La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 17
anzi principalmente di lui che si rideva.
La rabbia del principe era intensa, quando sopraggiunse il direttore
della Polizia, il quale coll’aria soddisfatta di un buon funzionario
che ha compito con zelo e con buon frutto il suo dovere, gli disse:
— Altezza, ne abbiamo arrestato una trentina; tutti o quasi tutti i rei
sono nelle nostre mani.
— Va bene! — gridò il duca secco secco, e lo gridò tanto forte, che
fu inteso da buona parte del teatro in cui ora regnava un silenzio di
tomba. — Tutti in fortezza, a pane e acqua... fino a nuovo avviso.
Il Pancrazi s’inchinò.
— C’è uno degli arrestati, — soggiunse poi, — il quale ha osato
rivoltarsi contro gli agenti di V. A...
— Il mio sellaio eh? ch’era lassù nel loggione? — interruppe il
principe sempre ad alta voce. — Birbante! Miserabile! Non sa che
l’ultimo dei nostri agenti rappresenta Noi?... Sia messo ai ferri corti
subito!...
— Per quante ore? — domandò il direttore della Polizia.
— Fino a nuovo avviso: — ripetè il duca.
Il poliziotto partì per andare ad eseguire gli ordini ducali.
La elegante sala del teatro era rimasta mezzo vuota; quasi tutti
tacevano impauriti: appena se qua e là si faceva sentire qualche
bisbiglio di voci sommesse: non c’era che il palchetto della baronessa
di Muldorff da cui si udiva un gaio chiacchericcio con qualche
risatina. Carlo III si mordeva le labbra con un dispetto ogni momento
maggiore.
— Ma che cosa fa quell’impresario della malora? — esclamò ad un punto.
— Ho ordinato che il ballo si riprendesse: dunque avanti, presto.
Ed ecco appunto in quella presentarsi l’impresario tutto umile e
tremante ad annunziare essere impossibile far ballare la Carlotta,
perchè questa s’era svenuta, e ora appena tornata in sè dichiarava che
non avrebbe potuto far nemmeno un passo, per tutto l’oro del mondo.
Il principe mandò una bestemmia, quale può uscire dalla bocca d’un
carrettiere ubbriaco e disse:
— Vedremo se non ballerà questa smorfiosa... Vado a persuaderla... e
giuraddio!
Con passo concitato, e seguito dall’impresario tremante, discese dal
palco scenico ed entrò con impeto nel camerino della danzatrice.
XLIV.
La Carlotta giaceva abbandonata sopra un sofà, il busto mezzo
slacciato, la pettinatura disfatta, le lagrime negli occhi, gemente
come una donna che sta per morire o poco meno; intorno le si
affaccendava la vecchia che soleva farle l’accompagnatura dappertutto,
e le metteva sotto il naso vasetti ed ampolline di profumi e di sali,
e le bagnava con una pezzuola umida d’acqua di colonia le tempia e le
narici.
Carlo III entrò come un buffo di vento da temporale, facendo suonare
forte nel passo i suoi talloni, mordendosi i peli dei baffi, rotando
minaccioso gli occhi, e non si fermò che accosto al sofà, dove stette,
le braccia incrociate al petto, a guardare la ballerina, la quale,
visto o non visto che l’avesse, aveva trovato bene di rinchiudere gli
occhi e di gemicolare più di prima.
— Via, sora Carlotta, — gridò l’impresario di dietro le spalle del
principe; — si faccia coraggio.... guardi chi c’è qui... — (La ragazza
non si moveva ed ansava dolorosamente). — Tiratevi su, animo; aprite
gli occhi, vi dico... — seguitava l’impresario, ed ella scuoteva
languidamente il capo, per accennare che non poteva. — Oh la vuoi
capire, sciocca, che qui c’è S. A. medesima in persona! — gridò alla
fine l’impresario impazientato.
E il duca, dando uno spintone alla vecchia che gli stava dinanzi a
premere sotto il naso di Carlotta una boccettina, proruppe col suo
accento incollerito:
— Che cos’è codesta commedia, giuraddio!... Su in gamba, pettegola, e
subito, e fra cinque minuti a ballare sul palco scenico, o corpo del
diavolo!...
Diede un pugno violento sul tavolino che era lì presso e fece
traballare i vasetti e le ampolle e le scatole che ci stavano su. La
vecchia si ritrasse spaventata: la ballerina aprì gli occhi e si levò
un po’ su della persona, ma sospirando con un gemito di moribonda.
— O cielo! — esclamò. — O Altezza!.... Io mi sento tanto male da
morire....
— Un corno: — interruppe vivamente il duca: — e sei proprio una sciocca
senza sugo se credi che io mi lasci ingannare dalle tue smorfie. Su,
in due colpi di mano rassetta più o meno le tua acconciatura, e va a
ballare.
— Ah per carità! — gemette essa: — impossibile!
— Ah signore Iddio! — esclamò la vecchia alzando le mani al cielo.
E il duca vòltosi all’impresario:
— È tutto pronto?
— Sì, Altezza.
— Ebbene va, e fa dare il segno di principiare.
L’impresario partì di corsa.
Carlotta portò ambe le mani agli occhi e scoppiò in un pianto dirotto.
— Presentarmi di nuovo innanzi a quel mostro di pubblico.... a quelle
bestiaccie feroci.... che m’hanno fischiata in tal modo... Dio! mi pare
ancora di sentirli... No, no, piuttosto qualunque supplizio.
— Ah sì! — appoggiò la vecchia. — La signorina è tanto sensibile!... Ne
morrebbe.
Il duca le volse un’occhiataccia che le mozzò la parola in gola.
— Tu devi sapere, bambina mia, — disse poi alla Carlotta, — che quando
io dico voglio, non c’è da ribattere...
— Oh Altezza, la prego, la scongiuro... Non mi sento davvero....
Avessi ascoltato mio cugino Pietro e non fossi più comparsa su queste
malaugurate scene!
— Tuo cugino Pietro! — interrogò il duca: — chi è?
— Pietro Carra...
— Oh oh! il sellaio?
— Sì, Altezza.
— È tuo cugino?
— Figliuolo d’una sorella di mia madre.
— E t’ha detto?
— Che me ne andassi da Parma, che come amica d’un austriaco m’avrebbero
fischiata, e lui per il primo...
— E ha mantenuta la parola.
— Dunque, Altezza, abbia compassione di me.... Non mi faccia più
comparire innanzi a quei scellerati.... Proprio non posso.... le giuro
che non posso.
— La non può: — ebbe la cattiva ispirazione di aggiungere la vecchia in
appoggio alla sua padrona.
Il duca le fu addosso come un basilisco, la prese alle spalle, la voltò
e con un calcio la mandò fuori dell’uscio del camerino.
— Al diavolo, vecchia strega.
La Carlotta si trovò ritta in piedi, spaventata.
— A chi dico? per la croce di Dio! — urlava il duca. — Voglio essere
ubbidito, e non si creda pigliarmi a zimbello. Tu andrai a ballare,
dovessi farti trascinare fin sul palco scenico da due gendarmi... E se
mi contenti, avrai il regalo d’un migliaio di _svanziche_.
— O Altezza! — esclamò la ballerina con tono affatto cambiato, —
per ubbidire a Lei, per farle piacere, andrei anche nel fuoco...
Mi permette che faccia tornare la mia donna di compagnia?... mi è
necessaria per aiutarmi a vestirmi.
— Venga la vecchia strega, e faccia presto e bene, e stia zitta.
Carlotta chiamò la sua compagna, la quale venne tutta umile e
s’affrettò intorno alla ballerina senza far nemmeno sentire il suo
rifiato.
Il duca tornò nel palchetto di prima, e subito dopo il telone si alzò
pel ricominciamento del ballo. Questo fu eseguito nel più completo
silenzio; la ballerina venne, danzò, non vi fu il menomo rumore;
lo spettacolo pareva aver luogo innanzi a un pubblico di morti. La
bizza del principe non era ancora passata, anzi nemmeno diminuita;
egli guardava soventissimo la loggia di faccia nella quale la Zoe si
mostrava sempre più amorosa e teneramente lusinghiera per Alfredo, e
si mordeva con ira concentrata i peli dei baffi. L’azione coreografica
non era ancora finita, quando si ripresentò dal principe il direttore
di Polizia a render conto degli ordini eseguiti e di certe informazioni
attinte. Gli arrestati erano tutti in fortezza, il Carra era coi
ferri ai piedi e alle mani; e dalle risposte date da qualcheduno dei
prigionieri, da certi indizi, si poteva argomentare che la brutta
scena di quella sera fosse l’effetto di un complotto, che aveva trovato
incoraggiamento e fors’anco aiuto di denaro in alte sfere, presso certe
auguste persone....
Quest’ultima informazione era data dal direttore della Polizia con
molte reticenze, con accorta peritanza e riserve, ma in modo da fare
tuttavia effetto sull’animo del duca, il quale a un punto interruppe:
— Suvvia, parlatemi chiaro, che faremo più presto. Volete dire che la
trama è stata immaginata nel circolo che attornia la duchessa?...
— Oh no, non dico ciò...
— Almeno che vi fu approvata?
— Si è forse saputo persuadere alla principessa, che per essere
comparsa in pubblico con V. A., quella ballerina meritava una
lezione...
— Oh la duchessa è capace di averlo pensato essa stessa... è capace
di ciò e d’altro... va bene... Ciò ha da rimanere assolutamente fra di
noi!
— Non dubiti Altezza... Ho fatto il mio dovere, dicendo a Lei tutta la
verità; ora se V. A. crede, io potrò molto facilmente far dileguarsi
ogni traccia di questa verità.
— E sarà meglio! — disse risolutamente il duca, e fece un cenno di
congedo.
Pancrazi partì.
Carlo III si rivolse verso il pubblico e rivide le sempre maggiori
moine che Zoe prodigava al conte di Camporolle.
— Anviti, — disse bruscamente, come in uno scoppio di dispetto. — Va da
quel figurino di Camporolle e intimagli l’ordine di venir subito qui a
sentire quello che abbiamo da dirgli.
Il colonnello di gendarmeria obbedì colla umile sollecitudine d’un
domestico.
Quando Zoe udì l’ambasciata di cui era apportatore il conte Anviti, e
con una ratta occhiata ebbe veduto il volto irritato del duca, non potè
nascondere un guizzo di gioia nelle sue accese pupille; si verificava
quello che essa aveva previsto e che stava attendendo da un momento
all’altro.
Alfredo rimase un po’ turbato; e incerto, confuso, non seppe a tutta
prima che cosa rispondere, che cosa fare.
— Oh vada, vada subito, caro conte: — disse con mostra di grande
interessamento la scellerata donna: — il duca non è di quelli che si
possano far aspettare.
Il giovane s’alzò di mala voglia e tese quasi timidamente la mano alla
baronessa. Questa glie la strinse forte e soggiunse con accento di
supplichevole raccomandazione:
— E badi ad esser calmo e prudente... Il duca è un po’ impetuoso, certe
volte ha la parola un po’ vivace, potrebbe lasciarsi sfuggire qualche
espressione meno misurata! Non ne faccia caso, non se ne adonti....
Il conte di Camporolle lasciò la mano della donna, s’inchinò e disse
freddamente:
— Farò quel che mi consiglieranno il mio decoro e la mia coscienza.
Appena uscito Alfredo, la baronessa si volse al colonnello Anviti col
più lusinghiero sorriso di questo mondo.
— S’accomodi costì in faccia a me.... al posto che occupava il conte di
Camporolle. O che le rincrescerebbe farmi compagnia per cinque minuti?
L’Anviti rispose con un complimento e sedendo nel posto indicatogli.
Dopo discorso allegramente delle avventure di quella sera, la donna
a un tratto, come per un’idea subitamente sopravvenutale, disse al
colonnello:
— Dovrebbe farmi un piacere Lei.
— Comandi.
— Due notti fa, S. A. e Lei mi onorarono d’una visita... Domandi al
duca e mi sappia dire se gli sarebbe molto discaro ch’io andassi a
restituirgliela questa notte medesima... a palazzo?
XLV.
Alfredo era entrato nel palchetto del duca col cuore che gli batteva e
la testa un po’ confusa. L’animo in lui era coraggioso, ma il carattere
timido; un pericolo, anche della vita, e’ l’avrebbe affrontato
senza tremare, una cattiva figura innanzi a sciocchi eleganti che lo
schernissero, gli faceva paura e gli levava la padronanza della mente e
la presenza di spirito.
Il principe lo tenne per due minuti, che al poveretto parvero ore,
sotto lo sguardo minaccioso, sdegnato, de’ suoi occhi da gatto, senza
parlargli; mentre tutti i cortigiani appuntavano pure nel giovane le
loro guardature insolenti. Alfredo si sentì venir rosso, per tutto
il sangue che gli si precipitò al capo, dalla vergogna e insieme
dall’ira; e poi farsi pallido pel restringersi del sangue medesimo
al cuore. Avrebbe voluto profondare sotterra; desiderò ardentemente
non esser venuto, pensò di fuggire, ma non ne avrebbe avuta nemmeno
la forza; pensò a quello che gli avevano detto l’Arpione e la Zoe
dell’oltraggiosa prepotenza di quel tirannello, che gli stava lì
davanti terribilmente corrucciato, e si aspettò qualcuno dei più
villani tratti soliti a colui, e tremò in prevenzione di doverlo
subire, e si domandò con angoscia che cosa avrebbe dovuto, che cosa
avrebbe potuto fare.
Carlo III, come usava il più spesso, preferì la beffa e l’ironia in cui
si credeva d’essere assai spiritoso.
— Ah, ah: eccolo qui il campione, l’eroe, l’amico del piemontese!
— esclamò ghignando. — Perbacco, signor conte di Camporolle! Lei
ha dimostrato un gran valore a guardare due che si misuravano le
sciabolate. Quante camicie ha bagnate?
I cortigiani risero.
Alfredo sentì un gelo corrergli per la spina dorsale, poi per tutti
i nervi; capì di essere diventato più bianco di un cadavere; le
pupille erano volte a terra come trattevi da un peso che non potessero
sollevare: quasi gli mancava il respiro.
Questo timoroso e umile di lui contegno diede ansa maggiore
all’impertinenza del duca e allo sguaiato buon umore de’ cagnotti di
lui.
— Ma Lei, nel trasporto del suo indomabile valore — continuava il
Borbone, — ha dimenticato una cosa; che disobbediva a me, a me che
avevo proibito che quel duello avesse luogo, e che a Noi, signor conte,
a Noi non si disubbidisce impunemente.
Aveva smesso il ghigno beffardo e il suo piccolo volto da mela cercava
darsi un’aria terribile corrugando le sopracciglia; i parassiti che
l’attorniavano pigliarono per istantaneo riflesso un aspetto severo e
burbero.
Il giovane non seppe trovar parola, soffriva, malediceva a sè stesso;
avrebbe dato dieci anni di vita per essere capace a rintuzzare quella
principesca insolenza.
— Dovrei farle gustare un poco di fortezza, — proseguiva il duca; —
ma sono troppo buono e mi decido a farle grazia quando Ella mi domandi
debitamente perdono...
Tacque un momento, guardando sempre a quel modo Alfredo, come
aspettandone la risposta. Il giovane capì pure che era necessario
parlare: tentò, ma la bocca era arida come per febbre, la lingua
attaccata al palato; aprì le labbra e non ne uscì una voce.
— E così? — riprese dopo un poco il duca, tornando alla beffa
insultante. — Attendo di udire la sua bella voce... O che avrebbe
perduto la favella?... Le si deve dire come ai bambini quando sono
stati cattivi: il gatto ti ha portato via la lingua?
La stupidità adulatrice dei cortigiani scoppiò in una sghignazzata.
Alfredo fece uno sforzo: le orecchie gli zufolavano; aveva una dolorosa
confusione in capo e una grave oppressione nel petto.
Il suo sforzo non riuscì che a fargli pronunciare con voce appena
intelligibile una sola parola:
— Altezza!...
— Oh oh! — gridò con quel tono di scherno il principe: — un automa
perfezionato!... Parla! Non c’è più che da vederlo muovere. Suvvia,
giudichiamo se è bene articolato e se il meccanismo giuoca bene.
Bisogna inginocchiarsi qui, ai nostri piedi.
Il conte di Camporolle, nella confusione del suo cervello, credette non
aver capito bene, e ripetè quasi balbettando:
— Inginocchiarsi?
— Appunto! Sissignore. Per domandare debitamente perdono a un principe
offeso, è il meno che si possa fare.
Ad Alfredo parve che tutto gli girasse intorno; fece forza a star saldo
sulle gambe che gli si piegavano sotto, e con voce semispenta, ma pure
abbastanza chiara, disse:
— Io sono gentiluomo e non sono suo suddito.
Il duca rifece gli occhioni di poc’anzi, sorse di scatto in piedi
e camminò per due passi verso il malcapitato. Tutti gli astanti
espressero sulle loro fisonomie da parassiti di Corte, la più grande
indignazione, il massimo orrore per la temerità di quello sciagurato.
— Ah! tu sei gentiluomo! — gridò il duca con uno scoppio della sua voce
squarrata che s’udì per tutto il teatro. — Insolente! Non sei che un
paltoniere appetto a un Borbone come sono io... Non sei mio suddito?..
Qui comando io, io solo per tua norma, e chiunque vive nei miei Stati
ha da star sottomesso ai miei voleri, alla mia autorità, ai miei
ordini... Hai capito?... T’ho detto d’inginocchiarti a’ nostri piedi;
e lo farai, dovessi farti abbassare a forza da due dei miei robusti
gendarmi... In ginocchio! Subito!... Per Dio!
E fece ancora un altro passo verso il giovane, col braccio levato,
quasi volesse percuoterlo.
Alfredo si ritrasse vivamente indietro; le gambe mal lo reggevano,
barcollò; una mano, non seppe mai bene di chi, la mano di uno di
quegli uomini che vilmente ghignavano alla sua umiliazione, gli si posò
pesantemente sulla spalla e lo spinse giù; il giovine si trovò con un
ginocchio a terra.
— Va bene! — disse sprezzosamente il Borbone. — Mi basta. Lasciatelo
andare.
E senza curarsi altrimenti più del conte, tornò trionfante al palchetto
a squadrar le ballerine.
Il Camporolle rimase lì, per un momento, che a lui tornò lunghissimo,
annientato; gli parve che qualche gran cosa gli fosse crollata
d’attorno, che un terribile disastro gli era capitato, di cui nella
presente confusione non sapeva rendersi ben conto; nel capo aveva un
immenso rumore che era come il complesso, la quintessenza di tutti i
fischi, di tutti gli urli che aveva udito strepitare poc’anzi e che
ora veniva a insultarlo, a sferzarlo, ad avvilirlo lui. Sorse in piedi
proprio automaticamente: gettò intorno un’occhiata quasi da pazzo,
travide fra una nebbia che gli offuscava lo sguardo il duca che già
gli voltava le spalle, i volti ghignanti de’ cagnotti, e al di là
dell’inquadratura della loggia, una regione tutta luce in cui gli parve
udir suonare un’immensa risata di scherno — per lui. Se avesse avuto in
quel punto un’arma, si sarebbe precipitato su coloro che aveva dinanzi,
primo il duca, e avrebbe colpito e colpito e non cessato di colpire
finchè tutti fossero caduti, o lui stesso. Si morse il pugno, mandò una
specie di ruggito soffocato, scappò.
Corse via come impazzito, pei corridoi, giù delle scale, fuori del
teatro, senza pensare a prendere il pastrano, senza veder nulla, senza
accorgersi di nulla: — nemmeno che un uomo avvolto in un mantello,
con apparenza di popolano, che pareva stesse aspettando alla porta del
teatro, gli si pose dietro e non cessò di seguitarlo.
Il tumulto nell’anima e nella mente di Alfredo era dolorosissimo e
immenso. Mille risoluzioni feroci facevano ressa nel suo cervello:
voleva sfidare a duello mortale tutti i presenti a quella scena: ma e
il principe? Come vendicarsene? Aspettarlo in qualche pubblico luogo
e volargli addosso e schiaffeggiarlo; e perchè non trafiggerlo?...
Sì, insultarlo con uno schiaffo, collo sputargli sul viso, e poi
piantargli un pugnale nel cuore. Gli pareva a quel punto, che avrebbe
avuto la forza e l’audacia di far l’uno e l’altro. Poi se la prendeva
con sè stesso. Si era regolato da stupido, da inetto, da vile! Aveva
vantata la sua qualità di gentiluomo. No, che non s’era mostrato tale;
un gentiluomo avrebbe sofferto tutto quello? Pensò a suo padre di cui
l’Arpione gli aveva detto sì nobile l’animo. Che cosa avrebbe fatto
suo padre se posto in quel caso? Che avrebbe detto se avesse saputo
così pusillanime il figlio? Ah! bisognava ad ogni modo vendicarsi,
vendicarsi, vendicarsi; questo gli pareva ora lo scopo principale a lui
assegnato. Aveva ragione la Zoe che da tanto tempo proseguiva su quello
scellerato di principe una sua vendetta. Ma egli non voleva aspettare
tanto. Tutta Parma al domani... che! quella stessa sera, avrebbe saputo
l’insulto; tutta Parma doveva poco dopo apprendere la sua vendetta.
La freschezza dell’aria notturna non aveva calmato l’agitazione del suo
spirito, ma ne aveva raffreddato il sangue e intirizzite le membra.
Uscito dal caldo ambiente del teatro, senza riparo alla temperatura
d’una notte piuttosto fredda, Alfredo si sentì a un punto cogliere
da brividi; per fortuna aveva tuttavia in mano il cappello e potè
almanco ricoprirsi il capo fra le cui lunghe chiome bionde soffiava
il vento ghiacciato. Si abbottonò il soprabito, scosso da un tremolìo
che pareva di febbre e si guardò d’intorno trasognato, mal sapendo in
qual punto della città si trovasse. Le gambe lo avevano portato sotto
le finestre del quartiere abitato dalla Zoe. La strada era scura, dai
vetri dell’appartamento della baronessa non veniva neppure un filo di
luce: invece dalla casa di faccia una finestra illuminata mandava fuori
un fascio di raggi rossigni. Era la modesta cameretta dove lavorava,
vegliando e attendendo, una povera madre di famiglia, la moglie di
Pietro Carri. Attendeva essa il ritorno del marito, e doveva attenderlo
invano tutta una notte di spasimante inquietudine.
Alfredo pensò di salire in casa della Zoe, riscaldarvisi, prendervi
qualche ristoro, che davvero dal freddo e dall’emozione si sentiva
mancare, e attendervi il ritorno di lei, la quale lo avrebbe
confortato, consigliato, invigorito; ma nell’atto di entrare sotto il
portone di quella casa, di subito gli venne proprio meno ogni forza
ed egli dovette appoggiarsi al muro per non cadere. In quella Alfredo
sentì avvolgersi da un caldo mantello, e una voce d’uomo che si
mostrava impressa di interessamento gli disse:
— Coraggio, signor conte! Cominci per invilupparsi bene qui dentro a
ripararsi dal freddo. Quanto poi alla sua vendetta, io, se vuole, potrò
fornirle i mezzi di ottenerla.
Era l’uomo che l’aveva sempre seguitato fin dalla porta del teatro.
XLVI.
Alfredo, da quella voce amichevole, da quella cura che una mano
pietosa prendeva di lui, dal tepore di quel caldo mantello onde lo si
avvolgeva, provò un conforto, che nel quasi smarrimento di sensi in cui
si trovava, gli fece un poco l’effetto che fa al naufrago il soccorso
inaspettato d’una tavola da aggrapparsi. Egli s’aggrappò davvero a
quell’uomo per sorreggersi, mentre balbettava, poco meno che inconscio:
— Sì, ho freddo... Ho pur la testa che scoppia... Ah! la mia
vendetta?... Voi me la darete?... Siate benedetto!... Datemela subito;
la voglio subito... Lo potete voi?... Voi!... Ma chi siete voi?
Volle scostarsi un poco da quell’uomo, per esaminarlo bene; ma sentì
che non avrebbe potuto reggere in piedi da solo, e si abbrancò più
forte al braccio dello sconosciuto.
— Lei non mi ravvisa? — disse questi, scoprendosi meglio la faccia
col tirare indietro il cappello a cencio e volgendosi a ricevere sui
lineamenti la poca luce che filtrava dalla finestra della casa di
prospetto a quella di Zoe.
Il conte di Camporolle lo guardò con occhi ancora appannati: gli parve
e non gli parve aver già veduto in altra occasione quel volto; ma finì
per iscuotere il capo in segno negativo.
— L’altra notte, — disse quell’uomo, — io ho avuta la fortuna d’andare
a cercare di Lei sulla porta della sua casa e di condurla appunto sin
qui.
— Ah! — fece Alfredo riscuotendosi: — siete l’uomo inviatomi dalla
baronessa?
— Appunto... E, se lo ricorda, mi son presa la libertà di offrirle
i miei umili servigi, dicendole che per qualunque siasi bisogno, non
avrebbe avuto che da cercare di me... Michele... al caffè della Piazza
Grande, e avrebbe sempre trovato un uomo disposto a servirla in tutto.
Il giovane, che veniva riacquistando il dominio di sè stesso, si passò
una mano sulla fronte, e chiese lentamente:
— E ora come è stato che vi siete abbattuto qui nel mio cammino?.... È
ancora la baronessa che vi manda.
— No, signore, — rispose quell’uomo, il quale, dietro le istruzioni
ricevute, aveva bene studiato ed era abilissimo a fare la parte
assegnatagli. — E la può dire piuttosto che è la Provvidenza, perchè
— (e qui abbassò la voce) — di fargli ottener quello che lei desidera,
quello di cui lei ha bisogno, non c’è altri forse al mondo più capace
di me.
Alfredo trovavasi in una debolezza e in un disagio fisici che
conferivano a renderlo debole anche moralmente e intellettualmente. Non
gli parve un assurdo che quell’uomo, capitatogli così in buon punto,
quand’egli stava per abbandonarsi affatto, rappresentasse davvero un
aiuto mandatogli dalla sorte.
— Quello che io desidero, — mormorò, — quello che io ho bisogno!... Che
cosa ne sapete voi?
— So tutto... Non ha ella udito le parole che le ho detto poc’anzi,
accostandola? Per la sua vendetta, se vuole, io potrò fornire i mezzi
di averla.
— La mia vendetta!... La mia vendetta! — ripetè Alfredo, quasi
balbettando, battendo i denti, assalito da un brivido di febbre.
— Ma ora, per prima cosa, — saltò su Michele, — Ella ha bisogno di
qualche cordiale, di qualche ristoro; altrimenti comincierà coi fare
una malattia, che non sarà certo il miglior mezzo da ottenere lo
scopo... Venga meco.
Lo prese sotto un’ascella e sostenendolo con braccio vigoroso lo
trasse con sè in una delle parti più deserte della città: il giovane,
sbalordito, col tremor della febbre che gli cresceva nelle ossa, si
lasciò guidare come un bambino.
Sostarono sotto il chiarore rossiccio di una lanterna appesa all’uscio
d’una bottega. Era un miserabile spaccio di liquori, che in quel
momento, per l’ora tarda, per la solitudine delle strade in quel
rione rimoto, non aveva nemmeno un avventore. Michele, che lì dentro
pareva di casa, fece un cenno particolare degli occhi a un omaccione
sonnacchioso che al sentire il campanello dell’uscio aveva levata la
testa, e gli disse:
— Presto, Melchiorre; un ponce al _rhum_, ma vero _rhum_, sai, e
dimolto.... pel signorino che è mezzo basito di scalmana, e per me che
gli faccio compagnia.
— Subito: — rispose l’omaccione, levandosi lentamente di dietro il
banco.
— Non c’è mica nessuno nello stanzino?
— No.
Michele col conte si diresse verso un uscio alla destra.
— Aspetta — gli disse il zozzaio: — non c’è manco il lume. Vado ad
accendervi il lucernino.
Prese un lumo a mano e passò in una stanzetta vicina che non aveva
altra uscita, e i due avventori ve lo seguirono. Alfredo, entrando
nel caldo ambiente di quella bottega, satura di vapori alcoolici e di
esalazioni carboniche della stufa, aveva sentito accrescersi ancora la
confusione della mente, il subbuglio dell’animo e il malessere di tutta
la persona. Appena entrato in quel secondo stambugio, e’ s’era lasciato
cader seduto sopra una panca contro il muro e stava là abbandonato,
quasi inconscio di sè e delle cose che lo circondavano.
La sua guida susurrò all’orecchio dei venditore che accendeva un lume
pendente al soffitto:
— Qui si ha da esser soli, sai?
— Va bene!
— Tua moglie?
— È di sopra.
— La non verrà mica giù a ficcare il naso?
— No certo. Ci ha quel suo forestiero, il quale è stato tutto il giorno
fuor di città, e ora si sono chiusi in camera e discorrono fitto fitto.
— Misteri eh?
— Misteri: — rispose con laconica tranquillità il zozzaio.
— Non ti viene la curiosità di penetrarli a te, ciccione d’un
Melchiorre?
— A me?... Peuh!... — fece l’uomo alzando le spalle e dondolando il
capo.
— Già, tu quando hai mangiato e bevuto...
— Vivi e lascia vivere: — conchiuse Melchiorre, il quale intanto aveva
finito di rassettare il lume, lasciandogli per economia il bambagio
tanto corto che appena una fioca luce se ne spandeva per quei quattro
palmi di stanza. — Vado a farti un ponce proprio da risuscitare un
morto; e sta tranquillo che non penetrerà nessuno.
Se ne andò, e Michele sedette in faccia al conte di Camporolle,
dall’altra parte d’un tavolino.
— Come si sente ora signor conte?
Alfredo fece una mossa col capo che non voleva dir nulla, e non rispose.
— Capisco che ella debba star poco bene, — riprese con tono più
confidenziale quell’uomo, curvandosi verso il giovane. — È venuta fuori
dal teatro che pareva un pazzo che scappa dall’ospedale.... Quel duca
fu molto prepotente, molto villano con lei?
La rabbia del principe era intensa, quando sopraggiunse il direttore
della Polizia, il quale coll’aria soddisfatta di un buon funzionario
che ha compito con zelo e con buon frutto il suo dovere, gli disse:
— Altezza, ne abbiamo arrestato una trentina; tutti o quasi tutti i rei
sono nelle nostre mani.
— Va bene! — gridò il duca secco secco, e lo gridò tanto forte, che
fu inteso da buona parte del teatro in cui ora regnava un silenzio di
tomba. — Tutti in fortezza, a pane e acqua... fino a nuovo avviso.
Il Pancrazi s’inchinò.
— C’è uno degli arrestati, — soggiunse poi, — il quale ha osato
rivoltarsi contro gli agenti di V. A...
— Il mio sellaio eh? ch’era lassù nel loggione? — interruppe il
principe sempre ad alta voce. — Birbante! Miserabile! Non sa che
l’ultimo dei nostri agenti rappresenta Noi?... Sia messo ai ferri corti
subito!...
— Per quante ore? — domandò il direttore della Polizia.
— Fino a nuovo avviso: — ripetè il duca.
Il poliziotto partì per andare ad eseguire gli ordini ducali.
La elegante sala del teatro era rimasta mezzo vuota; quasi tutti
tacevano impauriti: appena se qua e là si faceva sentire qualche
bisbiglio di voci sommesse: non c’era che il palchetto della baronessa
di Muldorff da cui si udiva un gaio chiacchericcio con qualche
risatina. Carlo III si mordeva le labbra con un dispetto ogni momento
maggiore.
— Ma che cosa fa quell’impresario della malora? — esclamò ad un punto.
— Ho ordinato che il ballo si riprendesse: dunque avanti, presto.
Ed ecco appunto in quella presentarsi l’impresario tutto umile e
tremante ad annunziare essere impossibile far ballare la Carlotta,
perchè questa s’era svenuta, e ora appena tornata in sè dichiarava che
non avrebbe potuto far nemmeno un passo, per tutto l’oro del mondo.
Il principe mandò una bestemmia, quale può uscire dalla bocca d’un
carrettiere ubbriaco e disse:
— Vedremo se non ballerà questa smorfiosa... Vado a persuaderla... e
giuraddio!
Con passo concitato, e seguito dall’impresario tremante, discese dal
palco scenico ed entrò con impeto nel camerino della danzatrice.
XLIV.
La Carlotta giaceva abbandonata sopra un sofà, il busto mezzo
slacciato, la pettinatura disfatta, le lagrime negli occhi, gemente
come una donna che sta per morire o poco meno; intorno le si
affaccendava la vecchia che soleva farle l’accompagnatura dappertutto,
e le metteva sotto il naso vasetti ed ampolline di profumi e di sali,
e le bagnava con una pezzuola umida d’acqua di colonia le tempia e le
narici.
Carlo III entrò come un buffo di vento da temporale, facendo suonare
forte nel passo i suoi talloni, mordendosi i peli dei baffi, rotando
minaccioso gli occhi, e non si fermò che accosto al sofà, dove stette,
le braccia incrociate al petto, a guardare la ballerina, la quale,
visto o non visto che l’avesse, aveva trovato bene di rinchiudere gli
occhi e di gemicolare più di prima.
— Via, sora Carlotta, — gridò l’impresario di dietro le spalle del
principe; — si faccia coraggio.... guardi chi c’è qui... — (La ragazza
non si moveva ed ansava dolorosamente). — Tiratevi su, animo; aprite
gli occhi, vi dico... — seguitava l’impresario, ed ella scuoteva
languidamente il capo, per accennare che non poteva. — Oh la vuoi
capire, sciocca, che qui c’è S. A. medesima in persona! — gridò alla
fine l’impresario impazientato.
E il duca, dando uno spintone alla vecchia che gli stava dinanzi a
premere sotto il naso di Carlotta una boccettina, proruppe col suo
accento incollerito:
— Che cos’è codesta commedia, giuraddio!... Su in gamba, pettegola, e
subito, e fra cinque minuti a ballare sul palco scenico, o corpo del
diavolo!...
Diede un pugno violento sul tavolino che era lì presso e fece
traballare i vasetti e le ampolle e le scatole che ci stavano su. La
vecchia si ritrasse spaventata: la ballerina aprì gli occhi e si levò
un po’ su della persona, ma sospirando con un gemito di moribonda.
— O cielo! — esclamò. — O Altezza!.... Io mi sento tanto male da
morire....
— Un corno: — interruppe vivamente il duca: — e sei proprio una sciocca
senza sugo se credi che io mi lasci ingannare dalle tue smorfie. Su,
in due colpi di mano rassetta più o meno le tua acconciatura, e va a
ballare.
— Ah per carità! — gemette essa: — impossibile!
— Ah signore Iddio! — esclamò la vecchia alzando le mani al cielo.
E il duca vòltosi all’impresario:
— È tutto pronto?
— Sì, Altezza.
— Ebbene va, e fa dare il segno di principiare.
L’impresario partì di corsa.
Carlotta portò ambe le mani agli occhi e scoppiò in un pianto dirotto.
— Presentarmi di nuovo innanzi a quel mostro di pubblico.... a quelle
bestiaccie feroci.... che m’hanno fischiata in tal modo... Dio! mi pare
ancora di sentirli... No, no, piuttosto qualunque supplizio.
— Ah sì! — appoggiò la vecchia. — La signorina è tanto sensibile!... Ne
morrebbe.
Il duca le volse un’occhiataccia che le mozzò la parola in gola.
— Tu devi sapere, bambina mia, — disse poi alla Carlotta, — che quando
io dico voglio, non c’è da ribattere...
— Oh Altezza, la prego, la scongiuro... Non mi sento davvero....
Avessi ascoltato mio cugino Pietro e non fossi più comparsa su queste
malaugurate scene!
— Tuo cugino Pietro! — interrogò il duca: — chi è?
— Pietro Carra...
— Oh oh! il sellaio?
— Sì, Altezza.
— È tuo cugino?
— Figliuolo d’una sorella di mia madre.
— E t’ha detto?
— Che me ne andassi da Parma, che come amica d’un austriaco m’avrebbero
fischiata, e lui per il primo...
— E ha mantenuta la parola.
— Dunque, Altezza, abbia compassione di me.... Non mi faccia più
comparire innanzi a quei scellerati.... Proprio non posso.... le giuro
che non posso.
— La non può: — ebbe la cattiva ispirazione di aggiungere la vecchia in
appoggio alla sua padrona.
Il duca le fu addosso come un basilisco, la prese alle spalle, la voltò
e con un calcio la mandò fuori dell’uscio del camerino.
— Al diavolo, vecchia strega.
La Carlotta si trovò ritta in piedi, spaventata.
— A chi dico? per la croce di Dio! — urlava il duca. — Voglio essere
ubbidito, e non si creda pigliarmi a zimbello. Tu andrai a ballare,
dovessi farti trascinare fin sul palco scenico da due gendarmi... E se
mi contenti, avrai il regalo d’un migliaio di _svanziche_.
— O Altezza! — esclamò la ballerina con tono affatto cambiato, —
per ubbidire a Lei, per farle piacere, andrei anche nel fuoco...
Mi permette che faccia tornare la mia donna di compagnia?... mi è
necessaria per aiutarmi a vestirmi.
— Venga la vecchia strega, e faccia presto e bene, e stia zitta.
Carlotta chiamò la sua compagna, la quale venne tutta umile e
s’affrettò intorno alla ballerina senza far nemmeno sentire il suo
rifiato.
Il duca tornò nel palchetto di prima, e subito dopo il telone si alzò
pel ricominciamento del ballo. Questo fu eseguito nel più completo
silenzio; la ballerina venne, danzò, non vi fu il menomo rumore;
lo spettacolo pareva aver luogo innanzi a un pubblico di morti. La
bizza del principe non era ancora passata, anzi nemmeno diminuita;
egli guardava soventissimo la loggia di faccia nella quale la Zoe si
mostrava sempre più amorosa e teneramente lusinghiera per Alfredo, e
si mordeva con ira concentrata i peli dei baffi. L’azione coreografica
non era ancora finita, quando si ripresentò dal principe il direttore
di Polizia a render conto degli ordini eseguiti e di certe informazioni
attinte. Gli arrestati erano tutti in fortezza, il Carra era coi
ferri ai piedi e alle mani; e dalle risposte date da qualcheduno dei
prigionieri, da certi indizi, si poteva argomentare che la brutta
scena di quella sera fosse l’effetto di un complotto, che aveva trovato
incoraggiamento e fors’anco aiuto di denaro in alte sfere, presso certe
auguste persone....
Quest’ultima informazione era data dal direttore della Polizia con
molte reticenze, con accorta peritanza e riserve, ma in modo da fare
tuttavia effetto sull’animo del duca, il quale a un punto interruppe:
— Suvvia, parlatemi chiaro, che faremo più presto. Volete dire che la
trama è stata immaginata nel circolo che attornia la duchessa?...
— Oh no, non dico ciò...
— Almeno che vi fu approvata?
— Si è forse saputo persuadere alla principessa, che per essere
comparsa in pubblico con V. A., quella ballerina meritava una
lezione...
— Oh la duchessa è capace di averlo pensato essa stessa... è capace
di ciò e d’altro... va bene... Ciò ha da rimanere assolutamente fra di
noi!
— Non dubiti Altezza... Ho fatto il mio dovere, dicendo a Lei tutta la
verità; ora se V. A. crede, io potrò molto facilmente far dileguarsi
ogni traccia di questa verità.
— E sarà meglio! — disse risolutamente il duca, e fece un cenno di
congedo.
Pancrazi partì.
Carlo III si rivolse verso il pubblico e rivide le sempre maggiori
moine che Zoe prodigava al conte di Camporolle.
— Anviti, — disse bruscamente, come in uno scoppio di dispetto. — Va da
quel figurino di Camporolle e intimagli l’ordine di venir subito qui a
sentire quello che abbiamo da dirgli.
Il colonnello di gendarmeria obbedì colla umile sollecitudine d’un
domestico.
Quando Zoe udì l’ambasciata di cui era apportatore il conte Anviti, e
con una ratta occhiata ebbe veduto il volto irritato del duca, non potè
nascondere un guizzo di gioia nelle sue accese pupille; si verificava
quello che essa aveva previsto e che stava attendendo da un momento
all’altro.
Alfredo rimase un po’ turbato; e incerto, confuso, non seppe a tutta
prima che cosa rispondere, che cosa fare.
— Oh vada, vada subito, caro conte: — disse con mostra di grande
interessamento la scellerata donna: — il duca non è di quelli che si
possano far aspettare.
Il giovane s’alzò di mala voglia e tese quasi timidamente la mano alla
baronessa. Questa glie la strinse forte e soggiunse con accento di
supplichevole raccomandazione:
— E badi ad esser calmo e prudente... Il duca è un po’ impetuoso, certe
volte ha la parola un po’ vivace, potrebbe lasciarsi sfuggire qualche
espressione meno misurata! Non ne faccia caso, non se ne adonti....
Il conte di Camporolle lasciò la mano della donna, s’inchinò e disse
freddamente:
— Farò quel che mi consiglieranno il mio decoro e la mia coscienza.
Appena uscito Alfredo, la baronessa si volse al colonnello Anviti col
più lusinghiero sorriso di questo mondo.
— S’accomodi costì in faccia a me.... al posto che occupava il conte di
Camporolle. O che le rincrescerebbe farmi compagnia per cinque minuti?
L’Anviti rispose con un complimento e sedendo nel posto indicatogli.
Dopo discorso allegramente delle avventure di quella sera, la donna
a un tratto, come per un’idea subitamente sopravvenutale, disse al
colonnello:
— Dovrebbe farmi un piacere Lei.
— Comandi.
— Due notti fa, S. A. e Lei mi onorarono d’una visita... Domandi al
duca e mi sappia dire se gli sarebbe molto discaro ch’io andassi a
restituirgliela questa notte medesima... a palazzo?
XLV.
Alfredo era entrato nel palchetto del duca col cuore che gli batteva e
la testa un po’ confusa. L’animo in lui era coraggioso, ma il carattere
timido; un pericolo, anche della vita, e’ l’avrebbe affrontato
senza tremare, una cattiva figura innanzi a sciocchi eleganti che lo
schernissero, gli faceva paura e gli levava la padronanza della mente e
la presenza di spirito.
Il principe lo tenne per due minuti, che al poveretto parvero ore,
sotto lo sguardo minaccioso, sdegnato, de’ suoi occhi da gatto, senza
parlargli; mentre tutti i cortigiani appuntavano pure nel giovane le
loro guardature insolenti. Alfredo si sentì venir rosso, per tutto
il sangue che gli si precipitò al capo, dalla vergogna e insieme
dall’ira; e poi farsi pallido pel restringersi del sangue medesimo
al cuore. Avrebbe voluto profondare sotterra; desiderò ardentemente
non esser venuto, pensò di fuggire, ma non ne avrebbe avuta nemmeno
la forza; pensò a quello che gli avevano detto l’Arpione e la Zoe
dell’oltraggiosa prepotenza di quel tirannello, che gli stava lì
davanti terribilmente corrucciato, e si aspettò qualcuno dei più
villani tratti soliti a colui, e tremò in prevenzione di doverlo
subire, e si domandò con angoscia che cosa avrebbe dovuto, che cosa
avrebbe potuto fare.
Carlo III, come usava il più spesso, preferì la beffa e l’ironia in cui
si credeva d’essere assai spiritoso.
— Ah, ah: eccolo qui il campione, l’eroe, l’amico del piemontese!
— esclamò ghignando. — Perbacco, signor conte di Camporolle! Lei
ha dimostrato un gran valore a guardare due che si misuravano le
sciabolate. Quante camicie ha bagnate?
I cortigiani risero.
Alfredo sentì un gelo corrergli per la spina dorsale, poi per tutti
i nervi; capì di essere diventato più bianco di un cadavere; le
pupille erano volte a terra come trattevi da un peso che non potessero
sollevare: quasi gli mancava il respiro.
Questo timoroso e umile di lui contegno diede ansa maggiore
all’impertinenza del duca e allo sguaiato buon umore de’ cagnotti di
lui.
— Ma Lei, nel trasporto del suo indomabile valore — continuava il
Borbone, — ha dimenticato una cosa; che disobbediva a me, a me che
avevo proibito che quel duello avesse luogo, e che a Noi, signor conte,
a Noi non si disubbidisce impunemente.
Aveva smesso il ghigno beffardo e il suo piccolo volto da mela cercava
darsi un’aria terribile corrugando le sopracciglia; i parassiti che
l’attorniavano pigliarono per istantaneo riflesso un aspetto severo e
burbero.
Il giovane non seppe trovar parola, soffriva, malediceva a sè stesso;
avrebbe dato dieci anni di vita per essere capace a rintuzzare quella
principesca insolenza.
— Dovrei farle gustare un poco di fortezza, — proseguiva il duca; —
ma sono troppo buono e mi decido a farle grazia quando Ella mi domandi
debitamente perdono...
Tacque un momento, guardando sempre a quel modo Alfredo, come
aspettandone la risposta. Il giovane capì pure che era necessario
parlare: tentò, ma la bocca era arida come per febbre, la lingua
attaccata al palato; aprì le labbra e non ne uscì una voce.
— E così? — riprese dopo un poco il duca, tornando alla beffa
insultante. — Attendo di udire la sua bella voce... O che avrebbe
perduto la favella?... Le si deve dire come ai bambini quando sono
stati cattivi: il gatto ti ha portato via la lingua?
La stupidità adulatrice dei cortigiani scoppiò in una sghignazzata.
Alfredo fece uno sforzo: le orecchie gli zufolavano; aveva una dolorosa
confusione in capo e una grave oppressione nel petto.
Il suo sforzo non riuscì che a fargli pronunciare con voce appena
intelligibile una sola parola:
— Altezza!...
— Oh oh! — gridò con quel tono di scherno il principe: — un automa
perfezionato!... Parla! Non c’è più che da vederlo muovere. Suvvia,
giudichiamo se è bene articolato e se il meccanismo giuoca bene.
Bisogna inginocchiarsi qui, ai nostri piedi.
Il conte di Camporolle, nella confusione del suo cervello, credette non
aver capito bene, e ripetè quasi balbettando:
— Inginocchiarsi?
— Appunto! Sissignore. Per domandare debitamente perdono a un principe
offeso, è il meno che si possa fare.
Ad Alfredo parve che tutto gli girasse intorno; fece forza a star saldo
sulle gambe che gli si piegavano sotto, e con voce semispenta, ma pure
abbastanza chiara, disse:
— Io sono gentiluomo e non sono suo suddito.
Il duca rifece gli occhioni di poc’anzi, sorse di scatto in piedi
e camminò per due passi verso il malcapitato. Tutti gli astanti
espressero sulle loro fisonomie da parassiti di Corte, la più grande
indignazione, il massimo orrore per la temerità di quello sciagurato.
— Ah! tu sei gentiluomo! — gridò il duca con uno scoppio della sua voce
squarrata che s’udì per tutto il teatro. — Insolente! Non sei che un
paltoniere appetto a un Borbone come sono io... Non sei mio suddito?..
Qui comando io, io solo per tua norma, e chiunque vive nei miei Stati
ha da star sottomesso ai miei voleri, alla mia autorità, ai miei
ordini... Hai capito?... T’ho detto d’inginocchiarti a’ nostri piedi;
e lo farai, dovessi farti abbassare a forza da due dei miei robusti
gendarmi... In ginocchio! Subito!... Per Dio!
E fece ancora un altro passo verso il giovane, col braccio levato,
quasi volesse percuoterlo.
Alfredo si ritrasse vivamente indietro; le gambe mal lo reggevano,
barcollò; una mano, non seppe mai bene di chi, la mano di uno di
quegli uomini che vilmente ghignavano alla sua umiliazione, gli si posò
pesantemente sulla spalla e lo spinse giù; il giovine si trovò con un
ginocchio a terra.
— Va bene! — disse sprezzosamente il Borbone. — Mi basta. Lasciatelo
andare.
E senza curarsi altrimenti più del conte, tornò trionfante al palchetto
a squadrar le ballerine.
Il Camporolle rimase lì, per un momento, che a lui tornò lunghissimo,
annientato; gli parve che qualche gran cosa gli fosse crollata
d’attorno, che un terribile disastro gli era capitato, di cui nella
presente confusione non sapeva rendersi ben conto; nel capo aveva un
immenso rumore che era come il complesso, la quintessenza di tutti i
fischi, di tutti gli urli che aveva udito strepitare poc’anzi e che
ora veniva a insultarlo, a sferzarlo, ad avvilirlo lui. Sorse in piedi
proprio automaticamente: gettò intorno un’occhiata quasi da pazzo,
travide fra una nebbia che gli offuscava lo sguardo il duca che già
gli voltava le spalle, i volti ghignanti de’ cagnotti, e al di là
dell’inquadratura della loggia, una regione tutta luce in cui gli parve
udir suonare un’immensa risata di scherno — per lui. Se avesse avuto in
quel punto un’arma, si sarebbe precipitato su coloro che aveva dinanzi,
primo il duca, e avrebbe colpito e colpito e non cessato di colpire
finchè tutti fossero caduti, o lui stesso. Si morse il pugno, mandò una
specie di ruggito soffocato, scappò.
Corse via come impazzito, pei corridoi, giù delle scale, fuori del
teatro, senza pensare a prendere il pastrano, senza veder nulla, senza
accorgersi di nulla: — nemmeno che un uomo avvolto in un mantello,
con apparenza di popolano, che pareva stesse aspettando alla porta del
teatro, gli si pose dietro e non cessò di seguitarlo.
Il tumulto nell’anima e nella mente di Alfredo era dolorosissimo e
immenso. Mille risoluzioni feroci facevano ressa nel suo cervello:
voleva sfidare a duello mortale tutti i presenti a quella scena: ma e
il principe? Come vendicarsene? Aspettarlo in qualche pubblico luogo
e volargli addosso e schiaffeggiarlo; e perchè non trafiggerlo?...
Sì, insultarlo con uno schiaffo, collo sputargli sul viso, e poi
piantargli un pugnale nel cuore. Gli pareva a quel punto, che avrebbe
avuto la forza e l’audacia di far l’uno e l’altro. Poi se la prendeva
con sè stesso. Si era regolato da stupido, da inetto, da vile! Aveva
vantata la sua qualità di gentiluomo. No, che non s’era mostrato tale;
un gentiluomo avrebbe sofferto tutto quello? Pensò a suo padre di cui
l’Arpione gli aveva detto sì nobile l’animo. Che cosa avrebbe fatto
suo padre se posto in quel caso? Che avrebbe detto se avesse saputo
così pusillanime il figlio? Ah! bisognava ad ogni modo vendicarsi,
vendicarsi, vendicarsi; questo gli pareva ora lo scopo principale a lui
assegnato. Aveva ragione la Zoe che da tanto tempo proseguiva su quello
scellerato di principe una sua vendetta. Ma egli non voleva aspettare
tanto. Tutta Parma al domani... che! quella stessa sera, avrebbe saputo
l’insulto; tutta Parma doveva poco dopo apprendere la sua vendetta.
La freschezza dell’aria notturna non aveva calmato l’agitazione del suo
spirito, ma ne aveva raffreddato il sangue e intirizzite le membra.
Uscito dal caldo ambiente del teatro, senza riparo alla temperatura
d’una notte piuttosto fredda, Alfredo si sentì a un punto cogliere
da brividi; per fortuna aveva tuttavia in mano il cappello e potè
almanco ricoprirsi il capo fra le cui lunghe chiome bionde soffiava
il vento ghiacciato. Si abbottonò il soprabito, scosso da un tremolìo
che pareva di febbre e si guardò d’intorno trasognato, mal sapendo in
qual punto della città si trovasse. Le gambe lo avevano portato sotto
le finestre del quartiere abitato dalla Zoe. La strada era scura, dai
vetri dell’appartamento della baronessa non veniva neppure un filo di
luce: invece dalla casa di faccia una finestra illuminata mandava fuori
un fascio di raggi rossigni. Era la modesta cameretta dove lavorava,
vegliando e attendendo, una povera madre di famiglia, la moglie di
Pietro Carri. Attendeva essa il ritorno del marito, e doveva attenderlo
invano tutta una notte di spasimante inquietudine.
Alfredo pensò di salire in casa della Zoe, riscaldarvisi, prendervi
qualche ristoro, che davvero dal freddo e dall’emozione si sentiva
mancare, e attendervi il ritorno di lei, la quale lo avrebbe
confortato, consigliato, invigorito; ma nell’atto di entrare sotto il
portone di quella casa, di subito gli venne proprio meno ogni forza
ed egli dovette appoggiarsi al muro per non cadere. In quella Alfredo
sentì avvolgersi da un caldo mantello, e una voce d’uomo che si
mostrava impressa di interessamento gli disse:
— Coraggio, signor conte! Cominci per invilupparsi bene qui dentro a
ripararsi dal freddo. Quanto poi alla sua vendetta, io, se vuole, potrò
fornirle i mezzi di ottenerla.
Era l’uomo che l’aveva sempre seguitato fin dalla porta del teatro.
XLVI.
Alfredo, da quella voce amichevole, da quella cura che una mano
pietosa prendeva di lui, dal tepore di quel caldo mantello onde lo si
avvolgeva, provò un conforto, che nel quasi smarrimento di sensi in cui
si trovava, gli fece un poco l’effetto che fa al naufrago il soccorso
inaspettato d’una tavola da aggrapparsi. Egli s’aggrappò davvero a
quell’uomo per sorreggersi, mentre balbettava, poco meno che inconscio:
— Sì, ho freddo... Ho pur la testa che scoppia... Ah! la mia
vendetta?... Voi me la darete?... Siate benedetto!... Datemela subito;
la voglio subito... Lo potete voi?... Voi!... Ma chi siete voi?
Volle scostarsi un poco da quell’uomo, per esaminarlo bene; ma sentì
che non avrebbe potuto reggere in piedi da solo, e si abbrancò più
forte al braccio dello sconosciuto.
— Lei non mi ravvisa? — disse questi, scoprendosi meglio la faccia
col tirare indietro il cappello a cencio e volgendosi a ricevere sui
lineamenti la poca luce che filtrava dalla finestra della casa di
prospetto a quella di Zoe.
Il conte di Camporolle lo guardò con occhi ancora appannati: gli parve
e non gli parve aver già veduto in altra occasione quel volto; ma finì
per iscuotere il capo in segno negativo.
— L’altra notte, — disse quell’uomo, — io ho avuta la fortuna d’andare
a cercare di Lei sulla porta della sua casa e di condurla appunto sin
qui.
— Ah! — fece Alfredo riscuotendosi: — siete l’uomo inviatomi dalla
baronessa?
— Appunto... E, se lo ricorda, mi son presa la libertà di offrirle
i miei umili servigi, dicendole che per qualunque siasi bisogno, non
avrebbe avuto che da cercare di me... Michele... al caffè della Piazza
Grande, e avrebbe sempre trovato un uomo disposto a servirla in tutto.
Il giovane, che veniva riacquistando il dominio di sè stesso, si passò
una mano sulla fronte, e chiese lentamente:
— E ora come è stato che vi siete abbattuto qui nel mio cammino?.... È
ancora la baronessa che vi manda.
— No, signore, — rispose quell’uomo, il quale, dietro le istruzioni
ricevute, aveva bene studiato ed era abilissimo a fare la parte
assegnatagli. — E la può dire piuttosto che è la Provvidenza, perchè
— (e qui abbassò la voce) — di fargli ottener quello che lei desidera,
quello di cui lei ha bisogno, non c’è altri forse al mondo più capace
di me.
Alfredo trovavasi in una debolezza e in un disagio fisici che
conferivano a renderlo debole anche moralmente e intellettualmente. Non
gli parve un assurdo che quell’uomo, capitatogli così in buon punto,
quand’egli stava per abbandonarsi affatto, rappresentasse davvero un
aiuto mandatogli dalla sorte.
— Quello che io desidero, — mormorò, — quello che io ho bisogno!... Che
cosa ne sapete voi?
— So tutto... Non ha ella udito le parole che le ho detto poc’anzi,
accostandola? Per la sua vendetta, se vuole, io potrò fornire i mezzi
di averla.
— La mia vendetta!... La mia vendetta! — ripetè Alfredo, quasi
balbettando, battendo i denti, assalito da un brivido di febbre.
— Ma ora, per prima cosa, — saltò su Michele, — Ella ha bisogno di
qualche cordiale, di qualche ristoro; altrimenti comincierà coi fare
una malattia, che non sarà certo il miglior mezzo da ottenere lo
scopo... Venga meco.
Lo prese sotto un’ascella e sostenendolo con braccio vigoroso lo
trasse con sè in una delle parti più deserte della città: il giovane,
sbalordito, col tremor della febbre che gli cresceva nelle ossa, si
lasciò guidare come un bambino.
Sostarono sotto il chiarore rossiccio di una lanterna appesa all’uscio
d’una bottega. Era un miserabile spaccio di liquori, che in quel
momento, per l’ora tarda, per la solitudine delle strade in quel
rione rimoto, non aveva nemmeno un avventore. Michele, che lì dentro
pareva di casa, fece un cenno particolare degli occhi a un omaccione
sonnacchioso che al sentire il campanello dell’uscio aveva levata la
testa, e gli disse:
— Presto, Melchiorre; un ponce al _rhum_, ma vero _rhum_, sai, e
dimolto.... pel signorino che è mezzo basito di scalmana, e per me che
gli faccio compagnia.
— Subito: — rispose l’omaccione, levandosi lentamente di dietro il
banco.
— Non c’è mica nessuno nello stanzino?
— No.
Michele col conte si diresse verso un uscio alla destra.
— Aspetta — gli disse il zozzaio: — non c’è manco il lume. Vado ad
accendervi il lucernino.
Prese un lumo a mano e passò in una stanzetta vicina che non aveva
altra uscita, e i due avventori ve lo seguirono. Alfredo, entrando
nel caldo ambiente di quella bottega, satura di vapori alcoolici e di
esalazioni carboniche della stufa, aveva sentito accrescersi ancora la
confusione della mente, il subbuglio dell’animo e il malessere di tutta
la persona. Appena entrato in quel secondo stambugio, e’ s’era lasciato
cader seduto sopra una panca contro il muro e stava là abbandonato,
quasi inconscio di sè e delle cose che lo circondavano.
La sua guida susurrò all’orecchio dei venditore che accendeva un lume
pendente al soffitto:
— Qui si ha da esser soli, sai?
— Va bene!
— Tua moglie?
— È di sopra.
— La non verrà mica giù a ficcare il naso?
— No certo. Ci ha quel suo forestiero, il quale è stato tutto il giorno
fuor di città, e ora si sono chiusi in camera e discorrono fitto fitto.
— Misteri eh?
— Misteri: — rispose con laconica tranquillità il zozzaio.
— Non ti viene la curiosità di penetrarli a te, ciccione d’un
Melchiorre?
— A me?... Peuh!... — fece l’uomo alzando le spalle e dondolando il
capo.
— Già, tu quando hai mangiato e bevuto...
— Vivi e lascia vivere: — conchiuse Melchiorre, il quale intanto aveva
finito di rassettare il lume, lasciandogli per economia il bambagio
tanto corto che appena una fioca luce se ne spandeva per quei quattro
palmi di stanza. — Vado a farti un ponce proprio da risuscitare un
morto; e sta tranquillo che non penetrerà nessuno.
Se ne andò, e Michele sedette in faccia al conte di Camporolle,
dall’altra parte d’un tavolino.
— Come si sente ora signor conte?
Alfredo fece una mossa col capo che non voleva dir nulla, e non rispose.
— Capisco che ella debba star poco bene, — riprese con tono più
confidenziale quell’uomo, curvandosi verso il giovane. — È venuta fuori
dal teatro che pareva un pazzo che scappa dall’ospedale.... Quel duca
fu molto prepotente, molto villano con lei?
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