Le tragedie, gl'inni sacri e le odi - 04

[31] Cfr. _Mémoires inédits du prince de Metternich_, Paris, Plon, 1879;
e cfr. «Revue des deux mondes» del 1º dicembre 1879, pag. 490.—Lo spunto
delle parole di Napoleone alle prese con quel volpone della diplomazia,
ricorda quelle dal Manzoni messe in bocca al Carmagnola tra i volponi
del Consiglio dei Dieci (a. V, sc. [1ª]): «Giudice del guerrier solo è
il guerriero; Voglio scolparmi a chi m’intenda.....». E la somiglianza,
del tutto casuale, tra ciò che disse l’_uom fatale_ e ciò che pensava il
poeta del _Cinque maggio_, non è priva d’interesse!
[32] Dicon dettata dal Manzoni l’ultima supplica, del 12 febbraio 1830,
che la Teresa diresse all’Imperatore, perchè le fosse «concesso di
terminare i suoi giorni accanto a quello che la Provvidenza le aveva dato
per compagno». L’ha pubblicata il D’ANCONA, nel volume sul Confalonieri.

X.
Se si vuol prestar fede al Cantù, il Manzoni così avrebbe giudicato,
parecchi anni dopo, dei precedenti e delle conseguenze di quelle
agitazioni e di quei moti, che segnaron la caduta del primo regno italico.
«—La forza non ha mai fatto bene. In ogni secolo troverai pochi
anni di pace, ne’ quali gli uomini progrediscono: tutt’a un
tratto si rompe la guerra; chi aveva interesse a conservare il
vecchio, torna allo stato di prima, e al fin della guerra si è
ancora alla condizione antica, e si deve ricominciare la lotta
del vero.
—La rivoluzione francese giovò veramente! Da gran tempo le
menti avevano preso in fermento, una spinta verso il meglio. Le
opinioni grandeggiando venivano ad imporre alle istituzioni...
Poichè non avvennero, è impossibile dire appunto quali
avvenimenti sarebbero nati dalla pace: ma i quarant’anni, in cui
fosse seguitato quel progresso, senza interromperlo col volgerlo
sopra fantasmi o vanità splendide, chi sa dove avrebbero portata
l’umanità. All’incontrario, quando la rivoluzione finì nel
1814, si trovò che tutta Europa, stanca, amava di vero amore i
rappresentanti del despotismo: primo, perchè pareano rimetterla
in quiete; secondo, perchè son ben pochi che sappiano odiare uno
senza amare il nemico di esso. Questo dai popoli. Dai re venne
stabilito un diritto assoluto, un regnare per _la grazia di Dio_,
per diritto sopra o extra-umano, che prima non v’era. Difatto non
v’avea paese (quando forse non se ne eccettui la Lombardia) dove
non vi fossero istituzioni indipendenti dal re. Tant’è vero che
ogni re, quando veniva eletto, prestava un giuramento: il che
suppone che credevano anch’essi qualche cosa superiore a sè, da
cui tenevano l’autorità. Di ciò nulla dopo il 1814....
Si dice che in Lombardia non v’era idea di nazionalità prima che
venissero i Francesi. Falso. Quando s’è in possesso d’una cosa,
meno se ne discorre: d’indipendenza non parlano tanto gl’Inglesi
p. es., quanto gl’Italiani. Nazionalità v’era sì, e mostravasi a
mille atti aperto l’attaccamento al proprio paese, alle leggi,
alle consuetudini; e quando i principi austriaci le violassero,
se ne sentiva il lamento comune, si mandavano deputati a
richiamarsene. Questa nazionalità è vero ch’era lombarda. Vennero
i Francesi, che con manifesto despotismo la conculcarono, facendo
tutto venir di fuori, leggi, armi ecc. ecc. Allora ci si pensò di
più. E poichè trattavasi di rinnovare il principio, _e l’idea di
nazionalità lombarda era un assurdo evidente, si prese un simbolo
più vero, più esteso: la italiana_».[33]
Gl’Italici eran d’accordo nel vagheggiare un ideale d’autonomia e
d’indipendenza; ma circa i modi e la via da tenere per conseguirlo, i
pareri eran diversi o contrarii. I più reputavan possibile e desiderabile
la conservazione di quell’effimero ed assurdo Regno d’Italia;[34]
magari con un principe di Casa d’Austria, magari col Duca di Clarence,
terzogenito del re Giorgio III d’Inghilterra. Il Manzoni era dei
pochi che mirassero, con magnanima e incrollabile persistenza, alla
unificazione monarchica di tutta quanta la Penisola,
Che natura dall’altre ha divisa,
E ricinta con l’alpe e col mar.
Egli era convinto come assai spesso «sia più ragionevole chiedere il
molto che il poco».[35] E se il supremo benefizio dell’unità avessimo
dovuto riconoscerlo da un principe francese, si chiamasse Beauharnais o
Murat, viva, per il momento almeno, anche Eugenio o Gioacchino!
Nello scartafaccio del Cantù gli sono altresì attribuite queste
osservazioni:
«—Nel 1814 la maggior parte erano abbagliati dal fantasma
della gloria passata: molti, per le circostanze delle cose,
desideravano ardentemente gli Austriaci; cioè, dopo diciotto anni
di tanti casi, desideravasi restituito quell’ordine di cose che
allora, per voce di filosofi e confessione dei principi stessi,
si era conosciuto disadatto. Pochi, i più quieti, dicevano:—Ma
che volete mai fare? lasciate un po’ fare a loro! Volete andare
contro tante baionette? ecc. ecc.—Allora si stabilì la pace.....
—Nessuna nazione ha diritto d’intromettersi negli ordinamenti
interni delle altre, giacchè ciascuna deve conoscere il proprio
meglio, e a questo provvedere di voto comune.....
—Non è mica ben intesa neppure la questione di straniero.
Questa è affatto accidentale. Se straniero è chi parla diversa
lingua, sono dunque sotto padrone straniero l’Alsazia e i
dipartimenti tedeschi?[36] Questa è qualità accidentale, giacchè
potrebb’essere qui un governo tedesco, senza le cancellerie
auliche, ed esser buono, purchè eletto o voluto dalla nazione
ecc. Tanto è vero che v’è paesi in Italia sotto principi
italiani, ove si sta peggio che sotto gli Austriaci. La questione
dunque è più giustamente posata col dire: Governi buoni e Governi
cattivi».
E quanto all’Austria, e a quel nefasto bigotto della restaurazione che fu
il Metternich, s’affrettava a soggiungere:
«—Libertà, dicono, è obbedire solo alle leggi. Questa definizione
potrebbe piacere anche a Metternich, giacchè le leggi le fa lui!
Importa sapere da chi e come sono fatte, e se buone o cattive.
Era una legge anche quella degl’imperatori romani di adorare
gl’idoli; e i cristiani credeansi in dovere di disobbedirla».
La restaurazione cieca, il mantenere o risuddivider l’Italia negli
antichi e ridicoli staterelli, rinnegando quei principii, respingendo
quegli ammonimenti, rinunziando a quei vantaggi che costavan sì enormi
sacrifizii di sangue e di sostanze, questo era il peggio. E poichè il
re di Napoli dava non dubbii segni di voler proclamare la guerra santa
dell’unificazione, egli, il Manzoni, aveva simpatia per l’avventuriero
Murat. Che importava che questi non fosse re _per la grazia di Dio_? Lo
sarebbe stato pel volere concorde del popolo; ch’era un modo più conforme
alle conquiste intellettuali della Rivoluzione. E in quella simpatia il
poeta non era solo. A Milano passavano per _murattisti_ il conte Giacomo
Luini, direttore generale della polizia, e il generale Teodoro Lechi, il
cui fratello Giuseppe già militava nelle file dell’esercito napoletano;
e fino si buccinava che il generale Domenico Pino, a cui di lì a qualche
giorno sarebbe stato affidato il comando militare di Milano, partecipasse
agli audaci disegni del re.
[33] Cfr. CANTÙ, _A. Manzoni, reminiscenze_; 2ª ediz., Milano, Treves.
1885, vol. II, pag. 311 ss.
[34] Assurdo anche per la sua configurazione. S’immagini che chi avesse
voluto dalla capitale recarsi a Bologna, la terza città del Regno, per
la più corta, doveva traversare il dipartimento francese del Taro,
l’antico ducato di Parma! Tutti sanno che Giuseppe Verdi nacque (il 10
ottobre 1813) in questo dipartimento, così che qualche allegro biografo
d’oltr’Alpi ha voluto farne un francese!
[35] Nella Prefazione al _Conte di Carmagnola_; pag. 157 di questo
volume.—Nella lettera a Giorgio Briano, da Lesa il 7 ottobre 1848, il
Manzoni chiamava quella dell’unità nazionale «una causa che è stata il
sospiro di tutta la sua vita».
[36] Dopo Sédan codesto argomento di fatto ha perduto tutto il suo
valore! E non credo che il Manzoni aspettasse il 1870 per mutar
d’opinione. Ciò che gl’Italiani migliori pensassero poi pur della
signoria o protezione francese, si può vederlo nello scritto del DE
SANCTIS, _L’Italia e Murat_, pubblicato a Torino nel 1855, e ora
ristampato negli _Scritti varii inediti o rari_; Napoli, Morano, 1898,
vol. I, pag. 181 ss.

XI.
Il 3 marzo, il Manzoni cominciò a mettere in carta il quarto dei suoi
Inni, _La Passione_. Scrisse:
Cheti e gravi in dimessa figura
Oggi al tempio, fratelli, moviamo.
Come gente che pensi a sventura
Che repente s’intese annunziar...;
e andò oltre per tutta la seconda strofa:
S’ode un carme: l’intento Isaia
Profferì questo sacro lamento,
In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cuor.
Ma l’Isaia novello non seppe proseguire, per allora: il trambusto e lo
strazio temuto di questa sua nuova Gerusalemme voleva per sè tutti i suoi
pensieri e le sue cure.
Le notizie che venivan d’oltr’Alpi avvertivano che la catastrofe
napoleonica era imminente. «Di quel securo il fulmine» scoppiava ancora
pauroso a Brienne, a Champaubert, a Montmirail, a Montereau, a Vauchamp;
ma le file di quell’ultimo esercito di adolescenti scemavan via via,
senza che per il momento fosse possibile rinvigorirle. E intanto gli
eserciti degli Alleati s’accavallavano e rinnovavano, e si stringevano
ogni giorno più intorno a Parigi. Il 30 marzo, quando Napoleone con una
suprema audacia disegnò di portarsi alle spalle del nemico, e raccogliere
le guarnigioni lasciate nella Francia orientale e l’esercito d’Italia,
gli Alleati precipitarono su Parigi, sconfissero re Giuseppe e Marmont,
e il giorno 31 entrarono nella città e vi si accamparono. Napoleone
tornò in furia da Rheims, ma comprese che tutto era perduto e si attendò
a Fontainebleau, aspettando. Il 5 aprile si seppe anche a Milano della
presa di Parigi; e il 15, che a Fontainebleau l’_uomo fatale_[37] era
stato costretto a firmare la sua abdicazione. Il formidabile di ieri si
avviava, sotto scorta, al risibile staterello dell’Elba, lasciatogli come
per elemosina.
Giorgio Byron, che nel gennaio di quell’anno, pubblicando il _Corsaro_,
aveva espresso il proponimento di non più poetare per lungo tempo, e
che il 9 aprile, al mattino, ancora scriveva: «Non più versi oramai;
io ho dato le mie dimissioni»; la sera, all’annunzio dell’abdicazione,
diffuso da un supplemento della _Gazzetta_, si sentì invaso da irrompente
furore poetico, e il giorno appresso l’_Ode to Napoleon Bonaparte_
era già composta. Essa fu subito stampata e pubblicata, senza il nome
dell’autore. L’intonazione e parecchi spunti ricordano molto da vicino il
_Cinque maggio_[38]. Comincia:
’Tis done—but yesterday a King!
And arm’d with Kings to strive—
And now thou art a nameless thing:
So abject—yet alive!
Is this the man of thousand thrones,
Who strew’d our earth with hostile bones,
And can he thus survive?
Since he, miscall’d the Morning Star,
Nor man nor fiend hath fallen so far.[39]
Ripiglia alla IV strofa, con un movimento che somiglia al manzoniano _La
procellosa e trepida_..., e riconduce all’epigrafico _Ei fu_:
The triumph, and the vanity,
The rapture of the strife—
The earthquake voice of Victory,
To thee the breath of life;
The sword, the sceptre, and that sway
Which man seem’d made but to obey,
Wherewith renown was rife—
All quell’d!—Dark Spirit! what must be
The madness of thy memory![40]
Napoleone era stato «the arbiter of others’ fate»: i popoli gli si
volsero «come aspettando il fato». Incatenato al tronco che vanamente
egli aveva voluto abbattere,—solo—, quali sguardi non gettò egli intorno
a sè?
Chain’d by the trunk he vainly broke—
Alone —how look’d he round?
Novello Milone, lo attenderà una sorte ancora più terribile: quegli morì
divorato dalle bestie feroci; ma lui divorerà il suo proprio cuore:
He fell, the forest prowlers’ prey:
But thou must eat thy heart away!
Napoleone («the Thunderer of the scene», lo dirà poi nel _Childe Harold’s
Pilgrimage_, III, 36) aveva avuto nelle sue mani «il fulmine»; che ora
gli era stato strappato a viva forza.
But thou—from thy reluctant hand
The thunderbolt is wrung—
Too late thou leav’st the high command
To which thy weakness clung;
All Evil Spirit as thou art,
It is enough to grieve the heart
To see thine own unstrung;
To think that God’s fair world hath been
The footstool of a thing so mean.[41]
...........
Thy triumphs tell of fame no more,
Or deepen every stain....
But who would soar the solar height,
To set in such a starless night?[42]
Weigh’d in the balance, hero-dust
Is vile as vulgar clay;
Thy scales, Mortality! are just
To all that pass away:
But yet methought the living great
Some higher sparks should animate,
To dazzle and dismay:
Nor deem’d Contempt could thus make mirth
Of these, the conquerors of the earth.[43]....
Then haste thee to thy sullen Isle,
And gaze upon the sea;
That element may meet thy smile—
It ne’er was ruled by thee!....[44]
...........
What thoughts will there be thine,
While brooding in thy prison’d rage?
But one:—«The world was mine!»....
Life will not long confine
That spirit, pour’d so widely forth—
So long obey’d—so little worth![45]
Se Napoleone avesse saputo ritirarsi in tempo! Ma no! egli volle esser
re, come se la porpora onde si camuffava potesse soffocare «il sovvenir»:
But thou forsooth! must be a king,
And don the purple vest.—
As if that foolish robe could wring
Remembrance from thy breast.[46]
Or come mai un tal uomo, il protagonista d’una si grande tragedia, non
aveva preferito morire da eroe e da re, gettandosi sulla propria spada
come un eroe di Plutarco, al sopravvivere a sè medesimo e alla sua
gloria, quasi un povero re da commedia? Fa paura di quella morte, ch’egli
aveva seminata nel mondo con tanta prodigalità, ovvero speranza segreta
di rilevare il capo minaccioso sulla plebe de’ sovrani per la grazia di
Dio, che ora gli facevan da carcerieri? Il superbo poeta, compatriotta
di Nelson e di Wellington, non vuol soffermarsi a indagarlo; egli ama
meglio rinfacciare al nemico sconfitto e umiliato pur quell’ultima sua
coraggiosa viltà.
Is it some yet imperial hope
That with such change can calmly cope?
Or dread of death alone?
To die a prince—or live a slave—
Thy choice is most ignobly brave!....
And Earth hath spilt her blood for him,
Who thus can hoard his own!...
Or, like the thief of fire from heaven,
Wilt thou withstand the shock?
And share with him, the unforgiven,
His vulture and his rock!
Foredoom’d by God—by man accurst,
And that last act, though not thy worst,
The very Fiend’s arch mock;
He in his fall preserved his pride,
And, if a mortal, had as proudly died![47]
È verosimile che, se «il massimo Fattor» fosse anche uno scrittore di
tragedie sul tipo classico, avrebbe chiusa la terribile catastrofe di
Fontainebleau come, poniamo, l’Alfieri il _Saul_. All’«empia Filiste»
del Danubio, Napoleone avrebbe, passandosi il cuore, detto, con un gesto
e un atteggiamento che ricordasse il repubblicano Catone (che importava
la fede politica di questo antico? forse che l’imperialista Dante s’era
peritato di piegare davanti a lui «le gambe e il ciglio», pur dopo d’aver
visto Bruto e Cassio nel peggior luogo dell’Inferno, nella sola compagnia
di Giuda Iscariota?):
«Me troverai, ma almen da re, qui.... morto!»[48]
Ma Napoleone, nonostante le sue pretese artistiche e i suoi _ukasi_
estetici, aveva preferito comportarsi, magari a dispetto del corifeo dei
nuovi poeti romantici,[49] come un eroe romantico. Anche Macbeth s’era
rifiutato di seguire i nobili esempi che pure a lui, barbaro caledone,
additava la magnanima storia di Roma. Chè quando codesto efferato
ambizioso si vede inseguito com’una belva e senza speranza di scampo,
esclama, con nuovo scatto di ferocia:
«Why should I play the Roman fool, and die
On mine own sword? whiles I see lives, the gashes
Do better upon them».[50]
Il Manzoni, da buon filosofo della storia, e poco tenero oramai dell’arte
classicheggiante e dei critici dittatori del buon gusto, dedusse dal
mancato suicidio del _desolator desolate_, del _victor overthrown_, la
conseguenza che la necessità ineluttabile del suicidio negli eroi e
nelle situazioni tragiche sia del tutto posticcia, e punto rispondente
alla realtà. Nella sua _Lettre à m. C***_ egli tocca, con una punta
d’arguta canzonatura, di quei tragediografi che si sbarazzano degli
eroi _malencontreux_ con un sollecito colpo di pugnale; e riferisce, a
dileggio, i due versi celebri nei quali «un poëte a donné la formule
morale du suicide». Il poeta è, chi non lo sappia, il Voltaire; il quale
mise in bocca alla sua Merope, in fine dell’atto secondo della tragedia
omonima, queste parole:
«Moi vivre, moi lever mes regards éperdus
Vers ce ciel outragé que mon fils ne voit plus!
Sous un maître odieux, dévorant ma tristesse,
Attendre dans les pleurs une affreuse vieillesse!
_Quand on a tout perdu, quand on n’a plus d’espoir,_
_La vie est un opprobre, et la mort un devoir_».
In verità, osserva il Manzoni, l’esperienza e la storia mostrano che
nella vita i suicidii non sono così frequenti come sulla scena, e
specialmente non avvengono nelle occasioni in cui i poeti tragici v’han
ricorso.
«On voit des hommes qui ont subi les plus grands malheurs ne pas
concevoir l’idée du suicide, ou la repousser comme une faiblesse
et comme un crime. Certes l’époque ou nous nous trouvons a été
bien féconde en catastrophes signalées, en grandes espérances
trompées; voyons-nous que beaucoup de suicides s’en soient
suivis? non; et si la manie en est devenue de nos jours plus
commune, ce n’est pas parmi ceux qui ont joué un grand rôle dans
le monde, c’est plutôt dans la classe des joueurs malheureux,
et parmi les hommes qui n’ont ou croient n’avoir plus d’intérêt
dans la vie dès qu’ils ont perdu les biens les plus vulgaires:
car les âmes les plus capables de vastes projets sont d’ordinaire
celles qui ont le plus de force, le plus de résignation dans les
revers.»[51]
Una delle catastrofi contemporanee più segnalate, anzi la più grandiosa
e memorabile, non era appunto stata quella di Fontainebleau; anche
più insigne dell’altra che seguì, di Waterloo, benchè questa avesse
conseguenze più definitive?
Il poeta, fedele al suo programma d’arte, di non tradir mai il santo
Vero, s’attenne a codesti insegnamenti della storia: così quando,
nell’_Adelchi_, non permise che il protagonista, cuor del suo cuore
nonostante la solenne dichiarazione di rammarico per averlo messo al
mondo[52], desse volontaria e violenta fine ai suoi giorni; come quando,
nel Romanzo, lasciò cader di mano all’Innominato, a codesto piccolissimo
Napoleone secentesco della Valsassina, la pistola con la quale aveva
pensato un momento di «finire una vita divenuta insopportabile» (cap.
XXI). Shakespeare, il «savio gentil» che seppe meglio di qualunque altro
leggere nel cuore umano, era, anche questa volta, una guida molto sicura.
Vero è che la critica interessata di certi poeti, ambiziosi di dittatura,
parlava di costui «come d’un genio selvaggio, d’un capo strano, con de’
lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna arida e scoscesa,
dove un botanico, arrampicandosi per de’ massi ignudi, poteva trovare
un qualche fiore non comune». Ma il Manzoni nè aveva i secondi fini del
Voltaire, nè era un caparbio o un _parvenu_ letterario come l’Alfieri;
e non si fece scrupolo di riconoscere subito in lui il «grande e quasi
unico poeta», e a darglisi tutto, come Dante a Virgilio, _per sua
salute_[53]. I due stupendi monologhi, di Adelchi e dell’Innominato, in
cui è descritta nei più minuti particolari la storia di quelle due anime
agitate, che accolgon prima come una liberatrice l’idea del suicidio
e poi la respingono come una vile lusingatrice, son rimodellati su
quello celebre di Amleto[54]. S’intende; del Manzoni possiamo ripetere
ciò ch’ei disse del Goethe: si mise sulla strada «segnata dal genio
selvaggio,... come accade ai grandi ingegni, senza intenzione e senza
paura d’imitare»[55].
Sennonchè, quando, sullo scorcio del 1819 e il principio del 1820, il
Manzoni scrisse la _Lettre a m. C***_, sapeva forse che davvero il vinto
di Fontainebleau aveva tentato, e meglio che tentato, di farla finita
con una esistenza che oramai gli era insopportabile? E se non allora,
lo seppe egli quando componeva l’_Adelchi_, o almeno quando descrisse
la tormentosa notte dell’Innominato? Manca il modo di accertar nulla.
Comunque, sono assai rilevanti e significative le affinità che si
scorgono tra codeste immaginazioni poetiche e quell’episodio storico,
rivelatoci poi da testimoni oculari.
L’imperatore aveva, il 4 aprile, segnato un primo atto d’abdicazione,
riservando i diritti di suo figlio e quelli della imperatrice reggente,
e il mantenimento delle leggi dell’Impero. Ma il 7, costretto dalla
diserzione di Marmont, s’era dovuto piegare a rinunciare per sè e i
suoi figliuoli a qualunque diritto sui troni di Francia e d’Italia. Non
bastava. Il 12, tre generali gli portaron da firmare il trattato di
pace che il giorno prima gli Alleati e il governo provvisorio avevan
concluso a Parigi. Napoleone, divenuto cupo, lo respinge e reclama il
suo atto d’abdicazione del 7. Che cosa mulinava? Gl’intimi s’eran potuto
accorgere che sinistri propositi attraversavano la sua mente. Il conte
di Turenne gli aveva sottratte e scaricate le pistole; ma egli le aveva
reclamate, rimproverandolo. Poi, aveva parlato con calma della sua nuova
condizione. La morte, disse averla bensì cercata sul campo di battaglia,
per esempio ad Arcis-sur-Aube («anch’io credea morir sul campo!»); ma il
pensiero del suicidio sarebbe stato indegno di lui. Egli era cosciente e
geloso della sua dignità imperiale; «Se tuer», aveva soggiunto, «c’est la
mort d’un joueur!». E ancora, scoprendo tutto un abisso di meditazioni
e di speranze: «Il n’y a que les morts qui ne reviennent pas!».—Solo
Shakespeare avrebbe forse saputo leggere in una simile anima, in un
simile momento; e queste frasi son degne di lui.
Quel giorno, sul punto di apporre la sua firma alla sentenza capitale
dell’Impero, Napoleone era così sprofondato in sè stesso, che, narra
il generale De Ségur, «il semblait habiter un autre monde». Alle dieci
di sera, andò a letto; a mezzanotte, chiamò il servo fedele perchè
ravvivasse il fuoco, e gli preparasse da scrivere presso il caminetto.
Poi lo mandò via. Si levò agitatissimo, percorse la stanza a passi
concitati, si fermò di botto, scrisse, ghermì il foglio e lo buttò sul
fuoco; tornò a passeggiare, a sedere, a scrivere, a gettare il foglio
sul fuoco. Poi, s’accostò al comodino, vuotò nel bicchiere il sacchetto
del veleno che gli aveva preparato il dottore Yvan, e ch’ei portava
sempre con sè dopo la guerra di Spagna, e bevve. Si rimise a letto. Per
una lunga mezz’ora il cameriere, trepidante, rimase dietro la porta a
spiare. Napoleone, maravigliato di vivere ancora, aspettava impaziente
gli effetti del veleno. Poichè questi tardavano, ricorse a un altro
veleno, già preparatogli dal Cabanis. Soffriva molto, ma non era la
morte. Stanco, fece chiamare il medico, per chiedergli un veleno più
decisivo. Yvan, atterrito, supplica l’imperatore di prendere invece un
contravveleno: non voglia esporlo a terribili sospetti! Napoleone cede,
si lascia curare e s’assopisce. Le tenere prove d’affetto di chi lo
circondava gli ridanno la forza di vivere. Esclama: «Dieu ne le veut
pas!»; domanda il trattato degli 11 aprile, e vi appone il suo nome[56].
La tragedia, che pareva giunta alla catastrofe, era solo alla fine del
quarto atto: mancavano ancora l’Elba, Waterloo, Sant’Elena.
[37] _Fatal guerriero_ l’aveva già, nel _Beneficio_, chiamato il Monti.
[38] Nel 1832 il dott. Amadio Christiano Federico Mohnike (n. 1781,
m. 1841) pubblicò, col titolo di _Voci di Napoleone dal settentrione
e dal mezzogiorno_, tradotte in tedesco le Odi napoleoniche degli
svedesi Nikander e Tegner, del Byron e del Manzoni. Questi gli scrisse,
ringraziando, il 22 agosto: «Il far soggetto d’un Suo lavoro un mio
componimento, e il collocarlo in così degno luogo, era già per sè un alto
favore; aggiungendovi quello del dono, e d’una gentilissima lettera, Ella
ha colmato la Sua bontà e la mia riconoscenza....». Non sembra verosimile
che, anche prima d’allora, il Manzoni non conoscesse direttamente l’ode
del poeta che fu dai contemporanei proclamato (vedi nel _Don Juan_, c.
XI, 55)
The grand Napoleon of the realms of rhyme.
Se un altro, di quell’ode avrebbero potuto parlargli il Pellico e il
Berchet, che del Byron furono ammiratori, traduttori ed apostoli in
Lombardia.
[39] «Tutto è finito! Ed ieri ancora eri re! e armato per combattere
coi re. Oggi sei una cosa senza nome; così abbietta eppure vivente! È
questo l’uomo dai mille troni, che seminava la terra di ossa nemiche; e
può sopravvivere così? Dopo colui che venne chiamato a torto la Stella
Mattutina, nè uomo nè demonio era mai caduto tanto in basso». —Circa
le censure all’_Ei fu_, cfr. D’OVIDIO, _Discussioni manzoniane_, pag.
200. Che quell’esordio riecheggi il _’Tis done_ byroniano, nessuno pare
l’abbia notato.
[40] «Il trionfo e l’orgoglio, la gioia della lotta» [_certaminis
gaudia_, aveva fatto dire Cassiodoro da Attila, prima della battaglia
di Châlons], «il grido tonante della vittoria, per te alito di vita;
la spada, lo scettro, e quell’impero a cui l’uomo sembrava creato per
obbedire e che riempiva di sè la fama—tutto è sparito!—Spirito tenebroso!
quale sarà per te il tormento delle memorie!».
[41] «Ma tu—dalla tua mano riluttante il fulmine venne strappato a
forza—troppo tardi tu lasciasti il supremo potere, a cui s’attaccava
la tua debolezza. Benchè tu sia lo Spirito del Male, noi ci sentiamo
stringere il cuore mirandoti così smarrito, pensando che la terra,
questa bella opera di Dio, ha potuto esser lo sgabello di un essere così
debole». (_Strofa IX_).
[42] «I tuoi trionfi non aggiungon più nulla alla tua fama, o ne rendon
più intense le macchie.... Ma chi vorrebbe spaziare all’altezza del sole,
e precipitar poi in una notte sì cupa?». (_Strofa XI_).
[43] «Messa nella bilancia, la polvere degli eroi è vile quanto l’argilla
comune; i tuoi pesi, o Morte, misurano esattamente tutti quelli che
spariscon dalla terra. Eppure pensavo che qualche scintilla sublime
dovesse animare quei grandi, che ci abbagliano e ci riempiono di trepido
stupore; nè avrei creduto che il Dispregio potesse farsi gioco di
costoro, i conquistatori della terra». (_Strofa XII_).
[44] «Affrettati dunque alla tua malinconica isola, e lancia lo sguardo
sul mare: quest’elemento può sfidare il tuo sorriso—non ha preso mai la
legge da te!». (_Strofa XIV_).
[45] «E colà che pensieri saranno i tuoi, assorto in una rabbia impotente
contro la prigione?—Uno solo: “Il mondo fu mio!„... La vita non potrà
trattenere a lungo quello spirito, che voleva essere così largamente e
lungamente obbedito—e n’era così poco degno!». (_Strofa XV_).
[46] «Ma tu davvero hai voluto esser re, e vestire il manto di porpora;
come se quell’abito da mascherata potesse strapparti dal cuore il
ricordo». (_Strofa XVIII_).
[47] «Gli è forse un resto delle speranze imperiali che ti fa sopportare
con calma un tal cambiamento? o è solo la paura della morte? Morir
sovrano—o vivere schiavo: la tua scelta è ignobilmente coraggiosa».
(_Str. V_).—«E la Terra ha versato il suo sangue per lui, che è tanto
avaro del proprio!». (_Str. X_).—«O, simile al rapitore del fuoco
celeste, vuoi tu resistere al colpo? e dividere con lui, col maledetto,