La volpe di Sparta - 5

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Forse perchè la mia casa è fredda d'inverno e mio padre non è stato
mai a Parigi, a Londra, e non si è mai ubbriacato di sciampagna?
--Gioconda!--esclamò Folco, movendo un passo contro di lei.--Non devi
parlare in questo modo nè dei miei, nè di Ariberto! Te lo
proibisco!...
La contessa tacque subito. Si alzò, andò alla finestra, scostò
macchinalmente le cortine e guardò la folla nera nella strada.
--Ariberto mi ha rammentato che sono a Parigi per lavorare,--seguitò
Folco con voce più calma.--Ho fatto male a non dirtelo; ne convengo; e
te ne chiedo scusa. Credevo che pel mio lavoro tu non avessi più
simpatia, e mi ripromettevo di lavorare solo. Ecco tutto. Ariberto non
ha detto altro. Cioè, sì: ha dello che si augura di sapermi presto
riconciliato coi miei e di veder te accolta dalla mia famiglia come
meriti....
Fece una pausa, aspettando che Gioconda riconoscesse il suo errore.
Gioconda taceva.
--Hai capito?--seguitò Folco dolcemente.--Ti chiedo perdono di non
averti riferito subito ogni cosa; non vi sono misteri nè tra te e me,
nè tra me e Ariberto. Ho taciuto per una delicatezza esagerata, per
non importunarti con i miei vecchi scartafacci. Non è una colpa....
Gioconda restava immobile a guardar dalla finestra senza vedere.
--Gioconda!--ripetè Folco avvicinandosele.
Tentò di abbracciarla e si sentì respinto.
--Non credi a quello che ti ho detto?--domandò
stupito.--Credo!--rispose la contessa volgendosi.
Ella era pallida e la sua voce non aveva tono.
--E allora? Non ti pare d'avere avuto torto?...
La contessa tacque.
--Gioconda! pregò Folco.--Rispondimi una parola.
--Non so,--disse Gioconda lentamente,--se ho avuto torto. È possibile.
Ma so bene che c'è qualcuno ormai il quale può tutto su di te, può
farti mutar vita da un'ora all'altra, può domani anche nuocerti con un
consiglio sbagliato....
--Oh,--fece Folco sorridendo. Sei gelosa d'Ariberto?
--Io temo ch'egli non sia sincero,--rispose la contessa.
Folco frenò a stento un gesto d'impazienza.
--Ma che vuoi? Finora non ho avuto da lui se non parole molto savie:
credo ch'egli mi sia veramente affezionato e che la sua amicizia
onesta e la sua esperienza mi siano utili.
--La sua esperienza?--esclamò Gioconda.
Si rattenne un istante, poi soggiunse:
--Ma non mi hai raccontato tu stesso ch'egli ha corso tutto il mondo
in cerca di piaceri? che non ha mai fatto nulla? che non ha esperienza
se non di giuoco, di donne, di cavalli? Sono tue parole, queste, e me
le dicevi quando io ingenuamente volevo chiamarlo papà o volevo
facesse da padre a te.
--È verissimo,--rispose Folco.--Tuttavia, sotto un'apparenza frivola
si nasconde un'anima diritta, che non oserebbe mai darmi un consiglio
il quale non venisse da considerazioni di probità e d'onore.
La contessa non dissimulò un sorriso lievemente sarcastico.
--Sei molto ingiusta con lui,--osservò Folco.--Io vorrei sapere che
cosa tu desideri. Forse ti dispiace che io riprenda a lavorare?
--Oh, no!--ribattè vivamente Gioconda.--Sono contenta che ti occupi
dei tuoi studi!
--Forse vuoi che allontani Ariberto, senza un motivo, anzi quando ho
motivo a essergli grato per le sue parole affettuose?
La giovane tacque. Rimaneva in lei l'impressione, ostinata, che
Ariberto fosse un nemico temibile; ma comprese che, neppur pregato,
Folco non se ne sarebbe potuto sbarazzare d'un colpo. Meglio era
attendere e vigilare.
--Non desidero nulla,--rispose freddamente.--Tutto sta bene come tu
dici.
--Gioconda, te ne prego. Aiutiamoci a dissipar questo malinteso.
--Non c'è alcun malinteso,--assicurò Gioconda con la medesima
freddezza.--Vorrei rimanere sola!
Folco la guardò, interrogativo. La vide pallida, con la fronte
annuvolata. Varcò la soglia senza rispondere. Gioconda chiuse l'uscio.
Folco udì girare la chiave nella toppa.
Allora egli afferrò la busta, i manoscritti, i libri che giacevano sul
tavolino, e con un gesto desolato li gettò di nuovo nel baule.
Fissò l'uscio chiuso, domandandosi invano la ragione di tanta
severità.
Egli non sapeva ancora che il peggior nemico della donna è colui il
quale la convince d'avere avuto torto.


VIII.
Vicende.

La signora Delfina e il signor Piero Dobelli rimasero sbalorditi
apprendendo da una conoscente chiacchierina che la contessa
Filippeschi era da otto giorni a Milano. Dopo quattro mesi di assenza,
da otto giorni a Milano, e non aveva avvertito la famiglia del suo
arrivo, nè era andata a trovarla....
--Che cosa si fa?--chiese Delfina.
--Si fa finta di non sapere nulla, e si passa da casa sua,--rispose
Piero.
Uscirono: per abitudine, Delfina andava innanzi; veniva poi Piero; e
da ultimo Dick, il quale essendo vecchio e grasso camminava piano,
indifferente al viavai delle strade popolose come alla vista di altri
cani, che gli davano una fiutata e tiravan via. Per riguardo a Dick,
camminava piano anche Piero e camminava piano anche Delfina; i tre
componevano il corteo della vita pacifica.
--Di questo passo,--osservò Piero,--arriveremo da Gioconda verso
l'alba.
Si consultarono, diedero un'occhiata a Dick, il quale aveva bisogno di
prendere una boccata d'aria, e decisero di noleggiare una carrozza.
Dick si acconciò di malavoglia tra Delfina e Piero, perchè odiava le
novità; e le passeggiate in carrozza erano in casa Dobelli tal novità,
che Dick non ne rammentava due nella sua quattordicenne esistenza.
La contessa Filippeschi era in casa. Si fecero annunziare, mentre la
cameriera apriva loro l'uscio del salotto. Attesero venti minuti.
Finalmente Gioconda comparve, con la sigaretta tra l'indice e il medio
della sinistra.
La signora Delfina pensava di slanciarsele fra le braccia, ma
l'espressione fredda di Gioconda la rattenne immediatamente. Più che
fredda, era accigliata.
--Ah, siete voi!--disse.--Accomodatevi. Mi fa piacere di vedervi.
--Capirai: noi ti scrivevamo e tu non rispondevi!--osservò
Piero.---Sei tornata e non ci hai avvertiti.
--Avevo le mie buone ragioni!--rimbeccò pronta Gioconda.
--Imbronciata con noi? esclamò Delfina.--Che cosa ti abbiamo fatto?
--Ma sì: che è questa indegna commedia del pellicciaio?--proruppe
Gioconda.
Delfina volse il capo verso Piero, nello stesso istante in cui Piero
volgeva il capo verso Delfina; e s'interrogarono muti a vicenda.
--Il pellicciaio? La commedia?...--domandò Piero.
--Vedo che ve ne siete dimenticati,--seguitò Gioconda.--Carlo Albèri:
non avete inventato voi la storiella di Carlo Albèri che doveva
sposarmi, se non mi sposava Folco?
--Oh Dio, una piccola cosa!--esclamò Delfina.
--Ah, una piccola cosa!--ribattè ironica Gioconda.--Una piccola cosa
che Folco ha scoperto, e pur la quale desidera non vedervi.... Voi la
chiamate una piccola cosa, ed egli la chiama raggiro indegno, e ne è
mortalmente offeso.
--Come diavolo ha potuto scoprire?...--interruppe Piero.
--Nel modo più semplice; voi scioccamente non me ne avevate
avvertita,--spiegò la contessa,--e io, non sapendo nulla, ho chiamato
l'Albèri prima di partire per Parigi, perchè dovevo comperare una
stola. Folco è sopravvenuto, ha interrogato l'Albèri, e ha saputo così
che è ammogliato da cinque anni.... La conclusione si è che per lungo
tempo Folco non desidera vedervi in casa sua. Mi dispiace dirvi
questo, ma io devo obbedire....
--È giusto, è giusto,--rispose Piero alzandosi.
--Ti sei divertita almeno a Parigi?--interrogò Delfina.
Il volto di Gioconda fu irradiato repentinamente da una gran luce.
--Ah!--disse.
E l'esclamazione parve più eloquente d'ogni descrizione ai due
Dobelli.
--L'avevo sempre detto, io, che Parigi è una grande città!--osservò
Delfina a Piero. Ma tu sei tutto per la Triplice.
--Che c'entra?--ribattè Piero.--La Triplice in politica, siamo
d'accordo; ma per divertirsi non c'è che Parigi, non dico di no.
Seguì una pausa.
--E?...--interrogò di nuovo Delfina con un'occhiata significativa.
Gioconda capì, arrossì un poco, e rispose:
--Sì....
--Che nome gli darete?--domandò Piero.
--Nomi di casa Filippeschi: Manfredi o Lillia,--dichiarò la contessa.
--E il padre del conte, la madre, la sorella?--domandò Delfina.
--Tutti come morti. Folco ha scritto e riscritto, ha mandato amici, e
non ha ottenuto nulla.
--Duri, gli animali!--si lasciò scappare il signor Dobelli.
--Però, a me non dispiace, vedi?--riflettè Delfina.--Gente di
carattere: si sente la razza.
--Già; resta a vedere di qual razza si tratta!--rimbeccò Piero.
Erano giunti sulla soglia.
--Arrivederci, figliuola!--disse Piero, baciando Gioconda in
fronte.--Verrai tu a trovarci?
--Senza dubbio! promise la contessa, abbracciando Delfina, poi Piero,
e abbassandosi a fare una carezza a Dick.
Uscirono com'erano venuti: Delfina innanzi, quindi Piero, Dick da
ultimo; piano tutti e tre.
Gioconda non aveva detto il più e il meglio.
Non appena tornato da Parigi, e fatto il conto di ciò che gli
rimaneva, Folco Filippeschi s'era dovuto mettere alla ricerca d'un
impiego. Sperava di trovare un posto pel quale la sua coltura non
fosse inutile; ma i suoi sforzi erano riusciti vani, uno dopo l'altro.
Presso un avvocato bisognava fare il copista, con uno stipendio
miserrimo; presso i giornali v'era piuttosto pletora che scarsezza di
redattori; i ricchi signori non usavano più il segretario, e di certo
non avrebbero dato la preferenza a un giovane che per nascita e titoli
era un loro pari.
Ariberto Puppi, tornato a sua volta da Parigi, s'era interessato egli
pure a quella ricerca, bussando alle porte degli amici, delle semplici
conoscenze, dei suoi stessi fornitori.
Un giorno si presentò a Folco con un mezzo sorriso imbarazzato.
Il posto c'è!--disse.--Ma....
Gli sembrò che Folco fosse allegro. S'interruppe.
--Forse hai già trovato?--domandò.
--No,--rispose Folco.--Sono allegro per un altro motivo. Gioconda mi
ha detto.... mi ha confessato....
--Ho capito,--fece Ariberto, sorridendo.--Sei papà: augurii!
--Ecco: e tu comprendi che in questo caso accetto qualunque posto
senza discutere, purchè mi dia da vivere.
Ariberto voleva rammentargli i quattrini sciupati a Parigi per
capriccio della contessa, i quattrini che in quell'ora sarebbero stati
doppiamente preziosi; ma si frenò. Disse che il posto c'era: commesso
agli stipendi della Casa Adolfo Scotti e C. Occorreva un certo
coraggio ad accettarlo; bisognava star sulla breccia a viso aperto,
servire il pubblico anonimo, trangugiar forse qualche boccone amaro.
Stipendio, ducentocinquanta al mese.
Ariberto si guardò dall'aggiungere che la cifra dello stipendio era
dovuta a lui, vecchio e cospicuo cliente della Casa; e disse invece
che s'era voluto usare un riguardo alla persona di Folco.
--Tutto benissimo!--rispose Folco.--Non m'importa affatto di stare
sulla breccia. A Milano ho poche conoscenze. Le persone di spirito, in
ogni caso, mi daranno ragione: quanto agli imbecilli, non dobbiamo
curarcene.
Ariberto gli strinse la mano senza parlare; Folco lo abbracciò. Poi
corse a recar la notizia a Gioconda, che da molti giorni seguiva con
paura, con trepidanza, la sorda lotta di Folco, e temeva non avesse
energia sufficiente a superarla. Quando udì che Ariberto lo aiutava,
il cuore le si allargò; aveva di lui un concetto strano, fra l'odio e
l'ammirazione; il suo intervento assicurava, agli occhi di Gioconda,
la vittoria.
--Ebbene,--le disse Folco,--ora credi che Ariberto mi sia amico?....
Non gli devo tutto in questo istante?
La contessa ebbe il suo sorriso enigmatico.
--Non discutiamo!--rispose.
--Perchè non vuoi piegarti all'evidenza?--insistette Folco.
--Ma che fosse amico tuo non ho mai dubitato!--esclamò
Gioconda.--Dubito sempre che sia amico mio.... È un'impressione; potrò
ravvedermi col tempo.
Folco entrò così agli stipendi della Casa Scotti. Non gli riuscì
difficile impratichirsi di quel commercio; stette, come diceva
Ariberto, sulla breccia, francamente, valorosamente. Quasi, ci si
divertiva; non gli dispiaceva quel lavoro febbrile, che i primi giorni
lo aveva stremato di forze; non gli dispiaceva quella sfilata di gente
che trattava le futilità, le maglie di seta, gli oggettini leggiadri e
inutili, con gravità pensosa; non gli dispiaceva, sopra tutto,
guadagnarsi la vita. Pensava al bimbo che doveva nascere, e al piacere
di potergli raccontare, un giorno, che papà vendeva le calze e i
fazzoletti mentr'egli veniva alla luce.
Che cosa non avrebbe fatto per quel bambino di domani, per quel
piccolo Manfredi o per quella piccola Lillia? Dov'erano le sue stolte
ambizioni letterarie, l'illusione superba di conquistar l'alloro coi
libri?... Folco ne sorrideva senza amarezza, come di sogni puerili. E
mai non gli era parso che la festa fosse così dolce; che il riposo
fosse così confortante, così lieto.
Andava a spasso con Gioconda la domenica, come un piccolo borghese, e
qualche volta a teatro, nei posti popolari: egli abituato a tutte le
squisitezze d'una esistenza ricca, godeva l'esistenza modesta del
commesso, placidamente; non aveva occhi se non per Gioconda e non
rammentava il lusso, i capricci, lo scialo d'un giorno, quasi non li
avesse mai conosciuti. In verità, se lo stipendio fosse stato un poco
più largo e gli avesse dato modo di curar meglio Gioconda, non lo
avrebbe barattato con un patrimonio, perchè sentiva tutto l'orgoglio
nobile della fatica, tutta la soddisfazione di lavorare per sua moglie
e pel suo bambino.
Gioconda, in silenzio, dissimulando abilmente, soffriva.
Dopo quella prima visita al ritorno da Parigi, i suoi avevano appreso
che Folco s'era dovuto acconciare a un posticino con modesto
stipendio; che Gioconda aveva venduto manicotto e stola e tutti quanti
i suoi oggetti preziosi, eccettuati l'anello nuziale e l'anello di
rubino; che anche Folco aveva venduto libri, stampe, quadri; che
s'erano ridotti in due camere mobigliate.
--Hai preso la via più lunga,--osservò la signora Delfina,--ma finisci
per vivere come e peggio tu avessi sposato il pellicciaio....
--Distinguiamo!--interruppe il signor Piero, comprendendo che Gioconda
era ferita dalle parole inconsciamente crudeli di sua madre.--Il conte
Filippeschi è sempre il conte Filippeschi; e un giorno sarà
ricchissimo.
--E quando verrà questo giorno?--rimbeccò Delfina.--Fra un mese, fra
un anno, fra dieci anni? Magari fra venti, anche; e la giovinezza di
Gioconda sarà sfiorita tutta negli stenti.
La logica di sua madre appariva alla contessa inesorabile ed esatta.
Per certo, ella si guardava dal pensar con desiderio alla morte del
conte suocero; ma il periodo di prova durissima, tanto più dura in
quanto era succeduto immediatamente agli splendori della vita
parigina, poteva essere ben lungo.
Nacque intanto la bambina, Lillia.--La felicità di Folco aveva
dell'esagerazione, della follia, dell'ubbriacatura. Mandò subito un
telegramma ai suoi; fece avvertire Piero e Delfina che perdonava
l'inganno del pellicciaio, anzi non lo rammentava più, e potevan
venire ad abbracciar la figliuola. Cantava, saltava, si portava
intorno la bambinetta bellissima, sordo alle raccomandazioni della
levatrice, la quale gli teneva dietro perchè non la soffocasse.
Gioconda era contenta, ma d'un contento più pacato. Sorrideva,
commossa alla felicità traboccante di suo marito, e guardava con amore
la piccola Lillia che vagiva.
Aveva desiderato un maschio, un bel Manfredi, bruno con gli occhi
avana iniettati di pagliuzze d'oro.
Le nasceva una femmina rosea, con un ciuffetto di capelli così biondi,
che parevano bianchi.
Non se ne lagnò; le volle bene ugualmente, la curò con attenzione,
palpitò ai suoi dolori, visse delle sue gioie.
--Io la chiamerei François Villon,--disse Folco in uno slancio di
letizia.--Se non avessi tradotto François Villon, non ti avrei sposata
e non avrei oggi Lillia.
--Che diventerebbe mai, povera Lillia,--riflettè Gioconda,--per
imitare il tuo poeta?
Ma di repente le parole festose tacquero nella casa.
Una sera comparve Ariberto Puppi.
Egli veniva di rado a visitar Gioconda e Folco. S'era accorto che la
contessa era gelida con lui, e quantunque non trovasse la ragione di
quel contegno, non intendeva chiederla, nè far capire che aveva
capito; poi Folco era l'intero giorno occupato, ritornava a casa la
sera stanchissimo; non si sapeva quale fosse l'ora meno inopportuna
per una visita. Da ultimo, Ariberto pensava che alla contessa,
orgogliosissima, sapeva male forse ch'egli, compagno di cene e di
svaghi a Parigi, vedesse la sua povertà presente; e per delicatezza
stava lontano.
Folco gli corse incontro a ringraziarlo della visita inaspettata; ma
si arrestò vedendo l'espressione dolente, grave, ch'era sul volto
d'Ariberto.
--Folco,--disse questi dopo essersi inchinato alla contessa,--io devo
compiere un incarico molto penoso.
--Mio Dio!--esclamò con voce soffocata il giovane.--Sta male la mamma?
--No; si tratta di tuo padre; devi partire subito.
--È molto ammalato?--interrogò Folco affannosamente.
--Molto. Parti subito.
Folco si gettò nell'altra camera a preparare una valigia.
Ariberto fece qualche passo, avvicinandosi a Gioconda.
--Andate anche voi!--consigliò sottovoce.--Suo padre è morto; Folco
avrà bisogno d'un cuore fedele. È il notaio che mi telegrafa, perchè
avverta Folco, la cui presenza è necessaria all'apertura del
testamento. Andate anche voi. Accompagnatelo!
Gioconda tremava, pallidissima.
--Vi ringrazio!--disse ella pure sottovoce.
Corse da Folco, lo serrò stretto; gli mormorò all'orecchio:
--Ti accompagno!
Folco la guardò, comprese; e si abbandonò tra le braccia di lei,
piangendo disperatamente.


IX.
Giornate fosche.

Gioconda tenne in quell'occasione un contegno perfetto.
Sarebbe stato imprudente dimostrare un acerbo dolore per la morte del
conte suocero, il quale non aveva mai voluto conoscerla, le aveva
impedito di varcar la soglia di casa, ed era morto senza perdonare a
lei e a Folco.
Ma sarebbe stato peggio mostrarsi indifferente a una sciagura, che
colpiva Folco nel più alto dei suoi sentimenti. La contessa non fu nè
indifferente nè accasciata; tenne con dignità le gramaglie per
diciotto mesi, e quantunque, tra mobili ed immobili, Folco avesse
ereditati parecchi milioni, non si dipartì dalle abitudini di una vita
modesta, badando solo che degli agi potesse godere Lillia.
Folco era stato percosso fieramente dalla morte improvvisa del padre.
A Perugia, nello studio del notaio, s'era trovato di fronte alla
madre, alla sorella, al cognato; aveva sperato che la comunanza della
sventura gli permettesse di esprimere loro la sua devozione.
Essi furono di marmo. Salutarono, entrando e uscendo dallo studio, con
un cenno del capo; e perchè v'erano alcune disposizioni da prendere,
ne diedero incarico al notaio, che s'intendesse con Folco (dissero,
anzi, «col conte Filippeschi»), quasi avessero temuto di rivederlo.
Soltanto il cognato, Corradino Àutari, si ritrovò, come per caso,
l'indomani dal notaio, e abbracciò Folco.
--Sai,--gli disse.--Testardi! È la razza.
--Io sperava,--rispose Folco timidamente,--di poter presentare mia
moglie alla mamma e a Giselda...
Corradino levò le braccia al cielo.
--Non te lo sognare!--esclamò.--Giselda e tua madre ignorano che tua
moglie esista: lo ignoreranno sempre.
E aggiunse, quasi come un ritornello:
--Che vuoi? È la razza. Come dice la divisa di casa Filippeschi?
--«Crolli il mondo».
--Bene; crollerà il mondo, ed esse rimarranno immobili.
Folco non osò insistere. Vedeva, ormai insuperabile ed eterna, la
barriera che lo separava da sua madre e da sua sorella.
Tornato all'albergo, trovò Gioconda pallida, bella, nelle sue vesti
nere, che tenendo tra le braccia la piccola Lillia, le susurrava
parole carezzevoli. Sentì un vano impeto di ribellione.
A che tanto orrore della povera donna? Non era onesta e diritta come
Giselda? Di quale colpa si poteva accusarla, se non d'avere accolto
l'amore di lui e d'aver con lui sopportato bravamente le traversie
della sua vita?
Egli leggeva ogni giorno negli occhi di Gioconda una domanda: «Mi
vogliono?» E volgeva gli occhi altrove, non potendo rispondere.
Partì, quasi fuggì da Perugia non appena tutte le prescrizioni di
legge furono compiute; lasciò l'ordine al notaio di vendere a mano a
mano i poderi di sua proprietà; non sarebbe mai più tornato.
Quando furono in treno, nello scompartimento che aveva scelto perchè
gli estranei non gli dessero di gomito in quell'ora inenarrabilmente
malinconica, Folco s'avvide che Gioconda piangeva in silenzio.
Era ferita al cuore.
Mai non avrebbe creduto che pure innanzi alla morte, pure in un giorno
di grande lutto, le donne di casa Filippeschi sarebbero rimaste
impassibili di fronte a lei e alla sua bambina. S'aspettava di giorno
in giorno d'esser chiamata a una riconciliazione; ma più ancora
s'aspettava che Folco la imponesse, che facesse prevalere il suo buon
diritto e la sua volontà.
Allorchè, venuta l'ora della partenza, Gioconda dovette salire in
treno per non tornar forse mai più a Perugia e far così incolmabile
l'abisso che la teneva lontana dalla suocera e dalla cognata, il
dolore e l'ira le pervasero l'animo.
Guardò Folco da capo a piedi, quasi lo vedesse la prima volta. Chiuso
nell'abito nero, pallido in volto, gli occhi stanchi dalle lagrime,
biondo, sembrava un fanciullo smarrito. Era un debole, un vinto; la
volontà di lui al paragone della volontà di due donne, le quali
erangli pur legate dai più stretti vincoli di sangue, non valeva
nulla, non aveva significato alcuno; chiunque poteva passarvi sopra e
calpestarla.
Era un debole.
Gioconda che si sentiva capace di perseguire anni ed anni, ora per
ora, un suo disegno con paziente scaltrezza, con tenacità ostinata,
con elasticità felina, aveva pei deboli un senso di commiserazione non
troppo dissimile dal disprezzo.
Fu desolata, scoprendo che la volontà di due donne era più forte della
volontà di suo marito. In un altro istante, presa come le avveniva,
dallo sdegno, si sarebbe lasciata sfuggir dalle labbra parole amare;
ma intuì che non doveva colpire di nuovo Folco già provato dalla
sventura.
Tacque, si rôse dentro, pianse in silenzio.
E non gli perdonò.
La morte subitanea del conte, la ricchezza sicura, avevano allontanato
l'uno dall'altra.
Folco si diceva che in causa di Gioconda aveva perduto la sua
famiglia; che Gioconda a Parigi gli aveva impedito di lavorare,
costringendolo a sciupar tempo in una vita la quale era, per quel
momento, pazzesca. Tornarono, con gli agi, le idee d'ambizione
letteraria, e il tempo perduto sembrava a Folco irreparabile.
Gioconda non dimenticava d'essere stata trattata da tutti i congiunti
di suo marito come una donna che non si deve conoscere, che non si può
ammettere in una casa onesta, come l'ultima delle femmine; e Folco non
aveva saputo spezzare il cerchio di oltraggiante disprezzo in cui
avevan chiusa la sua compagna, colei che portava il suo nome e gli
aveva data Lillia.
Non dissero nulla, ma diventarono ostili l'uno all'altra. Nè Folco nè
la contessa chiesero una spiegazione; pareva s'intendessero e
sapessero già.
Durante il periodo di lutto, Folco potè riavere l'appartamento dei
primi giorni di nozze.
Venivano in quella casa a passare la serata molti amici; alcuni di
amicizia vecchia, come Ariberto Puppi; altri, i più, d'amicizia nuova,
nata dalla ricchezza, farfalloni che accorrevano a tutte le luci.
Guardandosi intorno perchè si sentiva sola, Gioconda trovò Ariberto
Puppi, il nemico di ieri.
D'un tratto ella si ricredeva sul conto di lui.
Le eran bastate le parole dettele sottovoce, la sera in cui egli aveva
annunziato la morte del conte:
--Andate anche voi! Accompagnatelo!...
V'era un senso amichevole, un consiglio affettuoso, un tono
d'esperienza. La contessa n'era rimasta colpita come da una
rivelazione; aveva guardato Ariberto Puppi allora e poi, di ritorno da
Perugia, con occhi di curiosità indagatrice. Fosse veramente un
amico?... Fosse, non ostante le bizzarrie e le monomanie, un uomo
forte?
Gli sorrise, gli diede la mano, tornando; gli disse con calore:
--Sapete? Rammento sempre le parole di quella sera: «Andate anche voi!
Accompagnatelo». Qualche volta me le ripeto.
--Ecco, vi dirò, contessa,--rispose Ariberto con un sorriso. Voi
credevate che io fossi, non so perchè, vostro nemico....
Gioconda si sentì arrossire.
--.... e perciò,--soggiunse Ariberto fingendo di non veder quel
turbamento ch'era una confessione, avete dato un'importanza
eccezionale alle parole che chiunque vi avrebbe detto in quel giorno
di sventura. Vi siete stupita perchè non vi davo un cattivo
consiglio.... Ciò è un poco offensivo per me; è un poco crudele da
parte vostra....
--Vi domando perdono,--si lasciò scappare Gioconda, alzando gli occhi
in volto ad Ariberto.
--Oh,--esclamò questi, inchinandosi a baciarle la mano,--non
chiedetemi perdono di nulla. La colpa è interamente mia. Io sono, come
dire? secco, angoloso, beffardo.... Voi siete pressochè ancora una
fanciulla inesperta e le mie maniere vi sono spiaciute. Il torto era
mio; voi avevate ragione....
--Allora, facciamo la pace?--disse Gioconda sorridendo.
--Non ne ho bisogno; non devo che continuare a essere vostro amico,
come sono stato sempre.
Gioconda respirò.
Folco era freddo con lei; ma anche non fosse stato, ella sapeva bene
che in un'occasione grave, in un'ora di battaglia, egli non avrebbe
avuto nè l'energia, nè l'esperta sicurezza per consigliarla. Gli altri
intorno erano bellimbusti, ganzerini che le facevano la corte e
tentavano sviarla; uomini dei quali non si sarebbe fidata, ai quali
non avrebbe mai detto parola che non fosse stata scherzosa o ironica.
Da qual parte volgersi?
Con l'impeto del suo carattere si volse tutta ad Ariberto.
Egli se ne accorse e ne fu impacciato. Come dirle: «Badate: se voi
pensate che io sono un vecchio, non lo pensano gli altri, non lo penso
io stesso, e la mia assiduità può nuocere a voi e a Folco. Ho
trentasette anni e molta voglia e molta forza di vivere. Siate
prudente, per voi, per me, per tutti»?
Si mise a farle la corte; una corte divertita, un po' leggera, un po'
frivola, fatta di lievi sarcasmi, ma instancabile, quasi per
avvertirla che anche con lui correva qualche pericolo, che poteva
bruciarsi le ali proprio là dove supponeva non ci fosse più fuoco.
Gioconda rideva.
--No, no, vi prego, non dite sciocchezze! Sì, sarò bella, sarò
elegante, ma questo non vi riguarda....
--Come, non mi riguarda?
--Non vi riguarda. Ascoltatemi: accompagnatemi fuori; non voglio
uscire sola, e Folco si secca ad andar pei negozi. Devo far delle
compere. Su, venite fuori con me....
Ariberto obbediva, mandando al diavolo Folco.
O che tipo d'imbecille era diventato costui, il quale pareva non
occuparsi più di Gioconda e darsi tutto soltanto alla piccola Lillia?
Stava con Lillia l'intero giorno, giuocava, con Lillia, conduceva a
spasso Lillia, e non vedeva che sua moglie era o accasciata da una
noia indicibile o circondata da un nugolo di corteggiatori, alcuni dei
quali pericolosi?
Che aveva? Che pensava?
Interrogò discretamente Gioconda, e non ne capì nulla.
Allora, con quella sincerità rude che s'irritava allorchè doveva
battere contro una porta chiusa, andò a bussar direttamente alla porta
di Folco. Da vecchio amico aveva ben diritto a sapere.
Gli domandò:
--Come mai non accompagni quasi più la contessa?
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