La volpe di Sparta - 6

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--Non posso starle sempre alle gonne,--rispose Folco,--sarebbe anche
ridicolo: non è una bambina; e i mariti gelosi hanno torto....
--È vero: ma dallo starle alle gonne al non uscir quasi più con lei
c'è qualche divario.... Finirà per annoiarsi tremendamente. Le hai
portato via anche Lillia....
--Io?...--esclamò Folco.--Ma Lillia è sua quanto mia.
--Senza dubbio; soltanto è sempre con te, o tu sei sempre con lei: si
può dire che tu fai le veci della mamma....
--È Gioconda che ti ha incaricato di rivolgermi queste osservazioni?
Ariberto ebbe un gesto di energico diniego.
--No, no; osservo io; non ci vuol molto. Ho visto, per così dire,
nascere il vostro matrimonio e perciò noto con facilità i
mutamenti.... Sono forse indiscreto?...
--Anzi; la tua amicizia non esisterebbe, se non fosse franca.
--E allora mi sembra che tu sia ingiusto con la contessa; parrebbe
quasi che le tenessi il broncio per non so qual cosa....
Folco stette in silenzio un istante: poi disse a mezza voce, quasi
confessasse:
--Che vuoi? Ho torto. Ma dalla scomparsa di mio padre, sono andato
pensando e ripensando, e ho sentito che Gioconda è stata causa,
involontaria ammettiamolo, di molti mali per me. Grazie al mio
matrimonio, ho perduto la famiglia. Il papà è morto senza perdonare;
mia madre e mia sorella sono inesorabili....
--Ma tu fai colpa alla contessa delle colpe altrui!--esclamò Ariberto.
--Ti ho già detto che ho torto,--rispose Folco.--Si ha sempre torto
quando si ragiona col sentimento e non con la testa; tuttavia, se ne
accettano lo stesso le conclusioni. Ho perduto dunque la famiglia; non
più padre, non più madre, non più cognato. Ho perduto anche la mia
città e la mia terra perchè, non volendo rimetter piede laggiù, tutti
i miei beni saranno venduti man mano che l'occasione si presenta.... È
molto, come tu vedi....
--È molto,--convenne Ariberto.--Ma la tua famiglia oggi è la contessa,
è Lillia.
--Ho torto,--ripetè Folco,--Ma non ho torto sempre. Stammi ad
ascoltare. Gioconda che è venuta meco a Perugia, sa bene, quanto me,
quali sono state le conseguenze del matrimonio; per darle il mio nome,
ho distrutto ogni cosa, ho abbandonato famiglia e amici, e città
nativa: quando ne è stato il caso, ho lavorato umilmente....
--Magnificamente, corresse Ariberto.
--Magnificamente se tu vuoi, per sostenere lei e la bambina. Ebbene,
che cosa ella m'ha dato in cambio di tutto questo?...
--Come?--esclamò Ariberto stupefatto.--Ma ti ha dato tutta sè stessa,
tutta la sua vita, tutto il suo amore....
--E tutti i suoi capricci!--aggiunse Folco.--Perchè non mi ha
assecondato in ciò che mi è più caro, nel mio lavoro e nelle mie
ambizioni.... Oh è ben diversa da quei giorni in cui lavorava con me,
nel suo salottino povero ch'ella odia, e che io rammento sempre con
tenerezza! A Parigi, vedi, in seguito ai tuoi buoni consigli, io ho
tentato di riprendere il mio lavoro; ella se ne accorse, e mi fece una
tale scena, così inaspettata, così contraria al suo carattere docile,
che io ho guardato d'allora in poi quei manoscritti e quei libri con
orrore; li ho richiusi nel baule, non ne ho parlato più, e non so
nemmeno dove siano andati a finire.... Voleva divertirsi, capisci,
divertirsi a qualunque costo, giorno e notte, e non si fermò che
quando io le dissi che bisognava ci fermassimo per forza perchè mi
rimaneva il denaro appena sufficiente a reggere ancora qualche mese e
a cercarmi intanto un impiego.
--Era molto giovane,--scusò Ariberto.--Non sapeva che fosse nè la vita
nè il danaro.
--E sta bene: ma poi?... Oggi non siamo più nelle stesse condizioni.
Abbiamo la ricchezza.
--Mi sembra che non ne abusi,--osservò Ariberto.--Anzi, che non ne usi
neppure, perchè non fa alcun lusso e non ha chiesto nemmeno d'avere
una carrozza.
--È vero.... Ma se io le parlo dei miei studi passati, del desiderio
di riprenderli, di quelle ambizioni che in un giovane sono naturali,
Gioconda risponde distratta; una volta era l'entusiasmo, oggi è
l'indifferenza....
Ariberto scattò.
--O che uomo sei tu?--disse.--Hai bisogno che una donna, che la
moglie, ti parli di letteratura e di Francesco Villon, per metterti a
lavorare? Hai bisogno che le tue ambizioni diventino le ambizioni
della contessa per sentirle ancora dentro di te?... Ma tu chiedi
troppo: ma una donna vive benissimo senza letteratura e senza
ambizioni!... Sarebbe straordinario, sto per dire ridicolo, che tua
moglie si facesse l'apostolo e il compagno del tuo lavoro, e che
scrivesse a macchina sotto dettatura.
--Non esageriamo,--interruppe Folco.--Non chiedo tanto. A me basta
ch'ella non sia gelida e quasi repulsiva quando le parlo dei miei
progetti.... Comprendo che Gioconda non deve essere l'apostolo del mio
lavoro; ma non deve esserne neppure il nemico....
--E che t'importa?--disse Ariberto.--Bada: nelle tue parole c'è una
grossa esagerazione: io non credo affatto che la contessa sia nemica
del tuo lavoro. Ma voglio ammetterlo per un istante.... E che
t'importa? Lavori per lei o per te? Hai una tua convinzione, un tuo
concetto, una tua strada da percorrere, o non li hai? Non sei libero
della tua persona, del tuo tempo, delle tue idee?.... In tutto questo
la contessa non può nulla.
--È vero,--confessò Folco.--Ma in tutto questo manca il più bello: il
sorriso d'una donna!...
Ariberto si alzò; gli pareva che la frase sentimentale fosse molto
buffa, ma non volle rilevarlo. D'altra parte aveva parlato abbastanza;
le accuse che Folco faceva a Gioconda erano tanto poco fondate, che
sarebbero cadute da sole, e il giovane avrebbe riconosciuto alla prima
occasione il suo torto.
--Io me ne vado,--disse Ariberto.
E rammentando alfine una delle sue mille infermità fantastiche,
soggiunse:
--Ho un certo dolore, qui, al braccio sinistro....
Folco alzò le spalle, ridendo.
--Ti auguro--disse--di non averne mai altri!
Ariberto se ne andò: ma l'indomani vide la contessa, verso l'ora del
tè. Folco era uscito; i soliti amici non erano ancora giunti. Ariberto
disse:
--Ho parlato ieri a lungo con Folco.
--Di Francesco Villon, ahimè!--sospirò Gioconda.
--È dunque vero?--esclamò Ariberto sorpreso.
--Che cosa?
--È vero che non volete più udir parlare di Francesco Villon e di
letteratura? Permettetemi di essere indiscreto. Io avevo osservato da
tempo che in casa vostra c'è un po' di malumore: non siete felici e
spensierati, ora che la felicità e la ricchezza vi arridono. La cosa
mi è parsa bizzarra; e mi sono fatto lecito di parlarne a Folco.
--Avete fatto benissimo,--approvò la contessa.--Ed egli vi ha risposto
che io non traduco più Villon con lui e che mi annoio a udirlo parlare
della poesia francese del XV secolo.... Vi ha detto questo?...
--A un dipresso,--rispose Ariberto.
--Ma, caro amico, son due anni che ne sento parlare e son due anni che
porto pazienza. Vedete di quali colpe mi accusa? Miserie, non vi pare?
--E perchè non lo lasciate parlare? Tutti noi abbiamo il nostro tic.
--Oh, sì,--esclamò Gioconda ridendo.--Voi avete il tic di parer
moribondo.
--E tuttavia mi sopportate benissimo,--osservò Ariberto.
--Non vi sopporterei affatto se foste mio marito.... Del resto, io non
mi curo di fingere, non ascolto pazientemente, non gli presto aiuto,
non lo incoraggio nelle sue ambizioni. Lo confesso apertamente: e
confesso che lo faccio apposta....
--Ma perchè? Perchè questa cattiveria?--interrogò Ariberto.--Così
andrete di male in peggio, Folco è un bel giovane, ricco, elegante....
--Che cosa volete dire? Che un giorno potrebbe consolarsi con
un'altra?
La contessa rise.
--State tranquillo!--soggiunse.--In ogni modo, farà quel che
crederà....
--Quali capricci!--esclamò Ariberto.
Ma Gioconda gli posò una mano sul braccio.
--No,--disse recisamente.--Non sono capricci. Egli mi ha offesa e la
mia indulgenza è finita con lui.... Non fate quel viso di stupore! Mi
ha offesa col permettere che sua madre e sua sorella mi tenessero
lontana come una cosa immonda, e non mi stendessero le braccia neppure
il giorno in cui io accompagnava lui ad un pellegrinaggio di
dolore.... Capite questo, caro amico?
Ariberto non rispose.
--Intendiamoci bene,--seguitò Gioconda.--Non gli ho mai domandato di
mettersi contro la volontà di suo padre. Un giorno egli chiese la mia
mano, e non fece parola delle difficoltà che il matrimonio mi avrebbe
accumulato intorno. Quando suo padre dichiarò che io non esisteva, che
sarebbe morto senza vedermi, non dissi nulla. Certo, non ne avevo
piacere. Ma comprendevo bene che la volontà di suo padre era
incrollabile, e che, spingendo Folco contro di lui, lo avrei spinto
contro una roccia. Suo padre venne a morire: la sorella e la madre
accolsero Folco assai peggio che se fosse stato uno sconosciuto: egli
non si ribellò. Gli fecero dire per mezzo del notaio che non pensasse
di condurre in casa loro «quella donna». Quella donna sono io....
Gli occhi di Gioconda ebbero un lampo.
--Folco non si ribellò.... Ah, badate, caro Ariberto!... Si può essere
deferenti e rispettosi verso la madre e la sorella, ma a patto che
esse non insultino. Folco non trovò la forza di dire: «Quella donna è
la contessa Gioconda Filippeschi, è mia moglie, è la madre della mia
bambina; quella donna era una fanciulla onestissima quando io l'ho
sposata e la sua onestà non era facile, perchè non le mancavano
intorno tranelli e tentazioni. Quella donna ha tenuto sempre una
condotta esemplare; se voi non volete conoscerla, tanto peggio per
voi! Ella non ha mai mendicato nè la vostra stima, nè la vostra
protezione, perchè si contenta della tranquillità della sua
coscienza». Folco non ha avuto il coraggio di dir questo....
--Giuggiole! Non era poco....--esclamò Ariberto.
--Era la verità o no?
--Perfettamente, cara contessa. Ma non tutte le verità si possono
dire.
--Come, non potete dire che vostra moglie è onesta?--interrogò
Gioconda.
--Senza dubbio: ma la madre e la sorella di Folco lo sanno quanto voi:
non fanno questione di onestà e di rispettabilità; anzi, non fanno
questione di nulla. Obbediscono ciecamente, senza discutere, ai
concetti del conte. Folco ha veduto giusto. Qualunque parola sarebbe
stata vana.
--Benissimo, dategli ragione,--esclamò Gioconda.--Fatto è che io
rimasi sola all'albergo, giunsi a Perugia quasi di nascosto, ne
ripartii quasi di nascosto; la contessa Filippeschi a Perugia era....
Come dire?... una merce di contrabbando, a guisa d'una femmina
perduta. Folco mi caricò in treno, silenziosamente, mi ricondusse a
Milano; e perchè mi vide piangere, me ne chiese anche il motivo, quasi
avessi dovuto ridere!...
Gioconda fece una pausa, guardò in volto Ariberto, poi proseguì:
--Ebbene: Folco mi ha offesa. Io non gli ho perdonato. Non so se gli
perdonerò mai.
--Andiamo, via!--fece Ariberto.--Dovete riconoscere che la partita era
difficile da giuocare; non poteva già condurvi in casa Filippeschi
contro la volontà di sua madre....
--Doveva far comprendere che la sua volontà sola esisteva ormai!...
--Occorreva una forza eccezionale,--disse Ariberto.--E Folco non l'ha.
--Ah, esclamò Gioconda con un sorriso ironico.--Voi credete dunque che
essere debole sia un'attenuante agli occhi di una donna? Io non so se
di donne vi intendiate: mi hanno detto che sì. E allora dovete saper
meglio di me che le donne vogliono, hanno bisogno d'un padrone; una
donna che ha per marito un uomo di carattere debole è sola nel mondo,
è indifesa: e dacchè sono stata a Perugia e ho visto Folco lasciar
vincere e stravincere contro di me sua madre e sua sorella, io ho
avuto la sensazione di essere sola....
--Non potete dimenticare,--osservò Ariberto, che Folco vi ha dato un
gran nome....
--Ah no!--interruppe Gioconda.--Un gran nome? Ma se i Filippeschi mi
ignorano? Ma se devo confessare che non ho mai messo piede a palazzo
Filippeschi, e non so nemmeno se mia cognata Giselda è bionda o bruna,
se mia suocera è alta o piccola?... Quale diverso trattamento mi
avrebbero fatto i Filippeschi, se Folco mi avesse tolto dal fango
della strada? Dite voi....
Ariberto non disse nulla. Cercò degli occhi il suo bastoncino d'ebano,
vi si appoggiò lievemente e si rivolse a Gioconda:
--Ora, contessa, credo che Folco sia meno crudele di voi, certo meno
severo. Egli riconoscerà il suo torto....
--Purchè non sia troppo tardi!--mormorò Gioconda.
--Oh, oh! Non dite parole che si potrebbero giudicar male.
Arrivederci, contessa.... Ho un piccolo dolore qui, alla spalla
sinistra....
La contessa lo guardò sorridendo.
--E poi?--domandò.
--E poi un poco d'emicrania.... E poi i vostri corteggiatori che
sopraggiungono per il tè.... Contessa, questi mi fanno più male che
tutti i reumi del mondo!...
Baciò la mano a Gioconda, e si allontanò cautamente, con passo
incerto.


X.
La volpe di Sparta.

Dai giorno in cui aveva riveduto nell'atrio del Grande Albergo di
Stresa Folco Filippeschi, appena uscito di lutto, e s'era potuta fare
amica della contessa Gioconda, la petulante Vittorina Ornavati era
contentissima.
Tutti i damerini che abitualmente corteggiavano la contessa
Filippeschi erano andati ad abitare o si erano fatti assidui del
Grande Albergo, ben lieti di trovarvi non soltanto Gioconda
Filippeschi, ma anche Vittorina Ornavati, graziosa, loquace,
vivacissima, che giovava come contrapposto a Gioconda, la quale,
chiusa nel suo orgoglio, era contegnosa e fredda.
Così ambedue le signore vivevano in un cerchio di assidue premure, di
galanterie pronte, di adulazioni incessanti, che avevano stancato e
stancavano Gioconda, mentre accendevano la fantasia di Vittorina.
Prendeva parte a quel circolo assai spesso anche Ariberto Puppi. Egli
era impercettibilmente beffardo; deciso a non far la corte a Gioconda
se non quasi per ischerzo, e indifferente a Vittorina, che non gli
sarebbe spiaciuta come donna se non avesse chiacchierato, Ariberto
poteva osservare con occhio non velato da alcuna passione le
smancerie, le timidezze, le audacie, le goffaggini, le sottigliezze,
le gelosie, le rivalità di quel gruppo d'uomini, in cui i giovani
davan di gomito ai maturi, e i maturi ai vecchi e i vecchi agli
adolescenti. Tutto un uragano di speranze e di timori si svolgeva
sotto gli sguardi curiosi di Ariberto, il quale non aveva nè da temere
nè da sperare.
E perchè il suo cuore era libero e non annebbiato il cervello, quello
spettacolo finiva sempre per umiliarlo.
Gli uomini non gli parevano se non ciò che erano davvero in quel
momento: marionette. Le mani agili di Gioconda tenevano i fili di
almeno venti di quei pupazzi; di cinque o sei, i fili eran tra le mani
di Vittorina. L'una e l'altra potevano farli ridere, sorridere,
aggrondare, parlare, tacere, correre o star fermi, vestirsi di bianco
o di nero; ciascuno di quelli sorvegliava il vicino, perchè non avesse
di più; ciascuno era gaio o accigliato a seconda di ciò che toccava a
lui e di ciò che toccava al rivale.
Una trentina di cuori palpitavano all'apparir delle due giovani,
s'affievolivano al loro allontanarsi; le due giovani dovevano provare
la sensazione del domatore che, entrando nella gabbia, vedon le tigri
accovacciarsi quasi per incanto; o meglio ancora, della maestra che
varcando la soglia della scuola distribuisce zuccherini e rimbrotti ai
bimbi secondo il modo con cui recitano la lezione.
Ciò che più faceva sorridere Ariberto Puppi, si era la certezza che
tutti quei gonzi non avevano affatto la sincerità d'un qualsiasi
sentimento: volevano l'una o l'altra, Gioconda o Vittorina, per
vanità; volevano soverchiare i rivali; d'amor vero, di passione vera,
neppur l'ombra.
E Ariberto ammirava l'arte con cui le due donne, guidate da un
impareggiabile istinto, li facevan trottare senza nulla concedere;
ambedue sapevan benissimo che pensare di quel loro serraglio o di quel
loro asilo infantile; benissimo leggevano nel cuore e negli occhi di
quegli instancabili adoratori. Esse li tenevano tutti a distanza,
badavano a distribuir con equità zuccherini e frecciate, in maniera
che ciascuno avesse ogni giorno quanto gli spettava; e ogni giorno li
rimandavano a casa mezzo contenti e mezzo disperati, sorridendo dietro
il ventaglio.
Del resto Ariberto sapeva pure che Vittorina Ornavati amava in
silenzio Folco Filippeschi; e che Gioconda Filippeschi, superba e
sdegnosa, non amava nessuno.
Per quest'ultima parte, Ariberto si sforzava a non essere sincero con
sè stesso. La sua esperienza gli diceva che la contessa aveva per lui
tale un'amicizia, tale una confidenza, tale un abbandono d'anima, che
con poco, s'egli avesse voluto, il sentimento avrebbe preso altra
forma e altro nome. Egli non voleva; ma per non volere, stringeva i
denti e i pugni.
Quanto ai due mariti, Folco Filippeschi non pareva menomamente
impensierito della subdola guerra che tutti quegli amici intendevano
muovere alla sua felicità. Era certo che nessuno valesse un'occhiata?
era sicuro della virtù di Gioconda? vigilava senza dare a vedere?...
Non si poteva dire: andava e veniva, lasciava la contessa alle prese
coi galanti, partiva il suo tempo tra la lettura, le lunghe
indiavolate corse in automobile, le gite con la piccola Lillia.
Che Vittorina Ornavati fosse innamorata di lui, non s'era accorto o
aveva fatto finta di non accorgersi; e tuttavia se n'era accorta
Gioconda, la quale aveva notato che la voce di Vittorina mutava,
rivolgendosi a Folco, e che la graziosa donna arrossiva un poco quando
vedeva avvicinarsi il giovane.
--Attenta!--le disse un giorno Ariberto scherzando.--La piccola
Vittorina vi porterà via il marito!
--Scusatemi,--rispose la contessa alzando le spalle.--Se Folco è tanto
stupido, non è il caso di contenderlo....
--Stupido, stupido!--borbottò Ariberto.--_De gustibus et
coloribus_.... Sapete il proverbio. E poi, in un quarto d'ora di
distrazione, visto che la piccola ce ne fa una malattia....
--Non sarà a questo modo che Folco potrà farmi dimenticare i suoi
torti!--rimbeccò la contessa.
--Rammentate ancora i suoi torti?
--Com'egli rammenta i miei....
--Non avete fatto pace? non vi siete spiegati?
--Nemmen per sogno!... E volete ch'io sia gelosa di lui, quando egli
non è geloso di me?
--Superbi: tutt'e due troppo superbi!--osservò Ariberto.
--Ma è vero o non è vero che Folco non è geloso?--incalzò la contessa.
Ariberto rise.
--Penserà di voi,--disse,--quel che voi pensate di lui: «Se è tanto
stupida!...»
--Ah no, caro Ariberto! Io ho la scelta; egli non ha che quella povera
piccola Vittorina; io ne ho venti al mio sèguito....
--Sì, ma confessate che tutti i venti, messi insieme, non valgono
Folco!...
Gioconda non rispose.
L'altro marito, Celso Ornavati, vedeva benissimo che parecchi
bellimbusti stavano intorno a Vittorina; ma egli aveva la sua teoria:
una giovane deve superare il periodo dell'amicizia intima di casa,
cioè dei corteggiatori che si fanno amici intimi; superato il quale,
ella diventa savia, avveduta e inaccessibile come una fortezza sopra
un picco. Per Vittorina quel periodo era già valicato da tempo. E
Celso si dilettava di filosofia bergsoniana, poi era passato al
Nietzsche, poi allo Schopenhauer....
--Ma tu cammini come i gamberi!--gli aveva detto un giorno Folco
ridendo.
--Lascia fare: ognuno cammina come può!
--È un gambero filosofico!--aveva definito Ariberto Puppi.
Egli s'era divertito fino a quel giorno, vedendo la gara di tanti
uomini, che tutti, l'uno dopo l'altro, dovevano rinunziare alle loro
speranze. Ma d'un tratto, Ariberto non si divertì più.
Era venuto a far parte del gruppo un giovane di trent'anni, Stefano
Forcioli, che gli amici chiamavano Nenni. Di media statura, tutto
muscoli, bruno in volto, asciutto, angoloso, dava a capire
immediatamente ciò ch'egli era: un domatore di cavalli. Appassionato
per gli svaghi sportivi, ma in modo speciale per l'ippica, possedeva
una scuderia da corsa, la quale gli costava non soltanto molti
quattrini ogni anno, ma cure infinite e tempo. A vederlo, lo si
immaginava subito in tenuta da fantino, giubba nera su calzoni
bianchi, la frusta sotto il braccio, le braccia tese, il corpo curvo
come in agguato, nello sforzo supremo del galoppo finale.
Ariberto lo conosceva da tempo. Non aveva fama di donnaiuolo. Tuttavia
Ariberto avrebbe voluto vederlo meno assiduo al tè della contessa
Filippeschi, mentre Nenni non mancava a un solo. Ariberto pensava a
ciò che la contessa gli aveva detto un giorno: le donne han bisogno
d'un padrone; ed ecco il padrone: quell'uomo da scuderia, abituato a
ordini secchi, brevi, a forzar cavalli all'ostacolo, a levarsi poco
dopo l'alba, a lavorare tutto il giorno come uno scozzone.
Era il contrasto di Folco; questo, fine, amante delle buone lettere,
coltissimo, con una fantasia impressionabile e con animo aperto alla
bellezza; l'altro, duro, chiuso a tutti i gusti d'arte, imperioso e
laconico.
Ariberto fingeva sorriderne. Nenni non faceva la corte nè a Gioconda
nè a Vittorina: aveva per l'una e per l'altra nulla più che la
premurosa cortesia del gentiluomo verso la donna; mai non gli usciva
dalle labbra un complimento, mai non pareva accorgersi nè della
bellezza e dell'eleganza di Gioconda, nè della grazia e della
civetteria di Vittorina. Mandava fiori di tanto in tanto, come s'usa,
accompagnava l'una signora o l'altra alla passeggiata,
indifferentemente; era impossibile capire s'egli avesse una
preferenza.
--Uhm!--disse Ariberto.
E tentò scoprire terreno con Gioconda, un giorno in cui Nenni era
assente.
--Credo che quell'analfabeta non vi dispiaccia, cara contessa....
--Oh, a proposito,--interruppe Gioconda,--voi che lo chiamate sempre
analfabeta, guardate qua, come sa scrivere bene....
--Ah, è capace di fare la sua firma?--esclamò Ariberto.
E prese la lettera che Gioconda gli porgeva e la volse e la rivolse:
una calligrafia verticale, alta, precisa come uno stampato; la
calligrafia d'un uomo risoluto e tenace.
--Bene!--seguitò Ariberto.--Che cosa vi scrive: che vi ama?...
--Che mi ama lo so già, senza che me lo scriva,--rispose crudelmente
Gioconda, per irritare Ariberto.--Si scusa di non poter essere oggi
dei nostri.
--Qualche appuntamento?...
La contessa diede in una risatina ironica.
--Volete farmi diventar gelosa anche di lui?--esclamò.--Ho detto
ch'egli mi ama; non ho detto che lo ami io....
--Giuggiole!--fece Ariberto.--Non lo direte mai!...
--Insomma, devo esser gelosa, per farvi piacere?
--No: per farmi piacere, dovreste metterlo alla porta....
--Ariberto, Ariberto,--disse Gioconda in tono di rimprovero.--Voi
passate il segno, voi mi offendete, credendo ch'io possa amare lui o
chiunque altri....
Ariberto si piegò subito a baciarle la mano, in atto umile; tuttavia
pensò ch'ella non era sincera e che fingeva benissimo....
Ma in quel punto sulla soglia del Grande Albergo comparve la figura
asciutta e svelta di Nenni Forcioli.
--Ahi!--mormorò Ariberto.
La contessa mosse incontro a Nenni, con un'espressione di letizia, con
un sorriso così limpido, che Ariberto fece girar tra le dita
nervosamente il bastoncino d'ebano.
--Come mai?--ella chiese.--Io non vi aspettava più....
--Se volete, torno via!--disse Nenni ridendo.
--No, no, ve ne prego! esclamò Gioconda con involontario
calore.--Sedete qui, accanto a me; oggi siete la pecorella smarrita.
--Ah Dio, siamo fritti; mi scambia i lupi con le pecore!--borbottò
Ariberto, chinandosi un poco verso Vittorina.
--Sono andato all'appuntamento,--spiegò Nenni. Ho sbrigato tutto in
venti minuti e con l'automobile sono corso qui.
Non una parola di più. Nenni Forcioli sapeva fermarsi a tempo. A qual
pro aggiungere una frase galante? I fatti parlavano per lui, e
Gioconda era intelligente.
Ariberto se ne andò prima degli altri. Egli pensava che Nenni, quella
canaglia abituata alle scaltrezze della scuderia, poteva anche avere
inventato l'appuntamento per dar risalto alla premura di sbarazzarsene
e di giungere in tempo da Gioconda.
--È il padrone!--disse Ariberto a sè medesimo.--Furbo e ostinato.
E da quel giorno volse tutta la sua attenzione su di lui, ma non vide
nulla; Nenni sembrava non avanzare punto nella simpatia e nella
dimestichezza con Gioconda; sembrava anche non impensierirsene e non
tentare niente per ottener da lei qualche piccolo privilegio, qualche
leggero vantaggio sugli altri.
Ariberto vide invece che avanzava molto Vittorina verso Folco.
Vittorina aveva finito, impaziente e capricciosa, per pregare Folco
d'essere più assiduo.
Folco s'era acconciato a soddisfarla e non mancava più alla tavola di
Vittorina; di là poteva osservare l'armeggio, il gareggiare dei suoi
amici intorno a Gioconda. In verità, non credeva tanto; non aveva mai
sospettato che sua moglie fosse così stretta d'incessante assedio.
Ella ballava ogni giorno, poco prima del tè, un valzer; e per ottener
l'onore d'esserle cavaliere, era uno spingersi, un supplicare, un
accorrere, che strappavano qualche sorriso ad Ariberto.
Nenni Forcioli non ballava, epperò non supplicava mai; stava egli pure
a guardar gli altri, placido e curioso.
Tutto ciò mise una punta nel cuore di Folco. Non già che dubitasse di
Gioconda, ma gli sapeva male ch'ella vivesse in quell'aria, tra quegli
adulatori smaccati, ciascuno dei quali si credeva capace di farle
perdere la testa e sperava anzi di giungervi, presto o tardi.
Spiaceva anche, a Folco, di dover notare che Vittorina Ornavati lo
amava; ella era insistente, lo interrogava di continuo, lo pregava con
un piccolo broncio geloso di non guardare sempre dalla parte di sua
moglie. Folco doveva prestarsi a lasciarsi adorare, e ciò gli dava
idea d'una grande ridicolaggine.
Vittorina, dopo tutto, era discreta: non chiedeva se non ch'egli le
stesse vicino e che non fosse accigliato. Da tempo Folco appariva a
tutti melanconico e taciturno, la sua fronte aveva una ruga precoce,
le sue parole erano spesso ironiche; v'era un senso d'amarezza in
tutto ciò che diceva, come se qualche cosa gli ribollisse dentro, gli
lacerasse l'animo.
--Io non so comprendere:--gli osservò un giorno Vittorina.--Siete
sempre sarcastico, mentre la felicità vi arride. Non è vero?
La felicità di Folco era un tema che Vittorina trattava di frequente,
quasi per sondare, per assicurarsene.
Folco non rispose.
--Voi siete felice,--seguitò Vittorina,--e non potreste non esserlo.
Giovane, colto, ricco, sano, possedete una moglie che tutti vi
invidiano; la vostra bambina è deliziosa. Che cosa potete chiedere di
più? E come mai siete sempre imbronciato?
Folco la guardò.
--Cara amica,--disse.
Esitò un istante, quindi proseguì:
--Forse anche a voi, a scuola, hanno raccontato la storia del giovane
spartano....
--Che? Il giovane spartano? E chi era?
--Un giovane spartano aveva rubato una volpicella; e per non essere
punito, poichè il furto era causa di gravissima condanna, egli nascose
la volpe fra la tunica e il petto. Condotto innanzi al magistrato,
sostenne di non aver rubato nulla; e mentr'egli si difendeva, la volpe
andava rodendogli il petto e le viscere. Il giovane rimase impassibile
all'atroce dolore; fu liberato, ma morì poi per lo strazio che la
volpe aveva fatto delle sue carni.... Spero abbiate compreso, cara
amica....
--Oh, sì, ho compreso benissimo,--esclamò Vittorina.
Ma non aveva compreso nulla; e quella sera medesima ella disse a suo
marito:
--O Celso, che cosa significa questa storia della volpe di Sparta?...
--La volpe di Sparta?... Non ne so nulla io....
Allora Vittorina ripetè a Celso il racconto che le aveva fatto Folco.
--Mah!--osservò Celso.--È un racconto simbolico. Vorrà dire che
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