Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 06

Questi de’ salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
Qual se Italia, al chiamar d’esti Anfioni,
Fosse dei boschi e de le tane uscita.
Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D’armi reina, io dico, e di consigli;
Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estrani, e de gli estrani ai figli;
Che regger si dovea con l’altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
Su l’avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo noi dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l’oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.
E svelti i figli ai genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d’innocenti squadre
Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!
Nè gente or voglio cagionar dei mali
Che lo stesso bevea calice d’ira,
Nè infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch’è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perchè sien maggior grazie a Lui riferte.
Chè quando eran più l’onte aspre ed estreme,
E, al veder nostro, estinto
Ogni raggio parea d’umana speme;
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
Tuonando, il braccio salvator s’è mostro:
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
Che a ragion si rallegra il popol nostro.
Bel mirar da le inospite latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
L’odio potente, un motto od un sospetto,
Ai soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti sculta
De’ concordi pensier l’alma fidanza;
E il nobil fior de’ generosi a scolta
Durar ne l’armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;
E quei che a dir le sue ragioni or chiama
Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com’ella è desiosa,
E l’antica far chiara itala brama:
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?
Il poeta è interprete genuino del sentimento popolare. Aveva taciuto fin
allora, perchè a nulla sarebbe valso l’ardire; infranto il bavaglio, egli
leva alta la voce contro l’ipocrita dominatore, che ci teneva schiavi
nel sacro nome della libertà. Chè schiava era l’Italia, costretta ogni
anno a deporre il suo tesoro (esecutore il Prina) «sull’avara lance di
Brenno»![69] E i figli erano strappati ai genitori, noverati a branco,
spinti contro eserciti innocenti di fratelli; e morivano lontano,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari!
Ora tutto, d’improvviso, è mutato: «quando eran più l’onte aspre ed
estreme», ecco, di tra le nubi, s’è mostrato il braccio salvatore di
Dio, a soccorrere i «ben pugnanti». Ed ha vinto; così che «a ragion si
rallegra il popol nostro». Ora son tornati alle loro case sospirate, agli
abbracciamenti pii, ai soavi colloquii («i fidati colloqui d’amor», del
primo coro dell’_Adelchi_), quei giovani costretti a ramingare per greppi
senz’orma, o tenuti, dall’odio potente del tiranno, in carceri tenebrose;
ora è tutto un «favellar di gioia e di speranza», e «il nobil fior de’
generosi» ora veglia nelle armi,
mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando.
Il poeta è anch’egli pieno di fiducia, che l’_itala brama_ sarà da «quei
possenti intesa Cui par che piaccia ogni più nobil cosa». E accompagna
coi suoi voti i delegati che i Collegi Elettorali inviarono a Parigi,
perchè la secolare _brama_ facessero nota a _quei possenti_.
I delegati furono Federico Confalonieri, Alberto Litta, il marchese
Gian Giacomo Trivulzio e il conte Della Somaglia, milanesi, i conti
Marcantonio Fè di Brescia e Serafino Sormani di Cremona, il banchiere
Giacomo Ciani e Pietro Ballabio; segretario, il marchese Giacomo
Beccaria, figlio d’un fratello di Cesare. Quest’ultimo si sarebbe
presentato al Fauriel con una commendatizia del cugino Manzoni. Il quale
così scriveva, il 24 aprile, all’amico della Maisonnette:
«Je profite d’une bonne occasion qui se présente pour _rénouer_
avec vous ma correspondance, qui heureusement n’a pas été très
longtemps interrompue, au moins par des obstacles extérieurs.
M. Beccaria mon cousin part cette nuit en qualité de secrétaire
d’une députation que nos Collèges Electoraux envoyent au
quartier-général des Alliés; c’est lui qui vous portera cette
lettre, et qui vous donnera de nos nouvelles, si vous voulez bien
l’accueillir».
Risolutamente avverso, come i suoi amici francesi, all’autocrazia
napoleonica, il Manzoni si compiace con essi della piega che gli
avvenimenti avevan presa in Francia. Soggiunge:
«Vous pouvez vous imaginer la part que nous avons pris aux
inquiétudes dans lesquelles vous avez dû vous trouver, et à la
joie qu’a dû vous causer un dénouement aussi heureux et aussi
tranquille. Connaissant l’affection que vous avez pour votre
pays, et pour tout ce qui est généreux, sage et utile, je vous
félicite de votre noble Constitution».
Una Costituzione simile anche per l’Italia era ciò che vivamente
sospiravano quei nostri nobili patrioti del ’14:
Ferito e stanco
Il vincitor; vôti gli erari; oppressi
Dal terror, dai tributi i cittadini
Pregan dal ciel sull’armi loro istesse
Le sconfitte e le fughe........
........A molti in mente
Dura il pensier del glorioso, antico
Rivolgon di desio là dove appena
D’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
Frementi del presente e vergognosi.[70]
Ma il loro sogno doveva spezzarsi dinanzi alla realtà del domani, qual
era voluta e preparata dalla grettezza feroce e goffa del principe di
Metternich; di codesto saccente idolatra di quella politica ciecamente
conservatrice
Che del passato l’avvenir fa servo.
[65] La lettera è diretta a Carlo Trombetti. Fu pubblicata nella
_Cronaca_, periodico di Ignazio Cantù, anno 1858, pag. 167.—Cfr. DE
CASTRO, _La caduta_ ecc., pag. 156-7.
[66] Cfr. F. CALVI, _Il Castello Visconteo-Sforzesco_: 2ª ediz., Milano
1894, pag. 459-60.
[67] Cfr. PARINI, _Vespro_, v. 344-5: «A tal clamore Non ardì la mia Musa
unir sue voci»; e _Il Cinque Maggio_.
[68] Cfr. _Il Conte di Carmagnola_, I, 5ª (pag. 191): «Ma tra la
noncuranza e la servile Cautela avvi una via; v’ha una prudenza Anche pei
cor più nobili e più schivi......»
[69] I Francesi avevano cominciato per tempo. Nel 1796, Massena entrò in
Milano il 14 maggio, e il 23 scriveva al Direttorio, «avec une certaine
fierté, que le tableau général des contributions en pays conquis ne
s’élevait pas à moins de 35,571,400 francs».—Cfr. BOUVIER, _Bonaparte en
Italie_, pag. 607.
[70] _Il Conte di Carmagnola_, I, 2ª (pag. 184).

XV.
Se il Manzoni era il sincero interprete dei sentimenti della parte più
eletta del popolo lombardo, un altro poeta, anch’esso amico di libertà,
si ribellava a quei sentimenti, in preda a un’agitazione incomposta.
Che cosa precisamente volesse ed auspicasse quell’edizione economica
dell’Alfieri che fu il Foscolo, nè seppero allora i suoi amici, nè in
verità si riesce a comprendere dalla sua _Lettera apologetica_, scritta
in Inghilterra circa il 1823 e pubblicata molto più tardi, a Lugano, nel
1844. Con un dispetto e un’acredine, che fa vivo contrasto col fiducioso
compiacimento di uomini come il Manzoni ed il Pellico, ei vi narra:
«I moltissimi trucidatori d’un solo, e il Podestà e i consiglieri
municipali e le spie tedesche e i primati della congiura
crearono una Reggenza del Regno, e un’assemblea di legislatori.
Deputarono ambasciatori agli Alti Alleati in Parigi a perorare
i diritti dell’Indipendenza Italiana; ma per agevolare il
trattato, e mostrarsi discordi deboli ed imbecilli, e meritarsi
l’indipendenza, fecero legge che dal Regno fossero esclusi tutti
quanti i paesi che non erano appartenuti al ducato di Milano.
Così di sei milioni di abitatori, lo ridussero a poco più d’uno.
Cassarono da’ ruoli gli ufficiali tutti quanti dell’esercito
ch’erano nati in Francia, o fuori de’ confini di quel nuovo
regnetto, e che non per tanto da vent’anni avevano versato sangue
e procreato figliuolanza legittima; e solo per essi gl’Italiani
cominciarono a non essere nominati codardi fra le nazioni. I
collegj degli elettori, composti de’ notabili fra’ possidenti di
terra e di denaro e sapere nel Regno; stabiliti per fondamento
di tutte le leggi a rappresentare il popolo tutto, ed eleggere i
senatori, i giudici, ed ogni magistratura, e il re ove mancasse
la successione; indipendenti dalla corona: non eletti che da’
loro pari; e non revocabili, nè mai pagati: erano fatti radice
vera di tutte le costituzioni. Pur nondimeno anche i collegj
furono in quella notte pervertiti, mutilandoli di quanti membri
rappresentavano i dipartimenti e le città del Regno che non
parlavano il puro dialetto lombardo. Finalmente con legge
acclamata fu decretato doversi inibire ogni ingerenza e consiglio
nelle faccende pubbliche agli uomini dotti, come adulatori
venali, inettissimi a tutti diritti ed ufficj di cittadinanza».
Son periodi che hanno la risonanza e l’apparente concettosità di quelli
di Tacito o di Sallustio; ma in verità essi velano quel medesimo
sentimento rancoroso che male ispirò, qualche mese dopo, i reazionarii
senatori Veneri e Guicciardi, ex-presidente ed ex-cancelliere del
Senato, a presentare al commissario imperiale una protesta contro
le deliberazioni dei Collegi Elettorali. «E se», vi si diceva, «non
avrebbero potuto ciò fare tutti gli elettori legalmente riuniti in numero
di millecentocinquantatre, tanto meno una frazione di centosettanta
elettori di otto soli dipartimenti». Il fatto cui si accenna stava così.
Dalla Reggenza s’era discusso sulla convenienza d’invitare o no «gli
elettori dei dipartimenti occupati dalle truppe nemiche: alcuni di essi
si trovavano a Milano per impiego o casualmente. Si temeva», riferì poi
il Verri, «d’irritare gli Alleati con una rappresentanza d’elettori di
paesi già da essi occupati: vennero quindi circoscritti i Collegi agli
otto dipartimenti ancora liberi: Olona, Mincio, Alto Po, Agogna, Lario,
Adda, Serio, Mella».
Può esser curioso sentire che cosa il Manzoni pensasse dalla _Lettera
apologetica_. Il Bonghi narra d’avergliela data lui da leggere, e
d’averlo trovato un giorno con essa tra le mani. «Gli domandai come
avesse fatto a leggerne tanto. Lui m’ha risposto: Sono arrivato sin qui
cercando qualcosa di chiaro e di netto, e un periodo che avesse a che
fare con quello che lo precede e che lo segue.—Aprii a caso lo stesso
libro...., e lessi il primo periodo...., osservando come non mi riusciva
d’intenderlo.—E già, mi rispose, son come quei ripieni d’organo senza
nessun motivo (fece il suono dell’organo: oh! oh! oh!), e gira e gira e
non sen cava nulla!».—E il Bonghi stesso riferisce quest’altro aneddoto.
«Un giorno», racconta, «questionavamo Broglio ed io sul merito di Foscolo
come scrittore in prosa. Lui, senza aver sentita la quistione, ci disse:
Fate decidere a me, che sono nel giusto mezzo, imparziale.—Io, risposi,
sostengo che Foscolo è uno scrittore insopportabile.—Queste cose, riprese
lui, io non fo che pensarle!».[71]
[71] _Pensieri inediti di Ruggiero Bonghi_, ecc.; Lucera, 1899, pag. 89
e 84.—Nella VI delle sue _Lettere critiche_, da Stresa, 30 aprile 1855
(nell’edizione milanese del 1873, pag. 67), il Bonghi lasciò un pubblico
ricordo del giudizio manzoniano. Notata «l’imperfezione grandissima
delle facoltà discorsive e ragionative» del Foscolo, «imperfezione tanta
e tale da non riuscirgli di ragionare neppure le cose ragionevoli che
dice», ripigliava: «Questo difetto insieme cogli altri è molto meno
evidente nelle prose scritte in inglese che non in quelle che ha scritto
in italiano, e tra le ultime, l’è molto meno nelle prose letterarie che
nelle politiche. Le quali sono così sconnesse, che, come diceva un uomo
di molto spirito, non si leggono se non per la curiosità di trovarci un
periodo che abbia che fare col seguente e col precedente; quantunque non
sarei lontano dal concedere che ci possa parere un pregio quella certa
vibratezza e concisione con cui sono talora espressi alcuni concetti
che fermano».—Dei suoi fini e intendimenti politici poi, il Bonghi
così giudicava: «Quanto a me, amo il Foscolo; ho simpatia per lui; le
sue sventure m’addolorano; ho per quest’Italia tutto quell’amore che
aveva lui; e se non l’amo proprio alla sua maniera, è perchè non mi
riesce d’intendere quale fosse propriamente questa sua maniera». E a
un tapinello che volle mostrarsi scandalizzato e sdegnato di questo
giudizio, il Bonghi replicava (pag. 285): «Mi farebbe, invece, grazia ad
insegnarmi cosa il Foscolo sperasse per questa Italia che amava, quale
avvenire, quali ordini? Questo è quello che non m’è parso d’intendere da’
suoi scritti».

XVI.
Il 23 aprile, mentre a Mantova il principe Eugenio firmava una
seconda convenzione militare, con la quale si consegnava all’Austria
il territorio che già costituì il Regno d’Italia, «insino a che sarà
conosciuta la sorte definitiva del paese»; qui a Milano i Collegi
Elettorali formulavano l’indirizzo che i loro delegati dovevan
presentare, in Parigi, agli Alleati. Vi chiedevano: «l’assoluta
indipendenza del nuovo Stato Italiano; la maggiore estensione di
confini del nuovo Stato; una Costituzione liberale...., che ammetta una
rappresentanza nazionale a cui spetti esclusivamente formare le leggi...;
un governo monarchico ereditario, primogeniale, ed un principe che per
la sua origine e per le sue qualità ci possa far dimenticare i mali che
abbiamo sofferti durante l’ora cessato governo».
Ah sì! Il 26, l’avanguardia austriaca occupava Pizzighettone, e il
commissario imperiale, generale marchese Annibale Sommariva lodigiano,
giungeva a Milano, a «prendervi possesso, in nome delle Alte Potenze
Alleate, dei dipartimenti, distretti, città e luoghi tutti che nel Regno
d’Italia non sono ancora stati conquistati dalle truppe alleate». Il
giorno stesso, la Reggenza provvisoria pubblicava un proclama al popolo,
per esortarlo a ricevere «come veri liberatori» i soldati dell’Austria,
«che hanno esposta la vita», diceva, «per la vostra salvezza»; e perciò
«accoglieteli coll’ospitalità loro dovuta, aprendo loro le domestiche
mura». E a buon conto insisteva, per paura di non esser frantesa: «La
Reggenza, fidente nel carattere italiano e assicurata dalle intenzioni
dei vostri liberatori, vi avverte che le loro truppe entreranno domani
nella capitale, e che il debito e le circostanze esigono che alloggi
privati siano posti a disposizione degli ufficiali».
Povero «carattere italiano»! Di buona o cattiva voglia, soprattutto di
cattiva, bisognò schiuderle «le domestiche mura» a quelle sudice masnade
di tedeschi e di boemi, di croati e di panduri. E anche al Manzoni toccò
di vedersi invase, da quegli ospiti così poco gradevoli e graditi, la
casa di città e le due di campagna: «un nuovo flagello»! La signora
Enrichetta scriveva, il 24 maggio, alla cugina Carlotta:
«Ebbi i miei due bambini malati nei giorni scorsi.... La mamma
anch’essa fu malata per un mese... Ora noi siamo ingombri di
soldati. Le nostre case in città ed in campagna ne furono e ne
sono ancora occupate, e non si sa troppo come bastare alla spesa».
Più tardi, il 26 luglio, la signora Giulia dava qualche nuovo particolare
allo zio Michele:
«Ho avuto tanti malati in casa..... Sospiriamo tutti di andare
in campagna, ma avevamo tutte le nostre case piene zeppe di
soldati. Il nostro Lecco è rovinato intieramente dal soggiorno
di otto mesi di soldati, di donne e figli; anche adesso è
tutta ingombrata. A Brusuglio avevamo quaranta soldati; ho
ottenuto che partissero, perchè per la salute nostra, e massime
d’Enrichetta che deve prendere i bagni, necessita la nostra
andata colà. Difatto altro non occorrendo, vi andiamo domani.
Le spese straordinarie e forzose di questo inverno ci hanno
impedito di ultimare la nostra casa nuova; bisogna che abitiamo
la vecchia in pessimo stato, perchè non ci conviene riadattarla.
Qui fa caldissimo, Milano è piena di gente, perchè i militari vi
formicolano...».
E il 6 gennaio 1815, ritornati a Milano dalla villa di Lecco, soggiungeva:
«Grazie a Dio, si sono rimessi tutti [i bambini], mediante la
buon’aria di Lecco; chè, a forza d’impegni, ci è stato permesso
di andarvi; dico per impegni, giacchè la nostra povera casa era
da un anno occupata intieramente da soldati, così che abbiamo
dovuto far lavare tutta la casa, dai materazzi, e rimontar
tutto, inclusivamente gli utensili di cucina, con una spesa non
indifferente. Eravamo bene colà; ma dovemmo presto ritornare qui,
perchè ci volevano occupare le nostre proprie stanze con alloggi;
e notate che non ne abbiamo una che non ci sia necessaria.
Venimmo dunque a Milano.... Alessandro è un po’ affaticato per
gli affari».
Disingannato anch’egli come i suoi generosi amici di Milano, Alessandro,
in quell’angoscioso trambusto, tacque con gli amici lontani. Dopo la
lettera del 24 aprile 1814, ei non riscrive al Fauriel fino al 25 marzo
1816. E quante cose non ebbe da osservare, e quante meditazioni non ebbe
da fare, in quei due anni!
Il 28 aprile, l’avanguardia del Neipperg entrò in Milano, alle 4 del
pomeriggio, da porta Romana. Una doppia fila di circa ottocento militi
della Guardia Civica, «armati e ben montati», faceva ala. Le milizie
austriache, cenciose e polverose, sfilarono a suon di musica, tra un
silenzio reso più solenne e significativo dagl’isolati evviva interessati
o prezzolati.[72] Si sperava ancora che quella soldataglia un giorno o
l’altro sarebbe dovuto sloggiare; e si sollecitava perciò la decisione
delle Potenze Alleate.
I delegati dei Collegi Elettorali erano in via. Il primo a giungere a
Parigi fu il Confalonieri, che aveva compiuto in sei giorni (un tempo che
parve assai breve) il viaggio. Era lui il Beccaria. Le notizie che potè
raccogliere non furon molto confortanti. Pare che allora gli sorridesse
l’idea d’una Confederazione degli Stati italiani, stretta intorno alla
dinastia di Savoia, «già la più forte dell’Italia nordica»; rinunziava
per suo conto anche al piacere di conservar la capitale a Milano.
Ma c’era ben altro a cui quei generosi avrebbero dovuto rinunziare!
Gli altri delegati tardavano: il Trivulzio e il Sommi giunsero il 3
maggio, il Litta e il Somaglia, il 4; il conte Fè, che fu l’ultimo,
il 13. Fin dal 3 maggio il Confalonieri scriveva intanto alla moglie:
«Il Veneziano e la Lombardia sono assolutamente devoluti all’Austria:
possa questa corona esser posta sulla testa d’un principe da sè, e i
nostri voti avranno esito; ma l’orizzonte su di ciò mi fa tremare!».
E il giorno appresso: «L’Austria è l’arbitra, la padrona assoluta dei
nostri destini.... Non trattasi più di domandare alle Alleate Potenze:
Costituzione libera, indipendenza, regno ecc. ecc.; trattasi d’implorare
ciò che un padrone ci vorrà accordare!».
Pure, essi intrapresero con coraggio la _via crucis_. Chiesero ed
ottennero d’esser ricevuti, il giorno 7, dall’imperatore Francesco.
Il quale dichiarò, con decantata benevolenza: «Voi mi appartenete per
diritto di cessione e per diritto di conquista; vi amo come miei buoni
sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore della vostra salvezza
e del vostro bene». E non volle sentir parlare di condizioni o di
concessioni; e quando uno dei delegati si lasciò sfuggire il nome di
Regno Italico, il delicato sovrano interruppe: «Regno Italico no, perchè
io non spingo le mie mire a quel che dev’esser d’altri!».—Metternich fu,
se fosse stato possibile, anche più esplicito.—L’imperatore Alessandro
fece sapere che li avrebbe ricevuti solo come illustri italiani, non
potendo loro riconoscere nessuna veste ufficiale; e li congedò, dopo
un discorsetto sul bel paese e sul bel tempo, ringraziandoli d’avergli
procurato _le plaisir de faire votre connaissance individuelle_.—Il
ministro di Prussia, Guglielmo di Humboldt, fece intendere abbastanza
chiaramente che al suo paese non dispiaceva che l’Austria s’ingrandisse
in Italia, lasciando così alla Prussia il modo d’allargarsi in
Germania.—Rimaneva un’ultima speranza, nel Gabinetto Inglese; e la
Reggenza, da Milano, spingeva i Delegati a quest’ultimo passo, con la
fiducia della disperazione. Gli ammiragli e i generali inglesi, venuti
in Italia, s’eran tanto piena la bocca di libertà e di costituzioni
liberali!.... Ma lord Aberdeen e il visconte di Castlereagh osservarono
che a godere il benefizio delle istituzioni inglesi bisognava esser già
preparati; e l’Italia non lo era, tanto che in Sicilia la Costituzione
aveva fatto cattiva prova; si rassegnasse perciò la Lombardia al governo
dell’Austria, che a buon conto non era più la Francia, che anzi era
ottimamente disposta a far la felicità degl’Italiani!
Intanto, l’8 maggio, era entrato in Milano, con altri dodici mila uomini
(a cui ne seguirono subito altri cinquemila), il maresciallo Bellegarde,
investito, com’egli proclamò, «di pieni poteri nelle provincie del Regno
d’Italia ora distrutto, e già appartenenti alla Lombardia austriaca»:
questo richiamo storico non era inopportuno! Nello stesso giorno, il
conte Bubna entrava in Torino come governatore militare del Piemonte,
alla testa di altre milizie austriache.—Una commissione dei Collegi
Elettorali, con a capo il presidente Giovio, si presentò al Bellegarde
per raccomandargli: «Voi tanto vicino al monarca, che con tanta gloria
siede sul trono di Carlomagno e degli Ottoni, dovete esser nostro
intercessore presso le Potenze Alleate, e procurare al nostro paese
l’indipendenza garantita da savie leggi e da un principe che meriti le
benedizioni di noi tutti». Ma se il Maresciallo non pensava ad altro!...
Che cosa essi intendevano per _indipendenza_?...
Il 13 maggio, monsignor Rivarola plenipotenziario di Pio VII entrava in
Roma, a prepararvi l’arrivo di Sua Santità, che n’era scappato la notte
del 6 luglio 1809. —Il 17, sbarcò a Genova, proveniente dalla Sardegna,
Vittorio Emanuele I; e, a riceverlo come sovrano, si trovò quel medesimo
lord Bentinck, che aveva destate tante speranze repubblicane.—E tra il
17 e il 20, il commissario imperiale conte Strassoldo prese possesso,
in nome di Maria Luigia, dei già dipartimenti di Parma, Piacenza e
Guastalla. —Il 22, giunse a Milano un messo del Confalonieri, ad
avvertire la Reggenza che le Potenze avevano oramai deciso circa la
nuova configurazione politica della Penisola.—Il 25, vi si vide su per
le cantonate il primo avviso in cui ricomparve l’aquila bicipite.—Il
giorno dopo, venivan disciolti i Collegi Elettorali, soppressi il
Senato e il Consiglio di Stato. Fu conservata la Reggenza, ma decapitata
dell’unico liberale, il Verri: il Commissario imperiale ne assunse egli
la presidenza!—Così, dopo solo nove anni di vita, promettente se non
rigogliosa, era trucidato il _bello italo regno_. Quella _gente_ che si
era creduta _risorta_, veniva scissa nuovamente in _volghi spregiati_,
E, a ritroso degli anni e dei fati,
risospinta ai _prischi dolor_.
Il 12 giugno, i banditori del comune percorrevano Milano annunziando,
nei crocicchi, a suon di tromba, essere i Lombardi sudditi dell’Austria,
in forza del trattato di pace concluso a Parigi il 30 maggio, tra S. M.
Francesco I ed i suoi alleati. Il Maresciallo proclamò: «Popoli della
Lombardia! Una sorte felice vi è destinata! Le vostre provincie sono
definitivamente aggregate all’Impero d’Austria. Voi rimarrete tutti uniti
ed egualmente protetti sotto lo scettro dell’augustissimo imperatore e
re Francesco I, padre adorato dai suoi sudditi, sovrano desideratissimo
dagli Stati che godono la felicità di appartenergli». Sarebbe stato più
prudente aspettare che i nuovi sudditi esprimessero spontaneamente una
tanta gioia; ma il Commissario si dichiarava così sicuro d’interpretarne
fedelmente i sentimenti!.... «Noi siamo convinti», egli soggiungeva,
«che gli animi vostri saranno pieni di gioia nel contemplare un’epoca
felice del pari che avventurata, e che la vostra riconoscenza trasmetterà
alle remote generazioni una prova indelebile della vostra devozione e
fedeltà!». L’Italia, dunque, riconquistava, come non riconoscerlo?, la
tanto desiderata indipendenza: non voleva essa forse l’indipendenza....
dalla Francia? Ah l’ipocrisia diplomatica!
Il 13, in tutte le chiese della città e del suburbio, fu cantato—e fin
dall’alba intermittenti colpi di cannone chiamarono i fedeli al sacro
rito—un solenne imperial _Te Deum_. La sera dopo, al teatro della
Cannobiana, «fu dato per tema», narra il Mantovani, «ad un improvvisatore
_La battaglia di Lipsia_. Verseggiando egli, come doveva, in lode degli
Alleati, sorse un forte susurro, ed in mezzo ai fischi non si lasciò
continuare. Il teatro fu sgombrato per ordine superiore». Il diarista
soggiunge, accorato: «Pessimi preludii!». Certo, non era per rinato amore
al vinto di Lipsia; ma al governo austriaco conveniva di crederlo. E fece
correre e diffuse le più sconce ed ingenerose satire e caricature del
paventato coatto dell’Elba; e s’affrettò a cancellare, in città, le orme
del vincitore di Marengo, ribattezzando quello che già fu, ed è tornato,
_Foro Bonaparte_,[73] e quella che era stata chiamata _Porta Marengo_
ed ora è Porta Ticinese, e la _Contrada della Riconoscenza_ ora Corso
Venezia, e la _Piazza del Tagliamento_ ora Piazza Fontana.[74] Benchè
incatenato, e in gabbia, il leone metteva paura.
Anche la casa mezzo guasta del Prina dava fastidio per le memorie che
destava: la sorte che ieri toccò a quel ministro, sarebbe potuta domani
toccare ad altri; non c’è forse l’epidemia o la suggestione dei ricordi?
E fu deciso di ampliare e regolare la Piazza San Fedele; che voleva
dire spazzar via, coi rottami, ogni segno visibile della rivolta. Il 25
maggio, fu pubblicato il primo avviso d’asta per la demolizione; il 6
giugno, il secondo: e furon subito iniziati i lavori. Il 26 luglio, la
madre del Manzoni scriveva allo zio Michele:
«Sono appresso a formare una piazza, atterrando la casa del fu
ministro delle Finanze: siccome questa è nelle nostre vicinanze,
così ve ne parlo».
Oggi, nel bel mezzo della tranquilla piazzetta; con la fronte rivolta
a quella che fu la casa degl’Imbonati e poi dei Blondel, e che ospitò
dal 1830 al 1834 Massimo d’Azeglio, e ora è il Teatro Manzoni; sorge
la statua del grande poeta, opera egregia del Barzaghi, inaugurata il
22 maggio 1883, dieci anni dopo la morte. Dietro, è la chiesa di San
Fedele, dove il vecchio venerando si trascinava tutte le mattine; al lato
destro, il palazzo del Comune; al sinistro, lo sfondo di quella che fu
la casa del Prina, ove poi, nel 1848, dimorò Giuseppe Mazzini. «Ah!»,
esclamerebbe forse anche qui don Abbondio, «se la peste facesse sempre
e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne
male....; ma guarire, ve’!».
[72] Il diarista MANTOVANI, austriacante, se ne mostra tuttavia contento.
Narra che le truppe furono ricevute «con incessanti evviva: nessuna