La volpe di Sparta - 3

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che il giovane pensava di sposare quella.... come si chiama?...
Dobelli Gioconda, scrivana o cucitrice, e gli aveva spedito incontro
il marchese Corradino Àutari suo cognato.
A dirgli: che il padre non lo avrebbe per nulla diminuito ne' suoi
diritti materiali; sdegnava di costringerlo con mezzi volgari, e pure
sospendendogli ogni assegno, lo assicurava che non avrebbe ritoccato
il testamento, il quale faceva al giovane larghissima parte nei beni
mobili ed immobili di famiglia. Ma Folco riflettesse: sposando quella
ragazza, non avrebbe mai più riveduto nè padre, nè madre, nè sorella;
questi, dal giorno in cui egli avesse dato nome e titolo di contessa
Filippeschi alla predetta Dobelli Gioconda, lo avrebbero pianto per
morto.
La maniera generosa e insieme spietata con cui lo trattavano, colpì il
giovane assai più che se i suoi si fossero mostrati piccini; lo
chiudevano in una rete dalla quale non poteva districarsi, perchè
nessuno, poste così le parti del dramma, avrebbe osato dar torto alla
famiglia e ragione a lui. Grazie alla bontà liberale del padre, egli
sarebbe stato un giorno per tutti il conte Folco Filippeschi, ricco e
splendido; soltanto pei suoi, nel concetto segreto, nel giudizio
inappellabile del cuore, era o matto o morto. Che rispondere?... Folco
rispose ch'egli non poteva diversamente; che la sua era la parola dei
Filippeschi, ed egli aveva dato parola.
Il cognato, Corradino Àutari, uom grosso di figura, ma sottile di
tatto, aveva compiuto la sua ambasceria senza aggiungere e senza
togliere, guardando in alto, intorno, come ripetesse una canzone
imparata a memoria. Per suo conto pensava che c'era della esagerazione
di qua e di là; che con un ragionevole ritardo da parte di Folco e con
un bel gruzzolo alla famiglia di quei Dobelli, tutto si sarebbe
accomodato. Ma erano idee sue; vedeva il padre e il figlio
irremovibili; la testardaggine era il difetto di casa Filippeschi. E
se ne andò pacifico com'era venuto.
Di tutto questo, Folco mise a ragguaglio la nuova contessa.
Ella lo ascoltava quasi con devozione, sempre, parlasse egli di casi
della vita, o di arte, o di studi, o scherzasse. Pianse per lui, lo
accarezzò, disse che amare era una grande sventura, che a lei si
negava il conforto dell'affetto largito pure alle bestie.
Folco non poteva vedere il caro volto inondato di lagrime, i magnifici
occhi velati, la soave bocca rattratta dal singhiozzo.
Aveva pensato più volte che sarebbe stato prudente non andare a
Parigi, poichè l'assegno di casa gli veniva a mancare, e una trentina
di migliaia di lire delle quali poteva ancora disporre sarebbero
presto sfumate; Gioconda alla quale aveva confidato il savio proposito
dopo il colloquio con Corradino Àutari, s'era mostrata subito
contenta; rinunziava a Parigi ben volentieri, se la rinunzia poteva
assicurare un po' di pace al suo Folco.
Ma questi, vedutala poi afflitta più giorni per le acerbe
dichiarazioni dei Filippeschi, non aveva saputo tener fermo. Gli
pareva di dovere egli darle qualche gioia, almeno una piccola
soddisfazione di vanità femminile. Il matrimonio non poteva per lei
esser tutto nell'accogliere le carezze del marito e nel cambiar di
casa.
Non deve Folco, d'altra parte, continuare i suoi studi e compiere le
ricerche alla Biblioteca Nazionale?
Per ciò insiste, prega, ottiene che la contessa muti ella pure
d'avviso.
È così stabilito. Ella si dà subito a preparare il corredo pel
viaggio; e canta, gaia, con gli occhi ardenti di piacere come il
giorno in cui Folco le ha messo nel dito l'anello di rubino.
Un pomeriggio, tornando dalla passeggiata, Folco trova in anticamera
parecchie grandi scatole sulla cassapanca, e seduti due ragazzi che le
hanno portate. La cameriera gli spiega che la signora contessa ha
mandato a chiedere del pellicciaio.
--Bene, bene!--disse Folco.
Oltrepassata la soglia del salottino, vede Gioconda, la quale prova
innanzi allo specchio una giacca di martora. Sono, tutt'intorno, sulle
poltrone, sulla tavola, a terra, molte altre pelliccie irsute,
aggomitolate a guisa di belve, che mescolano forme e colori, bigio,
nero, bianco, rosso di fuoco, argento, su cui la seta delle fodere
mette riflessi di metallo.
Gioconda va speditamente incontro a Folco.
--Sto cercando--annuncia con un sorriso--qualche cosa che mi si
adatti: una giacca o una stola. Che preferisci?
--Allora giungo a proposito?--Interroga Folco, allegro.
--Mandato dal cielo, amore mio, per consigliarmi....
Ma il conte ammutolisce d'un subito.
Da un angolo del salotto, dov'era curvo a disporre la roba già vista,
si leva e si avanza con parecchi goffi inchini, il pellicciaio. È
Carlo Albèri, il giovanotto impomatato, quel Carlo Albèri che ha
negozio presso la casa dei Dobelli, voltato il canto, a sinistra;
quella specie di pupazzo dal volto roseo e dal sorriso meccanico, che
voleva sposare Gioconda.
Folco scruta lui, scruta Gioconda, interrogativo e accigliato: ma
l'uno e l'altra, quasi non capissero nè imaginassero lo sdegno
silenzioso del conte, appaiono imperturbabili. Carlo Albèri seguita a
sciorinare stole, posandole cautamente sugli òmeri della contessa o
aiutandola a infilar le maniche delle giacche.
--Ebbene,--riprende la signora,--che ti sembra?... Mi va?... Ti
piaccio?
Girando sui tacchi, si mette a fianco del marito perchè la veda bene,
e gli sorride intanto con gli occhi socchiusi: ha un gesto, coi capi
della stola fra le mani, pieno di civetteria.
--No,--risponde secco il conte.
E, tentato dalla voglia di farsi capire, benchè il cuore gli dica che
la tentazione non è degna di lui, si fa lecito di soggiungere a Carlo
Albèri:
--No; cotesta non va! La tenga per la sua futura sposa....
--La mia futura?--esclama il pellicciaio col volto atteggiato a
stupore per la frase malaccorta.--Non ci arrivo più, signor conte....
E con un sospiro che ha del rammarico, finisce:
--Sono ammogliato da quattro anni....
Gioconda dà in una limpida risata; getta d'un colpo la stola, ne
prende un'altra dalle mani di Carlo Albèri, il quale attende quieto e
grave alla bisogna.
Folco è stupefatto; così la contessa come il pellicciaio sono sinceri,
lontani dal sospettare quel che gli passa pel capo; ella ride, egli è
tutto in pena tra l'ammucchiar la roba guardata e il metterne innanzi
della nuova. La scena è tanto semplice, che il conte si domina,
sorride a Gioconda, le consiglia di buon grado l'acquisto di una stola
e d'un manicotto di zibellino per tremila lire all'incirca.
Ma quando Carlo Albèri, chiamati i ragazzi a riporre il tesoro, prende
congedo con inchini più rilevati, camminando fin sul limitare a
ritroso, Folco gli ripete:
--Davvero, Lei è ammogliato da quattro anni?...
--Il signor conte non può dubitarne,--conferma il pellicciaio un po'
scosso da tanta insistenza.--Tutto il quartiere dove abito lo sa:
quattro anni, cinque fra pochi mesi....
--Non me dubito,--conclude persuaso il conte.--Domandavo, perchè Lei
mi pare molto giovane....
Carlo Albèri se ne va, orgoglioso dell'inaspettato complimento; e non
appena l'uscio gli si è chiuso alle spalle, Gioconda cinge delle
braccia il collo del marito.
--Sei stato molto gentile, a farmi così bel regalo!
Ma come presa da un'idea repentina, si stacca da Folco, e ride ancora.
--Quel povero Albèri!--esclama.--Perchè domandargli se è ammogliato? È
rimasto a bocca aperta, e avrà creduto che tu voglia rapirgli la sua
perla!
--La conosci?---interroga Folco.
--Oh sì! La signora Albèri ha i capelli di stoppa rossi ed è tonda da
tutti i lati.... Non credo ti convenga!
Folco notando il tono leggero e schietto con cui parla la contessa,
l'attira a sè nuovamente e la bacia sulla bocca.
È sincera.
E per lungo tempo il conte non osa più fare allusione a
quell'episodio: gli brucia dentro, gli torna crudele alla memoria, lo
irrita, lo umilia.
Chi lo ha giuocato mediante la commedia del probabile fidanzamento
della fanciulla col pellicciaio? La signora Delfina o il signor Piero?
o l'una a istigazione dell'altro? Presolo in trappola, abusando della
sua facile impressionabilità giovanile, lo han condotto lemme lemme a
sposar la loro figliuola; del che è ben lieto, nonostante i dissapori
colla famiglia e le gravi conseguenze economiche.
Ma perchè dubitar delle sue intenzioni leali, trattarlo da gonzo e
costringerlo? Così i bassi mercanti di minuterie e di similoro si
destreggiano sulle fiere con l'uomo di campagna; gli danno a credere
che se non compera subito, al prezzo domandato, verrà un altro, pronto
a dare di più; e il campagnuolo truffato ride melenso al pensiero che
ha per poca moneta ciò che gli altri cercano invano per molta.
Folco Filippeschi tacque: sentiva un ritegno delicato anche verso la
moglie, la quale apprendendo le miserabili giunterie ond'ella gli era
stata profferta e quasi gettata tra le braccia, ne avrebbe arrossito
per sè e per i suoi.
E Folco non avrebbe forse parlato mai più di quel molesto episodio.
L'amore voluttuoso e tenero di Gioconda lo ripagava d'ogni malinconia.
Ma a Parigi ella è come ebbra di gioia, di fracasso, di luce, di
vanità, d'impazienza, di stupore: gli spettacoli si susseguono; non
v'è tempo a gustarli tutti. Quella vita, così lontana dalla sua vita
di fanciulla piccola borghese, ch'ella non poteva figurarsela se non
con un sorriso di desiderio rassegnato, ora le sta intorno, la tocca,
la trascina, la fa sua.
La strada pulsante, coperta di folla, annegata in un fragore
interminabile che sale, irrompe nelle case, con le voci rauche
imperiose delle automobili o il rimbombo sordo di grossi orrendi
veicoli, sembra eccitarla quasi fosse diffusa nell'aria un'essenza di
febbre che le penetra per tutti i pori. La contessa non vorrebbe
riposare per non perdere un'ora; anche dall'albergo guarda di tratto
in tratto le luci fantastiche che trapelano di là dalle cortine alle
finestre; giù è l'onda fitta, nera della folla, corteo senza fine; ai
lati e in alto bruciano tutti i colori, dalla sommità delle case ai
piedi delle botteghe; nel mezzo quattro file rapide di carrozze e di
automobili. Passerà ella pure tra quella tempesta di fracasso, per
quella via ampia su cui ondeggia un fumo, una nebbia? forse più
lontano, laggiù, dove la luce si diffonde come una striscia bianca
all'orizzonte?...
Folco prende parte alla felicità della giovane; è felice egli pure
della ingenua gratitudine ch'ella gli dimostra.
Gioconda spedisce ogni giorno un diluvio di cartoline e di vedute alle
sue amiche: viene da gente oscura, vive tra la luce; desidera che
quella gente sappia di qual luce viva e qual'è la sua gioia.
Folco osserva, lasciando che si sbizzarrisca. Gli pare un poco strano
ch'ella si senta ancor legata al mondo da cui l'ha tolta e che ne
voglia eccitar l'incanto o l'invidia: non ha saputo ancor formarsi
l'animo del presente, obliando i giorni di dubbio, di attesa, di
miseria. La contessa Gioconda Filippeschi manda cartoline a un capo
fabbrica, alla moglie di un tramviere, alla figliuola di un bollatore
di lettere. Folco osserva e non dice nulla.
Ma la contessa ha la preferenza per la madre: le scrive quasi
quotidianamente, narrando le sue giornate; è ancora sotto il dominio
di quella scaltra donna che ha fatto la fortuna della figliuola grazie
al raggiro e la perfetta grazia della menzogna. Folco non può
dimenticarlo.
Una sera vede la contessa a tavolino, con la penna nella destra, come
di solito.
--Scrivo alla mamma,--ella spiega.--L'avverto che andiamo a Versailles
domani, perchè le sue lettere non abbiano a perdersi.
--Sarebbe una vera disgrazia!--ribatte Folco ironico.--E poichè le
scrivi, dovresti dire a tua madre che non c'era alcun bisogno di
mentire per costringermi a sposarti. Ti avrei sposata lo stesso.
Gioconda, già stupita del tono insolito con cui parla suo marito,
abbandona la penna, e chiede:
--Che significa?
--Era inutile,--spiega Folco,--la storiella di Carlo Albèri: che se
non ti avessi sposata io, ti avrebbe sposata lui.
La giovane si leva di scatto.
--Questo, ti hanno raccontato? Chi ti ha raccontato questo?
--Tua madre; per poco io non prendeva a schiaffi quell'innocente
pellicciaio disgraziato....
--Che vergogna!--esclama Gioconda.--Perchè mentire così?
--Lo domando anch'io: perchè mentire così?--ripete Folco ridendo.--Si
credeva forse che io ti avrei sposata per gelosia di quel pover'uomo?
Come si è potuto pensare di costringermi con uno stratagemma
ridicolo?... Io ti sposava perchè ti volevo, perchè ti amavo davvero.
Gioconda, volte le spalle alla tavola, piange a capo chino.
Folco, pure sentendone dolore, vuole dir tutto il suo pensiero e non
tornar daccapo un'altra volta.
--La cosa in sè,--aggiunge prendendo posto in una poltrona e attirando
sulle ginocchia la giovane, la quale reclina il capo sulla spalla di
lui e lo ascolta,--la cosa in sè non ha nulla di grave; ma rivela che
i tuoi non rifuggono dall'inganno, e ciò mi dispiace. Io vorrei che tu
non fossi un po' di qua e un po' di là; un poco mia e un poco di tua
madre; un po' di ieri, un poco di oggi.... Mi comprendi?
--Vorresti che io fossi tutta di qua, tutta di oggi, tutta tua,
insomma?--traduce Gioconda con un sorriso attraverso alle lagrime.
--Ecco!
--Hai ragione, ti domando scusa!--dice la giovane alzandosi.--Guarda:
non scrivo più a quegli amici.
Straccia prestamente un mucchio di cartoline già pronte con
l'indirizzo.
--Alla mamma scriverò più di rado,--promette, mandando la lettera a
raggiungere le cartoline.
Si volta, sta pensosa a fissare suo marito, il volto del quale è ormai
sereno.
--Del resto, sai?--dice, avvicinandosi quasi impacciata,--tutta tua
sono stata sempre, anche quando ero un poco di là, un poco di ieri.
Sono stata sempre tutta tua.
E sorridendogli quasi timidamente, si acquatta docile ai piedi di
Folco.


V.
Memorie di ieri.

Dalla fiumana di gente che batte il lastrico del _boulevard des
Italiens_ da mattina a notte, sbucò una sera il marchese Ariberto
Puppi incontro a Folco e Gioconda; i quali passeggiavano pel piacere
della giovane che voleva sentire la folla.
La contessa lo notò subito. Camminava malcerto, quasi zoppicando, e
aveva una figura secca ed elegante a un tempo che, vista una volta,
non isfuggiva più all'occhio.
Gioconda lo rammentava bene, del resto.
Sul finire del pranzo di nozze, Ariberto Puppi le si era messo vicino,
abbandonando la sua dama Giustina Baguzzi, parente di Gioconda, e
aveva detto a questa mille graziose parole, facendola sorridere
spesso, ridere qualche volta.
Era stato il solo, fra gli amici di Folco, che in quella baraonda di
gente avesse tenuto il contegno adatto. Egli poteva prendersi
lievemente beffe di Giustina Baguzzi o di qualunque altra signora
caduta in quella riunione come una mosca nel latte; ma Gioconda
Dobelli, fatta quel giorno contessa Gioconda Filippeschi, non era, non
poteva, non doveva essere che la contessa Filippeschi, moglie di un
gentiluomo suo amico: nessuno aveva diritto a chiedere perchè, nè a
rammentar la mancanza di cinque secoli di nobiltà alla sua famiglia.
Il contegno di lui aveva tale espressione. Ariberto s'era occupato di
Gioconda, pur dicendole parole futili e leggere, come s'occupava delle
grandi dame di sua conoscenza. S'era messo francamente tra lei e il
piccolo mondo di sua origine, dando con abile naturalezza una lezione
di forma ai parenti e alle amiche di Gioconda e, insieme, agli amici
suoi, venuti al convegno per divertirsi.
Questi avevano capito; intorno a Gioconda s'era formato un circolo di
gentiluomini, la cui discreta, attenta galanteria aveva richiamata la
giovane alla realtà felice dell'avvenimento e al suo giusto
significato.
Ariberto Puppi era di dodici anni circa maggiore di Folco; di
diciassette, esattamente, più vecchio di Gioconda.
Ella voleva considerarlo vecchio, senz'altro; aveva calcolato che
poteva esserle quasi padre, un papà mandatole dal caso fortunato. Ma
s'era dovuta subito ricredere.
La vita di Ariberto Puppi narratale per sommi capi da Folco in una di
quelle ore di confidenza in cui è più caro il letto nuziale, non le
parve candida quale a un vecchio si conveniva.
Egli correva troppo il mondo; lo si rilevava, del resto, dal suo
stesso linguaggio: aveva veduto l'Europa intera, non una, ma dieci
volte; contava amicizie maschili e femminili non soltanto a Bucarest
come a Pietroburgo, ma nelle alte classi sociali, come tra la gente di
teatro, nel mondo degli scrittori, della diplomazia, degli artisti
celebri, come tra gli specialisti da caffè-concerto. Sapeva la storia
d'infinita gente: aveva pranzato alla tavola d'Edoardo VII e cenato
con Rosa Belcolore; parlava di politica, sempre tenendo l'occhio al
retroscena, che valeva per lui il retroscena della Boite à Fursy; non
si sapeva di prim'acchito quando nominava Jack o Dmitriew se intendeva
parlare d'un ministro plenipotenziario o d'un ammaestratore di foche.
Dei diplomatici e dei Re, delle ballerine e degli uomini politici,
delle imprese di teatro e dei governi faceva tutta una cosa. Disegnava
figure e profili, raccontava abitudini visti dal vero. Non c'erano
giornali meglio informati di lui; ossia egli diceva quel che i
giornali non potevano dire.
No, non era il papà.
Gioconda lo constatò con grazia, scuotendo il capo, dopo che Folco le
aveva detto di lui ciò che credeva opportuno di dirle per suo avviso.
--È un vero peccato!--osservò la giovane.--Noi avevamo bisogno di un
papà: il tuo non ci vuole, il mio non sa; siamo giovani e la vita è
difficile: possiamo aver bisogno d'un consiglio....
--Un consiglio si può sempre chiedere a un amico,--rispose Folco
sorridendo.--Io credo che Ariberto sia sincero quando dice che mi vuol
bene.
--Allora sarà il tuo papà,--concluse la contessa.--Egli sarà il tuo
papà.
E la notizia fu comunicata, prima di partire per Parigi, ad Ariberto
Puppi, il quale alzò le braccia al cielo con gesto di desolazione:
--Ma quali consigli posso io dare a vostro marito?--esclamò.--Egli
veste benissimo e sa leggere un orario: io non vado più oltre.
Figuratevi, forse lo sapete, che traduceva François Villon, e io
ignorava anche l'esistenza di quel poeta. Non me ne importa nulla, ma
ciò può darvi idea della mia coltura!
Ariberto Puppi aveva la debolezza di mostrarsi in tutto assai peggio
di quel che non fosse: ignorante, pigro, volubile, nullo. Stanco un
giorno della rinomanza di bell'uomo, s'era tirato addosso una grandine
di mali finti, si era foggiato una maschera, s'era messo a camminare
come una navicella in burrasca, appoggiandosi, quando non se ne
dimenticava, a un bastoncino d'ebano.
Gioconda aveva appreso con infinito stupore che tutti quei mali e
quegli inconvenienti di cui Ariberto Puppi si doleva, non esistevano
affatto; egli voleva figurare come un uomo finito: altri hanno la
vanità di figurare sempre gagliardi.
La contessa ne aveva riso.
--È dunque vivo?--domandava a Folco.
--Vivo, vivo!--assicurava Folco.--Non ha mai avuto un giorno
d'emicrania.
--Se hai molti amici come Ariberto, puoi aprire un manicomio....
--Esemplare unico!--definì Folco.
--Credo che finirà per essermi odioso!--riflettè la giovane.
Ma quando lo vide quella sera sbucar d'un tratto dalla fiumana di
gente che batteva il lastrico del _boulevard_, ella sorrise
amichevolmente.
--Dove andate?--chiese Ariberto, quasi si fossero lasciati un'ora
prima.
--Io vado a dare un'occhiata ai balli russi. Prendiamo un taxi; sapete
che non posso camminare.
--Puppi!--gridò Gioconda, piantandosi sul marciapiede.--Non
cominciamo! Se volete essere il papà di Folco, non dovete più parlare
dei vostri malanni da burla.
--Io non parlerò più dei malanni,--consenti Ariberto,--ma devo
confessarvi che non ho mai pensato a essere il papà di Folco.... Che
cosa me ne farei? perchè volete darmi questa afflizione morale in
cambio delle afflizioni fisiche?
--Vi teniamo in serbo,--disse Gioconda,--pel giorno in cui avremo
bisogno di consiglio.
--Ma che? per darvi un consiglio, occorre sollevare cento chili a
braccio teso? sospendere in aria coi denti l'omnibus del Giardino
delle Piante?--domandò Ariberto spaventato.
La contessa rise dagli occhi e fece spallucce.
Non poteva serbare il broncio a un così buffo amico; quella sera si
divertì molto; i suoi sguardi quasi trepidi erano per Folco; di tanto
in tanto gli cercava la mano, perchè non si allontanasse pur col
pensiero; non pareva contenta s'egli non rispondeva col sorriso al
sorriso di lei. Ma rideva assai volentieri alla parola e alle
osservazioni di Ariberto; discuteva animatamente con lui sulle donne
che vedeva intorno e sul loro modo di vestire e di comportarsi.
Verso la fine dello spettacolo, Ariberto era stanco.
Abituato a vivere con gente che viveva la sua stessa vita e non aveva
nè domande da rivolgergli nè scoperte da fare, il marchese Puppi si
stupiva della garrulità di Gioconda, del suo chiedere incessante, del
suo facile maravigliarsi, di quella curiosità tutta femminile che vede
due, tre cose alla volta e trova due, tre domande da metter fuori.
Egli rispondeva con minore attenzione: guardava a quando a quando una
ballerina sul palcoscenico, dorata dalla nuca ai tacchi, la quale
danzava con infernale rapidità una danza russa; e a quando a quando
Folco Filippeschi al suo fianco; il quale appariva sereno,
soddisfatto, l'animo riposato che gli traluceva dagli occhi senza
ombre.
--Che bestia!--pensava Ariberto crudamente.--Se avesse sposato la
ballerina laggiù, non avrebbe avuto più noie e più disagi che sposando
questa ingenuissima e onestissima figliuola; col vantaggio che la
ballerina non si stupirebbe di nulla, e questa invece passa la vita a
stupirsi di tutto.... È una donna da fare, o meglio da rifare. Ci
vorrà una bella costanza, povero Folco!...
In quel momento, Gioconda, come usava, toccò la mano di Folco e gli
sorrise: Folco le sorrise. Nel cervello di Ariberto passò il dubbio,
senza ragione, senza gradazione, che la giovane non fosse sincera.
Dove aveva egli letto un profilo di donna, che sembrava far tutto
quanto voleva il suo innamorato e faceva invece tutto quanto voleva
lei?
--Maria Feodòrowna Petrowski,--disse Gioconda ad alta voce, guardando
nel programma.
--La ballerina,--aggiunse distratto Ariberto.
Ma dove aveva letto quel profilo? andava chiedendosi.
Leggeva tanto poco, per abitudine, che non doveva essergli difficile
rammentare una pagina. E la scovò infatti nella memoria. Aveva
comperato le liriche del Villon e le aveva guardate qua e là,
sbadigliando, tanto per sapere di che e di chi voleva occuparsi Folco
Filippeschi; subito gli eran caduti gli occhi sulla pagina in cui il
poeta parla con rancore della sua amante, l'ingannatrice docile.
Mentre i due, Folco e Gioconda, guardavan la scena, tornò a fissarli.
Era facile comprendere che il conte Filippeschi non vedeva nella
contessa la donna, la moglie, la compagna, l'amica; vedeva la
perfezione. Non aveva detto venti parole nella serata e lasciava
parlar lei; la scrutava per sapere se godeva; era orgoglioso di
leggere su quel volto piccolo e bruno l'espressione del piacere, stava
attento ad ogni suo gesto, quasi per interpretarlo. La beveva, o si
lasciava bere.
--E Villon?--chiese a un tratto Ariberto.
Folco sussultò come avesse udito lo sbatacchiar fragoroso d'un uscio
alle sue spalle.
--Non dovevi lavorare intorno a Villon?--seguitò Ariberto.--Mi avevi
detto, se non erro, che avresti cercato alla Biblioteca Nazionale ciò
che ti occorre?
--C'è tempo,--rispose Folco.--Ora Gioconda deve divertirsi.
--Tocca alla contessa richiamarti al lavoro.---osservò Ariberto,
sorridendo per attenuare nelle parole il senso di rimprovero.
La contessa volse il capo lentamente.
--Io?--disse con indifferenza Ma subito si corresse:
--Io sarei felice di veder lavorare il mio Folco. Non m'importerebbe
nulla di rimanere sola all'albergo se sapessi che Folco è alla
Biblioteca o non ha tempo d'accompagnarmi a teatro.
--Un giorno o l'altro,--promise Folco piuttosto a sè medesimo che ad
Ariberto,--mi ci metterò.
--Quanto rimarrete a Parigi?--domandò Ariberto.
--Chi sa?--disse Folco.--Fin che fa piacere a Gioconda.
--Eh allora!--esclamò Ariberto ridendo.
Ma Gioconda gli lanciò un'occhiata insolitamente fredda.
Quei discorsi la rattristavano. Gli studi letterari di Folco le
portavano il ricordo del salottino male illuminato da una lampada
miserabile, le facevano risuonare all'orecchio il ticchettìo della
macchina da scrivere, le spiegavano innanzi tutto il quadro dei giorni
di timore. Aveva tanto sofferto per la speranza di innamorare il conte
Folco Filippeschi, per lo spavento di vederlo sfuggire!...
François Villon non aveva oramai sulla sua anima se non il potere di
risvegliar quegli echi dolorosi. La sera che aveva trascritto il
Rondeau era stata seguita per lei da una tormentosa notte di dubbi,
una delle tante notti in cui sognava a occhi aperti. Folco l'amava?
L'amava davvero o si trattava d'un semplice capriccio? Era molto
giovane: poteva allontanarsi, dimenticarla, incontrar più facili
prede. Ed ella si comportava secondo prudenza, o doveva essere più
ardita? continuare nel suo riserbo o svelare abilmente a Folco con un
tremito, con un gesto, con una parola impensata, ch'era innamorata di
lui?... L'alba si levava che la fanciulla non aveva ancor trovato
riposo.
Poi di giorno le toccava ascoltar le discussioni tra sua madre e suo
padre. Erano giunte da Perugia le informazioni su Folco Filippeschi,
di cui il signor Piero aveva dato incarico a un amico. Eccellenti;
magnifiche; insuperabili; un matrimonio di prim'ordine!... Folco
sarebbe stato ricchissimo; apparteneva a una nobiltà la cui origine si
perdeva nella notte dei secoli. Carattere mite; giovinezza pura; non
si conoscevano di lui nè trascorsi, nè vizii, nè debolezze, nè
amoretti; dedito interamente a' suoi studi; avido di gloria,
ambizioso.
La mamma osservava, però, che i giorni passavano e che l'ambizioso non
si decideva. Avrebbe voluto un poco più di civetteria da parte di
Gioconda, di quella civetteria innocente, ignara, che è efficacissima;
il suo riserbo la faceva parer fredda, non lasciava nemmeno capire se
aveva o non aveva una simpatia per Folco, e Folco doveva trovare in sè
il coraggio per due, se voleva fare un passo risoluto.
Il signor Piero opinava invece che il contegno di Gioconda non doveva
mutare in nulla. Si fa presto a commettere un'imprudenza che poi si
rammenta e si rinfaccia a distanza di anni. Occorreva che Folco
Filippeschi si avanzasse lui, da solo; non avesse a pensare che
Gioconda era in cerca d'un marito.
La fanciulla ascoltava umiliata quelle diatribe, accarezzando Dick
aggomitolato sul suo grembo.
Finalmente un raggio di sole squarciava le cupe nubi di quei giorni;
Folco le aveva offerto l'anello di rubino col motto. Tale una gioia
rabbiosa s'era scatenata nell'animo della fanciulla, che, rimasta
sola, aveva addentato l'anello, come si addenta una preda da troppo
tempo covata con gli occhi. Tuttavia era stata ancora in dubbio, fino
al giorno delle nozze, fino al ritorno dal Municipio e dalla chiesa:
allora soltanto aveva sentito la tensione aspra dei nervi allentarsi;
s'era abbandonata piangendo fra le braccia di Folco.
E non era finita. A Parigi, egli le svelava il raggiro stupido tramato
da suo padre e da sua madre in silenzio: la storiella del probabile
fidanzamento con Carlo Albèri, ammogliato da ben cinque anni! Ne aveva
provato un subito rancore contro quei due: perchè non avvertirla, non
consigliarsi prima con lei?... O che mai era ella, perchè si
tentassero tutte le maniere di sbarazzarsene?... Poteva bene, bella,
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