La vita militare: bozzetti - 21

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non ristando dal correre di qua e di là per incoraggiare i soldati,
si volgeva tratto tratto alla gente che lo seguiva.--Su via, andate
ad aiutare que' poveri giovani che è tanto tempo che faticano per
voi; andate a chiamare la gente ch'è fuggita in campagna; facciamo
tutti qualche cosa; rimettiamo un po' d'ordine nel paese; il sindaco
tornerà; torneranno anche i signori e vi soccorreranno; torneranno
i fornai, verranno dei medici; presto arriveranno soccorsi da
Caltanissetta; coraggio, via, lavoriamo tutti; a tutte le sventure c'è
rimedio, rimedieremo anche a questa. Siamo venuti qui pel vostro bene,
persuadetevene, buona gente; che cosa avete a temere dai soldati? Non
siamo forse tutti dello stesso paese, non siamo noi i vostri fratelli,
i vostri difensori?--A queste parole segui un mormorìo di approvazione
nella folla; qualcuno se ne staccò e corse in aiuto dei soldati; altri
andarono verso la campagna; molti si sparsero per le strade; i restanti
si fecero attorno all'ufficiale con lamenti e supplicazioni:--Siamo
senza pane.... abbiamo fame....--Lo so, buona gente, lo so; ancora un
po' di pazienza, e il pane arriverà; farò tutto quel che posso per voi;
manderò i miei soldati a pigliarvi da mangiare a Sutèra; vi daremo
tutto quello che abbiamo. Ma intanto bisogna lavorare, bisogna portar
via i morti, curare i malati, aiutarsi fra tutti.--Allora la gente
ringraziava, poi ricominciava a pregare, a lamentarsi, a chieder pane.
Ad un tratto, arrivò correndo un soldato e parlò nell'orecchio al
Cangiano. Un'assai dura prova di carità e di fortezza restava a
farsi! Il Cangiano avvisò saggiamente che si dovesse far ogni cosa di
nascosto alla popolazione, ordinò ai presenti d'andar ad aspettare
i soccorsi sulla strada che mena a Caltanissetta, chiamò quindici
soldati co' fucili, fece venire innanzi venti contadini colle zappe,
e s'avviò con essi verso un'estremità del villaggio. Ivi era una
piccola chiesa abbandonata. Si fermarono dinanzi alla porta, la
tentarono; era chiusa. L'atterrarono e fecero tutti insieme un passo
addietro levando un grido di ribrezzo. In mezzo a quella chiesa, poco
più ampia d'una sala ordinaria, c'era un mucchio di venti cadaveri
imputriditi.--Avanti!--gridò l'ufficiale. I soldati si gettaron
dentro alla chiesa; i contadini dettero indietro.--Avanti!--gridò
un'altra volta il Cangiano. Non si mossero. Ei fece un passo avanti,
essi si diedero alla fuga, i soldati si slanciarono loro alle spalle,
e li ebbero in un momento raggiunti e afferrati.--Trascinatemi qui
codesti poltroni!--gridava di sulla porta della chiesa il Cangiano.
I soldati li ricondussero a gran stento traendoli per le braccia,
cacciandoli innanzi a spintoni, minacciandoli colle armi. Ma al momento
di entrare, quelli presero a resistere con maggior forza, puntando
i piedi come cavalli restii, dibattendosi e urlando disperatamente,
quasi li volessero trarre al supplizio.--Fuori le baionette!--gridò
sdegnosamente l'ufficiale afferrandone uno per la vita e buttandolo
in mezzo alla chiesa; i soldati snudaron le baionette e le alzarono
in atto di ferire.--Avanti, poltroni, o ve le cacceremo nelle
reni!--Voi volete farci morire! i contadini gridavano.--Moriremo
tutti!--rispondevano fieramente i soldati; ma bisogna entrare!--E
con un estremo sforzo li spinsero dentro tutti e venti. Qui cominciò
un orribile lavoro. I cadaveri si trovavano in uno stato di completo
sfacimento, eran tutti un flosciume senza forma da non potersi nemmeno
sollevare da terra. Bisognò rompere le panche della chiesa, ficcare due
assicelle sotto ogni morto, e afferrandole per le estremità, alzare
così il fetido peso, colle braccia tese e la faccia rivolta da un lato,
chè l'aspetto di que' corpi era tale da non potervi fermare lo sguardo.
Ad ogni crollo ch'e' ricevessero, colava dalle orecchie e dalle
bocche e si spandeva per quei visi un verde marciume, e le nere carni
delle braccia e delle gambe spenzolanti pareva si volessero staccare
dall'ossa e dissolversi. Il Cangiano mandò quattro soldati a raccoglier
legname nelle poche case abbandonate ch'eran là presso. Questi, non
trovandovi altro, presero tavole, seggiole, imposte, tutto quanto si
potesse bruciare, e ammonticchiarono ogni cosa nel mezzo d'un campo
poco lungi dalla chiesa. I cadaveri furono uno ad uno portati fuori e
rovesciati su quel mucchio. Vi si appiccò il fuoco ed ogni cosa bruciò.
In Campofranco non restava più un cadavere. Tra sepolti e bruciati se
n'eran levati di mezzo più di sessanta.--
Viste guizzare le prime fiamme, il Cangiano tornò nel centro del paese,
ove riprese e proseguì infaticabilmente la santa opera di prima, finchè
giunse da Caltanissetta un capitano della piazza con buona provvigione
di alimenti, di medicine e di danaro, e con questi ripercorse, casa per
casa, tutto Campofranco, beneficando i poveri, soccorrendo gl'infermi,
rassicurando i paurosi, rimettendo in tutti gli animi un po' di
speranza e di pace. In breve tempo rientrarono tutti i fuggiaschi, il
municipio si riordinò, ognuno riprese gli uffici e gli usi consueti, il
paese mutò aspetto, e il Cangiano e i suoi soldati ritornarono a Sutèra
accompagnati dalla benedizione di tutti. Anche a Sutèra infuriava
il morbo, e anche là il Cangiano fece veri miracoli di carità e di
coraggio. L'undici d'agosto la Giunta municipale della città lo acclamò
unanimemente benemerito del paese, e gli espresse la gratitudine della
cittadinanza con una lettera piena di entusiasmo e di affetto. Possano
queste povere pagine far sì che nel cuor di molti, come nel mio, suoni
caro e riverito il suo nome.
Ricordiamo qualche altro fatto e qualche altro nome.
Il sottotenente Livio Vivaldi comandava un distaccamento del 54º
reggimento a Palazzo Adriano. Vi si sparse il colèra. Fuggì il sindaco,
fuggirono i medici, i farmacisti, i preti; non restarono che i poveri.
Il Vivaldi tenne luogo di tutti e provvide a tutto. Di giorno visitava
gl'infermi, sollecitava le sepolture, faceva ripulire e disinfettare
il paese; di notte dava la caccia ai malandrini che scorazzavano per
le campagne. Fra l'altre volte, la sera del dieci luglio, mentre stava
distribuendo del pane in una casa di poveri, gli si annunziò che a poca
distanza dal paese s'era radunata una banda di malfattori. Corse alla
caserma, prese con sè dieci soldati, uscì alla campagna, sorprese la
banda, l'attaccò, fu ferito, continuò a combattere, la volse in fuga,
n'uccise il capo, arrestò gli altri, tornò in paese e la mattina dopo
ricominciò il suo ufficio di medico e di limosiniere.
A Gangi, nella provincia di Termini, scoppiò il colèra verso la metà
di giugno. Mezza la popolazione fuggì. Quei che rimasero occultarono
i morti e si chiusero nelle case per paura d'esser avvelenati. Nella
notte dal ventisei al ventisette i più arditi si armarono e si diedero
a percorrere il paese tirando fucilate alla cieca nelle finestre,
nelle porte, e contro quanti incontravano. Accorsero i bersaglieri da
Petralia Sottana, diedero la caccia per tutta la notte ai tumultuanti
che si disperdevano e si riannodavano incessantemente, finchè, quetato
il tumulto, entrarono a forza nelle case, vi trovarono tredici cadaveri
insepolti, e li seppellirono di propria mano, minacciati e insidiati
nella vita dalla moltitudine irata.
Era scoppiato il colèra a Menfi. Il popolo difettava di medici, di
medicine, di danaro, di pane. Ventiquattro cadaveri giacevano insepolti
da quarantott'ore. Era imminente una ribellione. Ne fu avvertito per
dispaccio telegrafico il generale Medici. Il distaccamento di Sciacca
ricevette immantinente l'ordine di recarsi a Menfi. Ventiquattr'ore
dopo il generale riceveva questo dispaccio:--Giunto il distaccamento.
Sepolti i morti. Ordine ristabilito. Medicine e viveri distribuiti.
Provvisto all'amministrazione comunale.--
A Grammichele, essendo seguìte due morti di colèra, il popolo sospettò
di avvelenamenti, s'armò, assalì i carabinieri, uno ne uccise, uno ne
ferì mortalmente, gli altri costrinse a rinchiudersi nella caserma,
e ve li tenne assediati tutta una notte tentando ad ogni momento
di rovesciare le porte e di precipitarsi ad ucciderli. Accorsero
da Caltagirone quaranta soldati del 9º reggimento di fanteria,
comandati dal sottotenente Goi. Al loro primo apparire le bande armate
si dispersero; ma, accortesi del picciol numero dei soldati, si
riadunarono, mossero loro contro, gl'insultarono, gli minacciarono,
gridando che volevano frugare negli zaini e impossessarsi dei veleni
che v'eran dentro. La turba era in numero dieci volte maggiore dei
soldati; stava per seguire una strage; fu chiesto nuovo soccorso a
Caltagirone; giunsero in gran fretta nuovi soldati e tutti insieme,
dopo lunga fatica, riuscirono a raccogliere quindici guardie nazionali
con cui s'aggirarono tutta la notte pel paese e per la campagna, ogni
momento minacciati o assaliti. Finalmente riuscirono a ristabilire
la quiete.--I sediziosi avevano attaccato a una casa del paese un
proclama che cominciava così: «Coraggio! Su via, coraggio, compagni!
Non desistete dai vostri proponimenti, non siate vigliacchi; ma vindici
dell'onor patriotta; temete forse un pugno di soldati? Sbaragliateli e
fugateli; a terra le vili e obbrobriose trame governative; spezzate i
micidiali vasi del veleno che i vostri superiori, esecutori infami di
necronomici decreti reali, gentilmente apprestano al vostro labbro.»
Testuali parole.
A Longobucco, provincia di Rossano, morì di colèra verso la fine di
luglio un tal Giuseppe Citini. La plebe lo credette morto di veleno;
irruppe armata mano nella casa del sindaco; invase la casa del Citini
eia saccheggiò; mise a ruba la casa del farmacista Felicetti e
distrusse la farmacia; suonò le campane a stormo; corse furentemente
le strade per l'intera notte gridando che volea mettere a morte tutti
i proprietari e tutti gli officiali pubblici. La mattina tentò di
penetrare nella caserma dei bersaglieri, e cercò di nuovo del sindaco
per ucciderlo. E l'avrebbe ucciso se non accorrevano in tempo il
maresciallo dei carabinieri, il furiere Allisio e il sergente Cenderini
dei bersaglieri, i quali si cacciarono coraggiosamente in mezzo alla
folla e riuscirono a distorta dall'iniquo proposito, e ad impedire
l'incendio di varie case e l'uccisione di molti cittadini. E mantennero
un po' di calma nel paese sino alla mattina del giorno dopo, quando
arrivò una compagnia del 45º battaglione di bersaglieri, comandata
dal capitano Ippolito Viola, e disperse la folla che ricominciava a
tumultuare. Ma i più furibondi si rinchiusero precipitosamente nelle
case e fucilarono dalle finestre i bersaglieri, due de' quali caddero
feriti e per poco non fu morto il maresciallo. Allora i bersaglieri,
inaspriti da quella resistenza ostinata, abbatterono le porte delle
case, vi si gettaron dentro, sorpresero i ribelli colle armi alla
mano.... e risparmiaron loro la vita. E così finì la sedizione di
Longobucco, nella quale è da notarsi che le maggiori scelleratezze
furon commesse dalle donne.
In Ardore, comune di Geraci, v'erano sei carabinieri e ventiquattro
soldati del 68º reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente
Gazzone. La mattina del 4 settembre il popolo si armò e si affollò
fuor del paese al grido di «morte agli avvelenatori!». Quando si parve
in numero bastante, irruppe nel paese. Il Gazzone, fidando nella
simpatia che il popolo gli avea dimostrato in più d'un'occasione,
mosse benignamente incontro alla moltitudine e tentò di quetarla con
buone parole; gli fu risposto con due palle nel petto che lo stesero
a terra cadavere. Non dirò quel che del suo cadavere si fece per non
aggiungere orrori ad orrori. I soldati assaliti alla spicciolata,
impotenti a resistere, ebbero appena il tempo di riparare nella caserma
dei carabinieri, nella quale fin dalla mattina s'eran rifugiate tre
famiglie di nome Lo Schiavo, a cui la popolazione, tenendole ree di
veneficio, aveva incendiate le case. Una immensa folla si accalcò
dinanzi alla caserma e chiese con grida spaventevoli che le fossero
dati nelle mani gli avvelenatori. Il capo di quelle famiglie, il
vecchio Lo Schiavo, ebbe il coraggio di affacciarsi a una finestra e
di là, colle mani giunte, lacrimando e singhiozzando da straziare il
cuore, supplicò la turba di risparmiare almeno il sangue delle donne
e dei fanciulli. Gli fu risposto che sarebbero stati tutti sbranati.
Il povero padre, preso da un impeto di disperazione, trasse un colpo
di pistola nella strada. Fu il segnale dell'assalto. La moltitudine,
mettendo un lungo urlo di selvaggio furore, si precipitò colle scuri
sulle porte e cominciò a lanciare una grandine di palle e di sassi
contro le finestre. I soldati, dal di dentro, si difesero a fucilate.
La lotta durò più d'un'ora. Finalmente, visti riuscir vani i suoi
sforzi, il popolo appiccò il fuoco alla caserma. Orribile scena! Già
le fiamme avviluppavano tutta la casa e, screpolati i muri, guizzavano
qua e là nell'interno delle stanze, e l'aria s'infocava e le travi del
tetto crepitavano; di fuori sibili e grida feroci di gioia; di dentro
strida disperate di donne e di fanciulli; sette soldati e Lo Schiavo
stesi a terra nel sangue.... In quegli estremi, il caporale Albani
decise di tentar quell'unica via di salvezza che rimaneva; riunì in
uno stretto gruppo le tre famiglie; ordinò ai suoi pochi soldati di
pigliare in spalla i feriti, e primo lui e gli altri subito dietro,
aperta in furia una porta e abbassate le baionette, si precipitarono
a capo basso nella folla. Questa, sopraffatta da quell'incredibile
audacia, cedette il passo; ma appena furon passati, esplose i fucili
e colpì a morte parecchi della famiglia sventurata; gli altri si
salvarono, parte nelle case, parte nella campagna; i soldati non furono
raggiunti. Due giorni dopo arrivavano in Ardore tre compagnie di
fanteria da Gerace, da Monteleone e da Reggio, e vi ristabilivano la
quiete. Il capitano Onesti, del corpo di stato maggiore, che resse per
qualche tempo l'amministrazione comunale, il maggiore Gastaldini che
comandava le forze militari di Ardore e delle vicinanze, e il Broglia,
medico di battaglione, si condussero in tal modo che per verità io non
so con che parole e' si potrebbero degnamente lodare. Non parlo dei
soldati, che là come da per tutto si adoperarono in pro del paese con
uno zelo infaticabile e una pietà religiosa.
Bastino questi fatti, che non mi son prefisso di scrivere una storia.
Non importa ch'io dica come siansi condotti i comandanti dei corpi e
delle divisioni per tutto il tempo che il colèra durò, però che le
popolazioni, i municipi e la stampa ne han fatto in molte occasioni la
più larga testimonianza e la più splendida lode. Ma fra que' tanti nomi
cari all'esercito e al paese ve n'ha uno che non può essere taciuto,
per quanto agevolmente ogni lettore lo sottintenda, e forse già fin
d'ora con un moto spontaneo del cuore abbia indovinato tutto quello che
voglio dire di lui: è il general Medici.
Quello che egli fece da principio per impedire la diffusione del colèra
e per preservarne almeno le truppe, si è detto. È facile l'immaginare
che cosa egli abbia fatto dappoi. Giorno e notte in faccende o in
pensiero; ogni momento un annunzio di nuove sventure, una notizia
di nuovi tumulti, e lì subito consulte, ordini, provvedimenti, e
partenze improvvise, e un mandare e un ricevere continuo di dispacci
e di lettere da tutte le parti. Si recava ora in un paese ed ora in
un altro ad assicurarsi che le autorità militari adempissero i loro
uffici e visitava le caserme, le prigioni, gli ospedali, le case
di convalescenza. Notevole, fra l'altre, la visita a Messina, dove
perdette un chiarissimo ufficiale del suo seguito, il bravo e buon
capitano Tito Tabacchi; e quell'altra, nei giorni che più imperversava
il colèra, a Terrasini, dove entrò nelle case dei poveri a porger
soccorsi e conforti, e fece improvvisare ospedali, e radunò infermieri,
e tanta fiducia ispirò negli animi coll'opera e colla parola e colla
ferma serenità dell'aspetto, che lasciò il paese mutato. Operoso,
provvido e caritatevole sempre; ma negli ospedali, al capezzale
degl'infermi, d'un cuore divino. Nei due ospedali militari di Palermo,
Sesta Casa e Sant'Agata, ei vi si recava ogni settimana e li visitava
diligentemente in ogni parte, interrogando tutti, esaminando tutto,
consigliando e incoraggiando medici, infermieri e malati colla
sollecitudine d'un padre. Memorabile la visita del quindici agosto
nel più forte infuriar del colèra. Andò all'ospedale con parecchi
ufficiali del suo stato maggiore. Vi era aspettato dai medici radunati
sulla soglia del primo camerone. Al suo apparire, gl'infermieri si
disposero in ordine lungo le due file dei letti; alcuni de' malati, la
maggior parte gravissimi, volsero la testa verso la porta. Il generale
s'avvicinò al primo letto; tutti gli altri in semicircolo dietro a lui;
al suo fianco il medico direttore. Il malato era grave; aveva il viso
cadaverico, gli occhi infossati e iniettati di sangue, le labbra nere,
e il respiro affannoso e interrotto da profondi singulti. Non era bene
in sè. All'avvicinarsi di tutta quella gente alzò gli occhi in volto al
generale e ve li tenne fissi e immobili senza espressione. Il dottore
gli si avvicinò e gli domandò, indicandogli il Medici:--Conosci questo
signore?
Il soldato guardò il dottore senza fare alcun segno.
--Lo conosci?--questi ripetè.
Allora parve capir la domanda. Il dottore disse forte:
--È il generale Medici.
--Medici.... Medici...,--mormorò confusamente il malato; lo guardò,
mosse le labbra come per sorridere o per dire una parola, chinò un
po' la testa come per accennare di sì, poi l'assalse un violento
singhiozzo, i suoi occhi ritornarono immobili e insensati, e non diede
più altro segno d'intendimento. Il generale guardò ansiosamente il
dottore.--Non ancora--questi rispose. E andarono oltre.
In uno dei letti vicini c'era un caporale che morì il giorno dopo.
Era in sè; ma profondamente scoraggiato. Avea la pelle del viso tutta
raggrinzita, sparsa di macchie livide e luccicante d'un sudore viscoso.
Visto il generale, si mise a guardarlo ora socchiudendo ora dilatando
gli occhi e mettendo un lamento affannoso.
--Come ti senti?--il generale gli disse. Quegli scosse lievemente la
testa e voltò gli occhi in su in atto sconsolato.
--Coraggio, figliuolo; non bisogna perdersi d'animo; bisogna pensare a
guarire.--
Il malato, facendo molto sforzo, mormorò:--A me non mi rincresce... di
morire.
--Morire! che dici mai! Tu non devi disperare, caro mio; tu guarirai;
il medico mi ha detto che guarirai; non è vero, dottore, che guarirà?--
Il soldato diede uno sguardo sfuggevole al dottore, e fece un atto del
capo come per dire di no, poi guardò fiso il Medici e disse con voce
spenta:--Grazie, generale.--
Questi chinò la testa, stette pensando un istante e poi passò a un
altro letto.
V'era un soldato in via di guarigione, che non voleva pigliare una
certa medicina.
--Perchè non la vuoi pigliare?--gli domandò il generale.
--.... Fa male,--questi rispose timidamente.
--No che non fa male, mio caro; vuoi vedere che la piglio io?--E presa
un'ampolla che gli diede il dottore, ne bevve un sorso, e la porse al
soldato che stava guardandolo in aria di maraviglia.--Animo, bevi.--
Il soldato bevve, fece un brutto viso, e poi rise.
A un altro che dovea passare all'ospedale dei convalescenti, il
generale domandò:--Cosa ti senti adesso?--
--Cosa mi sento?--il soldato rispose;--ah! signor generale, una gran
fame.--
Man mano che andava innanzi pei cameroni, i malati che lo potevano
si alzavano a sedere, o si sollevavano un poco sul gomito, tendendo
l'orecchio e allungando il collo per sentire quel ch'ei diceva e per
vederlo in viso.
L'ultimo visitato era agli estremi. Aveva la faccia stravolta da non si
riconoscere più, con quell'impronta di vecchiaia, con quell'espressione
d'un grande spavento, che è tutta propria de' colerosi, e che vista
una volta si ricorda per sempre. Delirava borbottando parole confuse;
moveva incessantemente le braccia e stropicciava le dita come se
cercasse alcun che sulle coltri, o alzava le mani come per afferrare
qualcosa che gli svolazzasse dinanzi agli occhi. Era un giovane
sergente che in que' tristi giorni del colèra avea fatto ogni più
bella prova di coraggio, di costanza, di carità.--Non gli restano che
poche ore di vita--disse sottovoce il dottore. Il generale lo guardò
lungamente col viso addolorato e pensoso. Certo egli pensava che
quel bravo giovane moriva lontano dai suoi, senza conforti e senza
pianto; pensava alla sua famiglia, ai tanti altri morti come lui,
alle tante altre famiglie, come la sua, rimaste prive di uno de' capi
più cari.... Tutt'ad un tratto, si riscosse, diede un sospiro e si
allontanò dicendo:--Egli ha spesa nobilmente la vita.--Tutti gli altri
lo seguirono silenziosi.
* * * * *
L'ultima provincia in cui si sviluppò largamente il colèra sullo
scorcio del sessantasette fu quella di Reggio di Calabria. In Sicilia
era già cessato. Nei primi giorni del settembre, le piogge lunghe e
frequenti avendo prodotto un notevole abbassamento di temperatura, il
colèra avea cominciato a decrescere sensibilmente nelle provincie di
Palermo e di Messina, e rapidamente in quelle di Trapani, di Girgenti,
di Siracusa, di Catania e di Caltanissetta. Rincrudì un'altra volta in
queste due città verso la metà di settembre; ma per pochissimi giorni.
Dopo i quali la salute pubblica andò continuamente migliorando in
tutte le parti dell'isola; così nel mese d'ottobre l'esercito non ebbe
più a deplorare che una ventina di morti, e nel novembre sette, e nel
dicembre nessuno, o uno o due tutto al più. Fin dal primo decrescere
dell'epidemia, le città, villaggi e le campagne mutarono aspetto.
Quetato quel primo terrore che nell'animo di molta parte dei cittadini
aveva spento ogni senso di amor di patria e di carità, i fuggitivi,
di cui il maggior numero eran gente ricca od agiata, cominciarono a
ritornare nei loro paesi e a spargere tra le popolazioni indigenti quei
soccorsi di danaro, d'opera e di consiglio, che avean negati dapprima.
E le popolazioni ripresero animo subitamente, e, come destandosi da un
letargo profondo e travagliato, ritornarono a poco a poco agli uffici
consueti della vita, già smessi affatto o esercitati a intervalli, con
una grave fiacchezza e una specie di stordimento pauroso sotto quella
continua imminenza e davanti a quel continuo spettacolo della morte.
Tornò la frequenza nelle vie e nelle piazze, le botteghe e le officine
si riapersero, e ricominciò a fervere il commercio e si ridestò il
lieto rumor del lavoro dove prima era la solitudine e il silenzio o
sonava il lamento dei morenti o degli accattoni. Le amministrazioni
pubbliche si rifecero a poco a poco degli officiali morti, o fuggiti,
od espulsi; si ricomposero, si riordinarono, e sovvenute da que'
cittadini che le aveano abbandonate dapprima, cominciarono a dedicare
ai bisogni del paese un'operosità regolare, illuminata e tranquilla.
I malandrini, che resi audaci dalla confusione e dallo spavento
generale e dalla scarsità della truppa intesa in gran parte a più
gravi doveri, avean fatto d'ogni erba fascio nelle città e nelle
campagne, prevedendo ora che col cessare del colèra le forze militari
si sarebbero volte tutte e con più risoluto vigore contro di loro,
si frenarono di spontaneo proposito, e le condizioni della sicurezza
pubblica risentirono un miglioramento improvviso. E i soldati riebbero
finalmente un po' di respiro, e la notte poterono dormire un po' di
sonno continuo e tranquillo, e il giorno mangiare con un po' di pace il
loro pan nero, bagnato di sì lunghi e santi sudori.
Come il convalescente, quando ritorna agli usi della vita consueta,
si diletta d'ogni cosa, si rallegra d'ogni persona, e intende con una
sollecitudine e una gaiezza infantile a quelle stesse faccende che per
l'addietro aveva in uggia o trasandava, così i soldati, all'uscire
da quella vita di travaglio e di lutto, ripresero le occupazioni del
servizio ordinario, anche quelle che parean prima più tediose, come
una novità gradita, come un divertimento; risentiron tutti quasi una
freschezza nuova di affetti e di speranze, un'allegrezza viva, un
prepotente bisogno di aprirsi il cuore l'un altro, di espandersi,
d'amarsi. Nelle caserme echeggiarono di nuovo i canti, le grida, quello
strepito pieno di vita che da tanto tempo vi era cessato; tutto mutò,
tutto rivisse.
* * * * *
Ma per formarsi una giusta idea del come doveva esser l'animo
dei soldati in quei giorni, bisognava entrare negli ospedali dei
convalescenti, dove il riposo e il silenzio lasciavan libero corso ai
pensieri e alle memorie.
Entriamoci un istante, e là daremo l'ultimo saluto ai nostri buoni e
bravi soldati.
Verso la fine del settembre di quell'anno, un soldato del 9º
reggimento di fanteria mi scrisse una lettera da Catania, pregandomi
di dire in un giornale militare quel che avean fatto per lui e pe'
suoi compagni gli ufficiali del suo reggimento. Era stato malato di
colèra, n'era quasi affatto guarito, e mi scriveva da un convento dove
il suo colonnello aveva impiantato un ospedale pei convalescenti,
ed egli vi si trovava da più d'un mese, «...E ci troviamo qui--dice
la lettera--dopo tanti rischi e tante disgrazie, ancora vivi per
miracolo.»--Poi una lunga descrizione del convento, posto sopra una
piccola collina e tutto cinto di bei giardini dove i convalescenti
potevano andare a diporto; con un cortile spazioso e sparso di grandi
alberi fronzuti, all'ombra dei quali essi solevano passare una gran
parte della giornata discorrendo, o leggendo, o giocando a dama coi
sassi. Mi diceva poi che ognuno di loro aveva per sè una celletta a
terreno colla finestra sul giardino, e che nella sua l'ellera s'era
arrampicata attorno all'inferriata e tra sbarra e sbarra v'entravan
dentro i rami d'un albero. «Abbiamo il nostro bel letto--scriveva--il
nostro tavolino, le nostre due seggiole, e abbiamo posto affetto a
queste stanzuccie come se fossero casa nostra, e nella mia tengo tutto
in ordine, tutto pulito, con gran scrupolo, proprio come una donna
che non abbia il capo ad altro che alla famiglia e alla casa.» Poi mi
parlava del mangiare che era squisito, e si spandeva in elogi e in
ringraziamenti ai direttori dell'ospedale. «Bisogna dirlo, si mangia
bene. Si figuri: carne mattina e sera, e un buon brodo e un buon
vinetto. Siamo contentoni. In caso che lei voglia stampare qualche
cosa di quel che le ho scritto mi faccia un piacere, stampi anche i
nomi di quelli a cui dobbiamo tutte queste cure. Sono il luogotenente
colonnello Croce e il capitano Mirto, i due direttori dell'ospedale.
E anche il dottor Longhi, che per i soldati ha fatto tutto quello
che un uomo poteva fare, e noi gli vogliamo un bene dell'anima.»
Poi descriveva i crocchi dei convalescenti seduti all'ombra degli
alberi nel cortile, pallidi, smunti, cogli occhi infossati, che
discorrevano dei casi avvenuti, dei pericoli corsi, dei mali patiti,
e si confortavano nel pensiero delle famiglie lontane, a cui presto
o tardi sarebbero pur ritornati «e con che cuore--soggiungeva--se lo
immagini lei, dopo tanto tempo, dopo tante vicende, dopo una malattia
di questa sorta!» In quella lettera, scritta così semplicemente e
con tanta ingenuità, io sentii in certo modo trasfusa quella pace,
quella calma stanca e soave che doveva regnare in quel silenzioso
recinto; la prima volta ch'io la lessi mi parve di vedere quei
poveri volti scarni e di sentire quelle voci fievoli e lente.--A una
cert'ora venivano al convento gli ufficiali a visitare i soldati
delle loro compagnie. Era una festa. Si vedevano quei buoni giovani
levarsi in piedi stentatamente, portare la cerea mano al berretto, e
rispondendo all'interrogare premuroso dei loro ufficiali, significare
l'interna gratitudine con un sorriso in cui l'affetto e il rispetto si
temperavano e si avvaloravano a vicenda nel più caro e più gentile dei
modi...--La lettera del mio soldato terminava a questo punto, ed io
termino con lui, termino con l'immagine viva dinanzi agli occhi di quel
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