La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 20
ad ubbidire, e così avveniva che ora ricomparisse sulla gran piazza
a fianco del principe, sfidando la pubblica opinione, offendendo il
sentimento morale di tutta una cittadinanza.
La carrozza ducale irruppe con tanto impeto nella piazza, che poco
mancò non ne restassero schiacciati i primi pedoni in cui s’abbattè, i
quali a stento scamparono saltando in disparte.
— Eh! fate attenzione, marmotte! — gridò sprezzosamente il duca
dall’alto del suo seggio facendo schioccare la frusta. — Non siete
buoni a far largo?
Erano gente della plebe, donne e ragazzi; si tirarono in là umili,
salutando con timore; ma i signori che stavano un po’ più lontano,
mandarono un mormorio, e poi, siccome il duca volgeva gli sguardi su
di loro e spingeva i cavalli a quella parte, quasi tutti, per non aver
da salutare, sbiettarono, alcuni entrando vivamente nel caffè, altri
gettandosi nella strada più vicina. Ma il duca sollecitò ancora la
corsa dei cavalli, e colla sua lunga scuriada arrivando fin dietro i
fuggenti, ne gettò a terra i cappelli mentre gridava colla sua voce
squarrata:
— Salutate, marrani, villanzoni che siete!
Fra coloro a cui fu gettato a terra il cappello di quel modo, erano
due o tre dei principali nella congiura a cui quella notte medesima si
era ascritto Alfredo di Camporolle, e fra essi un tale che aveva molta
attinenza con dame e cavalieri che accostavano la duchessa e ne avevano
acquistata la fiducia.
LII.
Abbiamo visto come, la mattina medesima di quel giorno che doveva
chiudersi con sì importanti avvenimenti pel conte di Camporolle, Matteo
Arpione si fosse partito di buon’ora da Parma con una carrozzella
che l’Antonia gli aveva procurato, e non fosse tornato più che a
sera calata. Non sarà inutile un breve racconto di codesta gita
dell’usuraio.
Egli aveva spinto il cavallo ad un buon trotto, e non si era fermato
più che ad un’osteriuccia posta sulla strada alla distanza di circa una
dozzina di chilometri, dove aveva lasciato cavallo e carrozza, si era
ordinato da pranzo e poi erasi allontanato a piedi, avviandosi verso un
gruppo di case, quasi nascoste in mezzo alla campagna a un buon trar di
schioppo dalla strada.
Se alcuno avesse potuto essere con lui ad osservarlo in codesto suo
viaggetto, avrebbe avuto da notare come, man mano che egli si veniva
accostando a quel paese i suoi lineamenti pigliavano l’espressione di
chi ritorna in paese non più veduto da lungo tempo, ma che per qualche
efficace ragione gli è stato potentemente impresso nell’animo e si
commuove a seconda che rivede e riconosce luoghi che gli ridestano
vive delle memorie interessantissime della sua vita. Quando con passo
lento si diresse, come ho detto, a quella specie di casale nascosto
fra le alte piante, la sua figura di solito così apatica esprimeva
una mestizia profonda, sentita, non priva di tenerezza. Quei luoghi,
qualunque fosse il tempo che non li aveva più rivisti, erano dicerto
bene impressi nel suo ricordo, perchè egli camminò senza esitare, senza
domandare indicazioni, per varii sentieruoli serpeggianti traverso
prati e campi, dritto alla sua meta.
E la sua meta fu una casetta umile, anzi povera, un sol piano a terreno
con sopravi un tetto di paglia, circondata da un orto ricinto d’una
siepe di biancospino il cui passaggio era chiuso da un cancelletto di
legno tarlato, ombreggiata da due olmi giganteschi che la nascondevano
e riparavano, divisa d’un bel tratto dalle altre che si raggruppavano
un po’ più in là intorno al modesto campanile d’una povera chiesuola.
Quello non era veramente un villaggio, era una frazione di villaggio,
il cui centro municipale era lontano una buona mezz’ora di cammino: e
quella chiesa non era neppure una parrocchia, ma una succursale dove il
cappellano aveva facoltà di amministrare all’uopo certi sacramenti.
Matteo giunto al cancelletto della siepe si fermò, stette un momento
immobile a guardarsi dintorno e un appannamento, come il velo d’una
lagrima, venne alle sue pupille. Chi avesse potuto leggergli nel
pensiero avrebbe visto ch’egli diceva a sè stesso:
— Nulla v’è di cambiato, fuorchè le piante un po’ più cresciute, la
casa diventata più scura, questo cancello, gli usci e le imposte delle
finestre più tarlati... Eppure sono passati più di venti anni!
Guardò nell’orto con occhi bramosamente vivaci; non ombra di
essere umano; la casa era chiusa; fuori che due colombi i quali si
perseguitavano sul tetto tubando, tutto era immobilità e silenzio.
Stato ancora un poco, Arpione si mise a chiamar forte.
— Tino! Tino!... O Battistino!
Non gli fu risposto che da un cane vecchio spelato, di quelli dal muso
aguzzo che si dicono volpini, il quale si levò da un mucchio di paglia
dove stava sdraiato e venne al cancelletto abbaiando raucamente.
Il vecchio lo guardò con una specie di compassione.
— Sei tu, misero botolo, il solo compagno del povero becchino?
Mi apparisci magro e sfiancato com’era il tuo padrone quando l’ho
conosciuto e come sarà probabilmente anche ora... Non vuoi lasciarmi
entrare?... Non capisci che io sono un amico?
Così dicendo, Matteo, da persona pratica, passò la mano traverso
le stecche del cancello, sollevò un rozzo saliscendi che trovavasi
all’interno e spinto il cancello lo aprì ed entrò malgrado le proteste
fattesi più clamorose del cane incollerito.
— Quanta fedeltà canina! — disse con amara ironia l’Arpione. — E
pensare che se avessi un tozzo di pane, lo farei tacer subito.
Andò diritto, risoluto verso la casa, e il cane gli venne dietro
annusandogli i talloni e seguitando ad abbaiare. L’uscio era chiuso,
e Matteo, dopo averlo tentato invano, si volse senza esitare al più
vicino dei due olmi, cacciò la mano entro un buco di esso e ne tolse
una chiave che vi era riposta.
— Tino ha pur sempre le medesime abitudini: — disse sorridendo
lievemente: e con quella chiave andò ad aprire l’uscio di casa.
Quando vide quell’intruso spalancare la porta e cacciarsi dentro,
il cane divenne addirittura furibondo e con abbaiamenti rabbiosi si
slanciò alle gambe di quell’audace per morderlo. L’Arpione cominciò per
allontanarselo con un buon calcio che lo mandò a guaire quattro passi
lontano; poi, entrato nella stanza a terreno, e visto sopra una madia
un bel pezzo di pagnotta, lo prese e s’affrettò a gettarlo all’animale
che, più rabbioso di prima, s’apprestava a rinnovare l’assalto. Il
cane esitò un poco fra l’ira e la gola; ma poi vinse quest’ultima, e
azzannata la pagnotta, e’ si mise a divorarla, grugnendo però ancora di
quando in quando.
— E l’ho comprato col pane del suo padrone medesimo! — esclamò Matteo
coll’amara ironia di poc’anzi.
Poi guardò attentamente intorno a sè. Era dell’interno della casa come
dell’orto: tutto era lo stesso e allo stesso posto, se non che più
invecchiato. Matteo mandò un sospiro, e poi aprì un uscio laterale,
chiuso colla sola stanghetta a molla della serratura ed entrò in una
cameretta bianca, pulita, con un letticciuolo, due sedie, un crocifisso
appeso al muro, una piccola valigia e nient’altro.
Il vecchio usuraio stette un momento immobile sulla soglia a
contemplare quella cameretta, come se vi fossero colà dentro chissà
quanti oggetti preziosi da ammirare; mandò un altro sospiro più
profondo e disse fra sè:
— Quel poveruomo ha mantenuto la parola che mi ha dato: essa è tale e
quale.
Poi penetrò nella stanza e chiuse accuratamente l’uscio dietro di
sè: s’appressò al letticciuolo e cadde in ginocchio presso a quel
capezzale.
Era passata forse una mezz’ora, quando un uomo alto, segaligno,
vecchio, un po’ curvo della persona, ma con aspetto robusto, il volto
pieno di rughe fittissime, il cranio pelato, la pelle color di rame,
vestito poveramente da contadino, sopraggiunse e si stupì fortemente
nel trovare l’uscio di casa aperto e il suo cane che gli faceva
festa con una cert’aria tra di paura e di compunzione che lo rivelava
chiaramente reo di qualche colpa.
— Che cos’è ciò? — disse egli forte, come se interrogasse il cane. —
Chi è venuto?
La bestiola rispose a modo suo, cioè con un abbaiamento: ma in quella
l’uscio della cameretta vicina si aprì e comparve sulla soglia Matteo
Arpione.
— Son io: — disse questi, fissando attentamente il nuovo venuto.
I due vecchi si guardarono un poco: il padrone della casupola con
istupore, l’altro con non dissimulata commozione.
— Non mi riconoscete più, Tino? — disse Matteo, avanzandosi d’un passo.
— Se non vi trovassi qui, — rispose quell’uomo, — se non vi vedessi
uscire da quella camera, di certo non vi riconoscerei più, tanto siete
cambiato!
Matteo mandò un sospiro che pareva di rimpianto.
— E tanto tempo è che non vi ho più veduto: — si affrettò a soggiungere
Battistino, come per desiderio di rimediare al poco buono effetto delle
prime parole.
Ma la giunta parve all’Arpione meno gradita ancora della derrata, e col
tono di chi si scusa da un rimprovero che lo punge nel vivo, rispose:
— Che volete? avevo promesso e m’ero proposto di venire sovente; ma non
ho potuto. Gli affari... ho molti, ho troppi affari per le mani... le
vicende d’una vita agitata, laboriosa, pugnace, me ne tolsero sempre il
tempo e la possibilità.
— Bene! bene! disse il becchino coll’accento di filosofia pratica d’un
uomo che non si cura il meno del mondo di quanto pensano e fanno gli
altri. — Ho pur capito che doveva essere così... Ma io vi aveva fatta
una promessa: e questa, nei venti e più anni che sono passati, ho
sempre mantenuta, come se voi aveste da arrivare ad ogni momento per
vedere se ero fedele nell’adempirla.
— Vi ringrazio, — pronunziò Matteo con una lentezza che celava una
commozione. — Ho già visto la camera: voi l’avete rispettata...
— Eh! — interruppe Battistino con certa sua rozza impazienza. — Mi
avete pagato... mi avete ricomprato per ciò tre o quattro volte questa
casipola... Finchè io viva, le cose staranno a quel modo.
— E la tomba?
— Venite a vedere... vengo appunto di là. Quello è il mio mondo; quando
non sono chiuso nella solitudine della mia casa, son là in quella
solitudine coi morti. Ho estirpato or ora le male erbe intorno al
tumuletto e inaffiato i fiori. Venite pure.
— Andiamo: — disse laconicamente Matteo, avviandosi pel primo.
Battistino lo seguì.
La giornata di marzo era lieta, serena, tepida: una giornata precoce
di primavera. Gli alberi avevano da lontano una tinta rossigna per le
gemme presso a sbocciare; le erbe nei prati si drizzavano alteramente
con un allegro verde di smeraldo; correvano per la campagna certe
aurette tepenti, certi profumi indefinibili che avvivavano il sangue
e rallegravano lo spirito. Era la natura che nel suo eterno ridestarsi
cominciava a sorridere.
Matteo camminava sollecito, primo, e Battistino gli veniva dietro
curvo, col suo passo allungato: non si scambiarono una parola. Il
cancello del cimitero era aperto: l’usuraio v’entrò, ma poi, fermatosi,
diede una sguardata tutt’intorno, come incerto della direzione da
prendere.
L’umile cimitero di campagna, in cui non si drizzavano fastosi
monumenti marmorei, in cui fra le erbe alte e gli arbusti incolti e
gli alberetti non rimondati sorgevano qua e là croci di legno, le più
pericolanti, alcune già cadute: l’umile cimitero era pieno di sole, di
pace, di voci d’augelli allegramente pigolanti nel tripudio dei loro
amori primaverili.
Il becchino entrò innanzi a Matteo e additandogli una parte, gli disse:
— Da questa.
Matteo fe’ cenno col capo che ci si ritrovava, e riprese il cammino con
passo sicuro.
In un angolo del quadrilatero che formava il Campo Santo, un po’
appartata da tutte le altre fosse ve n’era una segnata da una croce
di larice, da poco rinnovata, e sulla parte trasversale di essa stava
inciso rozzamente un semplice nome: GIUSEPPINA.
Tino precedette l’Arpione sino a quel luogo e là si fermò.
— È qui! — disse.
Matteo ripetè il medesimo cenno di testa e si fermò anche lui a un
passo lontano da quella croce.
Il tumuletto di terra, ben ripulito, era circondato da una corona di
piccoli rosai che già cominciavano a metter fuori i bottoni: più in là
curvava sopra la croce i suoi rami pendenti ancora spogli di frondi un
salice piangente.
L’usuraio incrociò le braccia al petto e rimase immobile, chinando
basso basso il volto, così che non se ne sarebbero potuti vedere da
nessuno i lineamenti. Forse la presenza del becchino lo trattenne
da mettersi in ginocchio presso quella tomba, come aveva fatto al
capezzale del letto in cui aveva mandato l’ultimo respiro la donna che
giaceva sepolta sotto quei rosai.
— Vedete! — disse Tino dopo un poco: — la croce è nuova di pochi mesi:
è la terza che ricambio... e ci scolpisco sempre su il nome io stesso.
Matteo accennò di nuovo col capo in atto d’approvazione; poi si levò il
cappello e stette un dieci minuti, guardando fisso innanzi a sè: la sua
fisonomia era, come al solito, senza espressione veruna.
— Va bene, Tino: — disse quindi. — Sono contento di voi... Andiamo a
casa: devo parlarvi.
Ebbero un lungo colloquio, in cui Matteo diede all’altro minute
ed esatte istruzioni. Al venir della sera, l’Arpione ripartì per
tornarsene a Parma, dove ebbe altro colloquio coll’Antonia, dopo il
quale s’era recato, come vedemmo, al palazzo abitato dal conte di
Camporolle.
La mattina dipoi, quando aveva abbandonato Alfredo, assalito dalla
febbre, Matteo, come fu detto, era stato testimonio del brutto fatto
del duca frustatore in pubblico dei giovani che fuggivano per non
salutarlo, e dell’indignazione che, partito il principe, malgrado il
timore che ispirava pure la Polizia, non aveva potuto tenersi dal
prorompere fra coloro che erano restati sulla piazza e colpiti e
spettatori di quella intollerabile prepotenza.
Eravi sopra tutto un capannello composto per la maggior parte di
popolani, in mezzo ai quali s’agitava e declamava più furibondo di ogni
altro un tale, la cui fisonomia non riuscì nuova a Matteo. Bisognava
sentirlo con che termini audaci e’ parlava del duca e delle prepotenze
di lui e del governo, de’ diritti conculcati del popolo, della vendetta
che questo popolo oppresso avrebbe dovuto compiere! I più prudenti
s’allontanavano discretamente da quel tribuno e dal gruppo dov’egli
perorava; ma l’ira che aveva suscitato il contegno del duca faceva in
quel momento meno prudenti anche i timidi, e molti erano quelli che si
fermavano, ascoltavano, fremevano ed approvavano.
Matteo s’accostò anche lui, non tanto per udire, quanto per esaminare
bene il declamatore, che a quel primo momento non sapeva dire dove se
lo fosse già trovato innanzi; ma quando ne fu a due passi, la memoria
a un tratto glie ne venne: quello era l’uomo che egli aveva visto la
sera innanzi affacciarsi all’uscio dello stanzino nella bottega del suo
amico Melchiorre, là dove un tratto aveva creduto travedere la bionda,
pallida, delicata figura d’Alfredo. Se la sera prima la faccia rozza
e cupa di quell’uomo era spiaciuta a Matteo, ora vedendola costì a
declamare con esagerazione, rotando certi occhiacci e facendo la voce
grossa, gli spiacque assai più.
— Quello è uno scellerato birbone capace d’ogni più tristo fatto:
— disse a sè stesso Matteo, il quale per lunga esperienza e per
accortezza si intendeva assai d’uomini e di fisonomie: — e son sicuro
che qui fa l’agente provocatore, da cui quei goccioloni si lasciano
mettere in mezzo.
Ora pensatevi qual fosse il suo stupore, — e uno spiacevole stupore,
— quando nel pomeriggio, recatosi a pigliar nuove del conte di
Camporolle, vide dalla camera stessa del giovane uscire un uomo, il
quale era niente meno che il beone della sera innanzi e il tribuno
piazzaiuolo della mattina.
Anche quell’uomo, che passò innanzi a Matteo nel partirsi, dovette
riconoscere costui, perchè fece un atto di contrarietà, subito
dissimulato, ma cui pure riuscì a scorgere l’occhio acuto del vecchio.
Interrogata la governante, l’Arpione apprese come Alfredo, tornato in
sè, avesse voluto a ogni costo saltar giù dal letto, affermando che
era aspettato, che aveva grandi e importanti cose da fare; come alle
preghiere, alle insistenze, alla quasi violenza che gli si era fatto
per tenerlo in letto, non si fosse acquetato, finalmente, che mercè la
promessa di andare subito a cercare di un certo Michele al caffè della
Piazza Grande e di condurglielo al capezzale il più presto possibile.
Erano andati, avevano trovato quell’uomo, lo avevano condotto, ed era
quel desso che Matteo aveva veduto partirsi dopo avuto con Alfredo un
colloquio da soli di oltre mezz’ora.
LIII.
Queste informazioni inquietarono di molto Matteo.
Era ormai accertato per lui come il giovane travisto nella bottega
di Melchiorre la sera innanzi, fosse stato Alfredo, in compagnia di
quell’uomo dalla faccia sospetta, che ora apprendeva chiamarsi Michele.
E questi faceva il tribuno declamatore in piazza, ed era insieme col
giovane dopo l’oltraggio da costui ricevuto dal principe, e Alfredo
aveva tanta premura di accontarsi con lui e, benchè malato in letto,
aveva insieme un lungo colloquio segreto! Chiunque avrebbe dubitato
che tutto codesto si attenesse ai progetti di vendetta, che le parole
pronunziate nel delirio del febbricitante avevano in lui rivelati:
tanto più ne sospettò Matteo Arpione, secondo a nessuno nell’accortezza
e negli indovinamenti.
Della ragione però che aveva mosso Alfredo a chiamare così
sollecitamente Michele presso di sè, il vecchio non ne sospettò che
una parte: il conte di Camporolle non aveva voluto solamente fare
avvertiti i congiurati del suo malore, ma per prima cosa aveva pensato
di renderne informata la baronessa di Muldorff.
Matteo frattanto, risoluto più che mai a salvare Alfredo dal pericolo
che vedeva sicuro e imminente, affine di conoscere meglio chi fosse
quel Michele, si affrettò alla casa dell’Antonia, e a costei domandò le
spiegazioni che riteneva necessarie.
Per prima cosa, dalla descrizione che Antonia gli fece del giovane
compagno di Michele la sera innanzi, ebbe la sicura conferma che quello
era il conte; poi dai sospetti della donna intorno a Michele, gli
fu ribadita la brutta opinione che egli si era fatta di quell’uomo,
che fosse cioè un agente di polizia. Dopo ciò egli avrebbe dato
qualunque cosa per sapere quali trattative e accordi fossero passati ed
esistessero fra il conte e il popolano; e udito di Melchiorre che era
conoscente e poteva anzi dirsi amico da tanto tempo di quel Michele,
pregò la donna di provare, interrogando il marito, a tirargli fuori
o qualche notizia positiva, o almeno qualche cenno e indizio, da cui
un furbo come lui potesse dedurre la verità o almeno tal cosa che
le si accostasse. Antonia, benchè protestasse che da quella massa di
ciccia del suo Melchiorre non c’era da cavarne nulla che avesse un po’
di costrutto, tuttavia, stante la gran deferenza che per gratitudine
aveva verso l’Arpione, accettò l’ufficio e si dispose compirlo senza il
menomo indugio. Detto per ciò al vecchio di aspettarla, discese subito
per la scaletta interna della bottega, dove sapeva trovare sicuramente
il marito e sperava a quell’ora non ci avesse compagnia.
In quest’ultima speranza fu delusa; essa non era ancora a mezzo della
scala, che udì venire dalla bottega un chiacchiericcio animato, in cui
l’accento delle voci e massime di quella del zozzaio pareva imbizzito.
Al primo momento ella fece un atto di contrarietà e fu per tornarsene
indietro stimando l’occasione meno propizia: ma poi tosto, alcune
parole giunte fino a lei, le fecero cambiare avviso e la persuasero
anzi che la sorte non poteva favorirla meglio per conseguire il suo
fine, che di farle sentire, non vista, il colloquio che aveva luogo
in bottega. Seguitò a discendere piano piano, tanto da non levare il
menomo rumore, e venne a postarsi, l’orecchio ben teso dietro la tenda
che scendeva innanzi all’uscio.
Quegli con cui Melchiorre parlava così animatamente non era altri che
Michele medesimo.
Abbiamo visto come la sera innanzi quest’ultimo, partendosi col conte,
avesse fatto di nascosto un ammicco al zozzaio, per annunziargli che
avrebbe avuto bisogno di parlargli in segreto, e che quindi sarebbe
venuto da lui all’uopo un momento o l’altro; al qual cenno l’omaccione
aveva corrisposto con un altro compagno. A Michele premeva sapere
qualche cosa di quel forestiero che, alloggiato presso Melchiorre e
sua moglie, aveva dei segreti con quest’ultima e conosceva il conte di
Camporolle; il marito d’Antonia non avendo ancora ricevuto il solito
prezzo della pigione per quei locali a terreno, benchè parecchi giorni
già fossero passati dopo quello in cui si sarebbe dovuto pagare, avido
com’era del denaro, si struggeva dal farne rampogna e sollecitazione a
colui che era stato intermediario in quell’affittamento e cui soltanto
egli conosceva. Perciò, quando appena ebbe veduto entrare in bottega
Michele, senza lasciarlo aprir bocca, movendogli incontro e parlando
con una vivacità che in lui era veramente rara, gli disse:
— Benvenuto Michele!.... Vi aspettavo appunto... Spero che mi avrete
portato i denari.
— Che denari? — domandò l’altro stupito a quell’attacco inaspettato.
— Oh bella!... Me lo domandate?... I denari dell’affitto...
— Ssst! — fece Michele interrompendolo e guardandosi dattorno. — Vi ho
pur detto di non parlarne mai di codesto.
— Eh che qui siam soli e non c’è anima che ci possa sentire! — esclamò
il zozzaio. — E conviene che ne parli se ho da farmene pagare.
— Vuol dire che non siete stato pagato?
— No, per mille diavoli.
— Ebbene, vi si pagherà, non dubitate: sarà un oblio momentaneo.
— Un oblio che non si deve fare.... Io voglio i miei denari, capite?...
E faccio voi responsabile....
— Siete matto: — interruppe impaziente Michele. — Ve l’ho detto fin da
principio che io non c’entro.
— Ah! non c’entrate! E chi è venuto a domandarmi quei locali? Chi ha
conchiuso l’affare? Siete voi o non siete voi?
— Ma vi ho sempre detto che era per altre persone...
— Già:... E quelle altre persone non compariscono, e io non so di
nessun altro, non conosco nessun altro che voi, e se non mi portate i
denari quest’oggi stesso o al più tardi domani....
— Vi ripeto, — saltò su Michele con istizza anche lui, — che io di
denari non ve ne faccio vedere manco il segno: che non è affar mio, che
come avete ricevuto le mesate antecedenti riceverete anche questa senza
mia intromissione, e che non mi secchiate più.
Era a questo punto il colloquio quando Antonia giunse, e trovò di molto
interessamento lo stare ad ascoltare.
— E sapete che cosa io farò per prima cosa? — gridò Melchiorre. —
Metterò in pratica il suggerimento medesimo che voi m’avete dato quel
giorno: farò levare le serrature inglesi che quei signori sconosciuti
applicarono ai due usci, le scambierò con altre mie, delle quali mi
terrò le chiavi, e se ci avranno da mettere ancora il naso là dentro...
— Voi non farete codesto! — interruppe Michele incollerito. — Pensate
che fra quei signori c’è gente che potrebbe farvela scontare cara e
salata; e il guadagno che avete fatto e che potete fare ancora, può
scambiarsi in danni che avrete da rimpiangere amaramente.
Questa minaccia fece effetto sul marito d’Antonia. Si grattò un
orecchio, masticò una bestemmia, e tornato subitamente alla sua placida
natura, disse strizzando l’occhio:
— E’ son dunque gente di alto bordo eh?
— Eh! eh! — ripetè Michele con un moto del capo e delle spalle che
completava il significato dell’esclamazione.
— E allora perchè fanno questa brutta figura di non pagare a tempo?
— Ci hanno tante cose a cui pensare! State tranquillo che avrete quanto
vi fu promesso.
— Va bene... conto sulla vostra parola.
— E ora, che siete diventato di nuovo ragionevole, mio caro Melchiorre,
voi dovete levarmi di una grande curiosità.
— Che cosa? — domandò colla sua solita tranquillità il marito d’Antonia.
— Voi non vi siete mai curato di sapere chi e che cosa fosse quel
forestiero, amico di vostra moglie.
— Io no: — rispose l’omaccione. — Dal momento che non me ne viene nulla
in tasca.
— Ma se ve ne venisse, sareste capace di spillar fuori il segreto?
Il zozzaio fece saltare la sua epa madornale in una risata grossolana.
— Eh chi sa! — esclamò. — L’Antonia, anche malgrado gli annetti, mi
vuol sempre bene, ed ha tuttavia certe velleità.... Approfittando di
qualche momento di tenerezza...
— Bravo! — esclamò Michele ridendo villanamente anche lui: —
approfittatene, cercate di sapere tutto il più che possiate di quel
cotale, e perchè e come e da quando egli conosca un certo conte di
Camporolle; e se mi saprete dire a dovere di tutto questo, una diecina
di svanziche le avrete.
Melchiorre fece una smorfia.
— Dieci svanziche sono pochine.
— Ed è pochino anche il servizio che vi domando... Dunque quando devo
tornare?
— Domani mattina.
— Ho capito!... — fece Michele accennando furbescamente degli occhi. —
E ora datemi un bicchierino di zozza.
Melchiorre prese la bottiglia e s’apparecchiò a mescere: ma nell’atto
si fermò colla mano in aria e l’ampolla mezzo chinata.
— Ma, lo pagate? — disse.
— Uh! l’avaraccio! — esclamò Michele. — Vi ho fatto guadagnare tanti
denari, un _marenghino_ bello e fiammante ieri sera, per quelle vostre
porcherie... e avete il fegato di farmi pagare un bicchierino!
— Eh mio caro! — rispose Melchiorre: — il commercio è il commercio.
Michele tracannò d’un fiato il liquore, gettò due soldi sul banco e
uscì dicendo:
— A domattina.
Il zozzaio prese tranquillamente le monete e le ripose nel cassetto;
ma in quella trasalì a una ben nota voce che gli gridava alle spalle
indignata:
— Ah cane traditore!
Si volse spaventato, e si vide innanzi la moglie accesa nel viso e
colle mani sui fianchi.
LIV.
La battaglia fra marito e moglie, come era facilmente prevedibile da
chiunque conoscesse l’uno e l’altra, riuscì una sollecita e completa
vittoria della seconda; anzi non vi fu neppure una vera battaglia,
perchè quel ciccione di Melchiorre, mettendo sopra ogni altra
considerazione quella del suo quieto vivere, tentò appena una mostra di
resistenza col negare, e visto che l’Antonia aveva udito abbastanza da
sapere più della metà e da indovinare il resto, si arrese, senz’altro,
a discrezione, cedendo armi e bagagli, cioè spifferando ogni minima
cosa dall’a alla zita.
Le rivelazioni di Melchiorre, comunicate a Matteo Arpione, suscitarono
in costui un mondo di congetture. Poteva essere benissimo che chi
si raccoglieva in quei locali di notte con tante cautele, fosse
un branco di giovani viziosi che vi facessero orgie segrete, come
Michele aveva detto al zozzaio: ma appunto lo averlo detto costui
faceva nascere il dubbio che così non fosse. Per qual ragione lo
stesso Michele aveva condotto fino a quell’estremo capo della città
il giovane Alfredo, se non per farlo penetrare in quella segreta
congrega? Era egli ammessibile che fossero venuti sì lontano dal
teatro, onde il conte era uscito, solamente per bere un cattivo ponce
in uno spaccio di sì bassa sfera? E se Alfredo veniva introdotto in
quella misteriosa ragunata era da supporsi che vi si conducesse per
desiderio o curiosità di lussuriosi diletti che là si godessero, lui
che era di corretti costumi, e in una sera come quella, quando l’animo
sconvolto doveva essere acconcio piuttosto a tutt’altro? I discorsi
audacemente rivoluzionarii uditi dall’Arpione medesimo in bocca a
Michele; la rabbia che aveva di certo destata in Alfredo l’indegno
tratto del principe; le interrotte parole che erano sfuggite al giovane
durante il delirio, tutto concorreva a fare argomentare che ben diverso
dall’accennato era lo scopo di quelle notturne assemblee. Matteo ne
conchiuse che lì v’era il pericolo imminente, da cui si doveva salvare
a fianco del principe, sfidando la pubblica opinione, offendendo il
sentimento morale di tutta una cittadinanza.
La carrozza ducale irruppe con tanto impeto nella piazza, che poco
mancò non ne restassero schiacciati i primi pedoni in cui s’abbattè, i
quali a stento scamparono saltando in disparte.
— Eh! fate attenzione, marmotte! — gridò sprezzosamente il duca
dall’alto del suo seggio facendo schioccare la frusta. — Non siete
buoni a far largo?
Erano gente della plebe, donne e ragazzi; si tirarono in là umili,
salutando con timore; ma i signori che stavano un po’ più lontano,
mandarono un mormorio, e poi, siccome il duca volgeva gli sguardi su
di loro e spingeva i cavalli a quella parte, quasi tutti, per non aver
da salutare, sbiettarono, alcuni entrando vivamente nel caffè, altri
gettandosi nella strada più vicina. Ma il duca sollecitò ancora la
corsa dei cavalli, e colla sua lunga scuriada arrivando fin dietro i
fuggenti, ne gettò a terra i cappelli mentre gridava colla sua voce
squarrata:
— Salutate, marrani, villanzoni che siete!
Fra coloro a cui fu gettato a terra il cappello di quel modo, erano
due o tre dei principali nella congiura a cui quella notte medesima si
era ascritto Alfredo di Camporolle, e fra essi un tale che aveva molta
attinenza con dame e cavalieri che accostavano la duchessa e ne avevano
acquistata la fiducia.
LII.
Abbiamo visto come, la mattina medesima di quel giorno che doveva
chiudersi con sì importanti avvenimenti pel conte di Camporolle, Matteo
Arpione si fosse partito di buon’ora da Parma con una carrozzella
che l’Antonia gli aveva procurato, e non fosse tornato più che a
sera calata. Non sarà inutile un breve racconto di codesta gita
dell’usuraio.
Egli aveva spinto il cavallo ad un buon trotto, e non si era fermato
più che ad un’osteriuccia posta sulla strada alla distanza di circa una
dozzina di chilometri, dove aveva lasciato cavallo e carrozza, si era
ordinato da pranzo e poi erasi allontanato a piedi, avviandosi verso un
gruppo di case, quasi nascoste in mezzo alla campagna a un buon trar di
schioppo dalla strada.
Se alcuno avesse potuto essere con lui ad osservarlo in codesto suo
viaggetto, avrebbe avuto da notare come, man mano che egli si veniva
accostando a quel paese i suoi lineamenti pigliavano l’espressione di
chi ritorna in paese non più veduto da lungo tempo, ma che per qualche
efficace ragione gli è stato potentemente impresso nell’animo e si
commuove a seconda che rivede e riconosce luoghi che gli ridestano
vive delle memorie interessantissime della sua vita. Quando con passo
lento si diresse, come ho detto, a quella specie di casale nascosto
fra le alte piante, la sua figura di solito così apatica esprimeva
una mestizia profonda, sentita, non priva di tenerezza. Quei luoghi,
qualunque fosse il tempo che non li aveva più rivisti, erano dicerto
bene impressi nel suo ricordo, perchè egli camminò senza esitare, senza
domandare indicazioni, per varii sentieruoli serpeggianti traverso
prati e campi, dritto alla sua meta.
E la sua meta fu una casetta umile, anzi povera, un sol piano a terreno
con sopravi un tetto di paglia, circondata da un orto ricinto d’una
siepe di biancospino il cui passaggio era chiuso da un cancelletto di
legno tarlato, ombreggiata da due olmi giganteschi che la nascondevano
e riparavano, divisa d’un bel tratto dalle altre che si raggruppavano
un po’ più in là intorno al modesto campanile d’una povera chiesuola.
Quello non era veramente un villaggio, era una frazione di villaggio,
il cui centro municipale era lontano una buona mezz’ora di cammino: e
quella chiesa non era neppure una parrocchia, ma una succursale dove il
cappellano aveva facoltà di amministrare all’uopo certi sacramenti.
Matteo giunto al cancelletto della siepe si fermò, stette un momento
immobile a guardarsi dintorno e un appannamento, come il velo d’una
lagrima, venne alle sue pupille. Chi avesse potuto leggergli nel
pensiero avrebbe visto ch’egli diceva a sè stesso:
— Nulla v’è di cambiato, fuorchè le piante un po’ più cresciute, la
casa diventata più scura, questo cancello, gli usci e le imposte delle
finestre più tarlati... Eppure sono passati più di venti anni!
Guardò nell’orto con occhi bramosamente vivaci; non ombra di
essere umano; la casa era chiusa; fuori che due colombi i quali si
perseguitavano sul tetto tubando, tutto era immobilità e silenzio.
Stato ancora un poco, Arpione si mise a chiamar forte.
— Tino! Tino!... O Battistino!
Non gli fu risposto che da un cane vecchio spelato, di quelli dal muso
aguzzo che si dicono volpini, il quale si levò da un mucchio di paglia
dove stava sdraiato e venne al cancelletto abbaiando raucamente.
Il vecchio lo guardò con una specie di compassione.
— Sei tu, misero botolo, il solo compagno del povero becchino?
Mi apparisci magro e sfiancato com’era il tuo padrone quando l’ho
conosciuto e come sarà probabilmente anche ora... Non vuoi lasciarmi
entrare?... Non capisci che io sono un amico?
Così dicendo, Matteo, da persona pratica, passò la mano traverso
le stecche del cancello, sollevò un rozzo saliscendi che trovavasi
all’interno e spinto il cancello lo aprì ed entrò malgrado le proteste
fattesi più clamorose del cane incollerito.
— Quanta fedeltà canina! — disse con amara ironia l’Arpione. — E
pensare che se avessi un tozzo di pane, lo farei tacer subito.
Andò diritto, risoluto verso la casa, e il cane gli venne dietro
annusandogli i talloni e seguitando ad abbaiare. L’uscio era chiuso,
e Matteo, dopo averlo tentato invano, si volse senza esitare al più
vicino dei due olmi, cacciò la mano entro un buco di esso e ne tolse
una chiave che vi era riposta.
— Tino ha pur sempre le medesime abitudini: — disse sorridendo
lievemente: e con quella chiave andò ad aprire l’uscio di casa.
Quando vide quell’intruso spalancare la porta e cacciarsi dentro,
il cane divenne addirittura furibondo e con abbaiamenti rabbiosi si
slanciò alle gambe di quell’audace per morderlo. L’Arpione cominciò per
allontanarselo con un buon calcio che lo mandò a guaire quattro passi
lontano; poi, entrato nella stanza a terreno, e visto sopra una madia
un bel pezzo di pagnotta, lo prese e s’affrettò a gettarlo all’animale
che, più rabbioso di prima, s’apprestava a rinnovare l’assalto. Il
cane esitò un poco fra l’ira e la gola; ma poi vinse quest’ultima, e
azzannata la pagnotta, e’ si mise a divorarla, grugnendo però ancora di
quando in quando.
— E l’ho comprato col pane del suo padrone medesimo! — esclamò Matteo
coll’amara ironia di poc’anzi.
Poi guardò attentamente intorno a sè. Era dell’interno della casa come
dell’orto: tutto era lo stesso e allo stesso posto, se non che più
invecchiato. Matteo mandò un sospiro, e poi aprì un uscio laterale,
chiuso colla sola stanghetta a molla della serratura ed entrò in una
cameretta bianca, pulita, con un letticciuolo, due sedie, un crocifisso
appeso al muro, una piccola valigia e nient’altro.
Il vecchio usuraio stette un momento immobile sulla soglia a
contemplare quella cameretta, come se vi fossero colà dentro chissà
quanti oggetti preziosi da ammirare; mandò un altro sospiro più
profondo e disse fra sè:
— Quel poveruomo ha mantenuto la parola che mi ha dato: essa è tale e
quale.
Poi penetrò nella stanza e chiuse accuratamente l’uscio dietro di
sè: s’appressò al letticciuolo e cadde in ginocchio presso a quel
capezzale.
Era passata forse una mezz’ora, quando un uomo alto, segaligno,
vecchio, un po’ curvo della persona, ma con aspetto robusto, il volto
pieno di rughe fittissime, il cranio pelato, la pelle color di rame,
vestito poveramente da contadino, sopraggiunse e si stupì fortemente
nel trovare l’uscio di casa aperto e il suo cane che gli faceva
festa con una cert’aria tra di paura e di compunzione che lo rivelava
chiaramente reo di qualche colpa.
— Che cos’è ciò? — disse egli forte, come se interrogasse il cane. —
Chi è venuto?
La bestiola rispose a modo suo, cioè con un abbaiamento: ma in quella
l’uscio della cameretta vicina si aprì e comparve sulla soglia Matteo
Arpione.
— Son io: — disse questi, fissando attentamente il nuovo venuto.
I due vecchi si guardarono un poco: il padrone della casupola con
istupore, l’altro con non dissimulata commozione.
— Non mi riconoscete più, Tino? — disse Matteo, avanzandosi d’un passo.
— Se non vi trovassi qui, — rispose quell’uomo, — se non vi vedessi
uscire da quella camera, di certo non vi riconoscerei più, tanto siete
cambiato!
Matteo mandò un sospiro che pareva di rimpianto.
— E tanto tempo è che non vi ho più veduto: — si affrettò a soggiungere
Battistino, come per desiderio di rimediare al poco buono effetto delle
prime parole.
Ma la giunta parve all’Arpione meno gradita ancora della derrata, e col
tono di chi si scusa da un rimprovero che lo punge nel vivo, rispose:
— Che volete? avevo promesso e m’ero proposto di venire sovente; ma non
ho potuto. Gli affari... ho molti, ho troppi affari per le mani... le
vicende d’una vita agitata, laboriosa, pugnace, me ne tolsero sempre il
tempo e la possibilità.
— Bene! bene! disse il becchino coll’accento di filosofia pratica d’un
uomo che non si cura il meno del mondo di quanto pensano e fanno gli
altri. — Ho pur capito che doveva essere così... Ma io vi aveva fatta
una promessa: e questa, nei venti e più anni che sono passati, ho
sempre mantenuta, come se voi aveste da arrivare ad ogni momento per
vedere se ero fedele nell’adempirla.
— Vi ringrazio, — pronunziò Matteo con una lentezza che celava una
commozione. — Ho già visto la camera: voi l’avete rispettata...
— Eh! — interruppe Battistino con certa sua rozza impazienza. — Mi
avete pagato... mi avete ricomprato per ciò tre o quattro volte questa
casipola... Finchè io viva, le cose staranno a quel modo.
— E la tomba?
— Venite a vedere... vengo appunto di là. Quello è il mio mondo; quando
non sono chiuso nella solitudine della mia casa, son là in quella
solitudine coi morti. Ho estirpato or ora le male erbe intorno al
tumuletto e inaffiato i fiori. Venite pure.
— Andiamo: — disse laconicamente Matteo, avviandosi pel primo.
Battistino lo seguì.
La giornata di marzo era lieta, serena, tepida: una giornata precoce
di primavera. Gli alberi avevano da lontano una tinta rossigna per le
gemme presso a sbocciare; le erbe nei prati si drizzavano alteramente
con un allegro verde di smeraldo; correvano per la campagna certe
aurette tepenti, certi profumi indefinibili che avvivavano il sangue
e rallegravano lo spirito. Era la natura che nel suo eterno ridestarsi
cominciava a sorridere.
Matteo camminava sollecito, primo, e Battistino gli veniva dietro
curvo, col suo passo allungato: non si scambiarono una parola. Il
cancello del cimitero era aperto: l’usuraio v’entrò, ma poi, fermatosi,
diede una sguardata tutt’intorno, come incerto della direzione da
prendere.
L’umile cimitero di campagna, in cui non si drizzavano fastosi
monumenti marmorei, in cui fra le erbe alte e gli arbusti incolti e
gli alberetti non rimondati sorgevano qua e là croci di legno, le più
pericolanti, alcune già cadute: l’umile cimitero era pieno di sole, di
pace, di voci d’augelli allegramente pigolanti nel tripudio dei loro
amori primaverili.
Il becchino entrò innanzi a Matteo e additandogli una parte, gli disse:
— Da questa.
Matteo fe’ cenno col capo che ci si ritrovava, e riprese il cammino con
passo sicuro.
In un angolo del quadrilatero che formava il Campo Santo, un po’
appartata da tutte le altre fosse ve n’era una segnata da una croce
di larice, da poco rinnovata, e sulla parte trasversale di essa stava
inciso rozzamente un semplice nome: GIUSEPPINA.
Tino precedette l’Arpione sino a quel luogo e là si fermò.
— È qui! — disse.
Matteo ripetè il medesimo cenno di testa e si fermò anche lui a un
passo lontano da quella croce.
Il tumuletto di terra, ben ripulito, era circondato da una corona di
piccoli rosai che già cominciavano a metter fuori i bottoni: più in là
curvava sopra la croce i suoi rami pendenti ancora spogli di frondi un
salice piangente.
L’usuraio incrociò le braccia al petto e rimase immobile, chinando
basso basso il volto, così che non se ne sarebbero potuti vedere da
nessuno i lineamenti. Forse la presenza del becchino lo trattenne
da mettersi in ginocchio presso quella tomba, come aveva fatto al
capezzale del letto in cui aveva mandato l’ultimo respiro la donna che
giaceva sepolta sotto quei rosai.
— Vedete! — disse Tino dopo un poco: — la croce è nuova di pochi mesi:
è la terza che ricambio... e ci scolpisco sempre su il nome io stesso.
Matteo accennò di nuovo col capo in atto d’approvazione; poi si levò il
cappello e stette un dieci minuti, guardando fisso innanzi a sè: la sua
fisonomia era, come al solito, senza espressione veruna.
— Va bene, Tino: — disse quindi. — Sono contento di voi... Andiamo a
casa: devo parlarvi.
Ebbero un lungo colloquio, in cui Matteo diede all’altro minute
ed esatte istruzioni. Al venir della sera, l’Arpione ripartì per
tornarsene a Parma, dove ebbe altro colloquio coll’Antonia, dopo il
quale s’era recato, come vedemmo, al palazzo abitato dal conte di
Camporolle.
La mattina dipoi, quando aveva abbandonato Alfredo, assalito dalla
febbre, Matteo, come fu detto, era stato testimonio del brutto fatto
del duca frustatore in pubblico dei giovani che fuggivano per non
salutarlo, e dell’indignazione che, partito il principe, malgrado il
timore che ispirava pure la Polizia, non aveva potuto tenersi dal
prorompere fra coloro che erano restati sulla piazza e colpiti e
spettatori di quella intollerabile prepotenza.
Eravi sopra tutto un capannello composto per la maggior parte di
popolani, in mezzo ai quali s’agitava e declamava più furibondo di ogni
altro un tale, la cui fisonomia non riuscì nuova a Matteo. Bisognava
sentirlo con che termini audaci e’ parlava del duca e delle prepotenze
di lui e del governo, de’ diritti conculcati del popolo, della vendetta
che questo popolo oppresso avrebbe dovuto compiere! I più prudenti
s’allontanavano discretamente da quel tribuno e dal gruppo dov’egli
perorava; ma l’ira che aveva suscitato il contegno del duca faceva in
quel momento meno prudenti anche i timidi, e molti erano quelli che si
fermavano, ascoltavano, fremevano ed approvavano.
Matteo s’accostò anche lui, non tanto per udire, quanto per esaminare
bene il declamatore, che a quel primo momento non sapeva dire dove se
lo fosse già trovato innanzi; ma quando ne fu a due passi, la memoria
a un tratto glie ne venne: quello era l’uomo che egli aveva visto la
sera innanzi affacciarsi all’uscio dello stanzino nella bottega del suo
amico Melchiorre, là dove un tratto aveva creduto travedere la bionda,
pallida, delicata figura d’Alfredo. Se la sera prima la faccia rozza
e cupa di quell’uomo era spiaciuta a Matteo, ora vedendola costì a
declamare con esagerazione, rotando certi occhiacci e facendo la voce
grossa, gli spiacque assai più.
— Quello è uno scellerato birbone capace d’ogni più tristo fatto:
— disse a sè stesso Matteo, il quale per lunga esperienza e per
accortezza si intendeva assai d’uomini e di fisonomie: — e son sicuro
che qui fa l’agente provocatore, da cui quei goccioloni si lasciano
mettere in mezzo.
Ora pensatevi qual fosse il suo stupore, — e uno spiacevole stupore,
— quando nel pomeriggio, recatosi a pigliar nuove del conte di
Camporolle, vide dalla camera stessa del giovane uscire un uomo, il
quale era niente meno che il beone della sera innanzi e il tribuno
piazzaiuolo della mattina.
Anche quell’uomo, che passò innanzi a Matteo nel partirsi, dovette
riconoscere costui, perchè fece un atto di contrarietà, subito
dissimulato, ma cui pure riuscì a scorgere l’occhio acuto del vecchio.
Interrogata la governante, l’Arpione apprese come Alfredo, tornato in
sè, avesse voluto a ogni costo saltar giù dal letto, affermando che
era aspettato, che aveva grandi e importanti cose da fare; come alle
preghiere, alle insistenze, alla quasi violenza che gli si era fatto
per tenerlo in letto, non si fosse acquetato, finalmente, che mercè la
promessa di andare subito a cercare di un certo Michele al caffè della
Piazza Grande e di condurglielo al capezzale il più presto possibile.
Erano andati, avevano trovato quell’uomo, lo avevano condotto, ed era
quel desso che Matteo aveva veduto partirsi dopo avuto con Alfredo un
colloquio da soli di oltre mezz’ora.
LIII.
Queste informazioni inquietarono di molto Matteo.
Era ormai accertato per lui come il giovane travisto nella bottega
di Melchiorre la sera innanzi, fosse stato Alfredo, in compagnia di
quell’uomo dalla faccia sospetta, che ora apprendeva chiamarsi Michele.
E questi faceva il tribuno declamatore in piazza, ed era insieme col
giovane dopo l’oltraggio da costui ricevuto dal principe, e Alfredo
aveva tanta premura di accontarsi con lui e, benchè malato in letto,
aveva insieme un lungo colloquio segreto! Chiunque avrebbe dubitato
che tutto codesto si attenesse ai progetti di vendetta, che le parole
pronunziate nel delirio del febbricitante avevano in lui rivelati:
tanto più ne sospettò Matteo Arpione, secondo a nessuno nell’accortezza
e negli indovinamenti.
Della ragione però che aveva mosso Alfredo a chiamare così
sollecitamente Michele presso di sè, il vecchio non ne sospettò che
una parte: il conte di Camporolle non aveva voluto solamente fare
avvertiti i congiurati del suo malore, ma per prima cosa aveva pensato
di renderne informata la baronessa di Muldorff.
Matteo frattanto, risoluto più che mai a salvare Alfredo dal pericolo
che vedeva sicuro e imminente, affine di conoscere meglio chi fosse
quel Michele, si affrettò alla casa dell’Antonia, e a costei domandò le
spiegazioni che riteneva necessarie.
Per prima cosa, dalla descrizione che Antonia gli fece del giovane
compagno di Michele la sera innanzi, ebbe la sicura conferma che quello
era il conte; poi dai sospetti della donna intorno a Michele, gli
fu ribadita la brutta opinione che egli si era fatta di quell’uomo,
che fosse cioè un agente di polizia. Dopo ciò egli avrebbe dato
qualunque cosa per sapere quali trattative e accordi fossero passati ed
esistessero fra il conte e il popolano; e udito di Melchiorre che era
conoscente e poteva anzi dirsi amico da tanto tempo di quel Michele,
pregò la donna di provare, interrogando il marito, a tirargli fuori
o qualche notizia positiva, o almeno qualche cenno e indizio, da cui
un furbo come lui potesse dedurre la verità o almeno tal cosa che
le si accostasse. Antonia, benchè protestasse che da quella massa di
ciccia del suo Melchiorre non c’era da cavarne nulla che avesse un po’
di costrutto, tuttavia, stante la gran deferenza che per gratitudine
aveva verso l’Arpione, accettò l’ufficio e si dispose compirlo senza il
menomo indugio. Detto per ciò al vecchio di aspettarla, discese subito
per la scaletta interna della bottega, dove sapeva trovare sicuramente
il marito e sperava a quell’ora non ci avesse compagnia.
In quest’ultima speranza fu delusa; essa non era ancora a mezzo della
scala, che udì venire dalla bottega un chiacchiericcio animato, in cui
l’accento delle voci e massime di quella del zozzaio pareva imbizzito.
Al primo momento ella fece un atto di contrarietà e fu per tornarsene
indietro stimando l’occasione meno propizia: ma poi tosto, alcune
parole giunte fino a lei, le fecero cambiare avviso e la persuasero
anzi che la sorte non poteva favorirla meglio per conseguire il suo
fine, che di farle sentire, non vista, il colloquio che aveva luogo
in bottega. Seguitò a discendere piano piano, tanto da non levare il
menomo rumore, e venne a postarsi, l’orecchio ben teso dietro la tenda
che scendeva innanzi all’uscio.
Quegli con cui Melchiorre parlava così animatamente non era altri che
Michele medesimo.
Abbiamo visto come la sera innanzi quest’ultimo, partendosi col conte,
avesse fatto di nascosto un ammicco al zozzaio, per annunziargli che
avrebbe avuto bisogno di parlargli in segreto, e che quindi sarebbe
venuto da lui all’uopo un momento o l’altro; al qual cenno l’omaccione
aveva corrisposto con un altro compagno. A Michele premeva sapere
qualche cosa di quel forestiero che, alloggiato presso Melchiorre e
sua moglie, aveva dei segreti con quest’ultima e conosceva il conte di
Camporolle; il marito d’Antonia non avendo ancora ricevuto il solito
prezzo della pigione per quei locali a terreno, benchè parecchi giorni
già fossero passati dopo quello in cui si sarebbe dovuto pagare, avido
com’era del denaro, si struggeva dal farne rampogna e sollecitazione a
colui che era stato intermediario in quell’affittamento e cui soltanto
egli conosceva. Perciò, quando appena ebbe veduto entrare in bottega
Michele, senza lasciarlo aprir bocca, movendogli incontro e parlando
con una vivacità che in lui era veramente rara, gli disse:
— Benvenuto Michele!.... Vi aspettavo appunto... Spero che mi avrete
portato i denari.
— Che denari? — domandò l’altro stupito a quell’attacco inaspettato.
— Oh bella!... Me lo domandate?... I denari dell’affitto...
— Ssst! — fece Michele interrompendolo e guardandosi dattorno. — Vi ho
pur detto di non parlarne mai di codesto.
— Eh che qui siam soli e non c’è anima che ci possa sentire! — esclamò
il zozzaio. — E conviene che ne parli se ho da farmene pagare.
— Vuol dire che non siete stato pagato?
— No, per mille diavoli.
— Ebbene, vi si pagherà, non dubitate: sarà un oblio momentaneo.
— Un oblio che non si deve fare.... Io voglio i miei denari, capite?...
E faccio voi responsabile....
— Siete matto: — interruppe impaziente Michele. — Ve l’ho detto fin da
principio che io non c’entro.
— Ah! non c’entrate! E chi è venuto a domandarmi quei locali? Chi ha
conchiuso l’affare? Siete voi o non siete voi?
— Ma vi ho sempre detto che era per altre persone...
— Già:... E quelle altre persone non compariscono, e io non so di
nessun altro, non conosco nessun altro che voi, e se non mi portate i
denari quest’oggi stesso o al più tardi domani....
— Vi ripeto, — saltò su Michele con istizza anche lui, — che io di
denari non ve ne faccio vedere manco il segno: che non è affar mio, che
come avete ricevuto le mesate antecedenti riceverete anche questa senza
mia intromissione, e che non mi secchiate più.
Era a questo punto il colloquio quando Antonia giunse, e trovò di molto
interessamento lo stare ad ascoltare.
— E sapete che cosa io farò per prima cosa? — gridò Melchiorre. —
Metterò in pratica il suggerimento medesimo che voi m’avete dato quel
giorno: farò levare le serrature inglesi che quei signori sconosciuti
applicarono ai due usci, le scambierò con altre mie, delle quali mi
terrò le chiavi, e se ci avranno da mettere ancora il naso là dentro...
— Voi non farete codesto! — interruppe Michele incollerito. — Pensate
che fra quei signori c’è gente che potrebbe farvela scontare cara e
salata; e il guadagno che avete fatto e che potete fare ancora, può
scambiarsi in danni che avrete da rimpiangere amaramente.
Questa minaccia fece effetto sul marito d’Antonia. Si grattò un
orecchio, masticò una bestemmia, e tornato subitamente alla sua placida
natura, disse strizzando l’occhio:
— E’ son dunque gente di alto bordo eh?
— Eh! eh! — ripetè Michele con un moto del capo e delle spalle che
completava il significato dell’esclamazione.
— E allora perchè fanno questa brutta figura di non pagare a tempo?
— Ci hanno tante cose a cui pensare! State tranquillo che avrete quanto
vi fu promesso.
— Va bene... conto sulla vostra parola.
— E ora, che siete diventato di nuovo ragionevole, mio caro Melchiorre,
voi dovete levarmi di una grande curiosità.
— Che cosa? — domandò colla sua solita tranquillità il marito d’Antonia.
— Voi non vi siete mai curato di sapere chi e che cosa fosse quel
forestiero, amico di vostra moglie.
— Io no: — rispose l’omaccione. — Dal momento che non me ne viene nulla
in tasca.
— Ma se ve ne venisse, sareste capace di spillar fuori il segreto?
Il zozzaio fece saltare la sua epa madornale in una risata grossolana.
— Eh chi sa! — esclamò. — L’Antonia, anche malgrado gli annetti, mi
vuol sempre bene, ed ha tuttavia certe velleità.... Approfittando di
qualche momento di tenerezza...
— Bravo! — esclamò Michele ridendo villanamente anche lui: —
approfittatene, cercate di sapere tutto il più che possiate di quel
cotale, e perchè e come e da quando egli conosca un certo conte di
Camporolle; e se mi saprete dire a dovere di tutto questo, una diecina
di svanziche le avrete.
Melchiorre fece una smorfia.
— Dieci svanziche sono pochine.
— Ed è pochino anche il servizio che vi domando... Dunque quando devo
tornare?
— Domani mattina.
— Ho capito!... — fece Michele accennando furbescamente degli occhi. —
E ora datemi un bicchierino di zozza.
Melchiorre prese la bottiglia e s’apparecchiò a mescere: ma nell’atto
si fermò colla mano in aria e l’ampolla mezzo chinata.
— Ma, lo pagate? — disse.
— Uh! l’avaraccio! — esclamò Michele. — Vi ho fatto guadagnare tanti
denari, un _marenghino_ bello e fiammante ieri sera, per quelle vostre
porcherie... e avete il fegato di farmi pagare un bicchierino!
— Eh mio caro! — rispose Melchiorre: — il commercio è il commercio.
Michele tracannò d’un fiato il liquore, gettò due soldi sul banco e
uscì dicendo:
— A domattina.
Il zozzaio prese tranquillamente le monete e le ripose nel cassetto;
ma in quella trasalì a una ben nota voce che gli gridava alle spalle
indignata:
— Ah cane traditore!
Si volse spaventato, e si vide innanzi la moglie accesa nel viso e
colle mani sui fianchi.
LIV.
La battaglia fra marito e moglie, come era facilmente prevedibile da
chiunque conoscesse l’uno e l’altra, riuscì una sollecita e completa
vittoria della seconda; anzi non vi fu neppure una vera battaglia,
perchè quel ciccione di Melchiorre, mettendo sopra ogni altra
considerazione quella del suo quieto vivere, tentò appena una mostra di
resistenza col negare, e visto che l’Antonia aveva udito abbastanza da
sapere più della metà e da indovinare il resto, si arrese, senz’altro,
a discrezione, cedendo armi e bagagli, cioè spifferando ogni minima
cosa dall’a alla zita.
Le rivelazioni di Melchiorre, comunicate a Matteo Arpione, suscitarono
in costui un mondo di congetture. Poteva essere benissimo che chi
si raccoglieva in quei locali di notte con tante cautele, fosse
un branco di giovani viziosi che vi facessero orgie segrete, come
Michele aveva detto al zozzaio: ma appunto lo averlo detto costui
faceva nascere il dubbio che così non fosse. Per qual ragione lo
stesso Michele aveva condotto fino a quell’estremo capo della città
il giovane Alfredo, se non per farlo penetrare in quella segreta
congrega? Era egli ammessibile che fossero venuti sì lontano dal
teatro, onde il conte era uscito, solamente per bere un cattivo ponce
in uno spaccio di sì bassa sfera? E se Alfredo veniva introdotto in
quella misteriosa ragunata era da supporsi che vi si conducesse per
desiderio o curiosità di lussuriosi diletti che là si godessero, lui
che era di corretti costumi, e in una sera come quella, quando l’animo
sconvolto doveva essere acconcio piuttosto a tutt’altro? I discorsi
audacemente rivoluzionarii uditi dall’Arpione medesimo in bocca a
Michele; la rabbia che aveva di certo destata in Alfredo l’indegno
tratto del principe; le interrotte parole che erano sfuggite al giovane
durante il delirio, tutto concorreva a fare argomentare che ben diverso
dall’accennato era lo scopo di quelle notturne assemblee. Matteo ne
conchiuse che lì v’era il pericolo imminente, da cui si doveva salvare
- Parts
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 01
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 02
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 03
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 04
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 05
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 06
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 07
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 08
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 09
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 10
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 11
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 12
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 13
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 14
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 15
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 16
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 17
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 18
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 19
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