La vita militare: bozzetti - 06

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sentivamo tutto ad un tratto giù nella strada, presso alla porta d'una
osteria, un gridìo confuso di voci irate e minacciose, e un risuonare
di bestemmie, di pugni e di bastonate, e un pianger di donne e di
bambini, e affacciatici alla finestra e vedute luccicar delle daghe,
capivamo che s'era impegnata una rissa fra soldati e operai, non
abbiamo noi sempre fatto voto che questi ne buscassero di molte, e
quelli ne uscissero immuni? E se accadeva il contrario, oh che stizza,
che rodimento! Quanto ad autorità poi, i fanciulli non ne suppongono
alcuna al di sopra del colonnello o del generale comandante il presidio
della città. È ben naturale. Una volta, non mi ricordo in occasione
di che festa cittadina, mentre passavano per la via l'intendente e
un luogotenente-colonnello dei bersaglieri con un lungo codazzo di
impiegati e di ufficiali d'ogni grado, mio fratello che conosceva il
mio debole e voleva pungermi sul vivo:--Guarda--mi disse indicandomi
l'intendente--quell'uomo là vestito di nero comanda assai più
dell'altro che ha tutto quell'oro addosso.--Chè!--io risposi scotendo
sgarbatamente una spalla,--non è vero, è impossibile.--
E questo vivissimo affetto dei fanciulli è ricambiato dai soldati
con un affetto meno entusiastico, ma non meno profondo. Coscritti,
appena arrivati al corpo, o puranco vecchi soldati, appena giunti
in una città sconosciuta, dove li cercano, dove li trovano i loro
primi amici, i loro primi conforti, i loro primi diletti? In quello
sciame di monellucci che scorrazzano intorno ai tamburini quando il
reggimento va in piazza d'armi. Da loro i primi sorrisi, le prime
strette di mano; con loro i primi convegni, i primi colloqui confidenti
e geniali, le prime passeggiate solitarie in campagna, i primi sfoghi
di rancore contro i superiori prepotenti, e i primi lamenti sulle
durezze della disciplina, e da loro le prime parole di conforto e le
prime consolazioni. Si fanno scrivere e leggere le lettere di casa da
loro, e raccontare tutte le particolarità più insignificanti della
vita di famiglia, e le ascoltano con gran piacere, e tal volta con
una certa tenerezza melanconica, perchè, lontani, come e' sono, dai
proprii parenti, quei discorsi ravvivano nel loro cuore un cotal
sentimento, direi quasi, di casa, un sentimento delicato, soave,
quale non si prova sempre nelle rumorose camerate della caserma. Per
mezzo di quei fanciulli, essi a poco a poco stringono amicizia col
portinaio, e per mezzo di questi riescono in breve tempo ad allargar
la rete delle relazioni amichevoli, così che, a un bisogno, sanno a
cui ricorrere, e, in ogni caso, con chi scambiare due chiacchiere alla
buona, tanto più se fra le loro amiche vi sia qualche buona donna che
abbia un figliuolo soldato. Quindi, nel loro cuore, alla simpatia e
all'affetto pei fanciulli s'aggiunge la gratitudine; e per mezzo loro,
anche i loro piccoli amici stringon nuove amicizie; a poco a poco in
quella tal compagnia, in quel tal battaglione non v'ha più per essi
una faccia ignota o indifferente, e il loro affetto, cessato il primo
bollore dell'entusiasmo, mette radici profonde e tenaci. E quando il
reggimento se ne va.... io l'ho provato; quando il reggimento se ne
va, allora cerchiamo la mamma, ce le andiamo a mettere accanto e stiamo
lì con un viso serio serio per farci fare una domanda, che provocherà
uno sfogo al nostro dolore.--Che cos'hai, bambino?--Non si risponde; si
stringon le labbra.--Che cos'hai? parla, bambino; diglielo che cos'hai
a tua madre.--Non si risponde; vien giù una lagrima.--Oh in nome del
cielo, non mi tenere in ansietà! Che cosa ti è accaduto? che cosa è
stato?--Allora si scoppia in pianto e ci si getta nelle sue braccia e
le si dice la cosa com'è, e la madre, commossa, ci passa la mano sulla
fronte esclamando:--Oh povero ragazzo! Datti pace, ne verranno degli
altri;--e allora noi sentiamo il nostro dolore tramutarsi a poco a poco
in un sentimento di mestizia calma e rassegnata.
O madri, lasciateli venir con noi i vostri ragazzi; noi li ameremo come
fratelli, come figliuoli; usciti di mezzo a noi essi ritorneranno al
vostro seno più amorosi e più forti, perchè fra i soldati s'impara ad
amare, e di un affetto che fortifica precocemente la tempra dell'animo
e del cuore.
In prova di ciò racconterò un fatto che seguì qualche anno fa in un
reggimento del nostro esercito, e che mi fu narrato da un amico il
quale v'ebbe molta parte; cercherò di richiamarmi alla memoria le sue
stesse parole. Sentite dunque; ma, intendiamoci, è il mio amico che
parla, non son'io.

II.
Una delle ultime sere di luglio del 1866, la nostra divisione, partita
nel pomeriggio da Battaglia, grosso borgo situato alle falde orientali
dei colli Euganei, entrava per porta Santa Croce nella città di
Padova, che doveva attraversare per proseguire il suo cammino verso
Venezia. Quantunque vari altri corpi dell'esercito fossero già passati
per quella città e le vie da noi traversate fossero le più remote dal
centro e d'ordinario le meno frequenti di gente, pure l'accoglienza
che ci fece il popolo fu oltre ogni fede stupenda. Io però non me ne
ricordo che come d'un sogno; ne serbo una memoria confusa come s'ha dei
primi colloqui coll'innamorata, da giovinetti, quando tremano le gambe
e si diventa bianchi nel viso come un cencio uscito di bucato e intorno
intorno ci si fa buio. Già, nell'avvicinarmi a Padova, la prima grande
città del Veneto che incontravamo sul cammino, il cuore mi batteva
forte e i pensieri mi si cominciavano un po' a confondere. Quando poi
entrammo, e una moltitudine immensa, prorompendo in altissime grida, si
precipitò fra le nostre file e le ruppe e ci avvolse e ci sparpagliò in
men di un istante da tutte le parti, per modo che non rimase traccia
dell'ordine di colonna in cui eravamo disposti, allora la mia vista
si annebbiò e, più della vista, la mente. Ricordo d'essermi sentito
stringere molte volte al collo e alla vita da due braccia convulse, e
palpar le spalle e le braccia da due mani tremanti; d'essermi sentito
baciar nel viso da molte bocche ardenti, con quella stessa furia che
porrebbe una madre nel baciare il suo figliuolo al primo rivederlo
dopo una lunga assenza; d'aver sentito il contatto di molte guancie
umide di pianto; d'essermi fermato più d'una volta per liberare
la mia sciabola dalle manine d'un fanciullo che me la scoteva con
violenza perch'io mi volgessi ed avvertissi anche il suo umile evviva;
d'aver camminato per un pezzo con una mezza serqua di mazzettini di
fiori negli occhielli della tunica che parevo uno sposo di campagna;
infine di essermi sentito sonare intorno un continuo ed altissimo
evviva.... Ma che! Non erano evviva, erano grida inarticolate, rotte
dai singhiozzi, soffocate dagli amplessi; erano gemiti come di petti
oppressi e spossati dalla foga della gioia; voci di un tal accento
che il mio orecchio non aveva inteso mai prima d'allora, ma che molte
volte m'eran sonate nella mente, immaginando meco stesso l'espressione
d'una gioia superiore alle forze umane. La folla si rimescolava con una
rapidità vertiginosa, e ondeggiando ondeggiando portava i soldati di
qua, di là, sempre però avanzando nella direzione che aveva presa la
colonna in sull'entrare; e al di sopra delle teste della moltitudine
si vedeva un grande agitarsi di braccia, di fucili e di bandiere,
e quelli e queste raggrupparsi ed urtarsi con impeto e dividersi e
sparpagliarsi subitamente a seconda dell'impetuoso abbracciarsi e
del rapido svincolarsi che facevano cittadini e soldati; e i ragazzi
afferravano i soldati per le falde del cappotto o pel fodero della
baionetta e se ne disputavano gelosamente le mani per piantarvi sopra
la bocca; e le donne anch'esse, giovani, vecchie, povere e signore
alla rinfusa, stringevan la mano ai soldati e mettevan loro dei fiori
negli occhielli del cappotto e domandavano soavemente se fossero
venuti di molto lontano e si sentissero stracchi, e porgevano sigari
e frutta, e offerivano la mensa e la casa, sdegnandosi con amabile
affettazione dei rifiuti e rinnovando calorosamente inviti e preghiere;
e non si vedeva in tanta moltitudine una faccia che dalla profonda
emozione non fosse trasfigurata; occhi dilatati ed accesi, guancie
pallide e rigate di lacrime, labbra frementi; e in ogni atto poi, in
ogni cenno, in ogni movenza un che di convulso, di febbrile, che ti
si trasfondeva nel sangue mettendoti un tremito violento per tutte le
membra; tantochè ai saluti e alle benedizioni della gente tentavi più
volte di rispondere e non potevi articolare una parola. Le case eran
coperte di bandiere; ad ogni finestra un gruppo di persone addossate
le une alle altre, le ultime ritte sopra una seggiola colle mani sulle
spalle delle prime, queste pigiate contro il parapetto da averne rotto
lo stomaco; e chi sventolava fazzoletti, e chi agitava le mani in
segno di saluto, e chi gettava giù fiori; tutti poi col collo teso e
la bocca splancata ad un continuo grido a somiglianza degli uccelletti
nel nido all'apparir della madre. Certi bambini tenuti in braccio dalla
mamma agitavano anch'essi le manine verso di noi e mandavano fuori di
tanto in tanto qualche gridetto, che si perdeva a mezz'aria negli alti
clamori della folla. Le imboccature delle vie a destra e a sinistra,
le soglie delle officine, delle botteghe, delle case erano piene di
gente. Vidi molti di quei buoni operai porre un sigaro nelle mani a
uno dei propri ragazzi e accennargli un soldato e spingerlo verso di
quello; vidi certe buone donne sporgere i bambini agli ufficiali perchè
li abbracciassero come se quell'abbraccio fosse una benedizione del
cielo; vidi qualche vecchio cadente stringersi contro il petto la testa
d'un soldato e tenersela lì ferma come volendo che non se ne staccasse
mai più.... In mezzo a tante e tali dimostrazioni di gratitudine,
di affetto, d'entusiasmo, i soldati, poveri giovani, restavano come
istupiditi e ridevano e lagrimavano ad un tempo e non trovavan parole
a render grazie; o se pur le trovavano, non le potean mandar fuori, e
s'ingegnavano a dire coi gesti:--È troppo! è troppo! Il nostro cuore
non regge; voi volete farci morire di gioia.--
A misura che ci avvicinavamo alla porta per cui si doveva uscire,
la folla si faceva men fitta e i soldati si andavano lentamente
riordinando.
La porta per cui dovevamo uscire era quella che i Padovani chiamano il
Portello. Fummo accompagnati fin sul limitare da moltissimi cittadini,
la più parte di ceto signorile, frammisti ai soldati, stretti con loro
a braccetto, e tutti assorti in un conversar vivo, clamoroso, rapido,
rotto, poichè alla foga del primo entusiasmo, il quale non trovava che
lagrime e grida, era seguito un gran bisogno di sfogarsi a parole,
di farsi mille domande, mille proteste di affetto e di gratitudine,
interrompendosi tratto tratto per guardarsi ben bene l'un l'altro nel
volto, con un sorriso che voleva dire:--Dunque gli è proprio un soldato
italiano che ho a braccetto!--Dunque ci siamo proprio in mezzo a
questi benedetti Padovani!--e lì una gran stretta di mano e una scossa
reciproca al braccio che significava:--Sei qui; ti sento; non ti lascio
scappare.--In quella mezz'ora che si era impiegata ad attraversar la
città, si eran già strette molte amicizie, s'eran già scambiate molte
promesse di scriversi, s'eran già fatti molti proponimenti di rivedersi
al ritorno, e stabiliti i convegni, e notati sul portafoglio i nomi
e gli indirizzi.--Mi scriverà lei il primo!--Io il primo.--Appena
arrivato al campo!--Appena arrivato al campo.--Me lo promette?--Non
dubiti.--Grazie!--E un'altra gagliarda stretta di mano e un'altra
scossetta al braccio. E a misura che il reggimento s'avvicinava alla
porta, i dialoghi si facean sempre più rapidi, più caldi, più rumorosi,
e i gesti più concitati, e più animata l'espressione dei volti, e
si rinnuovavano gli evviva e le grida che già erano cessate da un
po' di tempo, e i soldati ricominciavano a sparpagliarsi, finchè,
giunti che fummo alla porta, il grosso della folla si fermò. E lì di
nuovo, figuratevi, una confusione e un gridìo da non potersi dire;
un abbracciarsi, un baciarsi, uno sciogliersi dalle braccia dell'uno
per gettarsi in quelle d'un altro, e da questi ad un terzo, e via
via, ricambiandosi affollatamente augurii e saluti e benedizioni.
Finalmente il reggimento fu fuor della porta, e si dispose in ordine di
marcia, due file a destra e due file a sinistra della via. Per un po'
di tempo i soldati si volsero di tanto in tanto verso la porta, dove
la folla, tuttavia ferma, andava agitando i fazzoletti e mettendo alte
e lunghe grida di saluto; ma a poco a poco, cominciando a farsi buio,
la folla non si vide più, le grida, che già giungean fioche fioche,
tacquero affatto, i soldati ripresero a camminare in ordine, e gli
ufficiali, che prima andavano a gruppi, ritornarono al proprio posto.
Eravamo in cammino da molte ore; prima di giungere a Padova si era
già stanchi e si andava già lenti e disordinati; eppure, usciti dalla
città, camminavamo come se pur allora ci fossimo mossi dal campo dopo
un lungo riposo. I soldati procedevano ritti, sciolti, spediti; gli
ordini erano serrati, e ferveva da ogni parte un vivissimo cicaleccio.
Naturale; c'eran tante cose da dirsi!
Io stetti ancora un pezzo come trasognato. Ma quando ritornai
interamente in me stesso, allora mi sentii crescere nel cuore una
gioia, per dir così, pura, limpida, scevra di quella impressione di
sorpresa e di meraviglia che prima me ne attutiva il sentimento; era
la vera gioia, e piansi. Piansi tre volte in tutta la durata della
guerra. La prima, e furon lagrime d'entusiasmo, il giorno che si
passò il Mincio, il ventitrè giugno, quando, essendo ancora il mio
reggimento sulla sinistra del fiume, presso al ponte di Ferri, già si
vedevano lampeggiare sull'opposta sponda le baionette della settima
divisione, e io mi sentiva fremere intorno i soldati impazienti e sonar
nell'orecchio il rumor cupo del ponte tremante sotto il peso delle
nostre artiglierie. La seconda volta piansi a Villafranca, e furon
lagrime d'ira e di dolore. La terza volta piansi per te, o Padova cara,
Padova illustre e generosa, e furono lagrime di gioia e di gratitudine;
di gioia divina, di gratitudine eterna.--Oh perchè le città non si
possono abbracciare!--pensai, fra le tante altre stranezze, quella sera.
Essendo oramai buio fitto, si accessero le lanterne. L'apparire della
luce richiamò a ciò che mi circondava la mia mente, che fino allora non
era per anche uscita da Padova, e, guardando subitamente qua e là cogli
occhi dilatati, come quando ci si sveglia in una stanza di albergo e
non si raccapezza sull'istante nè dove si sia nè perchè nè come, vidi
al dubbio lume d'una lanterna due ragazzini condotti per mano da due
soldati. Mi volsi dalla parte opposta, ne vidi un altro. Guardai più in
là, altri due, e via via, ve n'era di molti; e tutti venivan condotti
per mano dai soldati e parlavan basso basso e si nascondevano, quanto
era possibile, nell'ombre, per non essere scorti dagli ufficiali, che
forse, chi lo sa? avrebbero potuto rimandarli a casa, e bruscamente,
chè quella non era ora d'allontanarsi dalla città e di tenere in
pensiero la mamma. La più parte di quei ragazzi, si vedeva ai panni,
erano poverelli; ma ve n'era pure, e non pochi, di condizione agiata,
e si conoscevano alla cera e ai modi peritosi e ai vestitini puliti.
Ad ogni dieci o dodici passi se ne fermava qualcuno, e data e ricevuta
qualche stretta di mano e qualche saluto affettuoso, se ne tornava.
È impossibile significare quanta dolcezza, quanta effusione di cuore
e che delicato senso di mestizia si sentiva in que' comiati. E poi,
l'accento particolare del dialetto che si presta tanto all'espressione
degli affetti soavi, e poi la commozione profonda di poco prima, e
poi la notte, e il silenzio che si cominciava a diffondere nelle
file;... insomma, ogni parola di quei ragazzi mi toccava nel più
vivo dell'anima. Ho sempre in mente uno di essi che, accomiatandosi
e salutando intorno intorno tutti i soldati, esclamò con una certa
vocina sottile e tremola, in cui si sentiva proprio il cuore:--_Dio ve
salva, fioi, tuti!_
--Oh grazie, caro!--io dissi tra me;--possa tu essere benedetto da
Dio d'ogni bene; possa non morirti mai la madre; possa tu godere ogni
giorno della vita una felicità com'è questa di cui mi trabocca l'anima
questa sera. Addio, buon ragazzo.--
Ma a poco a poco tutti que' ragazzi se ne tornarono a casa, primi i
più piccini e più timidi, ultimi i già grandicelli e più arditi, e nel
reggimento rimasto solo si diffuse un silenzio profondo; unico rumore
quello dei passi stanchi e strascicati e il monotono ticcheticche dei
puntali delle baionette contro i puntali delle daghe. E si cominciava
a sonnecchiare e a camminare barcollando di qua e di là urtandosi l'un
l'altro violentemente come segue agli ubriachi che vanno a braccetto.
Ed io sonnecchiava e barcollava più di tutti.
Tutto ad un tratto, mi sentii urtare in un braccio, mi voltai, era
un ragazzo.--Chi sei?--gli chiesi, fermandomi, con una voce piena di
sonno. Esitò a rispondere, dormicchiava anch'egli.--Carluccio,--rispose
poi con voce bassa e tremante.--D'onde vieni?--Da Padova.--E dove vuoi
andare?--Coi soldati.--Coi soldati! E sai tu dove vadano i soldati?--
Non rispose; io ripigliai:--Torna a casa, via, torna a casa; te ne
sei dilungato già troppo. Chi sa tuo padre e tua madre come staranno
in pensiero per te, a quest'ora. Da' retta a me, torna a casa.--Non
rispose e non si mosse.--Non vuoi tornare?--No.--E perchè?--Non
rispose.--Hai sonno?--Un poco....--Qua la mano, dunque.--
Lo presi per mano, raggiunsi la mia compagnia che era già passata oltre
un buon tratto, e, pensando che il rimandarlo a casa per forza e fargli
rifare tutto quel cammino di notte e solo gli era un esporlo a qualche
grossa paura, decisi di condurlo meco fino alla tappa. Quivi giunto,
avrei trovato modo di farlo ritornare.
--Abbiamo una recluta--dissi a un mio compagno, passandogli accanto.
Egli mi si accostò, e dopo lui alcuni altri che avevano intese le mie
parole; e mentre si facevan tutti intorno al ragazzo e mi domandavano
chi fosse e dove l'avessi trovato, s'udì uno squillo di tromba e il
reggimento si fermò. Mentre le file si rompono e i soldati si mettono
a giacere, io, traendomi dietro il piccolo fuggitivo, passo nel prato
a destra della strada, e gli altri mi seguono. Giunti a un dieci passi
dal fosso, ci fermammo; sopraggiunse un soldato con una lanterna, ci
stringemmo attorno al ragazzo, e facendogli batter la luce sul viso,
ci chinammo a guardarlo. Era bello; ma smunto, pallido, e avea negli
occhi,--un par di begli occhi grandi e scuri,--una espressione di
mestizia assai strana per un fanciullo della sua età che non poteva
passare i dodici anni. Col suo aspetto dilicato e gentile facevano
un brutto contrasto i panni logori, rappezzati e male adatti. Un
cappelluccio di paglia cui mancava gran parte della tesa, un fazzoletto
turchino attorno al collo, una giacchetta di frustagno fatta al dosso
d'un uomo, un par di calzoni che non gli arrivavano fino alla noce del
piede, due grandi scarpaccie allacciate collo spago: così era vestito.
Ma lindo, e senza stracciature; il fazzoletto che portava al collo era
annodato con un certo garbo; e aveva i capelli ravviati, e il viso, le
mani e la camicia, tutto pulito. L'osservammo in silenzio per qualche
momento. Egli guardava in faccia ora l'uno ora l'altro cogli occhi
spalancati ed immobili.
--Ma non sai che sei solo?--io gli domandai.
Mi guardò fiso e non rispose.
--Tutti gli altri ragazzi se ne sono già andati,--gli disse un mio
amico,--e tu perchè non sei tornato con loro?--
E un altro:--Che cosa vuoi fare qui con noi? Dove vuoi andare?--
Egli guardò prima l'uno e poi l'altro, sempre con un par d'occhioni
stralunati; poi chinò lo sguardo e tacque.
--Parla, su, di' qualche cosa,--ripigliò un di noi scotendogli
leggermente la spalla;--o che hai perso la lingua?--
Ed egli zitto, e sempre cogli occhi fissi a terra, duro e cocciuto
che metteva dispetto. Tentai ancora una prova: gli presi il mento tra
l'indice e il pollice, e, sollevandogli la testa dolcemente, gli chiesi:
--Che cosa dirà tua madre che non ti vede tornare?--
Alzò gli occhi e mi guardò, non più con quella cera attonita e quasi
stupidita di prima, ma colle sopracciglia aggrottate e la bocca aperta
come se in quel punto soltanto ei cominciasse a capire le nostre parole
e aspettasse che, interrogandolo ancora, gli facessimo dire quel che
aveva bisogno, e non coraggio, di dire.
--Perchè sei fuggito da casa?--gli domandai di nuovo.
Strinse le labbra, battè celere celere le palpebre, fece un moto della
testa e del collo come se trangugiasse qualcosa, e mi ripiantò gli
occhi nel viso.
--Ma via, ma parla una volta, dicci la cosa com'è, fatti coraggio. O
che hai paura di noi? Perchè sei fuggito da casa?--
Stette muto un momento, e poi diede in uno scroscio di pianto, e tra
singhiozzo e singhiozzo mormorò:
--Mi.... pic.... chia.... no!
--Oh povero bambino!--esclamammo tutti a una voce ponendogli le mani
sul capo e sulle spalle e accarezzandogli il mento e le guancie;--oh
povero bambino! E chi ti picchia?
--La.... mamma.
--La mamma?--gli chiedemmo tutti insieme guardandoci in volto
meravigliati.--O come mai?
--Ma.... non è.... la mia mamma.
Qui il povero ragazzo, pregato e ripregato ancora, ci disse che
suo padre era morto da un pezzo, ch'egli non aveva più altri che
la matrigna, la quale voleva bene soltanto ai suoi bimbi, e non
poteva veder lui, e lo trattava male, molto male, e ch'era un pezzo
ch'egli soffriva, e che era fuggito da casa per venire con noi. Non
aveva ancora finito di parlare, che noi l'affollammo di carezze e di
conforti:--Verrai con noi, buon ragazzo; non ti dar pensiero di nulla.
Avrai tanti babbi quanti sono i soldati. Ti vorremo bene per tua madre,
per tuo padre, per tutti; sta' tranquillo.--E volendo rasserenarlo
e farlo sorridere, io gli soggiunsi:--E a chi ti domanderà di chi
sei figliolo e donde sei venuto, tu risponderai che sei figlio del
reggimento, e che noi ti abbiamo trovato nel fodero della bandiera; hai
inteso?--
Egli, sorridendo lievemente, fe' cenno di sì.
--E intanto,--io continuai,--appena ci metteremo in cammino, tu verrai
con me o con un altro qualunque di noi, e gli starai sempre accanto, e
camminerai fino che le gambe ti reggano, e quando ti sentirai stanco lo
dirai, hai inteso? e noi ti faremo salire sopra un carro.--
Il povero Carluccio, che non potea credere a tante dimostrazioni di
benevolenza e temea di sognare, accennava di sì abbassando e rialzando
la testa e guardandoci cogli occhi pieni di stupore.
--E adesso come stai?--Ti senti stanco?--Hai sete?--Hai bisogno di
mangiare?--Vuoi un po' di caffè?--Vuoi un po' di rosolio? Di', amico,
dove hai messo la fiaschetta del rosolio?--Eccola,--To', bevine un
sorso.
--No, grazie, non ho sete;--e faceva atto di respingere la fiaschetta
colla mano.
--Bevi, bevi; ti farà bene, ti ridarà un po' di forza.--Bevve.
--Vuoi mangiare? Per ora non c'è altro che un po' di pane.--Oh!
lanterna, porgi un pezzo di pane.--
Il soldato che tenea la lanterna trasse premurosamente un pezzo di pane
dalla tasca e glie lo porse.
--No, grazie.... non ho mica fame.
--Mangia, mangia; è molto tempo che cammini; hai bisogno di
rinvigorirti lo stomaco, mangia.--
Esitò un momento; poi afferrò il pane con tutte e due le mani e lo
addentò coll'avidità d'un affamato.
Ci guardammo tutti in faccia.--Di' la verità: quanto tempo è che non
mangi?
--È da questa mattina di buon'ora.
--Oh!--
In quel punto s'udì uno squillo di tromba; ci rimettemmo in via. Dopo
poco più d'una mezz'ora Carluccio fu colto un'altra volta dal sonno.
Gli domandammo ripetutamente s'ei volesse coricarsi sur uno dei carri
del vivandiere, ed egli ripetutamente ricusò dicendo:--Non son mica
stanco io.... non ho mica sonno.--Ma tratto tratto gli si chiudevan
gli occhi irresistibilmente, e si soffermava, e, rimasto un istante
immobile come una statua, ripigliava poi l'andare a passi ineguali,
descrivendo sulla strada dei lunghi zig-zag e andando talvolta a dar
colla testa nel gomito dei soldati....--Animo, Carluccio, vieni con
me.--Lo presi per mano e lo condussi alla coda della colonna, dove,
scambiata una parola col vivandiere, lo feci coricare sopra un carro,
mentre ei mi andava tuttavia ripetendo:--Non sono mica stanco, io....
non ho mica sonno.... voglio camminare ancora.... voglio....--E
s'addormentò d'un sonno profondo mormorando che non aveva bisogno di
dormire e che voleva camminare. Poco più di un'ora dopo il reggimento
si fermò di nuovo per qualche minuto. Appena sonata la tromba, i
soldati dell'ultima compagnia, che mi avevano veduto condurre Carluccio
dal vivandiere, accorsero e si affollarono intorno al carro. Un d'essi
staccò la lanterna dal fucile e l'avvicinò al volto del ragazzo; gli
altri si chinarono a guardarlo. Seguitava a dormire placidamente;
teneva la testa appoggiata sopra un sacco di pane, ed aveva ancora gli
occhi rossi e la guancia molle di lagrime.--Che bel bambino!--disse
sottovoce un soldato.--Come dorme di gusto!--mormorò un altro.--Un
terzo allungò la mano e gli strinse una guancia tra l'indice e il
medio.--Giù quelle manaccie!--gridarono tutti gli altri.--Lascialo
stare.--Lascialo dormire.--Carluccio si svegliò, e lì sul momento,
a vedersi tutti quei soldati davanti, ebbe un po' di paura; ma si
tranquillò tosto, e sorrise.--Di chi sei figlio?--gli domandò un
soldato. Carluccio esitò un istante e poi, sovvenendosi del mio
consiglio, rispose serio serio:--Sono il figlio del reggimento.
Tutti i soldati si misero a ridere.--Chi ti ha condotto con noi? Dove
fosti trovato?
Altra esitazione, e poi colla più gran serietà:--Mi hanno trovato nel
fodero della bandiera.--
I soldati diedero in una risata più forte di prima.--Qua la mano,
camerata!--gridò un caporale porgendogli la mano. Carluccio gli porse
la sua e se la strinsero.--Anche a me!--disse un altro soldato, e
Carluccio strinse la mano anche a lui. E così l'un dopo l'altro
tutti gliela porsero ed egli la strinse a tutti. L'ultimo gli disse
forte:--Amici per la pelle, non è vero, bambino?--Ed egli rispose
gravemente:--Amici per la pelle.--In quel momento sonò la tromba, i
soldati s'allontanarono ridendo, ed io, comparso tutto ad un tratto
dinanzi a Carluccio, gli domandai:--Ebbene? Che cosa m'hai da dire di
bello?--Mi guardò, sorrise, e rispose:--I soldati mi vogliono bene.--

III.
Arrivammo al campo intorno alla mezzanotte; non mi ricordo quante
miglia si fossero fatte da Padova in poi, nè in che punto, presso a
poco, si spiegassero le tende. Qualche villaggio, in vicinanza del
campo, v'era di sicuro; ma per quanto si guardasse in giro non appariva
cima di campanile nè vicino nè lontano. Il cielo, già nuvoloso e scuro
che non ci si vedeva una stella, si era fatto sereno. Il prato dove il
reggimento doveva piantar le tende era tutto rischiarato dalla luna e
circondato d'alberi grandi e folti, che gli facevano intorno intorno
un'ombra scurissima; vi regnava un silenzio e una quiete di cimitero;
era un luogo pieno di bellezza cupa e severa; e l'animo nostro ne fu in
tal modo colpito che si entrò nel campo tacitamente, e tacitamente ci
si schierò, guardando attoniti di qua e di là, come se ci trovassimo in
un giardino incantato.
In poco d'ora si piantò il campo, si condussero i carri al loro posto,
si posero le sentinelle; le compagnie si riordinarono, senz'armi, in
mezzo alle proprie tende; e i sedici furieri cominciarono ad alta voce
l'appello, ciascuno ritto dinanzi alla sua compagnia, con da un lato
gli ufficiali e dall'altro un soldato colla lanterna a illuminargli il
taccuino. Intanto Carluccio, ricondottomi dal vivandiere, era corso a
nascondersi in mezzo a due tende e stava là tra impaurito ed attonito
a contemplare quello stupendo spettacolo che è un campo illuminato
dalla luna. Quella moltitudine di tende biancheggianti in lunghe file
fino a perdersi nell'ombra degli alberi lontani; quei cinquecento fasci
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