La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 15

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sole; — le chiome senza ornamenti di sorta aveva attorcigliate alla
nuca in treccie ricche, pesanti, fulve, che parevano oro fuso, mentre
una corona di piccole ciocche ricciolute, ribelli ad ogni disciplina,
le sfuggivano dalla massa tutt’intorno alla fronte e le facevano come
un’aureola al pallore della faccia. Gli occhi, dietro un’espressione
d’umiltà e di dolore, ardevano come carboni accesi; il petto agitato
dinotava una emozione potentissima a stento contenuta; le labbra
socchiuse più rosse che mai lasciavano scorgere nell’anelito frequente
i dentini che parevano di latte; intorno al collo, che si estolleva dal
petto fiero ed elegante, un vezzo di corallo del colore del sangue, del
colore delle labbra; alle braccia, che le maniche larghe della veste
lasciavano denudarsi a ogni mossa fino al gomito, cerchietti di corallo
eziandio: niun altro gioiello; un abito candido di lana finissima con
nastri color di rosa. Essa si studiò bene innanzi allo specchio, studiò
i gesti, gli sguardi, le mutazioni di fisonomia, tutto, e, secondo
il solito, si sorrise contenta di sè. Nessuna figura avrebbe potuto
rappresentar meglio una virtù perseguitata e una bellezza infelice.
La commedia poteva incominciare: ella era pronta; gli altri attori,
ancorchè inconsci, ella aveva provveduto perchè non potessero mancare.
Alla letterina dell’avventuriera, sir Tommaso, il ministro confidente
del duca, aveva risposto così:
«Gentilissima e bellissima signora,
Non ho dimenticato nè l’impareggiabile baronessa di Muldorff,
nè il poco tempo che ebbi la fortuna di praticarla a Vienna. E
chi potrebbe mai non conservare per tutta la vita sì preziosi
ricordi? Fin dall’altra sera che ebbi la felice sorpresa di vedervi
inaspettatamente a teatro, mi proposi domandarvi subito il favore
d’esser ricevuto da voi; e se ieri stesso non mi sono presentato
a casa vostra, attribuitelo solamente alle molte mie occupazioni
che non me ne lasciarono il tempo. Ma ad una chiamata vostra, come
quella che mi fate la grazia di mandarmi, non c’è occupazioni che
tengano. Fatemi sapere il momento in cui vi sarà meno incomodo il
ricevermi, e io volerò ai vostri piedi.»
Zoe fece aspettare il messo Michele per averlo pronto al momento che
le sembrasse opportuno. Quando ebbe ricevuto il motto d’Alfredo: «Fra
mezz’ora sarò da te;» scrisse in fretta un altro motto essa pure:
«Venite fra un’ora; conto sulla vostra esattezza d’uomo galante e
d’inglese:» e per mezzo di Michele lo spedì a sir Tommaso; poi si
occupò seriamente di quell’acconciatura che ho detto e diede alla sua
governante certe particolareggiate istruzioni.
Si sdraiò sul sofà a due posti nella sua camera da letto, elegante,
profumata, misteriosamente ombrosa per le bandinelle abbassate, piena
di un voluttuoso calore, di guizzi rossigni di luce dal gran fuoco
acceso nel camino, d’un silenzio incantevole cui non venivano a turbare
i rumori della vita umana, che pareva segregare quel piccolo Eden dal
resto del mondo, e stette aspettando.
Non ebbe gran tempo da aspettare: si udì nelle stanze vicine un suono
di voci, un aprirsi d’usci, poi un passo frettoloso, ammortito dai
tappeti; la porta si spalancò e Alfredo con impeto venne a gettarsi
ai piedi della donna. Dietro di lui la governante fece un cenno
leggerissimo cogli occhi alla padrona, come per riaffermarle che
stesse tranquilla che gli ordini suoi sarebbero eseguiti a puntino,
poi si allontanò discretamente, chiudendo con precauzione il battente
dell’uscio.


XXXIX.

Zoe, nella sua così bene studiata e preparata messa da _signora delle
camelie_ all’ultimo atto — naturale come la verità, efficace come la
menzogna dell’arte, — vedendo Alfredo gettò un grido di gioia, d’amore,
di trasporto ineffabile, un’esplosione di sentimenti e d’affetti, sorse
con impeto, levò le braccia — le maniche larghe ricadendo indietro le
lasciarono nude — per gettarle al collo dell’amato garzone, accennò
volere slanciarsi all’incontro di lui per andargli a cadere sul petto;
ma le forze le mancarono e s’accasciò di nuovo con un gemito. Egli
però fece a tempo a stringerla alla vita, a caderle in ginocchio ai
piedi, mentre essa si abbandonava sul sofà, serrandogli al collo quelle
belle braccia, premendosi sulla spalla, sul petto la testa di lui,
precisamente come la prima donna al tenore della _Traviata_ nel duetto
finale.
Alfredo sentiva caldissimo quel seno su cui posava il suo capo, sentiva
palpitare violentemente davvero il cuore di quella donna le cui braccia
lo stringevano con tanta passione. Essere amato da quella creatura
splendidamente leggiadra, possederla alla fine dopo tanti spasimi di
desiderio, gli parve tutta la felicità della vita. Voleva parlare,
ma le parole mancavano alla sua emozione; il sangue concitato gli
faceva frastuono nelle orecchie, gli velava d’una nebbia infuocata la
vista; le sue braccia strinsero quasi convulsivamente quel bel corpo
pieghevole; il suo volto si levò in su avido, le labbra frementi con un
sospiro, un gemito, quasi un singhiozzo.
Essa lo allontanò da sè con tutta la sua forza, alla distanza delle
sue braccia così bianche, così carnose, così ben tornite; e mentr’egli
non trovava parola, non trovava voce, quasi non trovava il respiro,
essa parlò con accento sommesso, soffocato, commosso dal palpito, rotto
dall’affanno — pieno di affetto.
— Alfredo! Alfredo!... quanto ho sofferto sai!.... Per te! Ho
desiderato morire.
Il giovane la interruppe con un’esclamazione di calda protesta, quasi
di spavento e di orrore.
— Sì, morire: — ripete la donna con più forza. — Tu mi eri mancato: la
tua partenza, che supposi una fuga da me, mi fece piombare nella più
amara disperazione. Ho creduto che tu mi abbandonavi, mi disprezzavi, e
non volevo reggere a quest’ultimo dolore più crudele di tutti.
— Abbandonarti... no... Disprezzarti... no: — balbettava con voce
mozzicata, scuotendo il capo, il giovane in cui cresceva sempre più la
confusa agitazione della mente, dei sensi.
La maliarda continuava:
— Dopo la mia sventura ho respinto sempre ogni omaggio d’uomo: te lo
giuro. Ho fatto di tutto per respingere anche il tuo, anche te, verso
cui mi spingeva pure con tanta potenza il cuore. Mi dissi ch’io non era
degna di te...
Alfredo mandò un’altra voce di protesta.
— Un istinto m’avvertiva che tu mi saresti fatale, o io a te... Dio
mi è testimonio: non cedetti che a gran pena, dopo terribili lotte,
al fascino che spira dalla tua persona, che irradia dal tuo amore, cui
getta irresistibile la tua sull’anima mia... Ma però cedetti, a poco a
poco, senza volerlo, senza accorgermene... finchè ero già vinta. Allora
un sogno delizioso venne a tentarmi: il sogno del nostro amore diviso,
assoluto, unico scopo e tesoro della nostra vita, gioito all’infuori e
coll’oblio di tutto il mondo.... un sogno impossibile...
— No! — gridò Alfredo.
— Fui tanto debole da accarezzarlo meco stessa, questo sogno, da
lusingarmene, da obliare per esso financo lo scopo che avevo assegnato
alla mia vita, una vendetta che è sacrosanta.
— Oh sì! oh sì! — esclamò il giovane trasportato: — dimentichiamo tutto
il mondo. Nulla ha da esister più per noi, fuori di noi, dell’amor
nostro... Cercheremo una solitudine; quella che vuoi tu, dove vuoi
tu, lontano lontano, anche nelle terre più remote, dove non giunga più
neppure un’eco di questa esistenza in cui tu trovasti la sventura, dove
nulla venga più a ricordarci un passato che per noi sarà come se non
fosse stato mai.
Ed essa, con un abbandono appassionato, le sembianze illuminate da
una fiamma che parea d’amor sublime, un crescendo abilissimo e pieno
d’effetto del sentimento che animava le parole di lui, proruppe
impetuosa, palpitante, fremente:
— T’amerei tanto! Saprei amarti tanto che tu non rimpiangeresti nulla
di quel che avresti abbandonato in questo mondo fallace, che non
ricorderesti più nulla...
E con parole sempre più concitate, con immagini sempre più vivaci,
con aspetto e sguardi sempre più accesi, seppe evocare al pensiero del
giovane un Eden d’amore sensuale, ma ineffabile, potente, delirante,
di gioie supreme. Era un trasporto febbrile, era un entusiasmo
di passione cacciato nel sangue, era un sogno d’ebbrezza quale ne
procurano i filtri orientali. Ma quando Alfredo era più dominato da
quella irresistibile ebbrezza; quando a lui meglio pareva, e in buona
fede, che tutto, più che la vita, avrebbe dato, avrebbe dovuto dare
per quella felicità da paradiso di Maometto; quando, ogni nervo, ogni
fibra palpitante in lui, le sue braccia si tendevano a serrare quella
bellezza di corpo in un amplesso di passione quasi furibonda; essa con
forza inaspettata, con subita risoluzione riuscì a sciogliersi da lui,
lo respinse con impeto che pareva di rabbia, di sgomento, di orrore,
fu d’un balzo all’altra estremità della camera, e con voce vibrante,
secca, risoluta, gridò:
— Impossibile! impossibile!.... Basta!.... Lasciatemi... Non culliamoci
in una follia che tutto condanna.
Alfredo si alzò sbalordito, la mente confusa, vacillante come ebbro,
e guardò la donna con uno sguardo stupido. Essa era più pallida di
prima; le ciglia fieramente corrugate, più feroce che mai il fosco
bagliore delle pupille. Era una Nemesi terribile, e supremamente bella.
Poichè il giovane fece un passo incerto per accostarsele, essa tese
violentemente la destra innanzi, come per tenerlo in là, e col medesimo
accento proseguì:
— Il passato!... Voi credete poterlo distrurre, obliare solamente colla
lontananza!.... Non so di voi quello che accadrebbe; ma per me ciò non
basterà di certo.
S’accostò lentamente di nuovo ad Alfredo, camminando al passo cadenzato
e leggero d’una tigre che sta guatando una preda.
— Quel passato è troppo impresso qui e qui, — segnò la fronte ed il
cuore, — perchè si possa cancellare così facilmente. Sono sette anni
che lo porto meco, un peso, un dolore, una vergogna, una rabbia....
Non c’è che il sangue a lavarne l’impronta.... Non te l’ho ancor detto,
Alfredo? Ho giurato che non sarei più di uomo al mondo finchè vivesse
colui che mi ha infamata. E i miei giuramenti io mantengo... Ma anche
in mezzo alle più deliranti gioie del nostro amore io vedrei spuntare
oltraggioso, scellerato, orribile, avviliente il cachinno di quell’uomo
che m’ha fatta zimbello suo e dei suoi vili cortigiani...
Era giunta presso al giovane, gli afferrò il braccio e lo strinse con
rabbioso vigore.
— Dimmi!.... Non lo vedresti anche tu?
Alfredo si riscosse tutto e mandò una esclamazione di furore: in verità
parevagli a quel punto medesimo vedere in un angolo della semibuia
stanza il volto insolente del duca di Parma ghignare con insultante
disprezzo.
La Zoe pose le sue labbra presso all’orecchio del giovane e con voce
soffocata, col caldo anelito che usciva dalle sua labbra gli susurrò:
— Bisogna che quello scellerato muoia.... e allora io sarò tua.
Alfredo fremette; gli parve ricevere un colpo, si ritrasse un passo, si
strinse colle mani il capo.
Essa ripigliò con accento in cui vibrava ora come una nota di
compassione:
— La mia vendetta l’ho giurata, e la compirò o soccomberò io stessa...
vedi bene che tu non puoi essermi compagno; tu non puoi nè devi sposare
il mio odio: sei troppo mite, sei troppo buono per ciò... Io farò da
sola o troverò bene chi mi possa comprendere e secondare.
Alfredo fu assalito da un movimento di gelosia feroce.
— No, — disse fremendo, — nessun altro, nessun altro, per Dio!
Zoe continuò, come non badando a questa interruzione:
— Il separarci è dunque una necessità. Bisogna che vi dica tutto,
Alfredo... Quel vigliacco.... il duca, ha sentito rinascere un
capriccio per me; mi perseguita, mi annoia colle sue istanze....
— No! no! non può, non deve essere! — gridò il povero giovane quasi
inorridito.
— Io l’odio.... e penso a Debora, a Giuditta....
— No: — urlò ancora Alfredo fuori di sè: — piuttosto vado io là, nel
suo palazzo, e lo uccido in mezzo alla sua Corte.
La donna gli fece un pallido sorriso e ponendogli le mani sulle spalle,
disse coll’interessamento compassionevole che si ha per la debolezza:
— Voi invece dovete sottrarvi all’ira di quel piccolo Tiberio, che
vuole vendicarsi dell’altra notte, che alla prima occasione è capace
d’insultarvi a suo modo. Voi dovete esaudire la mia preghiera... e
partire subito di qua.
Era la seconda volta che un simile consiglio veniva dato ad Alfredo,
e se la prima eragli riuscito assai poco gradito sulle labbra di
quell’uomo cui aveva imparato ultimamente a disprezzare; ora ancora più
spiacevole gli tornò dalla bocca di quella donna, che pareva crederlo
incapace di virile coraggio e di fatti violenti.
— Non partirò; — diss’egli asciuttamente coi denti stretti.
Essa prese il tono di carezzevole preghiera che usa una madre per
ottenere qualche cosa da un capriccioso bambino:
— E s’io te ne prego?... Se te lo domando per mio piacere, per
mia tranquillità?... L’amore che ho per te mi rende fiacca, mi fa
vulnerabile... Quando ti saprò lontano, al sicuro da ogni pericolo,
camminerò più franca e più risoluta alla mia meta.
— Perchè mi hai tu fatto venir qui allora? — domandò Alfredo
bruscamente.
— Perchè t’amo.... perchè volevo vederti, volevo averti meco... Oh
guarda! Sarò compiutamente sincera: perchè mi passava pure per la mente
il pensiero, la speranza, il delirio che tu, amandomi, potresti essermi
un aiuto, un coraggio, uno sprone anzi nell’opera.
— Ah!
— Oh perdonami... Quando si ama si trasmette nell’oggetto del nostro
amore tutte le nostre più vive speranze.
— Ed ora?
— Ed ora ti voglio lontano... e ora ti amo troppo...
— Ma non abbastanza per rinunciare alla tua vendetta.
La strinse egli a sua volta forte ad un braccio: ma ella si sciolse con
energia quasi selvaggia.
— Ah no Alfredo — gridò, — questo non volerlo, non domandarmelo!...
Sarei forse tanto debole da cedere... e ne avrei dopo eterna vergogna
e rimorso.... Ma sappilo! Questa è la mia riabilitazione: è la
riconquista del mio onore...
Era fremente, era terribile, era bella!
Alfredo si gettò come un pazzo su di lei, per afferrarla, per
istringerla, per abbracciarla.
— Ma io farò tutto quello che vuoi: — gridò egli: — voglio che tu sii
mia e io sarò per te il più cieco strumento.
Essa lo respinse quasi con violenza, fuggì, pose fra sè e lui una
barriera di mobili:
— Non mi fare spergiura! — rispose con una vibrazione che pareva
di furore nella voce, con un lampo di odio negli occhi. — Non lo
perdonerei... nè a te nè a me stessa... Nissun uomo può giungere a me
finchè colui vive; nessuno, lo amassi tanto da dannarmi per lui l’anima
eternamente.
E l’infelice giovane, dominato, aggirato, delirante:
— Che vuoi tu? Che vuoi tu? Fa di me quello che brami... comandami...
Vuoi che io sia il ferro che colpisca?... ch’io mi faccia lo strumento
della tua vendetta?
Si trascinava, strisciava quasi verso di lei; essa immobile lo lasciava
accostarsi; il suo sguardo lucente, caldo, profondo, indescrivibile,
infernale promettitore di gioie ineffabili, lo fissava, lo attraeva, lo
avvolgeva, lo accarezzava.
— E se io, — seguitava Alfredo con voce tanto affannata, che appena
poteva formar la parola, — se io un giorno ti venissi innanzi... qui...
macchiato di quel sangue?...
Zoe gettò un grido; la sua persona parve farsi più alta; una fiamma le
corse negli occhi, sulla fronte, nel sorriso, nei ricciolini agitati
della sua chioma che sembrarono sanguigni.
— Se ti dicessi: non c’è più ostacolo fra te e l’uomo che hai detto
d’amare; l’autore della tua sventura non è più!... Premiami, sii mia:
l’ho ucciso.
La donna aveva data una ratta occhiata all’orologio a pendolo: il tempo
che essa aveva calcolato era trascorso. Mandò un altro grido, — un
grido di gioia feroce: — d’un balzo da tigre si slanciò su di lui, lo
strinse, gli stampò sulle labbra un bacio che era di fuoco, gli susurrò
come in un’estasi di vaneggiamento:
— Tua! tua!... Per sempre tua!... Più nissun ostacolo al nostro
paradiso... Tu, tu solo saresti l’uomo degno di questa leonessa, tu il
mio leone, tu il mio signore, tu il mio Dio!
Quel bacio era un tormento per Alfredo, era una delizia; lo abbruciava,
lo inebbriava; mai non aveva sofferto a quel modo, mai non aveva
sentito una sì grande voluttà: gli pareva d’essere di più e maggiore
di quanto fosse stato mai, si sentiva presso a svenire: mormorava,
fremeva, delirava. A un tratto udì un rumore ch’egli non seppe
discernere; Zoe si svincolò bruscamente dalle braccia di lui.
— Lasciami!... Zitto! — gli susurrò: — viene alcuno.
E poi con voce ferma, fredda, tranquilla:
— Avanti: — disse.
Alfredo vide aprirsi l’uscio e presentarsi sulla soglia la governante
che annunziò:
— Signora baronessa, S. E. sir W... chiede parlarle a nome di S. A. il
duca.
Il conte di Camporolle sentì come una doccia fredda scendergli per
le spalle; essa, la donna, si torse le braccia con atto di disperata
indignazione.
— Ancora! — esclamò. — Sempre!... Infame, scellerata persecuzione!...
Teme forse che io possa obbliarlo!...
— Non riceverlo! — gridò Alfredo; — rimandatelo al suo iniquo padrone,
questo antico mozzo di stalla, degno inviato e ministro di simil
principe... Oh lasciate ch’io stesso...
Fece un moto per andare nella stanza vicina, ma la donna gli si slanciò
dinanzi e lo trattenne.
— Che fate? — gli disse. — Voi perdereste me e voi... — Gli aggiunse
sottovoce: — Quando fossimo cacciati l’uno e l’altra in qualche segreta
di fortezza, chi ne salverebbe? Lasciami fare da me... Parti... va...
ti farò sapere...
— Voi dunque lo riceverete?
— Subito... per liberarmene più presto.
Ordinò alla governante che accompagnasse fuori il conte per la camera
da pranzo.
— Ti scriverò questa sera: — gli disse all’orecchio mentre lo spingeva
fuori: e appena Alfredo era uscito per una porta essa entrava per
l’altra nella sala dove stava aspettandola sir Tommaso W...


XL.

Presentandosi al ministro del duca, quella donna era tutta un’altra:
aveva bastato un minuto secondo per una compiuta metamorfosi. L’inglese
si vide dinanzi un volto tranquillo, uno sguardo gentile e sereno, una
bocca seducente per un cortese sorriso, un contegno di dama che vuole
onorare di amichevole domestichezza la persona che riceve. Cominciò
essa per ringraziare con poche e dignitose parole sir W... della
premura ch’egli aveva avuta di recarsi presso di lei; e con galanteria
alquanto grossolana l’uomo rispose quanto già le aveva scritto che
l’impressione fatta in lui dalle attrattive della baronessa quando
l’aveva veduta a Vienna era stata così forte da non cancellarsi più, e
che stimava una sua preziosissima fortuna il poterla rivedere lì, nella
stessa Parma dov’egli era condannato a rimanere, e dove egli avrebbe
tutto messo in opera quel che potesse per trattenere il più lungamente
possibile una sì cara, preziosa, adorabile ospite.
Il fuoco de’ suoi sguardi, mentre così diceva, che era quel medesimo,
il quale aveva già balenato nelle sue pupille grigie due sere prima
quando egli aveva vista in teatro la Zoe dal palchetto del conte di
Camporolle, il fremito delle narici del suo gran naso e una lieve
emozione della sua voce sempre fredda, disarmonica, monotona, provavano
chiaramente ch’egli diceva la verità.
E n’era persuasissima la Zoe, la quale su ciò appunto faceva
assegnamento.
Non istette a schermeggiare di galanterie e a provocare complimenti
e dichiarazioni mercè civittesche moine: ma ringraziato il suo
interlocutore con uno sguardo che diceva un’infinità di lusinghe, entrò
senz’indugio a parlare di quel che s’era prefisso.
— La polizia di Vienna, — incominciò, — voi ben lo sapete sir Tommaso,
sa tutto quel che avviene in Italia, anche quello che non sanno le
polizie locali dei nostri sovrani.
— Mi permetterete di farvi osservare, — disse l’inglese, — che la
nostra, grazie all’abilità del Pancrazi, è abbastanza bene informata.
— Sì, certo: — soggiunse la donna: — assai bene, ma tuttavia non
perfettamente... E... — parve esitare un momentino, poi fissando in
quelli di lui i suoi occhi affascinatori, diabolici, riprese abbassando
la voce: — e, se voi siete uomo da capire il mio disegno, da entrare in
esso ad aiutarmi, a noi converrà moltissimo che la polizia del Pancrazi
abbia parecchie e importanti ignoranze.
Il W... si appressò vieppiù alla donna e con grande interessamento
interrogò:
— Come? Come? Perchè?
— Ascoltatemi! — disse la donna colla serietà d’un diplomatico in un
congresso; — e voi, che siete di mente acutissima, mi comprenderete
subito, senza ch’io abbia bisogno di spiegare troppo diffusamente e
troppo minutamente le mie idee.
L’inglese inchinò leggermente la sua rigida persona, aggrottò le folte
sopracciglia nel lavoro di concentrazione delle sue facoltà mentali, e
stette immobile, senza batter palpebra, ad ascoltare.
— Il Gabinetto di Vienna è stanco di questa continua agitazione in
Italia, mantenutavi dai diportamenti del Piemonte, la quale, benchè
sorda e impotente a ogni fatto pure turba il quieto andamento della
sua politica. Vuole, appena resosi un conto precisamente esatto
delle condizioni vere della penisola, dei mezzi e dei propositi della
rivoluzione, dei rapporti fra le sette e il Governo subalpino; vuole,
dico, agire risolutamente per finirla una buona volta. Il principe
K. mi ha pregata di rendergli il servizio di percorrere l’Italia a
questo scopo e fargli pervenire la verità, proprio tale e quale. Le
informazioni già comunicatemi da Vienna, le referenze che il principe
medesimo mi potè dare, e, lasciate ch’io lo dica pure, la mia non
inetta attività, mi posero in grado di apprendere a questo riguardo più
di quanto sappia altri al mondo, di sapere forse tutto quello che è da
sapersi a questo riguardo.
— Ebbene? Ebbene? — fece l’inglese interessatissimo.
— Ebbene, ecco la mia convinzione. I rivoluzionari non potranno mai
fare nulla che valga ad atterrare il dominio delle attuali signorie,
finchè l’Austria possiede una parte d’Italia. Mancano di mezzi e
mancano anche d’eroismo per ciò. Quelli che son pronti a morire per la
patria non sono forse pochi, ma non sono molti neppure, e converrebbe
per trionfare che fossero tali tutti gl’italiani. Il Piemonte lusinga
vanamente gli spiriti liberali delle altre regioni: esso non sarà mai
così folle da scendere un’altra volta solo in campo contro l’Austria,
e se lo fosse, gli avverrebbe di nuovo quel che già gli avvenne nel
1849. Ma le congiure che serpeggiano per l’Italia, se non riusciranno
mai a una vittoria in campo aperto, possono riuscire a qualche isolato
colpo temerario di vendetta, dove basti il coraggio d’un disperato o
la pazzia d’un fanatico. Il principe K. mi diede una lettera da porre
sott’occhio al duca di Parma... e già glie l’ho mostrata... e forse ve
ne avrà detto qualche cosa egli stesso?
— No, — rispose Tommaso W...
— E in quella lettera lo avvisa che qui stesso, nella sua capitale, si
ordisce una congiura intesa ad assassinarlo.
L’inglese diede in una scossa.
— Impossibile! — esclamò. — E il Pancrazi non ne saprebbe nulla?
— Ve l’ho detto che ne sanno di più a Vienna.
— E i particolari?
— Questi s’ignorano ancora: e questi nel mio disegno dovremmo essere
noi a scoprire e a rivelare al principe... noi due, se riusciremo a
metterci d’accordo.
Così dicendo essa lo guardava in modo da far nascere pensieri
peccaminosi a qualunque Sant’Antonio.
Sir Tommaso mandò quel suo grosso rifiato che poteva essere
interpretato per un sospiro, e con tutta la elegante galanteria di
cui fosse capace la sua rigida persona e il suo passato da cozzone di
cavalli, prese la mano di lei e la baciò.
— Con voi, — disse, — io sarò sempre d’accordo. Non avete che da
comandare e io obbedirò.
— Forse voi avete già capito qualche cosa delle mie intenzioni?
— Forse sì! — rispose l’inglese il cui occhio mandò un lampo vivo
d’intelligenza: — ma se non vi rincresce spiegarvi anche meglio, ve ne
sarei grato.
— Mi spiegherò chiarissimamente. Voi pei vostri meriti — (il W...
s’inchinò) — per la vostra finissima accortezza, — (l’altro s’inchinò
di nuovo e più profondamente) — avete saputo acquistare un grande
influsso sul padre del nostro duca, e poi su costui medesimo, tanto
da potere a vostro talento guidare l’amministrazione non solo del
patrimonio privato di ambedue, ma del ducato eziandio.
L’inglese interruppe con quella sua soffiatina:
— Eh! non tanto quanto forse pare e quanto molti credono...
— Ecco! — aggiunse sollecita, di rimbalzo, la donna. — Io appunto do
fede a codesta vostra modesta riserva; e vi dico che bisognerebbe fare
in guisa che fosse in realtà quanto apparisce e avesse ragione chi
crede alla assoluta autorità del vostro influsso.
Gli occhi di Tommaso brillarono, brillarono: ma egli non fece altro che
mandare un’esclamazione.
— Ah!
— Qui, ora, codesta vostra influenza è molto combattuta...
— Lo sapete? — esclamò vivamente l’inglese.
— Eh! — fece la donna con un maliziosetto sorriso pieno di grazia: — ve
l’ho già detto e ridetto che da Vienna si sanno tante cose!... Il conte
Anviti vorrebbe esser lui solo a volgere l’animo del principe...
— È vero: — balbettò l’inglese coi denti stretti.
— La duchessa, lasciata così sprezzosamente in disparte, non si
rifiuterebbe a compire qualche atto per acquistarsi un poco di
quell’autorità che le si crede dovuta.
— Oh la duchessa non è da temersi...
— Chi sa!... Ella è molto in buone relazioni col maresciallo Radetski e
col Ministero viennese... E se poi il duca mancasse ed essa diventasse
reggente...
— _Goddam!_ — si lasciò scappare sir Tommaso.
— Dunque a voi che cosa conviene? Che il duca sia salvo, che rimanga
dalla sua salvezza sempre più obbligato a voi, che fra le donne le
quali hanno impero su di lui, quella che lo abbia maggiore, che sia
tale da saperselo acquistare quasi unico, quasi esclusivo, sia amica
vostra.
Il W... con un moto brusco e vivace prese la destra della baronessa, la
strinse, la portò alle labbra, la baciò con ardore di passione.
— Vi avevo indovinata: — disse: — ora vi ho compreso per l’affatto. Vi
comprendo e vi ringrazio. Voi siete la donna fatta per ciò e io sono
l’uomo che vi può servire meglio di qualunque. Lega assoluta fra di
noi; e il principe, lo Stato, tutto sarà nelle vostre mani, e io mi
riderò di ogni cabala ordita a mio danno, e voi non avrete a temere nè
rivali nè ostacoli di nessuna specie.
La donna lo interruppe con un leggero accento di superiorità.
— Va bene: vedo che avevo pensato giusto calcolando sul vostro
concorso. Mostreremo al duca che noi soli lo abbiamo salvato
dall’assassinio; lo persuaderemo facilmente che noi soli siamo capaci
di salvarlo in avvenire; l’appoggio di Vienna io l’avrò sempre maggiore
per mezzo del principe K.; quanto all’influsso che possano venire ad
esercitare altre donne... ci penserò io.
Sorrise ed occhieggiò in modo trionfante come donna sicura della
vittoria.
— Sì certo; — disse l’inglese con vera ammirazione, ribaciandole la
mano; — Voi siete impareggiabile. Dite dunque i vostri patti, io sono
pronto a sottoscriverli.
— Qualunque siano?
— Qualunque siano.
— Ebbene, di patti non ve ne faccio che uno solo: voi non farete nulla
senza venirmi a consultare, ommetterete tutto quello che vi proibirò e
ubbidirete cecamente a quanto mi piacerà suggerirvi.
— È molto!
— Ah! se non vi piace...
— Sarebbe poco, sarebbe nulla, — soggiunse il W... facendo gli occhi
di pesce morto, — se a compensarmene si incaricasse non l’associata
politica, ma la donna...
Essa gli sorrise e con atto pieno di vezzo lusinghiero del capo e delle
spalle, disse furbamente:
— Chi sa?
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