La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 24

Pietro strinse il braccio dell’usuraio.
— Conto su tutte le promesse che mi avete fatto: — disse marcatamente,
e poi abbassando la voce: — E se non ci vedremo più sulla terra, Dio vi
benedica per tutto il bene che farete ai miei figli.
E rientrò nella camera vicina dove l’armaiuolo lo aspettava.
— Quell’armaiuolo è molto amico di vostro marito? — domandò Matteo
rimasto colla moglie di Pietro.
— Sì, sono compagni e compari.
— Viene sovente in casa vostra quell’uomo?
— Oibò! Sarà venuto due o tre volte dacchè ho sposato Pietro.
— Perdonatemi una curiosità. Questo armaiuolo ha provveduto le sciabole
che hanno servito al duello dell’ufficiale piemontese coll’austriaco?
— Sì, signore.
— Vostro marito le ha ancora presso di sè quelle sciabole. Desidererei
vederle.
— No, signore. Pietro glie le ha restituite subito subito, appena
tornato a Parma.
— Ah!
Matteo salutò e s’avviò per uscire; quando fu all’uscio ristette e
volgendosi in fretta alla donna, soggiunse:
— Ascoltate un buon consiglio.
La donna levò vivamente la testa.
— Fate di tutto per non lasciar uscir di casa tutt’oggi vostro marito.
Essa si levò di scatto in piedi, lasciando cadere a terra il lavoro che
aveva sulle ginocchia.
— Che cosa vuol dire?
— Niente, niente: — s’affrettò a rispondere Matteo, sgusciando in mezzo
all’uscio.
Ma la donna d’un balzo gli fu presso.
— Mio marito medita qualche brutta cosa, non è vero?... Oh me ne sono
accorta da due giorni ch’egli ha l’inferno nell’animo... E Lei sa
qualche cosa? Oh me lo dica, me lo dica per amore di Dio!
Matteo le guizzò di mano.
— Non so nulla... Vi ho detto così, perchè mi pare... Fate voi quel che
v’ispira il cuore... e addio!
Fuggì: la donna rientrò nella stanza dove i bimbi la guardavano cogli
occhioni larghi, spaventati dalla nuova di lei pallidezza, da un nuovo
maggiore affanno che le si dipingeva sul viso.
Dopo un quarto d’ora e forse più l’armaiuolo uscì dalla camera in cui
Pietro l’aveva tenuto a uscio chiuso; aveva seco l’involto stato notato
da Matteo, ma era più piccolo; aveva una certa faccia turbata e passò
frettoloso, senza pur salutare, senza mostrar nemmeno d’accorgersi
che ci fosse gente. Pietro lo fermò pel braccio sulla soglia e
senza pronunziar parola, gli fece un atto che invocava e intimava il
silenzio; l’altro rispose con una mossa muta del pari, ma che ripeteva
certe solenni promesse, già fatte, e poi sparì.
Pietro Carra, voltandosi, si trovò a fronte la moglie più bianca di
prima, ferma, risoluta, che, prendendogli le mani, gli disse:
— Voglio saper tutto... Ci ho diritto... Lo debbo.
Il sellaio esitò un momento.
— Senti! — rispose poi: — Finora t’ho creduta sempre una donna
superiore alle altre: è venuto il momento di provarmi che ho avuto
ragione. Ti dirò tutto; ma prima sappi che dalla mia risoluzione nulla
può muovermi, nè ragionamenti, nè preghiere, nè lagrime, nè pur la
sicurezza della morte... Vieni, ascoltami e taci!


LXII.

Appena uscito dalla casa di Pietro, l’Arpione s’era affrettato al
palazzo di Alfredo, e non s’era punto accorto di essere cautamente
pedinato da un uomo nel quale avrebbe potuto riconoscere Michele, la
spia segreta di Pancrazi.
Nell’anticamera del conte di Camporolle, il vecchio usuraio era colpito
da una brutta notizia; quella dell’arresto del giovane. Egli si sentì
vacillar sotto le gambe: avea fatto tanto per sottrarlo al pericolo e
forse non era riuscito che a perderlo più presto! Ma il ministro gli
aveva pur promesso di salvare colui che egli avrebbe designato e che si
era per allora astenuto di nominare, credendo anzi maggior prudenza il
tacerlo! Bisognava accorrere da sir W..., invocare l’avutane promessa
e ottenerne subito l’esecuzione. Non mise tempo in mezzo e s’avviò
affrettato; e Michele lo seguiva sempre.
Ma, per sua gran disdetta, Matteo non potè vedere sir Tommaso. Era
assente, e per quanto egli supplicasse e giurasse che si trattava
di cose di massimo rilievo, non ebbe altra risposta fuorchè era
impossibile dirgli dove fosse l’inglese e quando sarebbe stato
visibile. Noi sappiamo che esso era prigioniero volontario e
soddisfatto in casa della Zoe.
L’Arpione uscì di là presso che disperato. Giudicò che una cosa sola
gli rimaneva da fare: presentarsi al principe e dirgli tutto quello
che egli sapeva, pattuendo in compenso la grazia di Alfredo. Andò a
palazzo, non fu ammesso; si piantò a pochi passi dal portone, e giurò
a sè stesso che non si sarebbe più mosso di là finchè il duca non fosse
venuto ed egli avesse potuto accostarlo.
Erano le tre suonate ed il duca doveva uscire alle quattro; Matteo non
aveva più che un’ora da aspettare.
Alle tre e mezzo un uomo gli passò davanti e si fermò a guardarlo.
Matteo alzò il capo e riconobbe il direttore generale della polizia
Pancrazi.
— Lei qui! — esclamò questi. — Ho piacere di trovarla, chè appunto
cercavo con molto desiderio di lei, si compiaccia seguirmi.
— Scusi: — rispose Matteo. — Ho immensamente bisogno di vedere il
principe, di parlargli, e lo aspetto qui che passi.
— Quello che la vuol dire a S. A. può dirlo a me con pari e fors’anco
migliore effetto. Venga pure.
— No... — cominciò l’usuraio; ma il Pancrazi chinandosi verso di lui,
soggiunse piano, proprio nell’orecchio:
— Si tratta della salvezza del conte di Camporolle; e se fa a mio modo,
potrà Ella stessa condurselo seco.
Matteo non esitò più e seguì di buon animo il capo della Polizia.
Dieci minuti dopo era rinchiuso in una segreta anche lui.
Suonavano le quattro pomeridiane.
Sull’angolo del Borgo S. Biagio alla strada di S. Lucia in due edifici
posta di facciata, un superbo palazzo da una parte e un’umile casetta
dall’altra, stavano aperte due finestre e ad ambedue delle persone
che con ansietà stavano fissando lontano, più lontano che arrivasse la
vista nella strada, per vedere chi veniva a quella volta; nel sontuoso
palazzo era una donna, giovane, bella di tremenda bellezza, pallida
come un avorio, con labbra rosse come il sangue che spiccia dalle
vene, con occhi lucenti d’una fiamma infernale; dietro lei un uomo
maturo, calvo, dal pelo rosso che le parlava ed a cui ella, tutta presa
dall’attenzione che metteva a guardar nella strada, non rispondeva
neppure: nella casetta un uomo giovane, robusto, dall’aspetto fiero,
anzi in quel punto feroce, bianco anch’egli come un cadavere, una ruga
profonda solcata nella fronte, le guance contratte: a due passi da lui
una donna seduta, tremante, che stringeva al suo grembo tre bimbi e
pregava e piangeva in silenzio.
Udito da Pietro Carra il suo tremendo disegno, la moglie no, non avea
potuto smuoverlo da esso; non l’aveva tentato neppure a lungo, perchè
conosceva il carattere del marito, perchè una vendetta la desiderava
anche lei, e le pareva che il su’ uomo erigendosi a giustiziere e
vendicatore degli oltraggi fatti a sè e a tutto un popolo, si elevasse
a una grandezza che a lei ne imponeva, che ella doveva ammirare. Si
mise a pregare, e la vista dei bimbi che le si serravano intorno fece
che non potè trattenersi dal piangere.
Pietro le aveva narrato tutto. La sera stessa di quel giorno che
egli aveva ricevuta dal principe la sanguinosa offesa per cui il
suo onore esigeva imperiosamente vendetta, gli era stato ricapitato
misteriosamente un biglietto che diceva:
«Se come crediamo, siete uomo d’onore, se siete un degno
parmigiano, voi non tollererete l’affronto fattovi senza
vendicarlo. E vi ha chi ve ne faciliterà, ve ne porgerà i mezzi.
Trovatevi questa sera alla tal ora nel tal luogo e seguite l’uomo
che vi verrà presso a dirvi: «il giorno della giustizia è venuto.»
Il sellaio si era trovato, era stato condotto alla segreta congrega, e
là aveva udito che s’egli facesse il colpo avrebbe avuto una vistosa
somma a sua disposizione, e i seguenti mezzi di scampo: alcuni
complici appostati per la strada ch’egli avrebbe percorso fuggendo, a
facilitargli il passo e sviare i persecutori se ne avesse avuti, un
comandante di posto alla guardia di una porta della città, il quale
non avrebbe badato a lui mentr’egli passasse, fuor di quella porta a
un trar di pietra un carrozzino con un eccellente cavallo, su cui egli
sarebbe salito, e tutte le altre disposizioni che già sappiamo pensate
e prese all’uopo.
Pietro rifiutò sdegnosamente la somma; non voleva il prezzo del sangue;
accettò tutto il resto. Tutte le opportune intelligenze furono subito
stabilite all’uopo.
Il giorno prima di quello in cui siamo col nostro racconto, il sellaio
aveva ricevuto un altro biglietto.
«Domani alle quattro pomeridiane passerà sotto alle vostre
finestre. È il momento: tutto è pronto; la strada che avete da
percorrere, la porta per cui uscire, la sapete. Coraggio! Si conta
su di voi!»
Egli si era subito recato dal suo amico l’armaiuolo e lo aveva pregato
di portargli il domattina a casa parecchie lame di pugnale con semplici
manichi di legno da adattarsi a quella che egli avrebbe scelto: e si
raccomandava perchè gli recasse le migliori possibili e non dicesse
motto a nessuno.
Nella bottega sarebbe stato imprudente fare l’esame e la scelta
dell’arma. Ludovico era venuto, Pietro aveva preso la più acuta, ben
temprata lama a spigoli, e l’aveva fatta fermar bene entro il manico di
legno; aveva imposto con giuramento il più gran segreto all’armaiuolo,
e poi avvoltolata l’arma nel suo mantello, la teneva lì presso sopra
una seggiola a un passo dalia finestra.
Le quattro erano suonate: fra i diversi passeggieri che spuntavano e
percorrevano e sparivano per la strada che veniva a quel crocicchio,
non uno che avesse pure una somiglianza con colui che tanto
ansiosamente s’aspettava. La Zoe aggrottava in modo sempre più fiero
le sopracciglia e rispondeva meno che mai alle parole di sir Tommaso;
Pietro Carra si mordeva le labbra e bestemmiava fra sè. La moglie del
sellaio pregava con maggior fervore. Ah! forse la poveretta pregava che
quell’uomo, cui pure ella odiava, non venisse!
Se mancava, pei congiurati tutto era perduto; sir Tommaso avrebbe
parlato e operato; si sarebbero fatti arresti e ogni cosa non avrebbe
tardato a essere scoperta; se il duca veniva e il colpo falliva... ma
si aveva fiducia nella forza, nel sangue freddo, nell’odio di Pietro
Carra.
Ma non veniva!
Nell’elegante sala della baronessa Muldorff, un ricco pendolo, che
suonava a ogni quindici minuti, battè le quattro e il quarto; la pseudo
baronessa chiamò la governante.
— La carrozza è pronta? — le disse a bassa voce.
— Sì.
— Ebbene, va e porta subito in essa fin da ora il sacchetto dei valori.
Mi ci aspetterai; fra venti minuti al più tardi ci sarò anch’io.
La governante partì.
Zoe era decisa, se fra un quarto d’ora il duca non fosse comparso, di
abbandonar la partita; avrebbe con un pretesto qualunque lasciato solo
sir Tommaso nel salotto e sarebbe scappata.
Ma a un punto vide trasalire l’uomo che stava alla finestra
di facciata; si sporse in fuori e mandò anch’essa una piccola
esclamazione.
— Che cosa c’è? — domandò l’inglese chinandosi egli pure sul davanzale
a guardare.
— Il duca! — disse la donna coi denti stretti, ma facendo un grazioso
sorriso.
Al fondo della strada vedevasi Carlo III di Borbone venir giù
tranquillamente colla sua andatura dinoccolata, la testa in aria,
agitando secondo il solito il suo frustino: al fianco gli camminava
l’Anviti.
Pietro Carra si ritrasse vivamente dalla finestra: si coprì la faccia
con tutte due le mani, e se le premette con forza insistente; poi d’un
balzo fu alla seggiola dove erano il mantello e l’arma: impugnò questa,
si gettò il mantello sulle spalle, si calcò il cappello in testa e
prese l’aire verso la porta.
Pallida come una morta, gli occhi rossi, le labbra livide, gli si
drizzò innanzi sua moglie.
Egli l’afferrò pur colle braccia immantellate, la strinse, ne baciò la
fronte, gli occhi, la bocca.
— Giurami che sarai sempre degna di me, che farai degni di me i miei
figli.
Ella non rispose che con un singhiozzo.
Pietro, con quella medesima frenesia, abbracciò i suoi figli, li baciò,
li depose a terra, li respinse dalle sue gambe dove si serravano.
— Addio! — gridò con voce soffocata, e fuggì.
La donna cadde in ginocchio.


LXIII.

Carlo III dei Borboni di Parma se ne veniva giù della strada
ridacchiando al solito coll’Anviti, squadrando con aria prepotente
gli uomini, con isfacciata domestichezza le donne che incontrava per
via. Quelli salutavano umilmente e si tiravano in mezzo della strada
facendo largo, queste chinavano gli occhi e affrettavano il passo;
egli lanciava dietro agli uni e alle altre qualche insolenza, qualche
grossolano epigramma, qualche complimento offensivo come un’ingiuria.
A un punto il principe alzò gli occhi e vide alla finestra del palazzo
laggiù la Zoe che si sporgeva in fuori a guardare verso di lui, a
guardare proprio lui, a salutarlo da lontano con un cenno, con un
sorriso.
— Ah ah! — esclamò ridendo, — la briccona ci aspetta con molta
impazienza... Che diavolo di donna quella lì!
Si avvicinava sempre più a quel palazzo e teneva il viso rivolto in su
a guardare la finestra.
— To’, guarda, — disse a un punto fra schernitore e disgustato, — c’è
alle spalle della Zoe quello scimmione di sir Tommaso... Quell’animale
è sempre il medesimo, malgrado gli annetti... Ma gli leverò io la
voglia di averci il suo ripesco dove l’ho io stesso!
La faccia sempre più levata, fece un cenno mezzo scherzoso, mezzo
imbizzito alla Zoe e all’inglese; in quella un uomo col cappello a
cencio calato giù fin sul naso, avviluppato in un mantello le cui
pieghe gli coprivano il volto, camminando ratto nella direzione opposta
a quella che aveva il principe, si cacciò framezzo a costui e al
colonnello Anviti che lo accompagnava, e passando urtò violentemente il
duca.
Questi, che tutto inteso a guardare la donna al primo piano e farle
cenni, aveva appena travisto quel passeggero, sentì come un fortissimo
pugno datogli al ventre e abbassando il viso e lo sguardo, di subito
incollerito, fece a percuotere col frustino l’insolente che lo aveva
urtato; ma quell’uomo ratto scantonava lì presso e il duca poteva
appena scorgerne ancora i lembi del mantello.
— Villano! — gridò il principe agitando il suo frustino inutile: —
aspetta...
L’Anviti, che guardava pure in alto, non potè veder meglio l’audace
aggressore di quello che aveva visto il principe.
— Che cos’è stato? — domandò.
E il duca nell’impeto della bizza, rosso ancora in viso:
— Uno scellerato che mi ha percosso... qui...
E portò una mano all’inguine.
L’Anviti prendeva l’aire per rincorrere quel petulante, quando il
principe lo fece fermarsi con una specie di grido soffocato:
— Ah!... Colonnello!... Anviti!...
Questi si volse, Carlo III era diventato subitamente bianco come cencio
lavato, rotava gli occhi con aria spaventata, si serrava il ventre con
tutte due le mani e vacillava sulle gambe.
— Non fu una semplice percossa, — disse: — quel birbante mi ha ferito.
Levò dalla pancia una mano per sorreggersi al muro vicino: quella
mano grondava di sangue, e lasciò la sua impronta sulla parete. Ma
questo appoggiarsi non avrebbe bastato a tenerlo in piedi; il principe
barcollò maggiormente e sarebbe caduto, se l’Anviti non si fosse
affrettato a raccoglierlo fra le sue braccia.
— Ah! — gemette il ferito con un soffio appena di voce e le labbra che
tremavano: — per me è bella e finita.
— No, no. Altezza: — disse l’Anviti, mentre volgendosi ai pochi
passeggeri che si trovavano nella strada in quel momento li richiedeva
d’aiuto.
Ma i cittadini, cui la curiosità faceva fermare, si tenevano alla
larga, incerti di quello che era avvenuto e timorosi di poter capitar
male accostandosi.
L’Anviti, che pareva aver perduta la testa, gridava a tutti coloro che
stavano guardando con occhi larghi a dieci passi di distanza:
— Presto!... Un infame ha ferito Sua Altezza... Correte...
pigliatelo... arrestatelo... ammazzatelo.. Correte pei gendarmi...
correte per un medico... alla Corte... alla Polizia... Aiutatemi a
trasportarlo in qualche luogo.
Nessuno si moveva.
Un uomo venne correndo in aiuto del colonnello; era sir Tommaso W...
Dalla finestra a cui stavano egli e la Zoe avevano visto l’uomo dal
mantello passare in fretta presso al principe, ma l’atto era stato
compito così rapidamente, che non s’erano accorti del colpo dato. La
donna credette un momento che sul migliore il coraggio fosse mancato
a quell’uomo ed egli fosse fuggito senza nulla tentare; ma quando
vide il duca fermarsi, vacillare, sollevare la mano sanguinante, ella
capì che finalmente il suo lungo, feroce desiderio era soddisfatto,
e drizzandosi della persona mandò un’esclamazione che poteva sembrare
di meraviglia, di terrore, di addoloramento ed era di gioia crudele.
L’inglese si accorse anch’egli di quel ch’era avvenuto e mandò, lui, un
vero grido di affanno e di spavento; poi si precipitò giù per le scale
a volare in soccorso del ferito.
— Ah, sei tu... Tommaso? — balbettò, vedendolo, il duca colle labbra
livide e gli occhi smarriti. — M’hanno conciato per le feste.
Fra tutti due, l’Anviti e il W..., sollevarono il principe; nessuno
venne ad associarsi alla pietosa opera loro.
— Lo portino di sopra da me, nella mia casa per intanto! — disse alle
loro spalle una voce di donna.
Era la Zoe, che discesa ancor essa, guardava attentamente, fisamente,
la faccia scialbata, i lineamenti contratti, gli occhi spaventati del
principe.
I due cortigiani accettarono il suggerimento dell’avventuriera e
trasportarono su nel quartiere di lei il sovrano trafitto.
Quando fu adagiato sopra un sofà in quella medesima sala, dove pochi
giorni prima il suo frustino, che doveva riuscirgli così fatale, aveva
segnata una riga rossa sul collo della donna, questa, che sola aveva
conservata la freddezza della sua ragione, disse ai due uomini:
— E ora non conviene perder tempo, correte a chiamare un medico ed
avvertire la duchessa.
— E un’altra cosa ancora: — aggiunse sir Tommaso: — mandare ordine
subito che si chiudano tutte le porte della città e non si lasci più
uscir nessuno senza che dia buon conto di sè.
Il duca, che giaceva abbandonato col capo sui cuscini, stringendosi
sempre colle mani la squarciatura del ventre, da cui traverso le dita
gocciava abbondante il sangue a macchiare la seta del sofà e il tappeto
persiano del pavimento, il duca aprì un momento gli occhi che teneva
semichiusi e agitò le labbra sempre più allividite, come se volesse
parlare; tutti tre i presenti chinarono le loro orecchie sul giacente,
ed egli con voce che appena poteva sentirsi, susurrò a stento:
— Sì... arrestate colui... a ogni modo... voglio almeno sapere da chi
mi viene il colpo.
Zoe fece uno strano, quasi feroce sogghigno, ma nessuno lo vide: il
conte Anviti giurò che egli e i suoi gendarmi non avrebbero avuto
requie finchè non avessero posto la mano su quel sacrilego, e sir
Tommaso prese il cappello per correre a dare gli ordini accennati.
— Correte presto — aggiunse la Zoe, — correte dal Pancrazi; egli saprà
far tutto il meglio che si può.
L’Anviti e l’inglese volsero uno sguardo al principe che aveva richiuso
gli occhi e gemicolava sommesso.
— Ah non temete: — riprese con calore la donna: — veglierò io
sull’augusto infermo, e mi sento capace di fargli una prima fasciatura
alla ferita io stessa.
Ella accompagnò, quasi spingendoli, i due cortigiani fino alla soglia
della sala, ne richiuse l’uscio alle loro spalle, poi si volse a
guardare il principe che respirava affannosamente, gli occhi sempre
chiusi. Erano soli essa e lui; gli occhi della donna sfavillarono della
loro luce infernale, e a passi lenti quella terribile odiatrice si
accostò alla sua vittima.
Un’altra donna intanto lì presso, nella casa di faccia, spasimava di
pena, di ansietà, di spavento: la moglie di Pietro Carra.
Era rimasta in ginocchio accasciata, con intorno i bambini che
piangevano, sbalordita, tramortita; ma subito il pungente pensiero
l’assalse di sapere quel che avveniva: avrebbe voluto alzarsi e
mettersi alla finestra, ma gliene mancavano le forze, sentì che le
sarebbe fallito il coraggio: si drizzò un po’ così della persona e tese
quanto poteva le orecchie a udire, a cogliere ogni menomo rumore che
salisse fino a lei dalla strada. Primamente le parve avvertire delle
esclamazioni, poi un susurro che veniva crescendo, poi uno scalpito
sempre più numeroso di passi e un vocìo di ciarle animate: qualche cosa
era successo; e in questo qualche cosa le pareva di non notare nulla
che le annunziasse la più temuta delle disgrazie, l’arresto del suo
uomo. Si fece animo, si alzò lentamente, lentamente si avvicinò alla
finestra; ardì gettare nella strada uno sguardo.
Innanzi al portone del palazzo abitato dalla Zoe, innanzi al muro su
cui s’era stampata la mano sanguinosa del duca, intorno ai piccoli
guazzi di sangue in terra si era venuta raccogliendo una calca, che
discorreva, gesticolava, con meraviglia, con animazione, con nessuna
menoma apparenza di dolore. Da quelle parlate così vivaci che lì si
facevano, una frase giunse sino all’orecchio della povera donna e la
consolò tutta; essa diceva:
— Il feritore è fuggito, e non lo piglieranno sicuro!
La donna prese i figli suoi, li trasse a sè e abbracciandoli stretti
nascose la sua fra le loro testoline innocenti.


LXIV.

La Zoe, rimasta sola col principe ferito, s’accostò adunque a passi
lenti verso di lui, circuendolo col suo sguardo pieno di maligno
trionfo e di odio feroce.
Si fermò a un passo di distanza, si curvò innanzi verso il giacente che
ansimava cogli occhi richiusi, e con voce esageratamente affettuosa
e melliflua, che contrastava orribilmente colla malvagia espressione
della fisonomia, domandò:
— Come si sente, Altezza?
Il principe scosse lievemente il capo abbandonato sui cuscini, sulla
cui fronte il sudore dello spasimo imperlava la cute e bagnava le
ciocche dei capelli arruffati, fece un sogghigno pieno di amarezza
disperata che si convertì in una smorfia di dolore, ma non aprì neppure
gli occhi e non rispose altrimenti.
— Voglio sperare che la ferita non sarà molto grave, — continuò la
donna col medesimo accento: — e V. A. sarà conservata all’amore de’
suoi sudditi.
Carlo III sentì forse in queste ultime parole l’ironia del concetto,
ironia che pure da chi parlava era stata dissimulata nella voce? Il
vero è ch’egli socchiuse gli occhi e saettò d’una ratta sguardata la
donna: ma questa aveva in quel punto chinato il viso verso la ferita
che il duca seguitava a serrarsi colle mani, ed a lui fu così nascosta
ancora la maligna gioia di lei. Le palpebre grevi non tardarono a
ricadere sulle pupille stanche già appannate, che cominciavano a
vedersi calare dinanzi il velo d’una nebbia.
— Lasci che io esamini la sua ferita, — ripigliava la Zoe, scartando
intanto subito con una certa forza le mani del duca: — qualche cosa me
ne intendo: e chi sa che prima ancora della venuta del medico io non
possa farle alcun che da recarle giovamento.
Con agilità e prestezza degna veramente d’una mano di donna,
sbottonando, sciogliendo e tagliando i panni addosso al trafitto, pose
a nudo il ventre del principe e raccapricciò di ribrezzo e di orrore.
Dalla ampia e profonda ferita, non più contenuti, uscivano e visceri
e sangue e materie: non potendo vincer subito quel primo senso di
orribile ripulsione, ella si arretrò d’un passo con un’esclamazione
soffocata: il duca aprì di nuovo, a stento, gli occhi, volle parlare,
ma agitò vanamente lieve lieve le labbra livide e nessun suono ne uscì.
La Zoe gli tornò presso presso.
— Vuol dirmi qualche cosa? — domandò sempre coll’accento amorevole,
chinandoglisi sopra.
Il principe, che aveva richiusi gli occhi, mosse ancora poco poco le
labbra senza poter mandare una voce.
— La parola non le vien più? — continuò la donna sempre nella medesima
guisa.
L’infermo fece segno che era davvero così.
Allora quella donna feroce cambiò affatto accento e lo fece compagno
alla scellerata espressione del volto e degli sguardi.
— E non ti tornerà più la parola, o disgraziato! — esclamò in uno
scoppio di trionfo feroce: — e io posso parlare impunemente, perchè ciò
che udrai ora da me non lo potrai più ripetere a nessuno.... fuori che
alla morte, la quale fra minuti verrà a prenderti, fuorchè a Dio, se
pure esso esiste.
Carlo III ebbe una scossa in tutto il corpo; spalancò quasi spaventato
gli occhi, ma la vista del volto di quella furia gli fece paura e
s’affrettò a richiuderli; tentò ancora parlare, ma non gli venne fatto
più di prima, e ogni suo sforzo si consumò in un gemito doloroso.
— Sì, — continuava la donna, — io me n’intendo abbastanza di ferite
per dirti che la tua non ti lascia che pochi minuti di vita: e in
questi pochi minuti io voglio pure soddisfare il desiderio che hai
manifestato testè: quello di sapere da qual mano ti viene il colpo, e
di morire almeno conoscendo chi devi ringraziare del servizio. La tua
morte l’hanno desiderata moltissimi; può dirsi tutti i tuoi sudditi di
cui tu hai fatto sempre sì barbaro governo; l’hanno voluta, meditata e
preparata parecchi, anche di quelli che t’accostavano, che erano presso
a tua moglie... Vuoi che te ne nomini uno?... Il conte X...
Il duca fece di nuovo un movimento, e di nuovo venne a piegare le
labbra già quasi irrigidite l’amaro sogghigno di poc’anzi.
— Ma tutti costoro, forse, non sarebbero approdati a nulla, se una
volontà più tenace, un’arte più accorta, un odio più accanito non
fossero venuti a raccogliere gli sparsi conati, a indirizzare, guidare,
decidere, eseguire: e quest’odio, quest’arte, questa volontà, tu li hai
incarnati dinanzi in questa donna che da più di sette anni matura la
sua vendetta.
Nuovo movimento nel moribondo, sulla cui fronte s’adombravano
leggermente i sensi di terrore, di rabbia, di spasimo che dovevano
tormentargli l’animo e a cui non poteva in nissun modo dare
manifestazione nè sfogo.
— Tu domanderai a te stesso: vendetta di che?... tu avrai certo obliato
tutto; non ricorderai che un giorno io mi trascinai ai tuoi piedi
supplicandoti per la vita d’un uomo... d’un uomo che era il mio unico
amore, che era tutto il mio bene, che era il mio Dio.... e che tu hai
riso di me, mi hai schernita colle tue oltraggiose piacevolezze, colle
tue principesche scurrilità, colle tue oscene insolenze, e che quando
fosti stanco di ridere del mio dolore e delle mie lagrime, mi hai fatta
scacciare dai lacchè proprio come una donna perduta, come una creatura
abbietta che sporcasse l’onorabilità, la santità della tua casa che
tu facevi ricettacolo dei tuoi vizi infami. Vedi! Da quel momento, io
mi sono trascinata pel mondo, aggravandomi la coscienza di ogni male,
d’ogni scellerato inganno, d’ogni delitto, sempre fissa la mente a uno
scopo solo: vendicarmi di te. Sono andata a cercare dappertutto nemici
tuoi che fossero capaci d’essere stromento della mia vendetta. Da quel
momento sai il mio sogno quale fu sempre? Quello d’un’ora come questa:
di poterti avere qui, meco, moribondo, e io accompagnarti l’anima
al passo fatale colle mie imprecazioni, colla mia maledizione, che
riunisce e concentra le maledizioni di tutto un popolo.
Si fermò un momento come per pigliar fiato: il principe era diventato
ancora più pallido, le ciglia abbassate gli tremavano un poco, le
labbra avevano delle leggere contrazioni, le rughe della fronte
parevano incidersi più profonde: erano gli unici segni esteriori
che potessero avere lo spasimo, la collera, la disperazione che
tormentavano orribilmente, con dolori d’inferno, quell’anima innanzi
allo spavento della morte.