Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 13

brani, che mi veniva fatto di riferire, secondo la corretta ortografia
della mirabile _Lettera_ (mirabile anche per la squisita forma francese)
_Sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia_.
_Torriggia, 24 settembre 1906_
MICHELE SCHERILLO.
[137] Nella lettera al Fauriel del 12 settembre 1822, il Manzoni ancora
discorreva di modificazioni apportate all’_Adelchi_, in corso di stampa.
«J’ai fait une addition», scriveva, «de quelques vers à la dernière scène
de l’acte 2ᵉ, sur l’avis de Visconti, qui a observé que ce qui a dû se
passer dans l’intervallo du 2ᵉ au 3ᵉ acte n’est pas assez clairement,
ou au moins pas assez tôt, expliqué, au commencement de celui-ci. Il a
prétendu, je crois avec raison, qu’en annonçant d’avance cet effet d’une
marche qui a l’air d’une retraite, on préparerait mieux le lecteur à le
comprendre sans fatigue dès l’ouverture, du 3ᵐᵉ acte». E mandò il brano
da «Intento, Dalle vedette sue....» fino a «Risvegliator non aspettato»
(p. 52). Soggiungeva: «Enfin, dans la scène 7ᵉ du 3ᵉ acte, cette
description du petit combat d’Anfrido m’a paru par trop embrouillée, et
j’ai tâché de la rendre un peu plus claire en changeant depuis _Confusi_
vers 3ᵐᵉ jusqu’à _Arrenditi_, ainsi que vous trouverez ci-contre». E
trascrisse l’altro brano (p. 66), da «Gran parte Gettan d’arme....» fino
ad «Arrenditi, Gli gridiamo....».
[138] Quegli abbozzi, quali il Bonghi li pubblicò, formicolano, è
vero, di errori e di sviste d’ogni genere; ma non sarebbe stato arduo
coreggerli o scansarli. Comunque, la colpa del Bonghi sta principalmente
nell’essersi egli troppo fidato nelle copie e nelle collazioni, eseguite
da chi non aveva nè l’occhio nè la mano nè la preparazione per lavori
di tal genere. Come spiegare altrimenti (basta un esempio per tutti!)
ch’ei stampi, nel primo getto della _Pentecoste_, «Oh scendi, autor di
Vergini.....», senza accorgersi che ivi debba dire «altor di Vergini»?
(Cfr. pag. 482).
[139] Do anche le varianti della _Prefazione_ e delle _Notizie storiche_
che illustrano _Il Conte di Carmagnola_; non così quelle delle _Notizie
storiche_ premesse all’_Adelchi_, perchè da principio m’era parso che non
ne francasse la spesa.
[140] Preziosa è la dichiarazione che il poeta si vede costretto a fare
in una nota alle _Notizie storiche_ premesse al _Carmagnola_, a proposito
di Nicolò Piccinino. Dice (pag. 177): «Per servire alla dignità del
verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato
con quello di Fortebraccio....». Dunque il verso ha «una dignità» che la
prosa non conosce, e che va rispettata! Nel primo getto il Manzoni non
s’era fatto riguardo d’infilzare in un verso (pag. 287): «Il Pergola, il
Torello, il Piccinino». Che gli abbia poi incusso paura il ricordo dei
«Salamini» dell’_Ajace_ foscoliano?
[141] Il cangiamento precisamente opposto venne _compiendo_ il Parini
nel ritoccare i suoi poemetti: dove prima aveva scritto _tra_, venne
sostituendo _fra_. E s’intende: agl’intenti del poeta popolano rispondeva
meglio render sempre più ricercata e preziosa la forma del _Giorno_; come
ai propositi del poeta di sangue gentile si confaceva lo sfrondare il suo
stile d’ogni futile pompa.
[142] _Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua_; 4ª
ed.. Napoli, Pierro, 1895, pag. 102.
[143] Poco avanti, a pag. 138, non dubitò tuttavia di correggere: «tra
loro tre».
[144] Anche nel Romanzo (cap. II, pag. 26) fa dir da Perpetua: «Oh! vi
par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?». Ma in tutto il libro
non ce n’è che un altro solo di codesti _egli_ pleonastici, nel cap.
XXIII, pag. 327: «E questa consolazione.... vi par egli ch’io dovessi
provarla...?».
[145] Nel Coro dell’atto III dell’_Adelchi_, in luogo di «valli petrose»
(75), il Manzoni aveva, nel primo getto, scritto (144) «valli rigose»,
che vuol dire «valli nel cui fondo scorre un rivo», ovvero «irrigue».
Il Bonghi, non so perchè, v’appose un segno d’interrogazione (?).
[146] Cfr. D’OVIDIO, _Le correzioni_ ecc., p. 210 ss.


LE TRAGEDIE, GL’INNI SACRI E LE ODI
DI
ALESSANDRO MANZONI


AL LETTORE[147]

L’autore non avrebbe certamente pensato da sè a raccogliere in un volume
questi scritti, già quasi tutti da lui pubblicati separatamente, in
diversi tempi. Chè, mentre le prime edizioni giacevano in gran parte, e
alcune da qualche anno, sparse e dimenticate presso i librai, o ammontate
in casa sua, gli sarebbe parso un pensiero troppo strano quello d’offrire
al pubblico tutt’in una volta, tanti lavori che, a uno a uno, il pubblico
non aveva voluti. Ma vedendo che ai _contraffattori_, gente, per dir la
verità, più abile e più fortunata, la cosa era riuscita, ha creduto che
non sarebbe temerità il tentar se potesse riuscire anche a un’edizione
riconosciuta da lui. Non avrebbe però avuto, come loro, il coraggio di
riprodurre questi lavori tal e quali gli erano sfuggiti dalle mani la
prima volta; e ha quindi dovuto ritoccarli, non già con la pretensione
stravagante di metterli in una buona forma; ma per levarne almeno quelle
deformità che, rivedendoli dopo tanto tempo, gli davan più nell’occhio,
e alle quali, insieme, gli pareva di poter con facilità e con certezza
sostituir qualcosa di meno male. Vuol dire che non s’è potuto ritoccar
quasi altro che le prose; giacchè i versi, se è più facile farli male,
è anche più difficile raccomodarli. Ha poi ridotti i lavori suddetti a
quelli che avrebbe voluti ristampare, come meno indegni di morire a
poco a poco, se il pensiero di ristamparli fosse potuto nascere a lui.
Dimanierachè questa raccolta, col romanzo intitolato _I Promessi Sposi_,
dell’edizione riveduta da lui, e con l’opuscolo aggiuntovi (_Storia della
Colonna Infame_), comprende tutti gli scritti che riconosce per suoi, e
nella forma che li riconosce. Finalmente ha creduto di poter profittare
di questa occasione per arrischiare qualche scritto inedito, che, uscendo
solo, avrebbe, di certo, avuta la sorte degli altri, cioè di morir
nascendo; e, questa volta, senza la probabilità d’esser resuscitato da’
_contraffattori_; perchè l’autore, dovesse anche passar per ingrato e per
malavveduto, intende di valersi oramai dell’aiuto delle leggi e delle
convenzioni, per preservarsi dal loro.
Milano, maggio 1845.
[147] Prefazione al volume: «_Opere varie_ | di | ALESSANDRO MANZONI. ||
Edizione riveduta dall’autore. || Milano | Dalla tipografia di Giuseppe
Redaelli. | 1845.».


ADELCHI
TRAGEDIA.

NOTA.—La prima edizione è del 1822, Milano, per Vincenzo Ferrario.
Ristampata varie volte da altri, in Italia e all’estero (è quasi doveroso
segnalare l’accuratissima edizione: _Opere poetiche | di | ALESSANDRO
MANZONI | con | prefazione | di | GOETHE._ || Jena | per Federico Frommann
| 1827.), il Manzoni la ristampò per suo conto, con qualche ritocco, nel
1845, nel volume delle _Opere varie_; e da ultimo, nel 1870. Seguiamo
queste due ristampe autentiche, segnando a pie’ di pagina le varianti
della prima edizione. I ritocchi, anche minimi, d’un così diligente e
minuzioso stilista, non ci paiono privi d’interesse. Tuttavia, questa è
la prima volta, crediamo, ch’essi siano tutti rilevati e inventariati.
Ricordiamo però che delle incoerenze fra la posteriore teoria sulla
lingua professata e propugnata dal Manzoni, e la lingua da lui adoperata
nei componimenti poetici, ebbe già a discorrere, succintamente ma con
l’usato acume e la singolare dottrina, il D’OVIDIO (_Le correzioni ai
Promessi Sposi e la questione della lingua_; 4ª ediz.; Napoli, Pierro,
1895; pag. 208-10)
SCHERILLO.
ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL LA QUALE
INSIEME CON LE AFFEZIONI CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA POTÈ SERBARE
UN ANIMO VERGINALE CONSACRA QUESTO ADELCHI L’AUTORE DOLENTE DI NON
POTERE A PIÙ SPLENDIDO E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO RACCOMANDARE IL CARO
NOME E LA MEMORIA DI TANTE VIRTÙ.


NOTIZIE STORICHE

FATTI ANTERIORI ALL’AZIONE COMPRESA NELLA TRAGEDIA.
Nell’anno 568, la nazione longobarda, guidata dal suo re Alboino, uscì
dalla Pannonia, che abbandonò agli Avari; e ingrossata di ventimila
Sassoni e d’uomini d’altre nazioni nordiche, scese in Italia, la
quale allora era soggetta agl’imperatori greci; ne occupò una parte,
e le diede il suo nome, fondandovi il regno, di cui Pavia fu poi la
residenza reale.(1) Con l’andar del tempo, i Longobardi dilatarono
in più riprese i loro possessi in Italia, o estendendo i confini del
regno, o fondando ducati, più o meno dipendenti dal re. Alla metà
dell’ottavo secolo, il continente italico era occupato da loro, meno
alcuni stabilimenti veneziani in terra ferma, l’esarcato di Ravenna
tenuto ancora dall’Impero, come pure alcune città marittime della Magna
Grecia. Roma col suo ducato apparteneva pure in titolo agli imperatori;
ma la loro autorità vi si andava restringendo e indebolendo di giorno
in giorno, e vi cresceva quella de’ pontefici.(2) I Longobardi fecero,
in diversi tempi, delle scorrerie su queste terre; e tentarono anche
d’impossessarsene stabilmente.
754.—Astolfo, re de’ Longobardi, ne invade alcune, e minaccia il
rimanente. Il papa Stefano II si porta a Parigi, e chiede soccorso a
Pipino, che unge in re de’ Franchi. Pipino scende in Italia; caccia
Astolfo in Pavia, dove lo assedia, e, per intercessione del papa,
gli accorda un trattato, in cui Astolfo giura di sgomberare le città
occupate.
755.—Ripartiti i Franchi, Astolfo non mantiene il patto, anzi assedia
Roma, e ne devasta i contorni. Stefano ricorre di nuovo a Pipino:
questo scende di nuovo: Astolfo corre in fretta alle Chiuse dell’Alpi:
Pipino le supera, e spinge Astolfo in Pavia. Vicino a questa città, si
presentarono a Pipino due messi di Costantino Copronimo imperatore, a
pregarlo, con promesse di gran doni, che rimettesse all’Impero le città
dell’esarcato, che aveva riprese ai Longobardi. Ma Pipino rispose che
non aveva combattuto per servire nè per piacere agli uomini, ma per
divozione a san Pietro, e per la remissione de’ suoi peccati; e che, per
tutto l’oro del mondo, non vorrebbe ritogliere a san Pietro ciò che una
volta gli aveva dato.(3) Così fu troncata brevemente nel fatto quella
curiosa questione, sul diritto della quale s’è disputato fino ai nostri
giorni inclusivamente: tanto l’ingegno umano si ferma con piacere in una
questione mal posta. Astolfo, stretto in Pavia, venne di nuovo a patti,
e rinnovò le vecchie promesse. Pipino se ne tornò in Francia, e mandò al
papa la donazione in iscritto.
756.—Muore Astolfo: Desiderio, nobile di Broscia,(4) duca longobardo,
aspira al regno; raduna i Longobardi della Toscana, dove si trovava,
speditovi da Astolfo,(5) e viene da essi eletto re. Ratchis, quel
fratello d’Astolfo, ch’era stato re prima di lui, e s’era fatto monaco,
ambisce di nuovo il regno; esce dal chiostro, fa raccolta d’uomini,
e va contro Desiderio. Questo ricorre al papa; il quale, fattogli
promettere che consegnerebbe le città già occupate da Astolfo, e non
ancora rilasciate,(6) consente a favorirlo, e consiglia a Ratchis di
ritornarsene a Montecassino. Ratchis ubbidisce; e Desiderio rimane re de’
Longobardi.
Non si sa precisamente in qual anno, ma certo in uno de’ primi del suo
regno, Desiderio fondò, insieme con Ansa sua moglie, il monastero di san
Salvatore, che fu poi detto di santa Giulia, in Brescia: Ansberga, o
Anselperga, figlia di Desiderio, ne fu la prima badessa.(7)
758.—Alboino, duca di Benevento, e Liutprando, duca di Spoleto, si
ribellano a Desiderio, mettendosi sotto la protezione di Pipino.
Desiderio gli attacca, gli sconfigge, fa prigioniero Alboino, e mette
in fuga Liutprando.(8) In quest’anno, o nel seguente, fu associato al
regno il figliuolo di Desiderio, nelle lettere de’ papi e nelle cronache
chiamato Adelgiso, Atalgiso, o anche Algiso, ma negli atti pubblici,
_Adelchis_.
Nell’anno 768 morì Pipino: il regno de’ Franchi fu diviso tra Carlo e
Carlomanno suoi figli. Le lettere a Pipino, di Paolo I e di Stefano III,
successori di Stefano II, sono piene di lamenti e di richiami contro
Desiderio, il quale non restituiva le città promesse, anzi faceva nuove
occupazioni.
770.—Bertrada, vedova di Pipino, desiderosa di stringer legami d’amicizia
tra la sua casa e quella di Desiderio, viene in Italia, e propone due
matrimoni: di Desiderata o Ermengarda,(9) figlia di Desiderio, con uno
de’ suoi figli, e di Gisla sua figlia con Adelchi. Stefano III scrive
ai re Franchi la celebre lettera, con la quale cerca di dissuaderli dal
contrarre un tal parentado.(10) Ciononostante, Bertrada condusse seco in
Francia Ermengarda; e Carlo, che fu poi detto il magno, la sposò.(11) Il
matrimonio di Gisla con Adelchi non fu concluso.
771.—Carlo, non si sa bene per qual cagione, ripudia Ermengarda, e sposa
Ildegarde, di nazione Sveva.(12) La madre di Carlo, Bertrada, biasimò il
divorzio; e questo fu cagione del solo dissapore che sia mai nato tra
loro.(13) Muore Carlomanno: Carlo accorre a Carbonac nella Selva Ardenna,
al confine de’ due regni: ottiene i voti degli elettori: è nominato re
in luogo del fratello; e riunisce così gli stati divisi alla morte di
Pipino. Gerberga, vedova di Carlomanno, fugge co’ suoi due figli, e con
alcuni baroni, e si ricovera presso Desiderio. Carlo ne fu punto sul
vivo.(14)
772.—A Stefano III succede Adriano. Desiderio gli spedisce un’ambasciata
per chiedergli la sua amicizia: il nuovo papa risponde che desidera
di stare in pace con quel re, come con tutti i cristiani; ma che non
vede come possa fidarsi d’un uomo il quale non ha mai voluto adempir
la promessa, fatta con giuramento, di rendere alla Chiesa ciò che le
appartiene. Desiderio invade altre terre della Donazione.(15)

FATTI COMPRESI NELL’AZIONE DELLA TRAGEDIA.
772-774.—Mentre Carlo combatteva contro i Sassoni, ai quali prese
Eresburgo (secondo alcuni,(16) Stadtberg nella Vestfalia), Desiderio, per
vendicarsi di lui, e inimicarlo a un tempo col papa, pensò d’indur questo
a incoronar re de’ Franchi i due figli di Gerberga; e gli propose, con
grande istanza, un abboccamento. Per un re barbaro e di tempi barbari,
il ritrovato non era senza merito. Ma Adriano si mostrò, come doveva,
alienissimo dal secondare un tal disegno; del resto, disse d’esser pronto
ad abboccarsi col re, dove a questo fosse piaciuto, quando però fossero
state restituite alla Chiesa le terre occupate.(17) Desiderio ne invase
delle altre, e le mise a ferro e a fuoco.(18) In tali angustie, e dopo
avere invano spedita un’ambasciata, a supplicarlo e ad ammonirlo, Adriano
mandò un legato a chieder soccorso a Carlo.(19) Poco dopo, arrivarono a
Roma tre inviati di questo, Albino suo confidente,(20) Giorgio vescovo,
e Wulfardo abate, per accertarsi se le città della Chiesa erano state
sgomberate, come Desiderio voleva far credere in Francia. Il papa,
quando partirono, mandò in loro compagnia una nuova ambasciata, per fare
un ultimo tentativo con Desiderio; il quale, non potendo più ingannar
nessuno, disse che non voleva render nulla.(21) Con questa risposta i
Franchi se ne tornarono a Carlo, il quale svernava in Thionville, dove
gli si presentò pure Pietro, il legato di Adriano.(22)
Circa quel tempo, dovette il re de’ Franchi ricevere una men nobile
ambasciata, inviatagli segretamente da alcuni tra’ principali longobardi,
per invitarlo a scendere in Italia, e ad impadronirsi del regno,
promettendogli di dargli in mano Desiderio e le sue ricchezze.(23)
Carlo radunò il _campo di maggio_, o, come lo chiamano alcuni annalisti,
il _sinodo_, in Ginevra; e la guerra vi fu decisa.(24) S’avviò quindi
con l’esercito alle Chiuse d’Italia. Erano queste una linea di mura,
di bastite e di torri, verso lo sbocco di Val di Susa, al luogo che
serba ancora il nome di Chiusa. Desiderio le aveva ristaurate e
accresciute;(25) e accorse col suo esercito a difenderle. I Franchi di
Carlo vi trovarono molto maggior resistenza, che quelli di Pipino.(26)
Il monaco della Novalesa, citato or ora, racconta che Adelchi, robusto,
come valoroso, e avvezzo a portare in battaglia una mazza di ferro, gli
appostava dalle Chiuse, e piombando loro addosso all’improvviso, co’
suoi, percoteva a destra e a sinistra, e ne faceva gran macello.(27)
Carlo, disperando di superare le Chiuse, nè sospettando che ci
fosse altra strada per isboccare in Italia, aveva già stabilito di
ritornarsene,(28) quando arrivò al campo de’ Franchi un diacono, chiamato
Martino, spedito da Leone, arcivescovo di Ravenna; e insegnò a Carlo un
passo per scendere in Italia. Questo Martino fu poi uno de’ successori di
Leone su quella sede.(29)
Mandò Carlo per luoghi scoscesi una parte scelta dell’esercito, la
quale riuscì alle spalle de’ Longobardi, e gli assalì: questi, sorpresi
dalla parte dove non avevano pensato a guardarsi, e essendoci tra loro
de’ traditori, si dispersero. Carlo entrò allora col resto de’ suoi
nelle Chiuse abbandonate.(30) Desiderio, con parte di quelli che gli
eran rimasti fedeli, corse a chiudersi in Pavia; Adelchi in Verona,
dove condusse Gerberga co’ figliuoli.(31) Molti degli altri Longobardi
sbandati ritornarono alle loro città: di queste alcune s’arresero
a Carlo, altre si chiusero e si misero in difesa. Tra quest’ultime
fu Brescia, di cui era duca il nipote di Desiderio, Poto, che, con
inflessione leggiera, e conforme alle variazioni usate nello scrivere i
nomi germanici, è in questa tragedia nominato Baudo. Questo, con Answaldo
suo fratello, vescovo della stessa città, si mise alla testa di molti
nobili, e resistette a Ismondo conte, mandato da Carlo a soggiogare
quella città. Più tardi, il popolo, atterrito dalle crudeltà che Ismondo
esercitava contro i resistenti che gli venivano nelle mani, costrinse i
due fratelli ad arrendersi.(32)
Carlo mise l’assedio a Pavia, fece venire al campo la nuova sua moglie,
Ildegarde; e vedendo che quella città non si sarebbe arresa così presto,
andò, con vescovi, conti e soldati, a Roma, per visitare i limini
apostolici e Adriano, dal quale fu accolto come un figlio liberatore.(33)
L’assedio di Pavia durò parte dell’anno 773 e del seguente: non
credo che si possa fissar più precisamente il tempo, senza incontrar
contradizioni tra i cronisti, e questioni inutili al caso nostro, e forse
insolubili. Ritornato Carlo al campo sotto Pavia, i Longobardi, stanchi
dall’assedio, gli apriron le porte.(34) Desiderio, consegnato da’ suoi
_Fedeli_ al nemico,(35) fu condotto prigioniero in Francia, e confinato
nel monastero di Corbie, dove visse santamente il resto de’ suoi
giorni.(36) I Longobardi accorsero da tutte le parti a sottomettersi,(37)
e a riconoscer Carlo per loro re. Non si sa bene quando si presentasse
sotto Verona: al suo avvicinarsi, Gerberga gli andò incontro co’ figli,
e si mise nelle sue mani. Adelchi abbandonò Verona, che s’arrese; e di là
si rifugiò a Costantinopoli, dove, accolto onorevolmente, si fermò: dopo
vari anni, ottenne il comando d’alcune truppe greche, sbarcò con esse in
Italia,(38) diede battaglia ai Franchi, e rimase ucciso.(39)
Nella tragedia, la fine di Adelchi si è trasportata al tempo che uscì
da Verona. Questo anacronismo, e l’altro d’aver supposta Ansa già morta
prima del momento in cui comincia l’azione (mentre in realtà quella
regina fu condotta col marito prigioniera in Francia, dove morì), sono
le due sole alterazioni essenziali fatte agli avvenimenti materiali e
certi della storia. Per ciò che riguarda la parte morale, s’è cercato
d’accomodare i discorsi de’ personaggi all’azioni loro conosciute, e alle
circostanze in cui si sono trovati. Il carattere però d’un personaggio,
quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti
storici: i disegni d’Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue
inclinazioni, tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e
intruso tra i caratteri storici, con un’infelicità, che dal più dificile
e dal più malevolo lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come
lo è dall’autore.

USANZE CARATTERISTICHE, ALLE QUALI SI ALLUDE NELLA TRAGEDIA.
_Atto I, scena II, verso 149._—Il segno dell’elezione de’ re longobardi
era di mettere loro in mano un’asta.(40)
_Scena III, verso 212._—Alle giovani longobarde si tagliavano i capelli,
quando andavano a marito: le nubili sono dette nelle leggi: _figlie in
capelli_.(41) Il Muratori dice, senza però addurne prove, ch’erano anche
chiamate _intonse_; e vuole che di qui sia venuta la voce _tosa_, che
vive ancora in qualche dialetto di Lombardia.(42)
_Scena V, verso 335._—Tutti i Longobardi in caso di portar l’armi, e
che possedevano un cavallo, eran tenuti a marciare: il Giudice poteva
dispensarne un piccolissimo numero.(43)
_Atto III, scena I, verso 78._—Ne’costumi germanici, il dipendere
personalmente da’ principali era, già ai tempi di Tacito, una distinzione
ambita.(44) Questa dipendenza, nel medio evo, comprendeva il servizio
domestico e il militare; ed era un misto di sudditanza onorevole, e di
devozione affettuosa. Quelli che esercitavano questa condizione erano da’
Longobardi chiamati _Gasindi_: ne’ secoli posteriori invalse il titolo
_domicellus_; e di qui il _donzello_, che è rimasto nella parte storica
della lingua. Questa condizione, diversa affatto dalla servile, si trova
ugualmente ne’ secoli eroici; ed è una delle non poche somiglianze che
hanno que’ tempi con quelli che Vico chiamò _della barbarie seconda_.
Patroclo, ancor giovinetto, dopo avere ucciso, in una rissa, il figlio
d’Anfidamante, è mandato da suo padre in rifugio in casa del _cavalier_
Peleo, il quale lo alleva, e lo mette al servizio d’Achille, suo
figlio.(45)
_Scena IV, verso 212._—L’omaggio si prestava dai Franchi in ginocchio, e
mettendo le mani in quelle del nuovo signore.(46)
_Atto IV, scena II, verso 221._—Una delle formalità del giuramento presso
i Longobardi, era di metter le mani su dell’armi, benedette prima da un
sacerdote.(47)
_Coro nell’atto IV, st. 7._—Carlo, come i suoi nazionali, era portato per
la caccia.(48) Un poeta anonimo, suo contemporaneo, imitatore studioso di
Virgilio, come si poteva esserlo nel secolo IX, descrive lungamente una
caccia di Carlo, e le donne della famiglia reale, che la stanno guardando
da un’altura.(49)
_Coro suddetto, st. 10._—Si dilettava anche molto dei bagni d’acque
termali; e perciò fece fabbricare il palazzo d’Aquisgrana.(50)
* * * * *
Il vocabolo _Fedele_, che torna spesso in questa tragedia, c’è sempre
adoprato nel senso che aveva ne’ secoli barbari, cioè come un titolo di
vassallaggio. Non trovando altro vocabolo da sostituire, e per evitar
l’equivoco che farebbe col senso attuale, non s’è potuto far altro
che distinguerlo con l’iniziale grande. _Drudo_, che aveva la stessa
significazione, ed è d’evidente origine germanica,(51) riuscirebbe più
strano, essendo serbato a un senso ancor più esclusivo. Nella lingua
francese, il _fidelis_ barbarico s’è trasformato in _féal_, e c’è
rimasto; e le cagioni della differente fortuna di questo vocabolo nelle
due lingue, si trovano nella storia de’ due popoli. Ma c’è pur troppo,
tra quelle così differenti vicende, una trista somiglianza: i Francesi
hanno conservata nel loro idioma questa parola a forza di lacrime e di
sangue; e a forza di lacrime e di sangue, è stata cancellata dal nostro.

NOTE DEL MANZONI ALLE NOTIZIE STORICHE
(1) PAUL DIAC., _De gestis Langob._, lib. 2.
(2) Una descrizione più circostanziata delle divisioni dell’Italia in quel
tempo ci condurrebbe a questioni intricate e inopportune. V. MURAT.,
_Antich. Ital._, dissert. seconda.
(3) _Affirmans etiam sub juramento, quod per nullius hominis favorem
sese certamini sæpius dedisset, nisi pro amore Beati Petri, et venia
delictorum; asserens et hoc, quod nulla eum thesauri copia suadere
raleret, ut quod semel Beato Petro obtulit, auferret._ ANASTAS.
Biblioth.; _Rer. It._, t. III, p. 171.
(4) _Cujus (~Brixiæ~) ipse Desiderius nobilis erat._ RIDOLF. Notar.,
_Hist._ ap. BIEMMI, _Ist. di Brescia_ (Del secolo XI).—SICARDI Episc.;
_Rer. It._, t. VII, p. 577, e altri.
(5) ANAST., 172.
(6) _Sub jurejurando pollicitus est restituendum Beato Petro civitates
reliquas, Faventiam, Imolam, Ferrariam, cum eorum finibus, etc._ STEPH.,
_Ep. ad Pipin._; Cod. Car. 8.
(7) _Anselperga sacrata Deo Abbatissa Monasterii Domini Salvatoris, quod
fundatum est in civitate Brixia, quam Dominus Desiderius excellentissimus
rex, et Ansam precellentissimam reginam, genitores ejus, ab fundamentis
edificaverunt...._ Dipl. an. 761; apud MURAT., _Antiquit. Italic._,
dissert. 66, t. V, p. 499.
(8) PAUL., _Ep. ad Pip._; Cod. Car. 15.
(9) Le cronache di que’ tempi variano perfino ne’ nomi, quando però li
danno.
(10) Cod. Carol., Epist. 45.
(11) _Berta duxit filiam Desiderii regis Langobardorum in Franciam._
Annal. Nazar. ad h. an.; _Rer. Fr._, t, V, p. 11.
(12) _Cum, matris hortatu, filiam Desiderii regis Langobardorum duxisset
uxorem, incertum qua de causa, post annum repudiavit, et Hildegardem
de gente Suavorum præcipuæ nobilitatis feminam in matrimonium
accepit._—_Karol, M, Vita per EGINHARDUM_, 18. (Scrittore contemporaneo).
(13) _Ita ut nulla invicem sit exorta discordia, præter in divortio filiæ
Regis Desiderii, quam, illa suadente, acceperat._ EGINH., in _Vita Kar._,
ibid.
(14) _Rex autem hanc eorum profectionem, quasi supervacuam, impatienter
tulit._ EGINH., _Annal._ ad h. annum.
(15) ANAST., 180.
(16) HEGEVISCH, _Hist. de Charlem._, trad. de l’allem., p. 116.
(17) ANAST., 181.
(18) Id., 182.
(19) Id., 183.
(20) _Albinus deliciosus ipsius regis._ ANAST., 184. V. MUR., _Ant. It._,
diss. 4.
(21) _Asserens se minime quidquam redditurum._ ANAST., ibid.
(22) _Annal. Tiliani_, _Loiseliani_, _Cronac. Moissiacense_, ed altri,
nel t. V _Rer. Franc._ In generale, gli annalisti di que’ secoli che noi
chiamiamo barbari, sanno, nelle cose di poca importanza, copiarsi l’uno
con l’altro, al pari di qualunque letterato moderno: s’accordano poi a
maraviglia nel passar sotto silenzio ciò che più si vorrebbe sapere.
(23) _Sed dum iniqua cupiditate Langobardi inter se consurgerent, quidam
ex proceribus Langobardis talem legationem mittunt Carolo Francorum regi,
quatenus veniret cum valido exercitu, et regnum Italiæ sub sua ditione
obtineret, asserentes quia istum Desiderium tyrannum sub potestate ejus
traderent vinctum, et opes multas, etc.... Quod ille prædictus rex
Carolus cognoscens, cum.....ingenti multitudine Italiam properavit._
ANONIM. SALERNIT., _Chron._, c. 9; _R. It._, t. II, part. II, p.
180.—Scrisse nel secolo X.
(24) V. gli annalisti citati sopra, e EGINH., _Annal._ ad an. 773.
(25) ANAST., p. 184.—_Chron. Novaliciense_, 1. 3, c. 9; _R. It._, t. II,
part. II, p. 717.—Il monaco, anonimo autore di questa cronaca, visse,
secondo le congetture del Muratori, verso la metà del secolo XI.
(26) _Firmis qui (~Desiderius~) fabricis præcludens limina regni, Arcebat
Francos aditu._—Ex FRODOARDO, _de Pontif. Rom._; _R. Fr._, t. V, p. 463.
Frodoardo, canonico di Rheims, visse nel X secolo.
(27) _Erat enim Desiderio filius nomine Algisus, a juventute sua fortis
viribus. Hic baculum ferreum equitando solitus erat ferre tempore
hostili.... Cum autem hic juvenis dies et noctes observaret, et Francos
quiescere cerneret, subito super ipsos irruens, percutiebat cum suis a
dextris et a sinistris, et maxima cæde eos prosternebat._ Chron. Nov., 1.
3, c. 10.
(28) _.....Claustrisque repulsi, In sua præcipitem meditantur regna
regressum. Una moram reditus tantum nox forte ferebat._ FRODOARD., ib.
_Dum vellent Franci alio die ad propria reverti._ ANAST., p. 184.
(29) _Hic (~Leo~) primus Francis Italiæ iter ostendit per Martinum
diaconum suum, qui post eum quartus Ecclesiæ regimen tenuit, et ab eo
Karolus rex invitatus Italiam venit._ AGNEL., _Raven. Pontif._; _R. It._,
t. II, p. 177.— Scrisse Agnello nella prima metà del secolo IX, e conobbe