Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 10

Shakespeare, anzi pur come Goethe o Schiller, non avrebbe esitato un
momento a cavarne partito. E che importava che i cronisti più fededegni
non se ne mostrassero informati? Nel cinquecento, all’incontro del
Carmagnola col padre si prestava fede; e un umanista, ch’era anche
un uomo di chiesa, il canonico veronese Adam Fumano, raccolse quella
tradizione dalla bocca del popolo, e la espose, con una certa pompa, in
un epigramma,[108] ch’ebbe la ventura d’esser riferito e illustrato dal
Giovio, e la disgrazia d’esser rattrappito e mutilato in un sonetto, un
vero letto di Procuste, da Lodovico Domenichi[109]. Or, di fronte a una
tradizione siffatta, abbastanza antica se pur non autentica, ma così
feconda di effetti poetici, doveva un poeta credersi in obbligo di far
tanto lo schizzinoso?
[97] Il Bellorini (_Spigolature Pellichiane_, Saluzzo, 1903, p. 25-8)
ebbe già a notare che la cantica _Tancreda_ ha molte somiglianze con
codesto dramma dello Schiller.—Ognuno ricorda come il Pellico noti che
avesse il medesimo nome del «grand’uomo» l’umile e bonario carceriere
dello Spielberg. Cfr. _Mie Prigioni_, cap. 58.
[98] Vedi nei _Materiali estetici_, a pag. 389 di questo volume.
[99] _De l’Allemagne_, II pt., ch. 18.
[100] Vedi, in questo volume, il saggio _Della moralità delle opere
tragiche_, alle pagine 433-36.
[101] Vedi, in questo volume, a pag. 302-03 e 336.
[102] Cfr. M. DE STAËL, _De l’Allemagne_, II pt., ch. 18; e B. CONSTANT,
_Mélanges de littérature et de politique_, Bruxelles, 1838, p. 216 ss.
[103] L’episodio gentile e commovente del giovinetto Pergola (sc. 3ª,
p. 221-22), che a quel ch’io so non ha fondamento nella storia, è
bensì d’ispirazione omerica, ma la maniera ond’è ricolorito si direbbe
modellata su Schiller. Come pure, il senatore Marco rassomiglia,
nell’eccessiva perfezione morale, specialmente al Marchese di Posa;
nonostante che di quei caratteri un po’ rigidi sia altresì popolato il
teatro del nostro Alfieri.
[104] Vedi in questo volume, a pag. 281 ss.
[105] «Il popolo!... Qui non c’è popolo, voi lo sapete bene; altrimenti
voi non osereste trattarci così, lui e me! Qui c’è una plebe, forse,
i cui sguardi vi farebbero vergognare; ma essi non ardiranno nè
gemere nè maledirvi, salvo che col loro cuore e con gli occhi». (Atto
V).—Conobbe il Byron la tragedia manzoniana, pubblicata l’anno avanti?
Non lo credo impossibile, in ispecie se si tien conto degli accenni al
processo del Carmagnola, la cui innocenza qui è data per sicura, verso
la fine dell’atto IV. Il senatore Barbarigo dice del doge Francesco
Foscari, che fu quegli che lo condannò: «Eppure egli sembra un uomo così
aperto!...». E il patrizio Loredano: «Così anche sembrava, poco tempo fa,
al Carmagnola!—L’accusato e straniero traditore?—Proprio così!.... E il
valoroso Carmagnola è morto!...—Carmagnola era vostro amico? —Egli era la
difesa della città. Nella sua giovinezza, era stato suo nemico; ma nella
sua virilità, prima il suo salvatore e poi la sua vittima.—Ah questa pare
sia la pena che tocca a chi salva le città!».
[106] Anche altre voci si potrebbero raccogliere. Un ser Gherardini de
Fulgineo per esempio, citato dal BATTISTELLA (_Il Conte di Carmagnola,
studio storico con documenti inediti_, Genova, 1889, p. 394), scriveva
da Firenze al Marchese d’Este, il 15 maggio 1432: «....Et la prexa et
la morte del Carmagnola è ogni dì più vituperata et biasemata qui. Et
dicese largo che questo acto, oltra la vergogna, è la desfactione de la
liga».—Il GIOVIO attesta ch’ei fu giustiziato «_ea fama, ut nonnulli eum
indignissime damnatum dicerent, quod avaritia praecipitique malignitate
maturatum ei exitium arbitrarentur. Nam ex damnati opibus supra ducenta
milia aureorum nummum ad Fiscum redibant.... Auxit autem invidiam atrocis
inexpectatique supplicii spectaculum interdiu populo editum, quum indigne
tantus imperator ad Columnas rubras ubi noxii plecti solent, inserto in
os ligneo lupato ne vociferari posset, traheretur; multis aut insontis
calamitatem, aut aequo severius ingrati Senatus decretum detestantibus;
quum egregie fortiterque rerum bello gestarum recens memoria spectantium
animos, excitis fere lachrymis, ad misericordiam permoveret_».—Per quel
ch’è poi della vera o presunta reità del Carmagnola, a me pare, pur dopo
il tanto arrabattarsi degli apologisti del Senato Veneto, che rimanga
inesorabilmente giusto il giudizio del Machiavelli, nel _Principe_ (cap.
XII, § 7, ediz. Lisio), al quale il Manzoni sembra essersi ispirato: che
cioè i Veneziani, veduto «el Carmignola.... virtuosissimo, battuto che
ebbono sotto il suo governo el Duca di Milano, e conoscendo da altra
parte come elli era raffreddo nella guerra, iudicorono con lui non
potere più vincere, perchè non voleva, nè potere licenziarlo per non
riperdere ciò che aveano acquistato; onde che furono necessitati, per
assicurarsene, ammazzarlo».
[107] Vedi, in questo volume, a pag. 282 ss.—Il Conte, nel primo getto
(pag. 280), accennava anch’egli amorevolmente a suo padre; quando al fido
Marco esponeva quel che avrebbe fatto dopo la vittoria:
«Se vincitor ritorno,
E non solo,.....qui finalmente
Restarmi; il vecchio genitor con noi
Qui trarre....».
[108]
_Sedula apis velati maturis advolat uvis_
_Ut liquido vacuas distendat nectare cellas,_
_Ad te sic mea se celeri tulit impete Musa._
_Bellica quem ad magnos virtus evexit honores,_
_Francisce, aeternum pietas per secula nomen_
_Cui peperit, cuncto Procerum cum astante Senatu_
_Ac magnis una tecum de rebus agente._
_Ad Scabrum haud veritus confestim exire parentem es_
_Fortiaque infirmo circumdare brachia collo_
_Illicet hoc unum malit, quam mille referre_
_Gesta tua praeclara, et devicto ex hoste trophaea._
_Magnorum decus Insubrum, dux inelyte, tandem_
_Orta licet subito, fractum te attriverit ingens_
_Tempestas, Caurique, importunaeque procellae,_
_Ne dubita; tua te pietas, tua maxima virtus_
_Venturo meritis cumulabit honoribus aevo._
Il Fumano fu eletto canonico di Verona nel 1544, e morì in «felice
vecchiaia» nel 1587.—Il Manzoni chiamò Bartolomeo il padre del
Carmagnola, seguendo la tradizione; ma da qualche documento milanese
risulterebbe chiamarsi egli _Giacomo_. In un istrumento degli 8 dicembre
1415, è scritto: «....Virum magnanimum et strenuae probitatis fama
decoratum Franciscum de Buxonibus dictum Carmagnolam, filium condam
spectabilis vivi domini _Jacobi_....».
[109] Nella sua traduzione degli _Elogi_ del Giovio: Vinegia, De’ Rossi,
1557, pag. 115. Il sonetto è questo:
Ben fu degno d’honor l’atto gentile,
Che verso il padre tuo mostrasti, alhora
Che colmo di pietà dentro et di fuora
D’ire abbracciarlo non avesti a vile.
Fu questo ufficio d’animo virile,
Et più, che le tue prove assai t’honora:
Tal che per ciò fia vivo, et chiaro ogn’hora
Il nome illustre, onde non hai simile.
Da sì bella pietà merti più lode,
Che da mille atti d’armi, et di valore,
De’ quali ancor la tua memoria gode.
Sopra ciò non potrà l’empio furore
Del tempo, non l’invidia, che sì rode;
Quella che già ti spinse a l’ultime hore.

XXIII.
Non posso indugiarmi qui a rilevare quant’altro il Manzoni, nelle
sue tragedie, può aver derivato dallo Schiller, e in che modo e in
quali limiti ha seguito gli esempii del Goethe e i modelli di quello
Shakespeare, che ai suoi occhi diveniva via via sempre più immenso[110].
Tramontarono, nella sua ammirazione, e Monti, e Alfieri, e Schiller;
ma l’altissimo tragediografo ascendeva sempre. E di lui egli avrebbe
potuto ripetere quel che il curato amico di Don Chisciotte disse
dell’Ariosto: «lo pondré sobre mi cabeza!».[111]
Questo ed altro spero di fare la prossima volta. Per ora, poichè «piene
son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda», soggiungerò alcune
poche note, a compimento delle iniziate o accennate dianzi.
Negli appunti di critica, il Manzoni asseriva che la teoria del nuovo
genere drammatico, pur da lui preferito, era «negli scritti del signor
Schlegel, di mad.ᵉ di Stäel, del signor Sismondi, nel _Discours des
préfaces_ premesso alla traduzione di Shakespeare»: sono i libri medesimi
che mettevan tanto scompiglio nella fantasia del povero Pellico. E
continuava: «dei tratti nuovi e luminosi se ne trovano pure in varj
recentissimi scritti di nostri Italiani, principalmente negli estratti
ragionati di opere drammatiche che stanno nel _Conciliatore_». Codesti
_estratti_, o ristretti con osservazioni critiche, eran dovuti in parte a
Ermes Visconti, al De Cristoforis, a Giuseppe Niccolini, al Berchet; ma
soprattutto al Pellico. Il quale nel «foglio azzurro» del settembre 1818
aveva dissertato, con larghezza d’idee nuova tra noi, dell’Alfieri e del
Corneille, del Voltaire e del Racine, del Cervantes e dello Shakespeare;
e nei numeri del febbraio e dell’aprile del 1819, del _Philippe II_ di
Giuseppe Chénier, comparandolo al _Don Carlos_ di Schiller e al _Filippo_
di Alfieri, dell’_Henri VIII_ e del _Charles IX_ del medesimo poeta,
e della _Maria Stuarda_ di Schiller, toccando dei _Masnadieri_, della
_Vergine d’Orléans_, del _Wallenstein_. Il critico vi proclamava con
giovanile baldanza:
«Le sane regole in ogni arte vanno sentite e trovate da per sè
colla potenza dell’intelletto, e non ricevute ciecamente per
tradizione. Tale era l’opinione di Schiller, e quindi risultò
che in ciascuno de’ suoi poemi egli sempre calcasse una nuova
strada. Non solo non è vero che per giungere al bello si debba
porre servilmente il piede sovra orme già segnate; ma è anzi
irrefragabile che ogni soggetto che un poeta assume a trattare
deve essere condotto con leggi particolarmente proprie; perchè se
l’ingegno umano, simile alla natura, nulla crea mai d’identico ad
alcuna opera già esistente, identiche non potranno mai essere le
regole da seguirsi nelle diverse creazioni».[112]
Giustissimo; ma non è da tutti lo scoprire e il calcare nuove vie, nè
basta a ciò la sola buona volontà. E quando il Pellico riuscì con uno
sforzo a staccarsi dalla via consolare, andò subito a cascare in altre,
aperte e inaugurate più di recente. Insieme con lo Schiller e con lo
Shakespeare, uno dei suoi modelli preferiti fu Giuseppe Maria Chénier.
Il quale, come si sa, aveva voluto essere, sul teatro tragico, l’epigono
di Voltaire: la rivoluzione e l’epurazione che questi aveva compiuta nel
campo morale e religioso, egli intese ad attuarla nel campo politico.
Così che in una _Epître aux manes de Voltaire_ si vantò:
Tes succès de bonne heure ont agrandi la scène.
Plein d’amour pour la gloire, avec moins de talens,
Voltaire, ainsi que toi, dès mes plus jeunes ans
J’offris des voeux à Melpomène.
Les obstacles nombreux ne m’ont point arrêté;
J’ai voulu rappeler la Melpomène antique;
Et dans les premiers jours de notre liberté,
J’attachai sur son front, avec quelque fierté,
La cocarde patriotique.
E l’_Epistola_, che l’enfatico poeta aveva pubblicata nel 1790 in fine
della sua prima ed anche più famosa tragedia, _Charles IX ou l’école des
rois_, era andata molto ai versi del Pellico; che nel _Conciliatore_ del
7 febbraio 1819 scriveva:
«La sua _Epistola a Voltaire_ è uno dei poemi che, dal 1800[?] in
poi, sono stati accolti in Francia con maggiore applauso: essa
fruttò all’autore un decreto di destituzione, e un’infinità di
mercenarie invettive in tutti i fogli periodici; ma queste, come
sempre avviene delle persecuzioni, non diedero fuorchè un più
vivo risalto al perseguitato».
Il futuro narratore delle _Mie Prigioni_ sentiva ribollirsi in petto
quei medesimi spiriti impazienti di libertà; e non lesina davvero la
lode al poeta che Beniamino Constant giudicava «le plus beau talent
de son époque, comme auteur dramatique»[113]. Si esalta quando, nel
_Charles IX_, l’ode, con accento alfieriano, inveire contro i tiranni
di diritto divino, e, nel _Caio Gracco_, levare il grido, contro la non
meno abbominevole tirannia della plebe ubriaca, _Des lois et non du
sang!_; quando, nel _Timoleone_ (1794), ne ascolta l’alfieriana protesta
contro i nuovi decemviri del Terrore, e, nel _Tiberio_ (1810), lo vede
disegnare «coi tratti più veri l’uomo, di cui tutti guardavano l’immagine
venerandola o tremando». Eppure, un così ardente rivoluzionario nelle
idee politiche era perseverantemente stato, com’ebbe a notare il
Constant, «le partisan le plus zélé de toutes les entraves léguées par
Aristote et consacrées par Boileau». Ma non fu tale anche il liberissimo
Alfieri? Anzi, non anche il Foscolo, pur sospettato di aver voluto
coll’_Ajace_ alludere, nel carattere del protagonista «all’esilio del
generale Moreau, e nella spregiata santità di Calcante alle sciagure di
Pio VII, e nell’ambizione d’Agamennone alla fraudolenta onnipotenza di
Napoleone»?[114] E forse appunto lo Chénier fornì al Pellico l’esempio
di quell’improvvisa tirata lirica di Paolo, nella _Francesca_, ch’è un
anacronismo storico e una stonatura artistica.
Nella 1ª scena dell’atto III del _Charles IX_, a un certo momento, Le
Chancelier de l’Hôpital esce in queste profetiche esclamazioni:
Quel exemple aux mortels qui portent la couronne!
Laissons faire le temps; à la grandeur du trône
On verra succéder la grandeur de l’état:
Le peuple tout-à-coup reprenant son éclat,
Et des longs préjugés terrassant l’imposture,
Reclamera les droits fondés par la nature;
Son bonheur renaîtra du sein de ses malheurs:
Ces murs baignés sans cesse de sang et de pleurs,
Ces tombeaux des vivans, ces bastilles affreuses,
S’écrouleront alors sous des mains généreuses:
Aux princes, aux citoyens imposant leur devoir,
Et fixant à jamais les bornes du pouvoir,
On verra nos neveux, plus fiers que leurs ancêtres,
Reconnaissant des chefs, mais n’ayant point de maîtres:
Heureux sous un monarque ami de l’équité,
Restaurateur des lois et de la liberté.
Non è chi non veda come qui sia chiaramente vaticinata la distruzione
della Bastiglia,... ch’era già avvenuta[115]: e l’avevano, con ingenuo
entusiasmo, di cui più tardi ebbero a pentirsi o ad arrossire, celebrata
Andrea Chénier e il suo amico Vittorio Alfieri[116]. Codesti versi
rappresentano appunto la coccarda patriottica, che il più giovane ma non
meno audace fratello di Andrea aveva attaccata, nei primi giorni della
libertà, in fronte alla vecchia Melpomene. «Non pas en composant la
tragédie de _Charles IX_, qui était faite depuis long-temps», dichiara
egli stesso in una nota, «mais en ajoutant au rôle du Chancelier de
l’Hôpital seize vers où il prédit la révolution».
Ora, anche il Manzoni aveva molta stima pel teatro nazionale dello
Chénier; benchè non mancasse di fare le sue solite acute riserve circa
una pretesa moralità, peculiare alle opere tragiche. Osservava a
proposito della frase, sovente ripetuta, «Entrambi hanno fatto il loro
dovere», che essa muove dall’assurda supposizione che, in molti casi, a
due persone possano incombere doveri contrarii su uno stesso soggetto.
«Si osservino tutti questi casi, e si vedrà che i due doveri
supposti sono fondati su opinioni speciali e temporanee, su
istituzioni ecc., e che si dimentica sempre il fine che si deve
cercare nella determinazione da prendersi dalle due persone. Ora,
il fine giusto non può essere che uno. Esempio: la scena, per
tanti rapporti bellissima, del Tiberio di Chénier, nella quale
Cneo implora Agrippina perchè desista dall’accusare Pisone padre
di Cneo. Agrippina risponde che il dovere suo è di accusarlo e di
perderlo, e il dovere di Cneo di far tutto per salvarlo. Questo
sentimento è falso, perchè due tendenze opposte non ponno essere
egualmente buone o giuste. Ora, donde viene il falso in questo
caso? Dall’essersi il poeta applicato puramente ai rapporti
personali delle due parti, alla sorte di Pisone e alla vendetta
di Germanico, e dall’aver dimenticato la verità e la giustizia, e
il fine per cui sono istituite le accuse, le difese, i tribunali
e i giudici: il qual fine è tutt’altro che di dare occasione ai
parenti d’un morto di vendicarlo, e di mostrarsi sensibili alla
sua perdita, e di dare occasione ad un figlio di salvare suo
padre».[117]
S’intende, siffatte osservazioni e obiezioni particolari non menomavano,
nel concetto del Manzoni, il merito singolare dello Chénier; ch’era
d’aver cercato i soggetti delle sue tragedie nella storia nazionale del
suo paese, e d’aver affidata al teatro una missione politica. Risonava
ancora nel mondo latino l’esclamazione sospirosa (unica ciambella gustosa
dell’infornata poetica d’un Clément avversario di Voltaire!):
Qui nous délivrera des Grecs et de Romains?
che pare il grido di sommossa provocatore del romanticismo, a cui un
Berchoux, detto _le gastronomique_, aveva accodato:
Race d’Agamennon, qui ne finis jamais!...
E un Du Belloy, mezzo fallito imitatore del Metastasio, aveva avuto
fortuna con drammi sgangherati, quali _Le siége de Calais_ (1765),
_Gaston et Bayard_ (1771), _Gabrielle de Vergy_ (1777)[118]; ma _Pierre
le Cruel_ aveva finito col togliergli credito, così per l’atrocità
macabra e nauseante dell’azione, come perchè la povera storia vi era
più che mai bistrattata e vilipesa. Tuttavia l’incanto mitologico o
semileggendario era rotto; e il pubblico francese aveva chiaramente
dimostrato la sua propensione per i soggetti nazionali. Giuseppe Chénier
trasse profitto da queste buone disposizioni. I tempi eran mutati, ed ora
era permesso ciò che non sarebbe stato nè a Corneille nè a Voltaire. «Les
malheurs de la France», scrive lo Chénier nel _Discours préliminaire_
al _Charles IX_, del 22 agosto 1788, «occasionnés presque toujours par
la faiblesse des rois, par le dispotisme des ministres et l’esprit
fanatique du clergé, auraient nécessairement rempli de véritables pièces
nationales. Le gouvernement n’était point assez raisonnable pour les
permettre, et les Français n’étaient pas encore capables de les sentir».
E poichè «les hommes supérieurs font marcher l’esprit humain: sans eux,
il resterait immobile»; lo Chénier si propose di fare o di compiere
quanto Corneille e Voltaire avevano lasciato o intentato o a mezzo.
L’attingere alla storia nazionale era, in fondo, un tornare alla grande e
genuina tradizione greca: i modelli rimanevano ancora Eschilo e Sofocle.
«Souvent, en faisant parler les fameux personnages des tems passés, le
poète insérait dans sa pièce des détails relatifs aux tems présens.
L’_Oedipe à Colonne_, entre autres, est plein d’allusions à la guerre du
Péloponèse». Da ciò i versi profetici del _Charles IX_, e, più tardi,
dietro quell’esempio, l’uscita lirica e carbonaresca della _Francesca da
Rimini_.
Da ciò pure, ma non solamente da ciò, l’idea del Manzoni di mettere in
tragedia un episodio della nostra storia, durante il brutto tempo in cui
l’antico valore italico era malamente sprecato in guerre fratricide; e
l’altra, di lumeggiare, nei suoi aspetti più reconditi e commoventi, una
delle più interessanti fra quelle lotte d’invasori donde derivò tanto
danno e tanta vergogna al bel paese. Non era possibile, nè l’avrebbe
voluto il poeta, che la storia contemporanea non facesse capolino di tra
la rappresentazione de’ fatti più antichi. Questi il poeta li sceglieva
lui: e non è un caso se, per esempio, nella discesa di Carlomagno in
Italia, egli riproducesse quella più recente di Napoleone; e nella
morte dell’innocente Carmagnola quella, così drammatica, di Gioacchino
Murat; e le generose idee di questo principe egli prestasse un momento
al suo diletto Adelchi. È vero che, andando avanti nella composizione
dei suoi drammi, il Manzoni cercò di rimanere sempre più fedele al vero
storico, così da immaginare i Cori, soltanto «destinati alla lettura»,
per riserbarsi «un cantuccio» dove «parlare in persona propria». Ma
neanche allora riuscì del tutto a vincere «la tentazione d’introdursi
nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti», a
evitare insomma un «difetto», ch’è «dei più notati negli scrittori
drammatici».[119] Gli è che i suoi drammi erano stati concepiti con un
intendimento alquanto diverso; e questo, nel primo getto, vien fuori con
balda schiettezza.
Adelchi, in quegli abbozzi, è Murat: o meglio, è il principe ideale, che
vagheggia la redenzione e l’unità d’Italia. Egli parla come soltanto
Murat aveva osato, fino allora, parlare. Al fedele Anfrido diceva (III,
I; pag. 132):
A me il comando dell’impresa il padre
Affiderà. Poni che, al novo grido
Del conquiso Adrian, Carlo non torni,
E in altro campo non ci colga. Il poco
Sforzo di Toschi e di Campani, e gli altri
Miseri avanzi del poter Latino
Che il pontefice aduna, e a cui dal tempio,
Sedendo, orando, colla man comanda
Di ferro ignuda, svaniranno incontro
Tutta Longobardia, guidata, ardente,
Concorde, anche fedele, allor che a certa
E facil preda la conduci. Il voto
Di età tante fia pago, e Italia intera
Nostra sarà. Dì, non è questo il mio
Avvenir più ridente?...........
....Oh mi parea,
Pur mi parea che ad altro io fossi nato,
Che ad esser capo di ladron; che il cielo
Su questa terra altro da me volesse
Che, senza rischio e senza onor, guastarla.
E già prima (I, 2; pag. 123-25) aveva ammonito il padre (il quale rimane
inesorabilmente sordo: proprio com’era stato Napoleone!) che
steril mai
D’un popolo il desio non è del tutto;
e ventilato il disegno di proclamar liberi i Romani, raggruppando tutta
l’Italia in un unico regno.
Là dove, nella tragedia a stampa, è rimasto sol questo cenno fugace (I,
2; pag. 25):
DESIDERIO ....... Havvi altra via di scampo
Fuorchè l’ardir? Tu, che proponi alfine?
ADELCHI Quel che, signor di gente invitta e fida,
In un dì di vittoria, io proporrei:
Sgombriam le terre de’ Romani; amici
Siam d’Adriano: ei lo desia;
era, nell’abbozzo, esposto un magnifico programma di libertà, che
s’appuntava in queste fatidiche parole (p. 123-25):
Togliamo i ceppi
Da quelle mani, e rendiam loro i brandi.
Siamo i lor capi, o padre. Ardua è l’impresa,
Sì, ma d’onor, ma di salute è piena,
E di pietà. _Dell’itala fortuna_
_Le sparse verghe raccogliam da terra,_
_Il fascio antico in nostra man stringiamo_:
Dei vincitori e dei soggetti un solo
Popol facciamo, una la legge, ed una
Sia la patria per tutti, uno il desio,
L’obbedienza, ed il periglio.
C’è bisogno di ancor richiamare i versi, con cui termina il frammento sul
_Proclama di Rimini_: «...dell’Itala fortuna Le sparse verghe raccorrai
da terra, E un fascio ne farai nella tua mano....»? Dei quali è solo
rimasta un’eco nell’ultima stesura della tragedia, nelle angosciose
esclamazioni di Adelchi (III, 1; p. 55):
Il mio nemico
Parte impunito; a nuove imprese ei corre:
... ei che su un popol regna
D’un sol voler, saldo, gittato in uno,
Siccome il ferro del suo brando; e in pugno
Come il brando lo tiensi.
E questi versi eran, con poco divario, pur nel primo getto (pag. 126-27):
Oh quante volte invidiai codesto
Carlo che abborro! Ei sovra un popol regna
D’un sol voler, saldo, gittato in uno
Siccome il ferro del suo brando, e in pugno
Come il brando lo tiene.
Dove però l’accoramento del protagonista era meglio compreso e diviso dal
lettore, che ne conosceva i magnanimi disegni.
E quando, nel _Carmagnola_ (V, 4; pag. 256), il Manzoni fa prorompere
l’imprigionato capitano nel solenne e malinconico addio alla vita, la
quale portava via con sè le illusioni più dolci e i più inebrianti
entusiasmi che gliela rendevano cara:
O campi aperti!
O sol diffuso! o strepito dell’armi!
O gioia de’ perigli! o trombe! o grida
De’ combattenti! o mio destrier! tra voi
Era bello il morir....;
noi possiamo bensì osservare che il poeta si è in buon punto ricordato (e
come sottrarsi al fascino fatale?) del consimile addio di Otello (III, 3;
v. 347 ss.):
O, now, for ever
Farewell the tranquil mind! farewell content!
Farewell the plumed troop, and the big wars,
That make ambition virtue! O, farewell!
Farewell the neighing steed, and the shrill trump,
The spirit-stirring drum, the ear-piercing fife,
The royal banner, and all quality,
Pride, pomp and circumstance of glorious war!....[120]
e fors’anche dell’altro che il Goethe, variando qua e là questo di
Otello, aveva messo in bocca a Egmont, pur lui languente in attesa del
supplizio (V, 2)[121]; ma non dobbiamo trascurar di riflettere altresì
che quei tristi pensieri e quelle sospirose parole, o «di tal genere, se
non tali appunto»[122], il poeta contemporaneo di Napoleone deve aver
facilmente immaginato che saranno passati per la mente o fiorite sul
labbro dell’eccelso coatto di Sant’Elena. E che è insomma, nel _Cinque
maggio_, quella magnifica e icastica rievocazione del grande, che
al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
sta pensoso sulla «breve sponda», come un naufrago sbattuto e quasi
sopraffatto dal flutto incessante e sempre più minaccioso delle memorie
dei giorni irrevocati, se non una stupenda variazione lirica di quel
medesimo motivo spuntato nei soliloqui di Otello, di Egmont, del
Carmagnola?[123] Gli è che anche la poesia altrui, perchè un altro grande
poeta possa degnamente imitarla e rinnovarla, occorre ch’ei la risenta
in sè medesimo o nel personaggio che intende ritrarre. E del resto, pur
senza pretendere a poeti, quando in certe occasioni ci corrono spontanei
sul labbro certi versi di grandi poeti, non è forse perchè essi ci
paiono davvero la voce commossa e ispirata di quei momenti e di quelle
situazioni? _Sunt lacrymae rerum!_
Così pure, è naturale che le scene, in cui il Manzoni ci fa assistere
ai crudeli momenti che precedettero la morte del generoso e gentile
Condottiero, ci facciano ripensare, chi le abbia familiari, a quelle,
più ampie e fino un po’ spettacolose, che il Goethe immaginò e descrisse
per Egmont; ma non sarà senza interesse avvertire che, nel distenderle,
al poeta può essersi affacciata, come accennavo dianzi, la cara e
dolorosa figura del principe da lui celebrato nella canzone del 1815,
così miseramente spento al Pizzo. Quella tenerezza d’affetti domestici
la quale, nell’ultimo atto della tragedia, rigurgita dal cuore del
Carmagnola, che si sarebbe potuto sospettare indurito al sole dei campi,
il poeta non potè desumerla dalla storia. La quale è restia a commuoversi
per siffatti sentimenti, e a registrare cotali particolari.[124] Invece,
quella intima affettuosità era una delle caratteristiche, e forse la
più simpatica, di Murat; che nel fondo dell’animo, di sotto all’immane
congerie delle ambizioni napoleoniche, era sempre rimasto il buon
contadino del Quercy. Fin nelle lettere semiufficiali che, nelle varie
sue missioni, veniva scrivendo all’imperiale cognato, egli trovava modo,
dopo le gravi informazioni politiche e i rapporti militari, d’aggiungere,
per esempio, un poscritto sulla felice dentizione del suo primogenito.
Nel maggio 1801, scrive da Firenze: «Achille est charmant; il a déjà deux
dents»[125]. E quando, fallitagli l’avventura unitaria, fu costretto a
errare come un bandito, povero re Lear!, per il littorale e le campagne
che si stendono tra Cannes e Tolosa, egli, più che di altro, si mostra
travagliato dal sospetto che la moglie possa averlo abbandonato e
tradito. Al generale Manhès, suo amico superstite, scrive:
«J’avais tout souffert: la perte de ma fortune, la perte de mon
royaume, et quel royaume! Mais me voir trahi, abandonné par la
mère de mes enfants, qui préfère se livrer à mes ennemis plutôt
que de se réunir a moi,...non..., je ne résisterai pas à un