La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 11

— Come, signor conte!... Crederebbe che da parte nostra si è stati
capaci di simile viltà?
Il capitano austriaco divenne rosso come un galletto.
— Conte di Valneve, — esclamò con certa dignità, — fate torto anche a
voi accusandoci di questa guisa. Qualunque siano i motivi di contesa
fra di noi, non dovreste disconoscere che a fronte vi sta un gentiluomo
e un ufficiale onorato.
Il conte Ernesto salutò gentilmente.
— Ebbene, — disse, — guardate ad ogni modo di liberarci da codesti
guastafeste e ottenere che ci lascino fare in santa pace. Voi dovete
pure avere qualche autorità su quella brava gente.
I gendarmi frattanto erano giunti addosso ai duellanti, e uno di essi
intimava ad alta voce:
— Ordine espresso di S. A. il duca! Le loro signorie lascino subito
le armi; il capitano von Klernick torni tosto a Parma e il conte di
Valneve ripassi senza ritardo il confine e si restituisca in Piemonte.
— E chi ne ha avuto ne ha avuto: — aggiunse beffardamente Sangré.
— Se noi rifiutassimo d’obbedire, — domandò con fierezza il capitano
degli ulani, — avete voi ordine di arrestarci?
— Le nostre istruzioni, — rispose il gendarme, — sono d’invitare
loro signori a fare quanto abbiamo detto; se poi volessero resistere,
sì certo, siamo costretti a procedere anche con rigore per ottenere
eseguiti gli ordini.
I due testimoni dell’austriaco, che erano ufficiali parmensi,
tentarono di ottenere dai gendarmi che desistessero, ma li trovarono
inflessibili, ned essi d’altronde credettero di potere troppo vivamente
insistere.
— Il duello di lor signori, — conchiuse il gendarme, — a nissun modo
non potrà aver luogo sul territorio del ducato di Parma.
— E sia pure! — disse sollecito il conte Ernesto. — Io non ci tengo
di molto a battermi qui piuttosto che lì. Ciò che non può accadere in
terra parmense può aver luogo in terra piemontese. Io m’affretto, come
ci fui così gentilmente invitato, a passare il confine, e chi avesse
voglia di scioglier colà la nostra piccola questione non avrebbe che
da seguirmi. Là, ne do io la più compiuta assicurazione, non verrà più
nessuno a disturbarci.
— Facciamo così: — aggiunse sollecito von Klernick. — Andate pure,
conte, vi seguirò a dieci passi.
— Ci siete? — domandò Ernesto volgendosi ai suoi testimoni.
Alfredo e Pietro s’inchinarono in segno di pronto assentimento.
— E voi signori? — chiese a sua volta il capitano austriaco ai suoi
secondi.
I due ufficiali si consultarono un momento.
— Noi corriamo qualche rischio, — disse poi uno di loro: — quanto
meno, non isfuggiremo certo gli arresti; ma non importa; non sarà mai
detto che per causa nostra non abbia potuto aver luogo o siasi dovuto
ritardare una sì bella partita d’onore. Andiamo pure.
I duellanti si vestirono tranquillamente, presero le armi sotto il
braccio e poi, ciascuno accompagnato dai suoi testimoni s’avviarono.
— Dove vanno? Che si fa? — interrogarono i gendarmi.
— Si fa a piedi una passeggiatina di salute: — rispose giocosamente
a suo modo il conte di Valneve: — e si va al di là del confine in
Piemonte.
La folla di curiosi che in questo frattempo era sempre cresciuta
intorno agli attori di quella commediola, udito la risposta del
piemontese fatta a voce alta e tono beffardo, ruppe in applausi.
I gendarmi rimasero lì in asso innanzi ad un caso che non avevano
preveduto; e i due avversari coi secondi, in due piccoli gruppi,
alla distanza d’una diecina di passi l’uno dall’altro, se ne andarono
tranquillamente verso il confine che da quel luogo era distante appena
un mezzo chilometro. La folla tenne loro dietro alla lontana.
Quando ebbero varcato la frontiera, fu tosto trovato un luogo piano ed
acconcio.
— Signori! — disse il piemontese, a cui pareva di dover fare gli onori
di casa: — ecco un terreno adattissimo; e se loro non hanno ragione in
contrario, possiamo restarvici e terminare la nostra faccenduola.
Tutti annuirono.
I duellanti si levarono di nuovo il soprabito, impugnarono di nuovo
le armi, furono appostati l’uno in faccia dell’altro, e quando suonò
la voce de’ testimoni: «Avanti, signori!» le due sciabole lucenti
s’incontrarono per aria mandando lampi sotto i raggi del sole.
La folla de’ curiosi li aveva seguiti anche di là del confine e aveva
fatto cerchio a una certa distanza intorno ad essi, dando così al
terreno in cui aveva luogo il duello la sembianza d’un torneo in campo
chiuso, in cui erano scesi a cimentarsi un rappresentante dell’esercito
austriaco e uno dell’esercito piemontese.
Ma noi, mentre questi due campioni si affrontano e si provano, facciamo
un balzo fino a Torino, dove è tempo che impariamo a conoscere la
illustre e celebre famiglia dei Sangré di Valneve.


XXX.

Il palazzo in cui abitava il conte padre colla moglie, il secondogenito
e la figliuola, era una recente, elegante costruzione da lui stesso
fatta sorgere in Borgo Nuovo: egli aveva così abbandonato l’antica sede
della sua famiglia che da secoli trovavasi in una delle strette vie
della parte più vecchia della città, residenza melanconica per iscarsa
luce, poco sana per mancanza d’aria, annerita dal tempo. Egli non s’era
deciso, senza esitazione e contrasto, ad abbandonare quel palazzo,
in cui aveva vissuto per sì lunga serie di tempo la sua stirpe, uno
scrigno, per così dire, di memorie, alcune dolorose pur troppo, ma
molte gloriose eziandio e moltissime commoventi; ma avevano finito
per decidervelo le ragioni igieniche. Egli vedeva la sua famiglia,
che pure amava cotanto, venir su così debole, così ammencita, così
stentatamente, che il suo cuore se ne stringeva di pena ogni giorno
più. Ernesto, il primogenito, benchè fosse rimasto esile e piccino, era
pur tuttavia pieno di brio, di vivacità, di vigor giovanile nell’animo
e nelle membra; ma egli aveva abbandonato presto la scura e triste
casa paterna per entrare nell’Accademia militare, dove gli aveva
giovato assai il cambiato genere di vita. Il fratello di lui, Enrico,
e la sorella Albina, malgrado le cure amorosissime, incessanti, dei
genitori, della madre sopratutto e d’ognuno della servitù, parevano
pianticelle a cui è avverso l’ambiente della stufa ove crescono e che
appena è se si tengono in vita.
Il medico di casa giunse a persuadere il conte presidente che ad
aiutare nel loro sviluppo que’ teneri organismi non bastavano le
metodiche passeggiate nella grande carrozza intorno a piazza d’armi,
non il poco ruzzare nei grandi, freddi, scuri saloni del palazzo, non
quel breve villeggiare d’un mese appena, che concedevano le ferie al
presidente della Corte d’appello, ma ci voleva un tutt’altro genere
di vita, e aria e sole e moto e libertà. Il buon padre fece allora
fabbricare il nuovo palazzo nella parte più ridente della città, vi
aggiunse per appendice un vasto giardino, e venuto a dimorarvi, presa
la giubilazione della sua carica, tutto si consacrò all’educazione e
all’amore de’ figli.
Con questi cresceva un nipote, Giulio, figliuolo di un fratello più
giovane del presidente, un umore bizzarro, un carattere avventuroso,
che pochi anni prima era morto in America, dove si era recato per
ismania di novità e anche, diceva lui, per far fortuna, avendo egli
colle sue follie stremato assai le sostanze che per sua parte aveva
ereditato dal padre.
Il conte presidente, alla partenza del fratello cui aveva fino
all’ultimo sconsigliata, aveva preso seco il nipote, e lo aveva
tenuto precisamente come se fosse suo figlio. Anzi, potè notarsi
ad un punto che le cure, l’interessamento e anche l’affezione
verso di lui, crebbero assai nello zio, il quale certe volte,
parlandogli, guardandolo, aveva nell’aspetto, nel suono della voce,
nell’espressione, qualche cosa di commosso, come un rimpianto, una
pietà.
In quel frattempo il conte aveva avuto eziandio un vivo dolore.
Amicissimo di lui e del fratello Armando, partito per l’America, era
stato fin dai primi loro anni il marchese Leonzio Respetti-Landeri,
lontano congiunto della loro famiglia, col quale i due Valneve erano
cresciuti amandosi e serbandosi reciproca fiducia come altrettanti
fratelli. Il figliuolo del marchese Leonzio, figlioccio del conte di
Valneve, erasi dato alla carriera diplomatica, e giovanissimo ancora
era addetto all’ambasciata di Pietroburgo, quando suo padre, assalito
da una tremenda ipertrofia di cuore, venne in una mostruosa idropisia
e assoluta paralisi che per più mesi lo tenne inchiodato sopra un
seggiolone, incapace di muoversi, perfino di recare da sè stesso il
cibo alla bocca. Il suo amico e congiunto Sangré, ebbe per lui le più
amorose cure, e fu nelle braccia del conte che l’infelice sulla stessa
poltrona a rotelle dove stava abitualmente, facendosi dal domestico
spingere qua e là, morì una sera dopo una lunga conferenza che ebbero
insieme Ernesto e Leonzio nello studiolo di quest’ultimo.
Ma della morte del marchese Respetti-Landeri padre, avremo in seguito
ad occuparci di meglio, e allora assisteremo a quella dolorosa scena.
Ernesto Respetti-Landeri non potè tornar subito dalla Russia perchè
trattenutovi da una malattia; e quando giunse a Torino, due mesi dopo,
trovò che tutti gli affari della successione erano già stati assestati
dall’amico di suo padre, il presidente.
Codesti affari della successione non erano molto prosperi in verità. Il
defunto marchese aveva voluto sfoggiare troppo più che i suoi redditi
non gli permettessero; suo figlio lontano gli era costato assai, e in
parecchie occasioni egli si era trovato costretto a incontrare debiti
gravissimi e aprire certe ferite al patrimonio, da cui non aveva più
saputo guarirlo.
Ernesto Respetti-Landeri aveva, al contrario di suo padre, indole
severa, spirito ordinato e conoscenza molto positiva del mondo e degli
uomini, cui aveva potuto sotto mille riguardi già vedere e studiare
nella sua carriera diplomatica. Per prima cosa egli si assegnò la meta
di ristaurare le fortune famigliari, di pagare al più presto tutti i
debiti lasciati dal padre, e poi preparare alla famiglia, che voleva
crearsi intorno, e lasciare ai figli suoi quell’agiatezza che avrebbe
avuto egli stesso, se suo padre fosse stato più prudente, più assegnato
e men vano. Diede le sue dimissioni dall’impiego, poichè pensò che per
correre una brillante strada in diplomazia era necessario l’essere
ricchi; cercò e seppe trovare una moglie che gli portasse una buona
dote e fosse insieme leggiadra, simpatica, a cui egli non tornasse
indifferente e che riuscisse capace di secondarlo nell’esistenza che
voleva intraprendere; e poi si diede alla coltura delle terre, al
perfezionamento della produzione vinicola e di quella dei bozzoli, e
insieme al commercio di questi prodotti, che sono in realtà le vere e
principali ricchezze dell’Italia. Ma per far ciò, credette opportuno
lasciare il Piemonte e sopratutto Torino. Qui i pregiudizi, ancora
molto vivaci allora, dell’alta e vecchia aristocrazia a cui egli
apparteneva, — pregiudizi che facevano considerare come un abbassamento
in uno di loro casta l’occuparsi di cose economiche e di guadagni
materiali, — gli rendevano difficile, impacciata e penosa la sua
condizione; ed egli prescelse andare a Milano, dove una nobiltà non
feudale e punto guerriera dava da tanto tempo l’esempio di occuparsi
de’ suoi affari e di provvedere al miglior rendimento del suoi
possessi. Questo fatto però non sciolse nè rallentò pure il legame
d’amicizia che era fra il marchese Respetti e i Valneve, e già abbiamo
visto come il primogenito di questi ultimi, il capitano delle Guardie,
Ernesto, andasse frequentemente a passare qualche tempo nella casa
ospitale dei congiunti stabiliti a Milano.
Prima di partire da Torino, Ernesto Respetti-Landeri aveva voluto,
anzi aveva creduto dover suo, rendere un servigio agli amici Sangré,
liberandoli dell’opera di un loro segretario, intendente, maestro
di casa, _fac-totum_, un volpone che, introdotto in quella famiglia,
aveva saputo guadagnarsi la fiducia del conte presidente e anche della
contessa Adelaide, in guisa che non solo l’andamento della casa, ma
tutta l’amministrazione delle vistose sostanze era nelle sue mani, e
quasi può dirsi nel suo pieno arbitrio.
Conviene che ora cominciamo a conoscere qualche cosa del passato
di costui, — il quale non è altri che Matteo Arpione, già visto a
comparire sulla scena del nostro dramma, — la cui esistenza e la cui
storia vedremo venirsi ad intrecciare così stranamente nella storia e
nella esistenza della famiglia Valneve.
Matteo Arpione era nato da una gente di quella che suol dirsi piccola
borghesia, che trammezza fra la plebe e il ceto medio. Suo padre
era accordatore di pianoforti e copiatore di musica, ed aveva avuta
la fortuna di acquistarsi il favore delle famiglie più ricche e più
importanti della città, che si servivano dell’opera sua e a cui egli
cercava rendersi sempre più utile e più gradito con mille piccoli
servigi fatti alla padrona, alla signorina, al figlio di famiglia, alla
governante, al servo prediletto, e, se occorreva, anche colla chicca
data al cagnolino favorito: un misto d’artista, d’operaio e di servo.
Il buonuomo, che aveva sempre un mellifluo sorriso alla bocca anche
quando gli toccava — e non era di rado — ingoiare il boccone amaro
di qualche mortificazione, che teneva sempre la spina dorsale curva
in un inchino perenne, anche quando veniva a colpirlo la sferzata di
qualche impertinenza, sotto cui un orgoglio per mediocre che fosse,
una dignità personale per quanto debole, si sarebbero rialzati con
fierezza; il buonuomo, dico, menava sovente con sè, fin da bambino,
il figliuolo Matteo nell’imponenza delle sale aristocratiche, in mezzo
allo sfarzo più sfondolato della ricchezza; e senza pensarci lo faceva
assistere allo spettacolo tentatore e seducente del massimo lusso
sociale, lo esponeva alla cilecca della ghiottoneria, più eccitata
che soddisfatta in certi bocconi d’asciolvere, di merenda, concessi
a padre e figlio nella credenza piena di camangiari, di frutte, di
delicature, la cui vista e i cui profumi solleticavano potentemente;
gli faceva infelicemente vedere suo padre umiliato, abbassato,
degradato innanzi a un patrimonio, a un titolo, alla stessa servitù
ignorante, oziosa, petulante, ben pasciuta, della ricca nobiltà. Per
uno di quei contrapposti che si trovano così spesso nella natura umana,
il povero accordatore di pianoforti, così umile, così sommesso, così
paziente, aveva dato la vita a un figliuolo pieno di ambizione, di
avidi desiderii, d’orgoglio individuale. La vista di quelle ricchezze,
di quei godimenti, di quei vantaggi sociali, tanto in contrasto colla
misera, abbietta sorte a lui toccata, destò in Matteo ancora bambino,
e fece sempre più forti in lui giovinetto, un’acre invidia, una maligna
gelosia, un odio tanto più vivace quanto più impotente, contro i felici
del mondo, contro l’ordine sociale che loro guarentiva il godimento
di tanti beni, contro le istituzioni che stabilivano, mantenevano,
afforzavano una simile condizione di cose.
Com’è tanto facile a succedere, Matteo si domandava perchè a quei tali
la sorte avesse concesso cotanto — tutto — e a lui nulla; e poichè nè
lui nè altri non sapeva trovare a questa domanda una risposta che lo
soddisfacesse, egli ne conchiuse: che nel mondo regnava iniquamente
l’ingiustizia, che i rapporti sociali erano in balia d’un prepotente
arbitrio, che i quattro quinti del genere umano erano oppressi da una
tirannia continua, permanente, assai più terribile e detestabile della
politica, la tirannia economica, che era non solo un diritto, ma un
dovere nei defraudati alla ripartizione dei beni comuni l’insorgere
e abbattere un così iniquo e illogico stato di cose; insomma adottò
e sbraitò tutte le più accese opinioni e massime dei più audaci
sovvertitori dell’attuale ordinamento sociale. Per fortuna della
sua tranquillità, il padre morì presto, senza conoscere del tutto le
credenze e le aspirazioni del figlio cui egli avrebbe con sacro orrore
giudicate empie, abbominevoli, degne di severa condanna e per lo meno
del manicomio; morì credendo di lasciare il suo Matteo in condizioni
abbastanza prospere, con un modesto capitale da lui raggranellato alla
lunga e stentatamente a forza di economie e con un considerevole numero
di buone pratiche pel suo mestiere nella migliore società torinese,
poichè egli aveva avviato il figliuolo nella sua professione, ed il
figliuolo, per non disgustare il padre cui in verità amava di molto, vi
si era adattato.
Ma appena fu solo, Matteo s’affrettò a dare un calcio a quel mestiere
e rinunziare assolutamente a quel genere di guadagno, per quanto la
sua capacità — che ne aveva dimolta — e la memoria e il nome di suo
padre lo facessero ricercare. Egli aveva ricevuta una istruzione monca,
incerta, interrotta, di quelle che servono a dare un’infarinatura di
parecchie discipline, e non riescono a far sapere nulla positivamente e
fondatamente; aveva un ingegno vivace, una acuta furberia sopratutto,
molta stima di sè stesso, temerità pari, e credette di poter riuscire
in qualunque cosa imprendesse. Ne provò molte, non ebbe buon successo
in nessuna: volle farsi editore di musica e fallì, tentò una piccola
impresa di spettacoli musicali in un teatro secondario e non potè
andare al termine della stagione, fondò un giornale teatrale e non
potè continuarlo per tutto l’anno, mancandogli compratori ed associati,
si fece agente o mezzano di scritture per artisti d’opera e di ballo,
ma non ebbe a suoi clienti che quelli d’infima classe che lo pagavano
male o niente del tutto. Si arrabbiò, s’inasprì, finì per istancarsi
di lottare così inutilmente contro la sorte; disperò dell’avvenire,
divenne più socialista, più comunista che mai, si vantò che fra sè e
la società sarebbe sempre guerra a morte, e intanto, per consolarsi,
per istordirsi, s’abbandonò ai bagordi, alla vita più dissoluta, alle
compagnie le meno oneste; e nelle orgie, e nel vizio finì di consumare
affatto quel poco che gli era ancora rimasto delle modeste economie
paterne.
Pareva del tutto perduto, quando un fatto naturalissimo, ma che nessuno
dei suoi conoscenti si sarebbe aspettato in lui, venne a fare nella
vita di Matteo una compiuta rivoluzione.


XXXI.

Era venuta di que’ giorni a Torino una giovane parmigiana, Giuseppina
Landi, a cercarvi sostentamento come maestra di pianoforte. Nella
sua famiglia erano tre sorelle, che, rimaste orfane, avevano dovuto
provvedere a sè stesse. Giuseppina, che era la prima, conoscente
abbastanza profonda di musica e abile assai a suonare il piano, aveva
subito cercato di trar profitto da queste sue capacità e propostosi
di dar lezioni a signorine; ma invano a Parma aveva aspettato che si
ricorresse a lei, invano s’era offerta qua e là, tentando attirare
allieve colla modicità dei prezzi: non le era riuscito di averne che
tanto poche da non bastare nemmeno all’assistenza di lei, figurarsi a
quella delle sorelle minori!
In quella, alcuno venne a suggerirle di recarsi a Torino, dove la
smania di far imparare a suonare il piano alle ragazze cresceva
sempre più, e dove, le si diceva, a quel tempo mancavano donne abili
ad insegnar la musica, mentre nelle famiglie assai più volentieri
si sarebbe introdotta presso le ragazze una maestra che un maestro.
Giuseppina esitava dimolto ad abbandonare così la sua città natale
e a separarsi dalle sorelle a lei carissime, quando il caso venne
a disporre le cose in modo da levargliene ogni scrupolo e spingerla
efficacemente a quel partito. La secondogenita, Amalia, fu chiesta
in isposa da un bravo, onesto e operoso bottegaio, Anselmo Carra,
fabbricante e venditore di oggetti di selleria, il quale s’era
invaghito della giovane e non n’era malvisto; e la terza delle sorelle,
Luisa, trovò una distinta famiglia milanese, che le offrì di prenderla
seco in qualità di damigella di compagnia e, avendo essa accettato,
subito se la condusse con sè. Giuseppina, rimanendo quindi la sola non
provvista, epperò a carico della sorella Amalia e della nuova di lei
famiglia, non esitò più e si decise a venir tentare la sorte a Torino.
Il cognato, Anselmo, che era d’animo buono e generoso, dopo avere
cordialmente insistito per trattenerla, assicurandole che l’avrebbe
avuta proprio in conto di sorella, le fece promettere che, se non le
sorridesse la sorte, se trovasse troppo difficili le vicende nella
nuova residenza, sarebbe subito ritornata a Parma, dove avrebbe trovata
sempre la casa dei Carra aperta a riceverla come una carissima della
famiglia.
Giuseppina, a Torino, fra le persone a cui venne indirizzata e
raccomandata come in condizione da poterle essere utili, ebbe occasione
di conoscere anche Matteo Arpione, che nel mondo artistico musicale
aveva tante attinenze pel suo vario passato di editore, d’impresario,
di giornalista e di agente teatrale, e che era creduto capace di
procurare alla giovane maestra l’introduzione in molte famiglie
dell’aristocrazia per le relazioni che con quelle famiglie aveva avuto
suo padre l’accordatore. Matteo, contrariamente alla sua indole fattasi
sempre più egoistica, conosciuta la fanciulla parmigiana, prese per
essa il maggiore interessamento, e impiegò, per tornarle utile, tutto
il suo zelo, tutta l’attività, tutta la buona voglia. Ed era il vero
che la Giuseppina doveva, quasi irresistibilmente, ispirare, a chi
l’accostasse, simpatia e desiderio di giovarle, tanto l’adornavano la
bellezza, la gioventù, la modestia, la sembianza, cui tutti fin dal
primo sguardo riconoscevan sincera, di virtù, di bontà, d’intelligenza,
di candore.
Matteo, per dirla in breve, se ne invaghì perdutamente. Non aveva
praticato fino allora che donne d’infima natura, e subito, come per
improvvisa illuminazione dello spirito, riconobbe la immensa distanza
che separava da tutte le altre questa pura fanciulla, la grande
superiorità d’animo, di costumi e di carattere che la innalzava a tanta
altezza da ognuna di quelle che gli erano state famigliari. Conobbe
in pari tempo quanto egli, per le abitudini, per la bassezza dei
sentimenti e delle passioni a cui si era abbandonato, fosse indegno di
lei, e disperò di potersi mai innalzare cotanto da meritarsi il menomo
di lei favore. Tentare una seduzione non ci pensò neppure; e se fuor
della presenza di lei il colpevole desiderio potè venirgliene, bastò
sempre che si trovasse sotto il limpido sguardo di quegli occhi casti,
sereni, innocenti, perchè tosto ogni simile idea fuggisse lontano,
senza lasciare la menoma traccia.
Ma invano frattanto Matteo si adoperò quanto seppe meglio per procurare
alla Giuseppina le desiderate lezioni. Egli col suo contegno, colle
sue vicende, colle sue parole aveva perduto non che ogni simpatia,
ma perfino la conoscenza e il mezzo d’introdursi presso le famiglie
signorili e sopratutto della nobiltà, e non sarebbe riuscito
addirittura a nulla se non ve l’avesse aiutato un tale che gli si era
fatto amico fin da quando, ancora bambino, suo padre lo menava seco
in qualche casa dove esercitava il suo mestiere, ed occupava allora
il posto di cameriere di confidenza presso il presidente conte Sangré
di Valneve. Tommaso era figliuolo d’uno già lacchè in quella nobile
famiglia e potevasi dire nato e cresciuto nello scuro, solenne palazzo
di essa; benchè maggiore di alcuni anni a Matteo, era ancora in tale
età da ruzzare insieme al figliuolo dell’accordatore tutte le lunghe
ore che questi si fermava nel palazzo a compire l’ufficio suo sui
parecchi pianoforti, e i lunghi corridoi de’ quartieri della servitù
e delle dispense risuonarono forte del rincorrersi, del gridìo, del
chiasso dei due monelli. Ciò aveva stabilito fra loro una famigliarità
quasi fraterna, un’affezione che era durata anche dopo arrivata
l’adolescenza e la gioventù, anche quando il nuovo genere di vita
di Matteo era venuto sempre più allontanandolo dall’ambiente, dalle
abitudini e dalle credenze e venerazioni in mezzo a cui viveva Tommaso.
A quest’ultimo dunque ricorse Matteo per ottenere alla fanciulla
parmigiana la protezione della famiglia Valneve; e Tommaso,
impegnatovisi, riuscì davvero a indurre la buona contessa Adelaide
a raccomandare la maestra in alcune case che l’accettarono. Ma ciò
non bastò ad avviare a buona fortuna i casi della giovane; e, senza
scendere a maggiori particolari, dirò soltanto che un anno dopo,
la poveretta, perduta ogni speranza di buon successo nella sua
professione, scoraggiata, avendo avuta la virtù insidiata da troppi e
troppo audaci tentativi, persuasa ormai che nulla di bene poteva più
aspettarsi in questa città, determinò partirsene a un tratto, senza nè
anco annunziarlo alle poche sue conoscenze.
Un giorno Matteo si presentò all’amico Tommaso con aria smarrita,
dicendogli senza preamboli che egli aveva bisogno d’una certa somma per
poter abbandonare Torino subito subito, la qual cosa se non fosse stato
in grado di fare sarebbe stato disperato e avrebbe potuto precipitarsi.
Il domestico di casa Valneve temette quasi che il suo amico avesse
commesso qualche brutta azione alle cui cattive conseguenze egli
ora volesse sottrarsi; ma interrogato con insistenza, Matteo finì
per confessare che partiva non per altro che per correr dietro alla
parmigiana, di cui era tanto innamorato da non poterne vivere lontano a
niun modo.
Tommaso, che aveva buon cuore e nutriva una vera affezione per
Matteo, non si fece neppure pregare di troppo per cedere, e diede
all’innamorato quella somma maggiore che potè dei risparmi da lui fatti
sul suo salario.
— Grazie Tommaso! — esclamò Matteo, stringendogli forte la mano. —
Sta tranquillo che i primi denari ch’io possa mettere in serbo saranno
impiegati a restituire quelli che tu ora così generosamente mi presti;
e fossi pur anche nei paesi più lontani, in America, in Australia, te
li manderò scrupolosamente.
— Come! — gli disse Tommaso. — Fai conto di andare così lontano? Non
pensi di tornar più a Torino?
— Che so io quello che accadrà di me?... Dicerto Torino non mi rivedrà
per un bel pezzo. E se mi parrà che la fortuna mi possa sorridere anche
a casa del diavolo, mi affretterò ad andarci.
Tommaso per un anno e più non ricevette notizia nessuna di Matteo, nè
alcun altro di Torino neppure udì qualcosa di lui; ma inaspettatamente
ecco arrivargli un giorno la somma imprestata a Matteo con poche righe
di accompagnamento, che chiedevano scusa del ritardo alla restituzione,
ma non dicevano nulla delle condizioni in cui si trovava, nè della vita
che faceva lo scrivente. La lettera però non veniva nè dall’America, nè
dall’Australia, ma semplicemente da Lugo.
Pochi mesi dopo, il cameriere del conte di Valneve era per istrada
fermato da un uomo di misere apparenze, di aspetto umile e sofferente,
nel quale con grande stupore egli riconosceva l’antico amico Matteo.
Questi di quanto gli fosse avvenuto nel tempo trascorso non volle dir
nulla, pregò anzi con calorosa instanza il compagno perchè neppure non
gliene domandasse mai.
Più tardi noi verremo forse a sapere quali vicende fossero le sue in
questo frattempo e come e perchè fosse andato a Lugo.
Frattanto Matteo giurò e spergiurò a Tommaso che egli era affatto
cambiato; che aveva dato tutt’insieme l’addio alla vita spensierata e
viziosa del crapulone e alle sue opinioni sovversive e insensate; che
s’era accorto esservi anche nello stato attuale della società due forze
che valgono a tirar fuori della miseria chi le sappia con perseveranza
adoperare, e queste forze sono il lavoro e il risparmio; ch’egli voleva
e si sentiva la capacità di adoperare questi due mezzi e non avrebbe
rifiutato fatica per quanto aspra, prove per quanto lunghe e gravi,
affine di giungere a farsi un posticino nel mondo. Si raccomandò
caldamente all’antica amicizia del cameriere, perchè in queste sue
buone risoluzioni lo volesse aiutare.
Volle la fortuna di Matteo che in quel tempo il conte di Valneve fosse
rimasto senza segretario, nè avesse trovato ancora fra gli aspiranti a
quella carica alcuno che gli piacesse. Tommaso, raccomandandogli con
accorta premura il povero Matteo, figliuolo dell’antico accordatore