti?
AMRI.
Alcun.
GUNTIGI.
Qui intorno veglia.
(_AMRI parte_).
[369] _condotto da_
SCENA V.
GUNTIGI, SVARTO.
SVARTO.
Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.
GUNTIGI.
E tu n’hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.
SVARTO.
E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D’un popolo e la tua?
GUNTIGI.
Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l’ira di nemico a volger pronto
In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni[370] mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me[371]; tosto de’ Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio: e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?
SVARTO.
Dubbiar ne puoi?
GUNTIGI.
Ch’io sappia
Ciò ch’ei desìa, ciò ch’ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe’ dono altrui;
Nè resta a me che un titol vano.
SVARTO.
E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
Implacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l’hai lasciato
Che per salir. Carlo a’ tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti; il Conte,
Prendi, sei di Pavia.
(_gli porge un diploma_).
GUNTIGI.
Da questo istante
Io l’ufizio[372] ne assumo; e fiane accorto
Dall’opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.
SVARTO.
Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re: l’impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi: tranne pochi, ognuno
Brama d’uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L’altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell’indugio ancora,
Cadon[373] tutte in un dì, membra disciolte
D’avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro
Ostinato ubbidir[374] manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v’è.
GUNTIGI.
Sì, certo:
Pavia gli è d’uopo; ed ei l’avrà: domani,
Non più tardi l’avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà.—Ch’io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda[375]; io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici; e il mio
Nome d’inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.
SVARTO.
Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui!—Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insiem seco[376]
Precipitar, son molti ancora? o all’astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L’altra già fu, questa vittoria estrema?
GUNTIGI.
Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D’ogni pensier s’affaccia una parola
Che gli spaventa: tradimento. Un’altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando....
SVARTO.
Ebben, prometti;
Tutti guadagna.
GUNTIGI.
Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir: senz’essi
Tutto compir si può.
SVARTO.
Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de’ Franchi io qui favello
A un suo Fedel; ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d’amici? in una folla
Di salvati da noi?
GUNTIGI.
Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto....
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia, non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.
SVARTO.
Saggio tu parli e schietto.—Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo; ma d’inciampi è sparsa
E d’insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà.—Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All’opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla[377] tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.
GUNTIGI.
La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.
SVARTO.
In vita e in morte
GUNTIGI.
Pegno la destra.
(_gli porge la destra: SVARTO la stringe_).
Al re de’ Franchi, amico,
Reca l’omaggio mio.
SVARTO.
Doman!
GUNTIGI.
Domani.
Amri!
(_entra AMRI_)
È sgombro lo spalto?
AMRI
È sgombro; e tutto
Tace d’intorno.
GUNTIGI.
(_ad AMRI, accennando SVARTO_)
Il riconduci.
SVARTO.
Addio.
_Fine dell’atto quarto._
[370] ch’ogni
[371] Ei domandò
[372] ufficio
[373] Caggion
[374] obbedir
[375] chiegga
[376] Vecchio poter salvare han fermo, o seco
[377] Su la
ATTO QUINTO.
SCENA I.
Palazzo Reale in Verona.
ADELCHI, GISELBERTO DUCA DI VERONA.
GISELBERTO.
Costretto, o re, dell’oste intera io vengo
A nunziarti il voler: duchi e soldati
Chiedon le resa. A tutti è noto, e indarno
Celar si volle, che Pavia le porte
Al Franco aprì; che il vincitor s’affretta
Sopra Verona; e che pur troppo ei tragge
Captivo il re. Co’ figli suoi Gerberga
Già incontro a Carlo uscì, dell’aspro sire
Più ancor fidando nel perdon, che in una
Impotente amistà. Verona attrita
Dal lungo assedio, di guerrier, di scorte
Scema, non forte assai contra il nemico
Che già la stringe, non potrà la foga
Dei sorvegnenti sostener; nè quelli
Che l’han difesa fino[378] ad or, se pochi
Ne traggi, o re, vogliono al rischio starsi
Di pugna impari, e di spietato assalto.
Fin che del fare e del soffrir concesso
Era un frutto sperar, fenno e soffriro:
Quanto il dover, quanto l’onor chiedea,
Il diero: ai mali che non han più scopo
Chiedono[379] il fine.
ADELCHI.
Esci: la mia risposta
Tra[380] poco avrai.
(_GISELBERTO parte_).
[378] in fino
[379] Chieggono
[380] Fra
SCENA II.
ADELCHI.
Va, vivi, invecchia in pace;
Resta un de’ primi di tua gente: il merti;
Va, non temer; sarai vassallo: il tempo
È pe’[381] tuoi pari.—Anche il comando udirsi
Intimar de’[382] codardi, e di chi trema
Prender la legge! è troppo. Han risoluto!
Voglion, perchè son vili! e minacciosi
Li fa il terror; nè soffriran che a questo
Furor di codardia s’opponga alcuno,[383]
Che resti un uom tra[384] loro!—Oh cielo! Il padre
Negli artigli di Carlo! I giorni estremi
Uomo d’altrui vivrà, soggetto al cenno
Di quella man, che non avria voluto
Come amico serrar; mangiando il pane
Di chi l’offese, e l’ebbe a prezzo! E nulla
Via di cavarlo dalla fossa, ov’egli
Rugge tradito e solo, e chiama indarno
Chi salvarlo non può! nulla!—Caduta
Brescia, e il mio Baudo, il generoso, astretto
Anch’ei le porte a spalancar da quelli
Che non voglion morire. Oh più di tutti
Fortunata Ermengarda! Oh giorni! oh casa
Di Desiderio, ove d’invidia è degno
Chi d’affanno morì!—Di fuor costui,
Che arrogante s’avanza, e or or verrammi
Ad intimar che il suo trionfo io compia;
Qui la viltà che gli risponde, ed osa
Pressarmi;—è troppo in una volta! Almeno
Finor, perduta anche[385] la speme, il loco
V’era all’opra; ogni giorno il suo domani,
Ed ogni stretta il suo partito avea.
Ed ora.... ed or, se in sen de’[386] vili un core
Io piantar non potei, potranno i vili
Togliere al forte, che da forte ei pera?
Tutti alfin non son vili: udrammi alcuno;
Più d’un compagno troverò, s’io grido:
Usciam costoro ad incontrar; mostriamo
Che non è ver che a tutto i Longobardi
Antepongon la vita; e... se non altro,
Morrem.—Che pensi? Nella tua rovina[387]
Perchè quei prodi strascinar? Se nulla
Ti resta a far quaggiù,[388] non puoi tu solo
Morir? Nol puoi? Sento che l’alma in questo
Pensier riposa alfine: ei mi sorride,
Come l’amico che sul volto reca
Una lieta novella. Uscir di questa
Ignobil calca che mi preme; il riso
Non veder del nemico; e questo peso
D’ira, di dubbio e di pietà, gittarlo!...
Tu, brando mio, che del destino altrui
Tante volte hai deciso, e tu, secura
Mano avvezza a trattarlo.... e in un momento
Tutto è finito.—Tutto? Ah sciagurato!
Perchè menti a te stesso? Il mormorio
Di questi vermi ti stordisce; il solo
Pensier di starti a un vincitor dinanzi
Vince ogni tua virtù; l’ansia di questa
Ora t’affrange, e fa gridarti: è troppo!
E affrontar Dio potresti? e dirgli: io vengo
Senza aspettar che tu mi chiami; il posto
Che m’assegnasti, era difficil troppo;
E l’ho deserto!—Empio! fuggire? e intanto,
Per compagnia fino alla tomba, al padre
Lasciar questa memoria; il tuo supremo
Disperato sospir legargli! Al vento,
Empio pensier.—L’animo tuo ripiglia,
Adelchi; uom sii. Che cerchi? In questo istante
D’ogni travaglio il fin tu vuoi: non vedi,
Che in tuo poter non è?—T’offre un asilo
Il greco imperador. Sì; per sua bocca
Te l’offre Iddio: grato l’accetta: il solo
Saggio partito, il solo degno è questo.
Conserva al padre la sua speme: ei possa
Reduce almeno e vincitor sognarti,
Infrangitor de’ ceppi suoi, non tinto
Del sangue sparso disperando.—E sogno
Forse non fia: da più profondo abisso
Altri già sorse: non fa patti eterni
Con alcun la fortuna: il tempo toglie
E dà: gli amici, il successor li crea.[389]
—Teudi!
[381] pei
[382] dei
[383] un solo
[384] fra
[385] anco
[386] dei
[387] ruina
[388] qua giù
[389]
Altri già sorse: tutto cangia: eterni
Patti non stringe con alcun fortuna.
SCENA III.
ADELCHI, TEUDI.
TEUDI.
Mio re.
ADELCHI.
Restano amici ancora
Al re che cade?
TEUDI.
Sì: color che amici
Eran d’Adelchi.
ADELCHI
E che partito han preso?
TEUDI.
L’aspettano da te.
ADELCHI.
Dove son essi?
TEUDI.
Qui nel palazzo tuo, lungi[390] dai tristi
A cui sol tarda d’esser vinti appieno.
ADELCHI.
Tristo, o Teudi, il valor disseminato
Tra[391] la viltà!—Compagni alla mia fuga
Io questi prodi prenderò: null’altro
Far ne poss’io; nulla ei per me far ponno,
Che seguirmi a Bisanzio. Ah! se avvi alcuno
Cui venga in mente[392] un più gentil consiglio,
Per pietà, me lo dia.—Da te, mio Teudi,
Un più coral servigio, un più fidato
Attendo ancor: resta per ora; al padre
Fa che di me questa novella arrivi:
Ch’io son fuggito, ma per lui; ch’io vivo,
Per liberarlo un dì; che non disperi.
Vieni, e m’abbraccia: a dì più lieti.—Al duca
Di Verona dirai che non attenda
Ordini più da me.—Sulla[393] tua fede
Riposo, o Teudi.
TEUDI.
Oh! la secondi il cielo.
(_escono dalle parti opposte_[394]).
[390] scevri
[391] Fra
[392] A cui soccorra
[393] Su la
[394] dai lati opposti
SCENA IV.
Tenda nel campo di CARLO sotto Verona.
CARLO, un ARALDO, ARVINO, CONTI.
CARLO.
Vanne, araldo, in Verona; e al duca, a tutti
I suoi guerrier questa parola esponi:
Re Carlo è qui: le porte aprite; egli entra
Grazioso signor; se no, più tarda
L’entrata fia, ma non men certa; e i patti
Quali un solo li detta, e inacerbito.
(_l’Araldo parte_).
ARVINO.
Il vinto re chiede parlarti, o sire.
CARLO.
Che vuol?
ARVINO.
Nol disse; ma pietosa istanza
Egli ne fea.
CARLO.
Venga.
(_ARVINO parte_)
Vediam colui,
Che destinata a un’altra fronte avea
La corona di Carlo.
(_ai Conti_)
Ite: alle mura
La custodia addoppiate; ad ogni sbocco
Si vegli in arme: e che nessun mi sfugga.
SCENA V.
CARLO, DESIDERIO.
CARLO.
A che vieni, infelice? E che parola
Correr puote tra[395] noi? Decisa il cielo
Ha la nostra contesa; e più non resta
Di che garrir. Tristi querele e pianto
Sparger dinanzi al vincitor, disdice
A chi fu re; nè a me con detti acerbi
L’odio antico appagar lice, nè questo
Gaudio superbo che in mio cor s’eleva,
Ostentarti sul volto; onde sdegnato
Dio non si penta, e alla vittoria in mezzo
Non m’abbandoni ancor. Né, certo, un vano
Da me conforto di parole attendi.
Che ti direi? ciò che t’accora, è gioia[396]
Per me; nè lamentar posso un destino,
Ch’io non voglio mutar. Tal del mortale
È la sorte quaggiù[397]: quando alle prese
Son due di lor, forza è che l’un piangendo
Esca del campo. Tu vivrai; null’altro
Dono ha Carlo per te.
DESIDERIO.
Re del mio regno,
Persecutor del sangue mio, qual dono
Ai re caduti sia la vita, il sai?
E pensi tu, ch’io vinto, io nella polve,
Di gioia[398] anco una volta inebbriarmi[399]
Non potrei? del velen che il cor m’affoga,
Il tuo trionfo amareggiar? parole
Dirti di cui ti sovverresti, e in parte
Vendicato morir? Ma in te del cielo
Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
Dio m’inchinò, m’inchino: a supplicarti
Vengo; e m’udrai; chè degli afflitti il prego
- Parts
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 01
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 02
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 03
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 04
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 05
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 06
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 07
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 08
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 09
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 10
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 11
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 12
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 13
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 14
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 15
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 16
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 17
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 18
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 19
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 20
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 21
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 22
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 23
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 24
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 25
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 26
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 27
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 28
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 29
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 30
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 31
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 32
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 33
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 34
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 35
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 36
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 37
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 38
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 39
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 40
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 41
- Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 42