La volpe di Sparta - 4

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pura, intelligente, essere amata da un conte Filippeschi, senza
chiuder questi in una rete di volgarissime giunterie.
I suoi l'annoiavano. Le scrivevano di continuo a Parigi pel denaro.
Sapevano che Folco non sarebbe stato diseredato, ma sapevano pure che
da casa non gli mandavano più un quattrino; e quanto sarebbe durata
quella situazione penosa?... Che la ragazza--la contessa Filippeschi
era tuttora e sempre in casa, _la ragazza_--ci pensasse, facesse
economia, trattenesse il conte....
Gioconda da più giorni non rispondeva.
Il marchese Ariberto Puppi col rammentarle Francesco Villon e gli
studi letterari di Folco, l'aveva inscientemente ripiombata in quei
ricordi angusti; umiliazioni, trepidanze, volgarità, insonnie,
lagrime: le liriche del poeta da capestro non le dicevano altro.
Si guardò rapidamente intorno; sbarrò gli occhi quasi per abbacinarli
al torrente di luce artificiale che inondava il teatro. Le sembrò che
tutte le donne le quali occupavano poltrone e palchetti, fossero sue
amiche, pari a lei; forse ella era anche più su, nella scala sociale.
Esse ignoravano Carlo Albèri, Dick, suo padre, sua madre, la lampada
poco pulita, la macchina da scrivere; erano simpatiche, vestivano
tutte benissimo.
Gioconda assorbiva con voluttà il presente per dimenticare il passato,
per distruggerlo, perchè non osasse tornar mai.
--Folco,--disse, volgendosi a suo marito.
Desiderava prolungar le ore di godimento, che l'allontanassero sempre
più dalla casa bigiognola con le botteghe respiranti il tanfo del loro
traffico vecchio.
--Folco,--disse,--dopo lo spettacolo, vorrei cenare....
--Ma certo, certo,--rispose Folco.--Ho molto piacere di vederti così
ben disposta.
--È una buona idea!--approvò Ariberto.--Vi condurrò all'Abbaye; siete
mai stati all'Abbaye?...
Allora la giovane sorrise anche a lui, un sorriso mite di gratitudine.


VI.
Tutta di qua.

L'ondata del piacere le passò accanto e per poco non la travolse.
Vide in quella cena all'Abbaye la vita parigina notturna, il ritrovo
in cui le dame straniere dan di gomito a quelle che non sono dame;
notò le eleganze spinte fino alla soglia della stranezza; una folla di
donne in abito scollato, di uomini in abito nero, uno spumeggiar di
calici, una profusione d'argenti, un ondular discreto di musica
invisibile; sentì un fiotto di profumi discordanti salirle alle nari,
impregnarle vesti e capelli.
Mangiò poco; non bevve quasi nulla; fingeva d'ascoltare ciò che
dicevano i due uomini, Folco e Ariberto, il primo dei quali non aveva
occhi se non per lei, e l'altro non vedeva nulla perchè aveva visto
troppe volte lo stesso spettacolo o spettacoli consimili.
Ma gli sguardi di Gioconda seguivano con curiosità ciò che avveniva a
questa e a quella tavola; faceva gran fatica a non rivolgersi per
guardare anche le scene che si svolgevano alle sue spalle. Constatò
con ingenua maraviglia che Ariberto conosceva tutti; prima di sedere
aveva chiesto il permesso di salutare alcune dame ch'erano a una
tavolata non molto discosto, e aveva finito per trovare amiche e amici
a tutte le tavole.
La contessa lo vedeva inchinarsi, baciar la mano dell'una e
dell'altra, dir qualche parola agli uomini, sorridere: gli chiedevano
chi era la giovane signora e il gentiluomo che cenavano con lui; gli
occhi dei commensali si posavano su Gioconda discretamente, ma non
così di sfuggita ch'ella non comprendesse che si parlava di lei; era
soddisfatta; il suo nome correva tra quella folla in cui erano
rappresentati quasi tutti i paesi d'Europa.
--Voi incontrate il favore mondiale, cara contessa,--annunziò Ariberto
nel tornare alla sua tavola.--Se mi sono attardato un poco, la colpa è
più vostra che mia. Non c'è stato uno, non c'è stata una, che non mi
abbia chiesto chi è la magnifica dama che Folco e io abbiamo l'onore
di servire. Perfino la duchessa di Rejkiavik, la quale ha il difetto
di spregiar tutte le donne che non siano mostri, ha dovuto confessare
che siete ammirevole.
--Folco, disse Gioconda ridendo,--hai udito? sei contento della tua
piccola moglie?...
Folco levò il capo a guardare intorno, per vedere la folla degli
ammiratori.
--Se ti fa piacere il.... come ha detto Ariberto?... il favore
mondiale,--rispose poi,--io sono certo contento: ma non avevo bisogno
d'un plebiscito di questo genere per volerti bene....
Ariberto comprese che Folco Filippeschi era piccato, e mutò subito
discorso.
Gioconda intuì a sua volta che Folco rammentava il giuoco di casa
Dobelli, l'arte di risvegliar in lui la gelosia; e si morse le labbra.
Ella sapeva ormai che invece di aizzar la passione e l'amore, come
avviene nel cuore di quasi tutti gli uomini, la gelosia spegneva l'una
e l'altro nel cuore di Folco.
--Mostratemi la duchessa di Rejkiavik,--ella pregò Ariberto.
Questi, felice di trovare facile argomento a discorsi che potevano
distrarre Folco dalla prima inquietudine, indicò a Gioconda la
duchessa e via via i commensali più cospicui, da un re in incognito a
un granduca russo, a un generale inglese, dalle attrici meglio note a
quella Maria Feodòrowna Petrowski che un'ora prima ballava, tutta
d'oro dalla nuca ai tacchi, l'infernal danza moscovita.
La cena si protrasse a lungo, servita da tre camerieri con una gravità
la quale pareva invitare a considerare seriamente ogni portata nella
sua bellezza complicata prima di gustarla.
Era notte tardissima, allorchè Gioconda metteva piede sul predellino
dell'automobile per far ritorno all'albergo. Ariberto aveva preso
congedo; intendeva prolungar di qualche ora la veglia con alcuni amici
che lo avevano invitato alla loro tavola.
Ma appena furono soli nell'automobile e Folco le sedette al fianco,
Gioconda indovinò ch'egli era ostile, di malumore.
--Non ti sei divertito?--ella chiese.
--Poco. La folla che ti guarda m'indispettisce,--rispose Folco.
Gioconda gli prese la destra fra le sue piccole mani, e la tenne, in
silenzio.
Egli si chinò a baciarla. Come per magia, il malumore e l'ostilità
erano sfumati nell'animo di lui al solo contatto di quelle mani.
--Non badarci,--disse, quasi scusandosi.--Ti ho condotta a Parigi
perchè ti diverta, e non pensare a me.
La contessa non rispose; guardava i _boulevards_, oscuri, a quella
tarda ora quasi deserti, alcuni popolati da gente malvestita, che
rasentava le case. La città non dormiva; era cessata la furia dei
veicoli, ma serpeggiava la vita subdola della notte, ma quelle ombre
che passavano erano indizio di convegni finiti o di convegni che
principiavano; molti rettangoli di luce nelle case svelavano ore
d'insonnia o di veglia, in attesa della luce nebbiosa dell'alba.
Gioconda inebriata da quel tuffo di vita mondana, pensava seriamente
se non fosse stato possibile ottenere da Folco di rimaner per sempre a
Parigi; forse, a poco a poco, non senza molta arte, non senza quella
sommissione che vinceva nell'animo di Folco i più ragionevoli
propositi.
Ella aveva dimenticato che i danari di Folco non potevano durare
eternamente; s'illudeva sulla cifra, sul valore, sulle spese; forse ne
aveva altri, Folco, dei quali non aveva parlato.
--Non andremo più all'Abbaye,--ella disse a un tratto.
--Perchè, se ti diverti?--obiettò Folco sorpreso.
La giovine volse il capo per nascondere un sorriso di vittoria.
Ariberto Puppi non comparve nè l'indomani nè i giorni successivi;
mandò alla contessa un gruppo di orchidee e stette assente una
settimana. Gioconda non disse nulla, ma fu inquieta. Quell'uomo
conosceva Parigi come ella conosceva la sua piccola casa trafitta da
misere finestrucole; era una guida sicura.
Sopra tutto piaceva a Gioconda quel vivere di lui accanto sempre,
dentro spesso, alla grande vita internazionale di lusso; quell'udirlo
nominar la contessa Filippeschi insieme alla principessa di Furstein,
al granduca Vladimir, ai nomi più eletti che rappresentavano
l'aristocrazia e la plutocrazia di tutto il mondo, la lusingava.
Finalmente Ariberto venne una sera a prendere «i suoi figliuoli», e
andarono a teatro e cenarono.
--Ebbene,--chiese la contessa a Folco, tornando a casa e gettando la
stola di zibellino sul letto,--non sono ora tutta di qua?
Rideva al pensiero che i primi giorni ella aveva osato spedir
cartoline alla sarta, alla modista, alla moglie del fuochista o del
tramviere. Il suo nome figurava ormai nel _Figaro_ con quello di Folco
tra i commensali più assidui dei ritrovi più eleganti.
--Sei tutta di qua!--ripetè Folco sorridendo.--Ora andiamo bene.
Tornò alla mente di Gioconda l'idea di stabilirsi a Parigi; ogni volta
ch'ella si sentiva sfiorata dall'onda del tramestìo gaio, e poteva
vivere la grande vita notturna, il suo cervello s'annebbiava. Era
notata per la sua bellezza; ma pure accarezzando la sua ambizione
femminile, gli omaggi e gli aggettivi dei giornali su quel tema non le
bastavano. Voleva essere, come ella diceva, «distinta», fine,
veramente signora.
E senza parere, studiava il portamento, l'atteggiamento, gli sguardi,
i gesti delle grandi signore italiane, inglesi, russe, francesi, con
le quali si trovava nelle sale dei teatri, nei luoghi di convegno alla
moda. Non solo, in breve, non tormentava più Folco e Ariberto con una
tempesta di domande attonite, ma sapeva apparir freddissima in
pubblico, quasi indifferente agli spettacoli, come tutta la sua
giovinezza fosse trascorsa nel fasto che non ha più nulla da
desiderare, come ella tornasse da viaggi in cui aveva visto ogni cosa.
Così era «tutta di qua».
Folco se ne stupiva senza parlare; perchè non appena varcata la soglia
della loro camera all'albergo, Gioconda traboccava di gioia,
d'allegria, di spensieratezza; si accoccolava volontieri per terra,
cantava a gola spiegata, sfrenava quasi selvaggiamente la furia delle
domande; era per Folco solo, nella più soave intimità, la ragazza che
camminava trasognata in un paese di incanti e aveva bisogno di
aggrapparsi al braccio di lui per non vacillare.
Il marchese Puppi, il quale voleva bene davvero a Folco Filippeschi, e
non sapeva ancora definire la contessa, oscillando a volta a volta fra
i giudizi più contradditorii, seguitava a osservar la coppia: con
curiosità Gioconda; con qualche timore Folco.
Egli non aveva potuto assodare se non che Folco Filippeschi era
incappato fino al collo; buona cosa, giudicava Ariberto, in amore;
temibilissima nel matrimonio. L'amore è breve: il matrimonio è eterno;
l'amore è un episodio, il matrimonio è la vita; si può per un mese,
per un anno rinunziare alla propria personalità, trascurare i propri
interessi; non si può per la vita intera. Occorre che nel matrimonio
l'uomo sia il padrone, quanto più gli è possibile amorevole e
persuasivo; ma padrone.
Per ciò Ariberto Puppi non s'era ammogliato.
--È una «cuffia»!--egli disse a sè medesimo, per definire l'amore di
Folco verso Gioconda.
Una sera udì che un poco celiando, un poco da senno, la contessa
avanzava l'idea di stabilirsi a Parigi; così abilmente, con tanta
cautela, ch'egli rammentò certi topolini, i quali prima d'arrischiare
una corsa alla luce sporgono il musetto, fiutano l'aria, drizzan le
orecchie, volgono il capo di qua e di là; e non appena il silenzio e
l'odore li rassicurano, via di galoppo, saltellando felici al sole, al
vento.
--Perbacco!--si lasciò sfuggire Ariberto.
--Che cosa significa «perbacco»?--interrogò pronta Gioconda.
Ariberto si strinse nelle spalle ridendo.
--Non significa nulla!--spiegò.--Tocca a Folco dir l'ultima parola.
Folco non disse, e Gioconda non domandò.
Ma se Ariberto non riusciva ancora a capir bene lei, ella non riusciva
affatto a capire Ariberto.
Era un amico? era un nemico? Proteggeva Gioconda o proteggeva Folco? a
quale dei due avrebbe portato aiuto e consiglio in caso di dissenso?
Sotto la squisitezza delle maniere signorili, Ariberto sembrava a
Gioconda impenetrabile. Non appena si trattava d'esprimere un'opinione
che avesse qualche peso, egli si distraeva con una sagacia
diplomatica, la quale era riuscita a irritar più d'una volta Gioconda,
d'una irritazione tuttavia ben dissimulata.
Quel «perbacco» significava «che sciocchezza!» o «che buona idea»? Non
si sapeva. Negli occhi della contessa si accese un lampo d'ira,
ch'ella non potè nascondere se non volgendo il capo subitamente.
L'indomani mattina, mentre Folco leggeva il giornale, aspettando che
Gioconda si abbigliasse per uscire, fu telefonato al conte Filippeschi
che il marchese Puppi lo attendeva nella sala di lettura per dirgli
una parola.
--È Ariberto,--si volse Folco a Gioconda.--Che può volere?
--Ma!--disse Gioconda inquieta.
--Io scendo: tu mi raggiungi.
--Fra poco.
Nella sala di lettura, guardando alcune stampe inglesi, le quali
rappresentavano scene di caccia a cavallo, Ariberto Puppi ruminava
dentro di sè i pensieri che lo avevano deciso a quel colloquio.
Vestiva in abito grigio, teneva sotto il braccio il cappello floscio,
e, dimentico delle sue numerose infermità, aveva posato il bastoncino
d'ebano sulla tavola nel mezzo della sala.
Andò con un sorriso amichevole incontro a Folco.
--Sei vestito per uscire?--chiese, scorgendo nella sinistra di Folco
il cappello e il bastone.
--Sì; Gioconda mi deve raggiungere qui; andiamo al Museo Cernuschi.
--Ah, sta bene!
Sedettero su un divano; quindi Ariberto riprese:
--Io devo partir domattina per Londra; sono passato a salutarti, e mi
riservavo di venire stasera a presentare i miei omaggi alla
contessa....
--Mi spiace molto che tu parta,--rispose Folco.--Dispiacerà molto
anche a Gioconda.... Ma tornerai presto, speriamo?
--Rimarrò a Londra un mese, almeno.
--Oh, allora ci ritroverai qui!--esclamò Folco.
--Davvero?--fece Ariberto.--Ancora un mese a Parigi?
--Che vuoi?--spiegò Folco.--Gioconda ci si diverte. Non hai udito che
iersera parlava di stabilirci?
--Ti pare? Io ho creduto che scherzasse!--ribattè vivamente
Ariberto.--Perchè questa vita....
Si arrestò, quasi ravvedendosi a tempo.
--Ebbene?--interrogò Folco sorridendo.--Questa vita?...
--Mi permetti di parlarti con franchezza: non mi terrai il
broncio?--domandò Ariberto.
--Ma te ne prego; so che tu mi vuoi bene; le tue osservazioni possono
essere giuste o non giuste, ma sono certamente dettate dalla
sollecitudine per me, per noi.
--Non conti,--incalzò Ariberto,--che io ho un'infinità d'anni più
della contessa, più di te? Sono un vecchio.
--Pei vecchi il diritto della parola è sacro!--disse Folco ridendo. E
così?...
--Ti dicevo che questa vita è dannosa alla contessa e a te; alla
contessa perchè non le concede un'ora di quiete; a te, perchè non ti
lascia far nulla.
Io credo che la contessa per la prima ne sia stufa e non osi dirtelo:
oramai ha veduto tutto quanto di strano e di eccezionale la vita di
Parigi può offrire a una signora; avete percorso rapidamente il ciclo;
non potete che ripercorrerlo, due, tre, dieci volte, non so con quanto
gusto....
Fece una pausa, guardò Folco per comprendere quale effetto sortivano
le sue parole; ma il giovine a testa china disegnava con la punta del
bastone imaginarii disegni sul tappeto.
--Per ciò credevo,--soggiunse Ariberto esitante,--che non vi sareste
trattenuti ancora a lungo.
Folco levò il capo e, guardando dritto Ariberto negli occhi,
interrogò:
--Tu mi consigli di andarmene?
--Non ho il diritto di consigliare,--rispose Ariberto prudentemente.
--Ma se ti chiedessi un consiglio?--fece il giovane.
--Allora ti direi che puoi anche rimanere, purchè non dimentichi lo
scopo pel quale sei venuto qui, purchè tu tragga qualche profitto da
questo lungo soggiorno.
--Ma non potrei più tener compagnia a Gioconda,--obiettò Folco.--Il
giorno alla Biblioteca Nazionale; la sera a coordinare le notizie
raccolte, a studiare e a leggere....
--Se non erro,--osservò Ariberto,--la contessa ha detto che sarebbe
lieta di vederti lavorare e che nulla le importerebbe di rinunziare ai
divertimenti quando ciò ti fosse utile.
--Tu credi?
--Perchè dubitarne? Bisognerebbe che io le facessi l'affronto di
supporre che mentiva.
Seguì un breve silenzio, durante il quale Folco riprese a disegnar
ghirigori sul tappeto; poi di nuovo alzò la testa e domandò:
--Lavorare, a che scopo?
--È una domanda molto delicata,--fece Ariberto, esitando di nuovo.
--Ti prego di parlare con franchezza,--disse Folco,---di esporre tutto
il tuo pensiero....
--Lavorare ti sarà sempre giovevole,--riprese Ariberto,--anche se non
ti renderà danaro per ora. Ti sarà giovevole agli occhi della tua
famiglia, della quale, io credo, ambisci la stima....
--Senza dubbio,--esclamò Folco.
--Tu ti sei messo contro i tuoi, a causa del matrimonio,--seguitò
Ariberto.--I tuoi ti vedono a Parigi per più mesi, viver la vita
elegante e dimenticare ogni giorno meglio i tuoi disegni di studio.
Ciò non mi pare prudente da parte tua. Ben altro sarebbe il giudizio
che farebbero di te, se sapessero che il matrimonio non ti ha distolto
dai tuoi progetti, e che il tempo passato a Parigi non è stato tutto
sciupato. Io ho sempre la speranza, perdonami se te lo dico, di
vederti riconciliato coi tuoi e la contessa accolta come ella merita.
Il tuo lavoro sarà un buon argomento in tuo favore, mentre l'ozio può
non nuocere, ma certo non giova.
--Hai ragione,--disse Folco.
--Inoltre, seguitò Ariberto, incoraggiato dall'approvazione
dell'amico,--presto o tardi avrai bisogno di danaro.
--Oh,--interruppe Folco,--non sarà un libro di studi critici o di
profili letterarii che potrà darmi da vivere!
--E allora?--interrogò Ariberto.
--Lavorerò diversamente: farò un mestiere.
--Suvvia!--esclamò Ariberto stupito,--è molto.... è molto....
E non trovava la parola adatta, sufficientemente dolce.
--È molto originale ciò che tu dici,--seguitò poi. Come? Sei in
procinto di guadagnarti da vivere facendo un mestiere, e ti balocchi a
Parigi, tra cene e teatri? Ma se lo sapesse, la contessa per la prima
te lo impedirebbe!... A me la vita di Parigi costa in media duecento
lire al giorno.
--Noi siamo più modesti,--osservò Folco.--Finora spendiamo noi due ciò
che tu spendi da solo; ma certo spendiamo troppo per quello di cui
posso disporre.
--È un'altra ragione per deciderti a partire o per riprendere i tuoi
studi,--ribattè Ariberto.
Folco si alzò e gli stese la mano.
--Ti ringrazio,--disse.--Non dimenticherò la prova d'amicizia che mi
hai dato con le tue leali parole!
Stette un poco in ascolto, poi aggiunse:
--Te ne prego: non parlarne a Gioconda. Credo sia qui....
Si udiva infatti nel corridoio un lieve fruscìo di gonne sulla corsia
azzurra.
Ariberto si piantò innanzi a una delle stampe inglesi, e accennando
col bastoncino d'ebano, osservò ad alta voce:
--No, no, Folco; tu hai torto di credere che siano antiche. Se non
erro, sono imitazioni; belle imitazioni senza dubbio, ma temo siano
state colorate sulla tiratura in nero.... Oh, contessa, buon giorno!
Sono venuto a portarvi il mio saluto....
La contessa ch'era apparsa sulla soglia, gli porse la destra da
baciare; apprese che Ariberto doveva partire per Londra e se ne mostrò
dolente; ma subito parve rasserenata:
--Un mese?--disse.--Soltanto un mese? Allora ci ritroveremo qui,
perchè noi non abbiamo alcuna intenzione di andarcene. Non è vero,
Folco?
Folco acconsentì con un moto del capo, e gettò un'occhiata ad Ariberto
Puppi. Voleva dire:
--Vedi?... Come si fa?...


VII.
La tempesta.

Gioconda rilevò non senza inquietudine che del colloquio abbastanza
lungo con Ariberto Puppi, suo marito non le dava alcun ragguaglio.
Egli disse che avevan parlato d'arte, di stampe, aspettando lei; e
Gioconda ebbe l'impressione che Folco non diceva il vero o non diceva
tutto.
Perchè?
Osservato attentamente Folco, le sembrò pensieroso: che di tanto in
tanto si scuotesse come per non essere sorpreso, ed esagerasse allora
la sua abituale spigliatezza.
Perchè?
Le due domande urgevano. Gioconda sentiva d'essere sul limitare di un
piccolo segreto, il quale le avrebbe dato la chiave anche dell'altro,
della domanda che spesso si rivolgeva: Ariberto era un amico o un
nemico? aveva su Folco un ascendente che giovava a lei o le nuoceva?
Tentò di cogliere Folco alla sprovvista. Chiese:
--Che cosa farà a Londra?
--Non so, rispose Folco.
--Come? non ti ha detto neppur questo?
--Non avevo il diritto d'interrogarlo.
--È vero, ma credevo ch'egli spontaneamente....
--Non mi ha detto nulla, forse perchè è facile comprendere che a
Londra farà quel che faceva qui, cioè niente. Egli passa, del resto,
ogni anno un mese in Inghilterra, ospite di amici....
--E delle stampe, che cosa ti ha detto?--interrogò bruscamente
Gioconda.
La domanda giungeva inaspettata.
Folco, alieno per educazione e per orgoglio dalla menzogna, non aveva
facilità ad inventare; sentì che una vampa gli saliva alla fronte.
--Oh,--fece distratto,--abbiamo parlato così, in generale, a proposito
di quelle stampe inglesi....
La contessa fu certa, da quel momento, che Folco mentiva.
Ariberto aveva parlato di ben altro, di cose tanto gravi e importanti
che Folco non poteva riferirgliele esattamente. E che potevano essere,
se non giudizii su lei stessa? Ella era certa che Ariberto non si
sarebbe fatta lecita un'opinione men che favorevole, e che Folco non
l'avrebbe ascoltata senza chiederne la ragione. Ma infine qualche cosa
ci doveva essere. Il giudizio più ostile può essere abilmente larvato
con la forma più cortese.
Ebbe uno slancio d'ira, quasi d'odio contro Ariberto. Il suo istinto
femminile l'avvertiva ch'egli era un nemico: un temibile nemico perchè
raffinatamente gentile.
Le tornò in niente la frase che la direttrice del collegio di monache
presso il quale era stata educata i primi anni, ripeteva con
frequenza: «È inutile uccidere un nemico; basta seppellirlo sotto i
fiori».
Ariberto Puppi doveva essere della stessa scuola.
Gioconda aveva un carattere impetuoso, ch'ella vigilava con cura
instancabile perchè non traboccasse; ma pur rimanendo giù, chiusi e
frenati, l'impeto, l'ardenza del carattere vivevano sempre.
Al pensiero di poter essere stretta lentamente e implacabilmente
nell'aura di veleno diafano che un abile nemico le seminava intorno,
si sentì soffocare.
Già la docilità perfetta, l'arte di sommessione con cui riusciva a
condurre Folco, le costavano ogni giorno un immane sforzo su sè
stessa; un altro da disarmare con la stessa attenta cautela, con la
stessa obliqua sagacia, l'avrebbe trovata esausta.
Andarono al Museo Cernuschi, ma non videro bene. Erano ormai ambedue
nervosi; un'ombra pesante sembrava esser caduta fra l'uno e l'altra.
Fecero colazione al Pré Catelan, ma parlarono poco; Gioconda
sorrideva, e il suo pensiero era lontano; Folco tentava d'allacciare
una conversazione, e il suo pensiero era lontano.
Mentre rientravano all'albergo il portiere si presentò ad avvertire
che come gli avevano ordinato, aveva fatto notare due poltrone per lo
Châtelet.
--Ah,--disse Folco, quasi sorpreso.--Sta bene. A che ora?
--Alle nove,--rispose il portiere.
Gioconda si domandò invano che cosa pensasse.
Le due camere da letto erano contigue, Gioconda udì che Folco apriva
il baule; poi dal fruscìo capì che ne levava delle carte, e da un
certo giro di chiave, che apriva una busta di pelle in cui eran chiusi
i suoi manoscritti.
Ella conosceva bene quella busta. L'aveva tenuta in casa, da
fanciulla, presso la macchina da scrivere, e ogni sera Folco vi
aggiungeva una pagina di note o di traduzione. La busta sapeva la
povera vita oscura d'altri tempi. Gioconda vi aveva, più di una notte
insonne, posato il capo a piangere, l'aveva serrata al petto con
furore, quasi la busta avesse contenuto, inesplicabile e misterioso,
l'avvenire di lei.
Gioconda andò sulla soglia a guardare, stese le braccia nel vano,
appoggiando le mani all'uno e all'altro stipite. Era un suo gesto
abituale; avanzava il capo a sorridere e a chiamare Folco.
Ma non sorrideva quel giorno. Scorse Folco, il quale, volgendo le
spalle, s'era messo a tavolino e rileggeva o annotava con una matita.
--Lavori? chiese la contessa.
Folco trasalì, come destato di soprassalto.
--Sì.--rispose, girando la testa a guardarla.--Lavoro un poco.
Gioconda avanzò di qualche passo.
--Lavorerai anche stasera?--seguitò.
--Se fosse possibile....
--Allora bisogna avvertire che le poltrone allo Châtelet sono
libere,--disse Gioconda.
Folco si alzò, avvicinandosi a sua moglie. Aveva sentito nelle sue
parole un malcontento, una freddezza, che gli riuscivano dolorosamente
nuove.
--Ti dispiace?--interrogò.
--Non mi dispiace affatto,--rispose la contessa allontanandosi.
Aveva veduto sul tavolino la busta, le carte coi segni ch'ella odiava;
tutta la sua vita brancolante di fanciulla povera dalla biancheria di
cotone era balzata fuori come per magìa da quel baule, a rammentarle
la cecità della fortuna.
--Ti dispiace?--ripetè Folco, seguendola.
--No,--disse ancora Gioconda, con la stessa freddezza.
E prese posto in una poltrona, guardando qua e là, fuor che in faccia
al giovane.
Poi travolta all'improvviso dall'indole veemente che si svelava contro
la sua stessa volontà, esclamò di scatto:
--Questo, ti ha detto Ariberto? che devi lavorare? che non dobbiamo
andar più a teatro?... Perchè non mi hai riferito le sue parole? Egli
deve aver detto qualche cosa anche contro di me....
Folco la interruppe con un gesto.
--Mi stupisco,--ribattè,--che tu possa anche semplicemente supporlo.
Ariberto non ha avuto per te se non parole d'ammirazione e d'amicizia.
E tu puoi credere che io avrei permesso una frase non deferente, non
gentile?
--E sia!--riprese la contessa.--È stato deferente, gentile, amico,
ammirativo, tutto quello che vuoi. Ma perchè hai taciuto tutto ciò che
ti ha detto? Perchè mi hai inventato le bugie più puerili? Credevo tu
avessi compreso che fremo, da stamane. Non per le opinioni, non per i
consigli di Ariberto, dei quali posso anche non tener conto; ma perchè
ho capito che non ho più la tua confidenza e che tu tenti
d'ingannarmi. Ariberto ti sprona a lavorare. Fa benissimo. E perchè tu
racconti invece che avete parlato di stampe e di arte? Ha dunque
espresso qualche giudizio che io non devo sapere? Una volta quando ero
la tua amica e la tua fidanzata, tu mi raccontavi perfino i tuoi
progetti letterari, senza nemmeno assicurarti che fossi capace di
comprenderli; oggi che sono tua moglie, tu mi metti in disparte, e i
colloquii col più intimo dei tuoi amici diventano misteriosi per
me?... È un consiglio di Ariberto, anche questo?
Folco guardava Gioconda, attonito.
Era irriconoscibile.
Aggomitolata nella poltrona, pareva non vivesse se non nel viso
fattosi pallidissimo, quasi bianco; anche le labbra le si erano
scolorite per l'ira, e gli occhi nel pallore mandavano una fiamma
straordinaria. Aveva perduto la grazia di fanciulla ignara, che
sembrava essere rimasta non tocca in lei; l'espressione della sfida,
d'un orgoglio vendicativo, malvagio, le pervadeva tutto il volto.
Sarebbe stato difficile dire s'era più bella nelle ore di calma gioia
o in quell'ora d'impeto furioso; certo la donna appariva d'un tratto,
dritta sul busto, alta col capo, in tutta la sua forza felina.
--Gioconda, t'inganni!--interruppe Folco.
--No, non m'inganno. Sento che Ariberto Puppi non mi è stato mai
amico. Forse anch'egli, come i tuoi, mi crede indegna perchè vengo da
povera piccola gente e mi sono conservata pura tra le privazioni.
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