La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 09
sotto quelle furibonde carezze. Ma la donna rallentò il nodo
delle braccia, lasciò ricadere di nuovo abbandonata la testa, fece
estinguersi di nuovo la voce in un gemito, e giacque in apparenza più
svenuta di prima.
Alfredo sorse in piedi, afferrò la giacente alla vita sotto le ascelle
e stringendola con emozione al suo petto la trasportò sul più vicino
sofà, adagiatala sul quale, egli le si inginocchiò presso e le coprì di
baci le mani, chiamandola a sua volta dolcemente per nome.
La donna, senz’aprir gli occhi, fra due gemiti leggeri, pronunziò
sommessamente alcune staccate parole che il giovane raccolse con avido
orecchio.
— Oh mi si lasci morire... Oh fossi morta!... Oh essere oltraggiata
innanzi a lui... perduta per lui!...
— Zoe! Zoe! — esclamava Alfredo padroneggiato dalla passione; —
ascoltami, guardami... sono io.... io che ti amo sempre.... io che
del tuo passato non ho diritto di chiederti nulla... io che ti perdono
tutto.
Ella parve nuovamente rianimata di colpo da queste parole: mandò
un’esclamazione di gioia che avrebbe potuto dirsi celeste, le pupille
scintillarono più vive che mai, le labbra sorrisero, un lieve rossore
venne a tingere l’opaca pallidezza delle guancie.
— Tu perdonarmi! — esclamò — tu Alfredo!... Tu avverare il mio più
caro, più vagheggiato sogno.... da me stessa creduto impossibile!... Il
mio passato... l’orribile mio passato!... tu me lo perdoni?
— Sì... Anzi, te lo ripeto, ho io pure il diritto di chiedertene? di
fartene colpa?
— Sì, sì, sì... perchè tutta la mia vita vorrei fosse tua, fosse
degna d’esserti messa ai piedi... Tu hai ora udito dalla bocca di quel
principe scellerato....
— Ah! io non ho udito tutto, nè bene: — proruppe Alfredo: — nè quello
che ho udito, ho potuto comprendere affatto, tanto era il tumulto
dell’anima mia; ma ho sofferto, Zoe, ho sofferto immensamente al
vedere che tu, quell’uomo.... per quanto principe egli sia.... non lo
cacciavi di casa tua, come un lacchè, credevi non avere il diritto di
farlo... Quel duca! — aggiunse con una profonda, fremente amarezza: —
provavo già per lui una istintiva ripugnanza.... ora l’odio quanto lo
disprezzo...
Gli occhi della donna mandarono uno spruzzo più vivo che mai di quella
loro speciale luce feroce. Li coprì colle mani, con finto atto di
pudore, per nasconderne il terribile balenìo ad Alfredo.
— Il mio passato! — esclamò. — Era da anni il mio rimorso; e, dacchè
ti ho conosciuto, il mio tormento. Prima d’incontrarti, credevo averlo
già espiato; la coscienza mi veniva rassicurando che avevo cancellata
una colpa, la quale, solo in minima parte, era mia... Ma quando ti
incontrai, quando vidi sorgere in te l’amore per me, quando mi sentii
assalire, avvolgere, affascinare dalle divine ebbrezze del sapermi
amata da te.... oh allora riprovai tutto il travaglio, rimaledissi
tutta la crudeltà della mia sorte... Avrei voluto poterti recare
tutto il candore verginale dell’innocenza, darti tutte le primizie
dell’affetto... Era per ciò che mi fingevo superba, che ti respingevo,
che mi sforzavo ad apparirti indifferente, io che t’amava... che t’ho
subito amato, che mi sarei gettata nelle tue braccia senza indugio,
gridandoti: Sei il mio signore, sei tutta la mia vita, sei l’anima
mia!... T’amo! T’amo! T’amo!
E congiungendo l’atto alle parole, si abbandonò sul giovane, lo strinse
con violenza, lo sbalordì con una tempesta di baci quasi furibondi.
In Alfredo ogni rabbia, ogni sospetto, ogni considerazione svanì
sotto l’irruenza di una sensualità sfrenata: abbracciò anch’egli la
donna delirante e corrispose agli ardori di lei; ma di colpo essa
si svincolò, respinse il giovane, sorse in piedi, quasi fuggì alla
distanza di alcuni passi, e tendendo una mano innanzi come ad arrestare
e contenere lui che stava per raggiungerla, disse:
— Alfredo! In nome dell’amore che mi avete posto, più ancora in nome
di quello eccelso, nobile, santo che mi avete ispirato, che sento in
me come una nuova nobilitazione di tutta me stessa, vi prego di voler
udire prima di tutto la storia di quel mio passato, che fino ad ora
posi tanto impegno a nascondervi, che mi pareva una insopportabile
vergogna che voi conosceste, ma che adesso, dopo quanto avete visto e
udito di quel tristissimo principe, ci tengo, anelo, ho necessità di
farvi tutto, tutto noto.
Camporolle fece un gesto come per protestare; ma ella non lo lasciò
neppure aprir bocca.
— Oh vi prego... ve ne scongiuro... Abbiate pazienza... e pietà.
Allora egli, vinto, commosso, le si accostò, le prese una mano, per
quella trasse a sè la donna che pareva agitata da una inesprimibile
emozione, e la baciò fraternamente sulle chiome.
— Se tu lo vuoi, parla, parla; e mi parrà un maggiormente acquistarti
il dividere i tuoi dolori, il penetrare nelle argoscie della tua anima.
Ella fece sedere il giovane presso al camino, gli si accoccolò ai
piedi, mezzo seduta, mezzo inginocchiata, in una mossa che un pittore
avrebbe subito ricopiata per una Maddalena ai piedi del Salvatore, e
fece il racconto seguente, in cui, a suo modo e secondo i suoi pravi
intendimenti, ella aggiustò la storia della sua vita:
— Nacqui di famiglia distinta, nobile, oserei dire illustre, che io non
nominerò neppure innanzi a te, perchè credo aver pur troppo perduto il
diritto di dirmi a lei appartenente.
(Il vero era ch’essa, figliuola di miserabili plebei, era stata venduta
da bambina a un saltimbanco).
— Disgrazie funeste e ripetute ci colpirono e all’opulenza sottentrò
la scarsità dei mezzi prima, la povertà poscia, da ultimo la miseria,
una vera, assoluta, terribile miseria. Allevata nel fasto e nelle
grandigie, con quell’inutilità di educazione che si dà alle fanciulle
della aristocrazia, io non sapeva nulla, non ero capace di nulla che
potesse procurare un pane, non che ai miei, a me stessa. Ero abile
cavalcatrice... fin da giovinetta avevo una passione indicibile
pei cavalli.... con un ardimento e con fortuna straordinaria domavo
qualunque più riottoso di essi.... nei tempi della nostra fortuna mio
padre non acquistava un animale per le sue ricchissimamente fornite
scuderie, che non mi consultasse... Ebbene... come debbo dirvi?.... Ah
non so trovar parole per ispiegarvi... Non lo crederete neppure... Ma
se sapeste la violenta eloquenza del bisogno!... La sventura m’aveva
pure quasi sconvolta la ragione... mi pareva poco meno che un atto
d’eroismo lo sfidare la società elegante di cui avevo fatto parte,
fino allora, il calpestare i pregiudizii della gente, l’affrontare
audacemente i giudizi temerari, le mormorazioni, le calunnie...
Entrai... stipendiata.... in una compagnia di cavallerizzi.
Alfredo ebbe un trasalto di stupore.
— Voi! — esclamò incredulo. — Voi?
Ella sollevò audacemente il capo e fissò negli occhi di lui i suoi,
sicuri, splendenti, affascinatori.
— Si! — disse.
— E.... e — riprese Alfredo esitando — e siete comparsa in pubblico?...
Zoe non lo lasciò terminare; colla medesima audacia che aveva una certa
imponenza proruppe:
— Sì! sì! sì!.... Vestita come una ballerina, la maglia color di carne,
le spalle e le braccia nude, il belletto sulla faccia, i fiori finti
nei capelli, il guarnellino corto scintillante di lustrini, innanzi a
migliaia d’occhi di spettatori ammirati, avidi, entusiasti, al suono
provocante d’una musica a stromenti metallici, al galoppo del cavallo
che vi trasporta facendovi rompere l’aria tepente, impregnata di mille
effluvii e della polvere del circo, colla faccia arrossita, ai lazzi
dei buffoni nell’arena, alle grida e ai battimani degli applausi.
— Oh! — esclamo Alfredo, passandosi una mano sulla fronte. Quell’ideale
di donna che egli aveva amata nella bella persona che gli stava
accoccolata dinanzi; quell’ideale che già erasi sfaldato alle
rivelazioni avute dalle parole del principe, ora svaniva affatto... ma
rimaneva la bellezza materiale delle forme, fatta più procace ancora
dal pensiero di quei deplorabili trionfi.
— Voi vi indignate, non è vero? — continuò la Zoe, — come s’indignarono
tutti i nobili miei congiunti e conoscenti, quantunque avessi
accuratamente nascosto il mio nome e fossi andata lontano dalla mia
città... E intanto ebbi non solo pane, ma agiatezze da dare ai miei
genitori che mi disprezzavano e che più non vollero vedermi... E
vi giuro, Alfredo, che la mia condotta, i miei modi, la mia dignità
sempre mi fecero rispettare dai miei compagni e da quei poco morigerati
giovani che frequentano simili artisti.
(In tutto questo romanzetto la verità era che essa, dopo avere passato
la sua infanzia e la prima giovinezza coi saltimbanchi sulle piazze,
era stata arruolata in una compagnia equestre, dove la sua bellezza e
l’ardimento le avevano presto fatto acquistare una celebrità speciale
sotto il nomignolo della _Leggera_).
— Ma ora, — ella ripigliò dopo una breve pausa, e fingendo a meraviglia
di fare un penoso sforzo per continuare, — ora viene l’episodio più
doloroso, più vergognoso, più maledetto della mia vita.
XXV.
La Zoe si raccolse un momento come per chiamare a sè tutte le sue
forze onde abbisognava per ritornare su quei dolorosi fatti ed esporli;
Alfredo, avvertendo che qui era il punto principale ed importante della
narrazione, si chinò verso di lei con ancora maggiore interessamento.
— Io non aveva ancora amato mai... agli omaggi degli uomini mi sentivo
affatto indifferente, anzi n’ero sdegnosa e sprezzante... Avevo
conosciuta di tutti quelli che m’avevano avvicinata, e che pure secondo
la società dovevano essere dei migliori, la bassezza di animo, la
nullità dello spirito, la insufficienza del carattere!... Mi credevo
io stessa incapace di quel sentimento. La mia virtù non aveva grandi
difficoltà a salvarsi in mezzo a quelle dagli altri credute seduzioni,
che mi attorniavano; trovava un aiuto e una forza nella mia apatia,
nella stessa coscienza del mio valore, nel mio disprezzo d’altrui...
Ma venne un giorno fatale in cui anche la mia superbia fu vinta... Vi
ricordate che a Bologna, la prima volta che vi parlai, vi chiesi se
eravate del Piemonte? Fu perchè nei vostri occhi mi parve scorgere,
nella vostra voce sentire qualche cosa di colui... E fu per ciò, forse,
che incominciai subito ad amarvi.... Fu in una città piemontese che
lo vidi, che mi accostò, che mi vinse... Ah! ma come quell’uomo era
superiore a tutti!... Come cuore, mente, valore, bellezza, forza,
gentilezza erano in lui tali da offuscare ogni dote d’altrui!...
Si sollevò un momentino della persona, scoccò uno sguardo amorosissimo
negli occhi di Alfredo e soggiunse abbassando la voce, come peritosa
della sua confessione:
— Non vidi più altri che te degno d’essergli paragonato... te che me lo
ricordavi!
Camporolle sentì un calore subitaneo, come una scintilla corrergli
lungo la spina dorsale e poi invadergli le vene.
La donna continuava:
— Egli mi amò... Oh come seppe amarmi!... Egli lesse nel mio intimo,
nella mia coscienza, egli conobbe ed apprezzò la purezza della mia
vita, il coraggio della mia risoluzione, la nobiltà della mia indole
e della mia condotta in mezzo a quel mondo che tutti condannano per
corrotto ed ignobile; egli mi amò come mi avrebbe amata se mi avesse
conosciuta nell’elegante salone di mia madre ai tempi delle maggiori
prosperità della mia famiglia... Ed io l’amai... con adorazione,
con culto, con entusiasmo, con trasporto di sacrifici, con abbandono
appassionato, con tutto l’ardore e la potenza che può essere in una
creatura terrena.
Alfredo sentì nel cuore il morso d’una stupida gelosia retrospettiva.
— Ah! — esclamò quasi con dolere, liberando le sue braccia dalle mani
di lei che vi si stringevano tenaci, supplicanti, carezzevoli, calde,
febbrili, e si trasse un pochino in là.
Ella s’accorse di ciò che passava nell’animo di lui. Se ne compiacque:
era quello che voleva, suscitare le varie e più acute e più disparate
emozioni nel giovine, affine di rammollirne la fibra, di indebolirne il
vigore, di impossessarsi lei, colle arti sue, della volontà, del senso,
del pensiero del giovane.
Riafferrò con forza, con risoluta energia, quasi con autorità le
braccia di Alfredo, e sollevando il suo volto in quel momento animato,
soffuso d’un rosato colore, quale egli non le aveva visto mai e
che accresceva l’incanto della sua bellezza, continuò con voce più
sommessa, quasi soffocata, fremente, affannosa:
— L’amai... e non fui sua!... Ci amammo supremamente da esser tutto
l’uno per l’altra, da non aver più pensieri nè riguardi per nulla
al mondo fuori dell’amor nostro... eppure i nostri rapporti furono
incontaminati... Egli rispettò in me la donna cui avrebbe dato il suo
nome, che avrebbe fatta sua compagna nella vita... Sì, — aggiunse con
forza, levando in una mossa di nobile orgoglio la bella testa, — sì,
egli avrebbe calpestato ogni pregiudizio, superata ogni difficoltà
per condurmi all’altare, come pur n’ero degna. Ma la sventura appunto
precipitò su di noi; la più orribile sventura che ci separò... che
tolse a lui la vita — (abbassò la voce e chinò la testa), — a me
l’onore e la felicità di tutta l’esistenza!
La falsa donna, attrice abilissima, si accasciò sul pavimento, come
affranta da quel ricordo che rinnovasse in tutta la crudeltà d’un tempo
un dolore incomportabile; s’accasciò e si coprì colle mani il volto e
si pose a singhiozzare penosamente, con dolorosi sobbalzi che agitavano
convulsamente il suo bellissimo corpo.
— Non fui sua!... — pronunziò con rotte parole e con istentato accento:
— e un altro... Oh! l’infame!... E io ho potuto sopravvivere... e non
istrozzarlo, e non istrappargli il cuore dal petto... e contentarmi di
maledirlo!...
— Ah! — esclamò Alfredo con rabbiosa emozione: — il duca?...
Ella si levò impetuosa, furente, bella, terribile, le chiome ricascanti
sulle spalle, attorcigliate come serpenti sanguigni che s’agitassero,
il seno discinto, gli occhi fiammeggianti sotto il marmoreo pallor
della fronte.
— Sì, il duca: — fremette con voce che vibrava come una nota metallica,
che sibilava fra i denti, su cui si contraevano quelle labbra così
rosse di sangue. — Il duca!... questo flagellatore di donne che
s’abbassano a pregarlo...
Si torse le braccia in un trasporto di disperata rabbia che non
toglieva nulla, ma anzi calcolatamente aggiungeva all’efficacia delle
sue attrattive.
— Ah sono vile! — esclamò coll’accento di chi non è più padrone di sè.
— Fui vile a non ammazzarlo allora, quell’empio; sono stata vile a non
ammazzarlo ora... ora che m’ha insultata, lui che mi volle perduta, che
m’ha colpita del suo frustino, lui che mi gettò nel fango... Lasciatemi
abbreviare quest’orribile racconto... L’uomo ch’io amava era uno fra i
capi dei liberali: fu circondato di spie, fu venduto da un traditore;
un bel dì venne arrestato, si sequestrarono appo lui le prove più
patenti di una congiura da lui avviata... Si parlava nientemeno che
di condanna a morte... Io, povera fanciulla che non comprendevo nulla
di codeste cose, credetti che la vita di lui fosse in pericolo. Ero
disperata... Codesto duca da lungo tempo mi perseguitava con tutte le
proteste e le promesse e le tentazioni che siffatta gente crede atte a
vincere una donna... Mi dissero a un punto che una sola persona poteva
adoprarsi a salvar l’uomo da me adorato: questo mostro di principe,
e che io solamente potevo ottenere da lui che ciò facesse... Esitai,
lottai... oh quello che soffrii! Ma lasciarlo morire non volevo...
Ero pur certa che, caduta, egli non m’avrebbe amata più, m’avrebbe
respinta... Ma lasciarlo morire!.... Acconsentii che il duca mi
rapisse. Sacrificavo il mio amore, il mio onore, anche la stima di lui
alla salvezza della sua vita... Questa il duca me l’aveva giurata...
Fui tratta in una villa solitaria. Dio Eterno!.... Là mi attendevano
donne svergognate, libertini, ribaldi, degni compagni di lui... una
sequela d’orgie... infamie senza nome... là avvolta da una scellerata
ebbrezza... oh! non fatemi pronunziare più una parola...
Ricadde sul pavimento affranta, anelante, gemendo, la faccia chiusa
nelle mani, agitata la persona da piccole convulsioni di spasimo.
Oh l’ammirabile commediante! Chi non avrebbe creduta sincera quella
emozione? Chi non avrebbe dato fede a quel racconto?
Alfredo, lui, credette ciecamente. Sentiva ammassarsi in cuore un monte
di odio e di furore contro quello scellerato di principe che vendeva a
tanto infame prezzo la sua protezione. Turbato fino all’intimo del suo
essere, fremente egli stesso, incapace di più frenarsi, sorse in piedi
e si pose a passeggiare su e giù per la sala, le guancie contratte, i
pugni serrati. La Zoe non si mosse da quel luogo e da quella positura;
pareva proprio la Maddalena, nell’eccesso della sua umiliazione e del
suo pentimento, che aspetta la parola che deve redimerla dal Cristo
pietoso; ma di sottecchi frammezzo alle lunghe palpebre color d’oro,
le sue pupille scure dardeggiavano sul giovane certi sguardi saturi di
elettricità, di indicibile potenza magnetica.
Dopo un poco, il giovane si riaccostò lentamente alla donna, sempre
abbandonata a quel modo, e curvandosi alquanto su di lei, le domandò a
mezza voce:
— E colui... l’uomo da voi amato... fu salvo?
Zoe sorse di scatto, mandando una penosa esclamazione che pareva un
urlo soffocato.
— Voi non potete neppure immaginare fin dove si spinga la
scelleraggine di codesta gente cui la bassezza della natura umana
onora e riverisce!... No, tu non lo crederai neppure... Mentre io mi
sacrificava così dolorosamente... _egli_... era già spento!
— Come?
— Per sottrarsi alle torture della carcere.... egli si era avvelenato.
E la si lasciò cadere sul sofà, rompendo in un pianto di angoscia
disperata.
Alfredo stette un momento a guardarla; poi le si sedette accanto,
l’avviluppò colle sue braccia e la baciò sul collo.
— Hai molto sofferto! — le disse dolcemente.
— Fu tutto un dolore la mia vita... Odi ancora quel poco che mi rimane
a dirti perchè tu mi conosca affatto... Fuggii l’Italia... fui a
Vienna, dove il principe K., alleato della mia famiglia, mi accolse,
mi protesse, coprì il mio primitivo nome e il mio passato col nome di
baronessa di Muldorff... Un’eredità mi restituì la ricchezza; questa
e la mia dolorosa pratica del mondo mi diedero l’indipendenza... Ora
comprenderai perchè respingessi tutti gli uomini, comprenderai la forza
dell’amor mio per te, se ha potuto farmi obbliare il giuramento che
m’ero fatto di non più ascoltare una parola d’amore.
L’ombra d’un indefinito sospetto attraversò l’anima candida del giovane
Alfredo.
— Una cosa non comprendo, — disse egli, — ed è il perchè tu sia venuta
qui ora, fra le branche di quel mostro...
— Ah perchè? — sussurrò con voce fremente la donna: — sono venuta per
vendicarmi...
— Come?
— Il come te lo dirò forse un giorno... se continuerai ad amarmi.
Egli la strinse di nuovo e con più passione fra le braccia.
Invece del romanzo ch’essa gli aveva narrato, la verità era che la
Zoe aveva voluto per mezzo di Carlo di Borbone, figliuolo dell’allora
duca di Lucca, far salvo dall’estremo supplizio Gian-Luigi Quercia,
un famoso assassino che era vissuto nella società elegante torinese, e
che era di lei amante: che il duca non aveva voluto darle retta, e che,
per non salire sul patibolo, quel malfattore s’era ucciso con veleno
che la Zoe medesima gli aveva recato mercè l’aiuto del Pancrazi, allora
impiegato di Polizia in Piemonte.
Ma la maliarda si sciolse dall’amplesso di Alfredo.
— Lasciami, — disse risolutamente, — va... La notte è presso al suo
termine... Sono stanca, affranta... ho bisogno di riposo e di pensare
su quello che è accaduto, tu pure su quanto hai udito...
Per quante preghiere facesse il giovane, essa fu inesorabile. Ben
sapeva l’accorta che quei desideri da lei eccitati con tanta arte,
insoddisfatti, avrebbero acquistata una violenza di tanto maggiore, e
di questa ella abbisognava pe’ suoi fini.
Appena partito il giovane, ella scrisse poche parole sopra un
bigliettino: «Far sapere al duca che l’uomo nascosto in casa mia
questa notte era il conte Alfredo Corina di Camporolle:» e per mezzo
di Michele lo fece pervenire quella stessa mattina nelle mani del
direttore di Polizia.
XXVI.
Era ormai l’alba quando Alfredo uscì dalla casa abitata dalla
baronessa. Aveva indosso un malessere profondo, un’irritazione
strana, un turbamento complesso, confuso, quale non aveva provato
mai. Il sangue gli sussultava ancora e gli accendeva desideri,
che, insoddisfatti, gli erano tormenti; la materia parlava forte
con acri tentazioni, lo spirito si rincantucciava, per così dire,
sbalordito, indolenzito, malvoglioso, sfiduciato, caduto in una
specie di degradazione. Sentiva dileguatosi, offeso l’ideale d’amore
della sua gioventù, accarezzato con tanta virtuosa ardenza dell’anima
non volgare; ne provava un certo dolore, ma muto, nascosto, quasi
inconscio, e s’arrabbiava di non averne vergogna e disperazione. La
spregevole emozione della corrotta voluttà lo attirava. Come! Lui
che aveva voluto fare del suo cuore un altare alla donna che avrebbe
stimata degna dell’amor suo, ora si sarebbe abbandonato agli amplessi
d’una sirena dei sensi, che l’onesto istinto gli faceva pensare a
dispetto di tutto una creatura avvilita? ed egli anzi la desiderava,
tanta degradazione, vi anelava, soffriva di non esservi ancora
precipitato? Chi glie l’avrebbe detto un giorno! Sentiva moralmente, e
anco pienamente perfino, quell’amarezza, quel disagio, quella penosa
prostrazione che sente un libertino novizio dopo una notte di orgia,
quando rincasa, colle membra e l’animo fiacchi, la bocca allappata
disgustosamente e un infinito fastidio di tutto e di tutti, cominciando
da sè.
Nella strada non c’era nessuno. Il conte di Valneve e Pietro Carra,
visto partire il duca coll’Anviti e i due uomini di scorta, avevano
aspettato ancora un poco, e poi, persuasi che il Camporolle sarebbe
rimasto fino a giorno là dove gli era stato lasciato il campo libero,
se n’erano andati per riposarsi alquanto e fare poi i pochi preparativi
che occorrevano alla partenza.
Alfredo s’avviò di buon passo anch’egli verso casa, per cambiarsi in
fretta di abiti, chè appena glie ne restava il tempo, e recarsi quindi
dal conte Ernesto.
Ma nel suo alloggio trovò tutti i suoi dipendenti levati ad aspettarlo
inquieti, e più inquieto di tutti un uomo che era quello venuto a
mettere la casa in allarme a ora tarda della notte, che non s’era più
mosso e che nell’attesa percorreva agitato, a gran passi, il salotto,
accrescendo l’impazienza, i timori, le smanie, a ogni momento che
passasse.
Quell’uomo era Matteo Arpione.
Appena Alfredo comparve, un’esclamazione di gioia con cui lo salutò il
domestico nell’anticamera, ne annunziò l’arrivo a Matteo il quale si
precipitò colla massima premura all’incontro del giovane.
— Ah finalmente! — esclamò egli trovandosi di fronte al Camporolle; e
aveva la voce e le mani che tremavano dall’emozione. — Ah! che brutta,
tremenda notte ci ha fatto passare, signor conte!
Questi, per l’addietro, non aveva mai accolto quell’uomo con molta
espansione di tenerezza; le maniere di Matteo verso di lui erano d’una
umiltà così sottomessa e poco dignitosa che al giovane certe volte
facevano perfin rabbia; e insieme a ciò eravi nella figura, nei tratti,
nel tutt’insieme di colui qualche cosa che gli ripugnava, senza ch’egli
sapesse spiegarsene il perchè. Ora, da quello che glie ne aveva detto
Ernesto Sangré, Alfredo credeva di avere finalmente scoperto quel
perchè, subodorato dapprima dal suo generoso istinto. Quindi il modo
con cui quella mattina egli accolse il vecchio, non più solamente
freddo e riserbato, ma fu addirittura sprezzoso e crudele.
— Signor Arpione, — gli disse squadrandolo dalla testa ai piedi, — dopo
quello che ho appreso di voi, una completa spiegazione è assolutamente
necessaria. Ho diritto di sapere, e lo voglio, che uomo è quello
che tratta i miei interessi e ch’io ricevo colla famigliarità d’un
vecchio servo in casa mia; chè se quell’uomo non è degno della stima
dell’onesta gente, non è degno neppure nè di servirmi, nè di varcare la
soglia della mia abitazione.
Matteo nella sua faccia terrea e perfino nella sua fronte di pergamena
divenne a un tratto di un rosso cupo, che poi tosto si dileguò
per lasciare luogo a un pallore grigiastro, color di cenere; una
contrazione delle guancie e delle labbra, un umido bagliore degli
occhi affondati rivelarono in un baleno il subito morso in lui d’un
acutissimo dolore; ma fu un vero baleno; la fisonomia di quell’uomo
tornò nella sua fredda indifferenza abituale, e come se non avesse
udito nemmanco quelle fiere parole, trascurando affatto il proprio
tormento, egli non volle vedere che il turbamento e la pena del
giovane, rivelati dal pallore e dall’accasciamento.
— Ma Lei, conte, non si sente bene questa mattina, — disse con premura.
— Mi faccia la grazia; cominci per andare a letto a riposarsi...
Alfredo lo interruppe con superbo disdegno:
— Non avete intese le mie parole?
— Sì, signor conte... Io le darò ogni spiegazione che può desiderare...
Vedrà! Non ha punto da inquietarsi. Ma intanto quello che preme di più
è che Lei si metta a letto, si riposi, si curi...
— Avete in pensiero di fermarvi un poco a Parma? — domandò il giovane,
coll’intenzione di mostrare affatto che non badava alle parole di
quell’uomo.
— No: — rispose Matteo. — I miei affari non mi lasciano fare assenze
lunghe... a meno che Lei abbia bisogno dell’opera mia... Allora
disponga pure del mio tempo e di tutto me stesso... Già sono venuto qui
apposta per Lei...
— Sì? — interruppe più sprezzante che mai il conte di Camporolle. —
Credevo invece che foste venuto pel conte di Valneve.
— Anche per lui, è vero... Ma quello non è che un accessorio...
Avevo determinato già di venire presso di Lei, perchè ho bisogno di
parlarle... quando la famiglia Sangrè mi fece sapere occorrerle un
messo fidato e intelligente da spedire qui al conte Ernesto.
— E avete accettato d’essere voi codesto messo fidato e intelligente?
Matteo finse non avvertire o non avvertì l’ironia con cui erano dette
queste parole e rispose seriamente:
— Sì, signor conte... Anche con quella famiglia sono legato da
lungo tempo... sono stato suo uomo d’affari, suo intendente, suo
ragioniere... e ho conservato la fiducia del nobile conte padre... Or
dunque, se Lei, conte Alfredo, non ha bisogno della mia presenza qui...
Il giovane fece un atto sprezzoso ad accennare che non aveva neppur
l’ombra di tal bisogno.
Matteo continuò:
— Appena io avrò detto a Lei tutto quello che mi preme, che assai mi
preme di dirle, appena avrò comunicato al conte Ernesto quello che la
famiglia gli manda a dire per me, io me ne ripartirò.
— Il caso vuole che nè a me nè al conte di Valneve voi non possiate
parlare così presto.
— Perchè?
— Perchè stiamo per partire ambedue...
— Da Parma?
— Sì.
— Per dove?
— Ah! siete troppo curioso.
— E non tornerà più qui? — domandò Matteo con accento in cui si
travedeva una lieta speranza.
— Ci tornerò sicuro, appena finito l’affare per cui accompagno Valneve.
— Ah! gli è per un affare del conte Ernesto che partono!... Che sì che
l’indovino.
— Sareste bravo!
— Gli è per battersi con quell’ufficiale austriaco col quale è
cominciata fin da Milano la nemicizia...
— Oh come siete bene informato!
— È la famiglia che sa tutto, che vuol impedire codesto duello, che mi
ha mandato apposta.
— Troppo tardi: — si lasciò scappare Alfredo.
— Ah dunque gli è proprio per codesto che loro partono: — esclamò
Matteo. — Partono per battersi fuori di Parma, fuori del ducato;
e Lei, conte Alfredo, accompagna il conte Sangrè per servirgli da
testimonio?... Ma no; questo non può essere, non sarà. Il conte Ernesto
delle braccia, lasciò ricadere di nuovo abbandonata la testa, fece
estinguersi di nuovo la voce in un gemito, e giacque in apparenza più
svenuta di prima.
Alfredo sorse in piedi, afferrò la giacente alla vita sotto le ascelle
e stringendola con emozione al suo petto la trasportò sul più vicino
sofà, adagiatala sul quale, egli le si inginocchiò presso e le coprì di
baci le mani, chiamandola a sua volta dolcemente per nome.
La donna, senz’aprir gli occhi, fra due gemiti leggeri, pronunziò
sommessamente alcune staccate parole che il giovane raccolse con avido
orecchio.
— Oh mi si lasci morire... Oh fossi morta!... Oh essere oltraggiata
innanzi a lui... perduta per lui!...
— Zoe! Zoe! — esclamava Alfredo padroneggiato dalla passione; —
ascoltami, guardami... sono io.... io che ti amo sempre.... io che
del tuo passato non ho diritto di chiederti nulla... io che ti perdono
tutto.
Ella parve nuovamente rianimata di colpo da queste parole: mandò
un’esclamazione di gioia che avrebbe potuto dirsi celeste, le pupille
scintillarono più vive che mai, le labbra sorrisero, un lieve rossore
venne a tingere l’opaca pallidezza delle guancie.
— Tu perdonarmi! — esclamò — tu Alfredo!... Tu avverare il mio più
caro, più vagheggiato sogno.... da me stessa creduto impossibile!... Il
mio passato... l’orribile mio passato!... tu me lo perdoni?
— Sì... Anzi, te lo ripeto, ho io pure il diritto di chiedertene? di
fartene colpa?
— Sì, sì, sì... perchè tutta la mia vita vorrei fosse tua, fosse
degna d’esserti messa ai piedi... Tu hai ora udito dalla bocca di quel
principe scellerato....
— Ah! io non ho udito tutto, nè bene: — proruppe Alfredo: — nè quello
che ho udito, ho potuto comprendere affatto, tanto era il tumulto
dell’anima mia; ma ho sofferto, Zoe, ho sofferto immensamente al
vedere che tu, quell’uomo.... per quanto principe egli sia.... non lo
cacciavi di casa tua, come un lacchè, credevi non avere il diritto di
farlo... Quel duca! — aggiunse con una profonda, fremente amarezza: —
provavo già per lui una istintiva ripugnanza.... ora l’odio quanto lo
disprezzo...
Gli occhi della donna mandarono uno spruzzo più vivo che mai di quella
loro speciale luce feroce. Li coprì colle mani, con finto atto di
pudore, per nasconderne il terribile balenìo ad Alfredo.
— Il mio passato! — esclamò. — Era da anni il mio rimorso; e, dacchè
ti ho conosciuto, il mio tormento. Prima d’incontrarti, credevo averlo
già espiato; la coscienza mi veniva rassicurando che avevo cancellata
una colpa, la quale, solo in minima parte, era mia... Ma quando ti
incontrai, quando vidi sorgere in te l’amore per me, quando mi sentii
assalire, avvolgere, affascinare dalle divine ebbrezze del sapermi
amata da te.... oh allora riprovai tutto il travaglio, rimaledissi
tutta la crudeltà della mia sorte... Avrei voluto poterti recare
tutto il candore verginale dell’innocenza, darti tutte le primizie
dell’affetto... Era per ciò che mi fingevo superba, che ti respingevo,
che mi sforzavo ad apparirti indifferente, io che t’amava... che t’ho
subito amato, che mi sarei gettata nelle tue braccia senza indugio,
gridandoti: Sei il mio signore, sei tutta la mia vita, sei l’anima
mia!... T’amo! T’amo! T’amo!
E congiungendo l’atto alle parole, si abbandonò sul giovane, lo strinse
con violenza, lo sbalordì con una tempesta di baci quasi furibondi.
In Alfredo ogni rabbia, ogni sospetto, ogni considerazione svanì
sotto l’irruenza di una sensualità sfrenata: abbracciò anch’egli la
donna delirante e corrispose agli ardori di lei; ma di colpo essa
si svincolò, respinse il giovane, sorse in piedi, quasi fuggì alla
distanza di alcuni passi, e tendendo una mano innanzi come ad arrestare
e contenere lui che stava per raggiungerla, disse:
— Alfredo! In nome dell’amore che mi avete posto, più ancora in nome
di quello eccelso, nobile, santo che mi avete ispirato, che sento in
me come una nuova nobilitazione di tutta me stessa, vi prego di voler
udire prima di tutto la storia di quel mio passato, che fino ad ora
posi tanto impegno a nascondervi, che mi pareva una insopportabile
vergogna che voi conosceste, ma che adesso, dopo quanto avete visto e
udito di quel tristissimo principe, ci tengo, anelo, ho necessità di
farvi tutto, tutto noto.
Camporolle fece un gesto come per protestare; ma ella non lo lasciò
neppure aprir bocca.
— Oh vi prego... ve ne scongiuro... Abbiate pazienza... e pietà.
Allora egli, vinto, commosso, le si accostò, le prese una mano, per
quella trasse a sè la donna che pareva agitata da una inesprimibile
emozione, e la baciò fraternamente sulle chiome.
— Se tu lo vuoi, parla, parla; e mi parrà un maggiormente acquistarti
il dividere i tuoi dolori, il penetrare nelle argoscie della tua anima.
Ella fece sedere il giovane presso al camino, gli si accoccolò ai
piedi, mezzo seduta, mezzo inginocchiata, in una mossa che un pittore
avrebbe subito ricopiata per una Maddalena ai piedi del Salvatore, e
fece il racconto seguente, in cui, a suo modo e secondo i suoi pravi
intendimenti, ella aggiustò la storia della sua vita:
— Nacqui di famiglia distinta, nobile, oserei dire illustre, che io non
nominerò neppure innanzi a te, perchè credo aver pur troppo perduto il
diritto di dirmi a lei appartenente.
(Il vero era ch’essa, figliuola di miserabili plebei, era stata venduta
da bambina a un saltimbanco).
— Disgrazie funeste e ripetute ci colpirono e all’opulenza sottentrò
la scarsità dei mezzi prima, la povertà poscia, da ultimo la miseria,
una vera, assoluta, terribile miseria. Allevata nel fasto e nelle
grandigie, con quell’inutilità di educazione che si dà alle fanciulle
della aristocrazia, io non sapeva nulla, non ero capace di nulla che
potesse procurare un pane, non che ai miei, a me stessa. Ero abile
cavalcatrice... fin da giovinetta avevo una passione indicibile
pei cavalli.... con un ardimento e con fortuna straordinaria domavo
qualunque più riottoso di essi.... nei tempi della nostra fortuna mio
padre non acquistava un animale per le sue ricchissimamente fornite
scuderie, che non mi consultasse... Ebbene... come debbo dirvi?.... Ah
non so trovar parole per ispiegarvi... Non lo crederete neppure... Ma
se sapeste la violenta eloquenza del bisogno!... La sventura m’aveva
pure quasi sconvolta la ragione... mi pareva poco meno che un atto
d’eroismo lo sfidare la società elegante di cui avevo fatto parte,
fino allora, il calpestare i pregiudizii della gente, l’affrontare
audacemente i giudizi temerari, le mormorazioni, le calunnie...
Entrai... stipendiata.... in una compagnia di cavallerizzi.
Alfredo ebbe un trasalto di stupore.
— Voi! — esclamò incredulo. — Voi?
Ella sollevò audacemente il capo e fissò negli occhi di lui i suoi,
sicuri, splendenti, affascinatori.
— Si! — disse.
— E.... e — riprese Alfredo esitando — e siete comparsa in pubblico?...
Zoe non lo lasciò terminare; colla medesima audacia che aveva una certa
imponenza proruppe:
— Sì! sì! sì!.... Vestita come una ballerina, la maglia color di carne,
le spalle e le braccia nude, il belletto sulla faccia, i fiori finti
nei capelli, il guarnellino corto scintillante di lustrini, innanzi a
migliaia d’occhi di spettatori ammirati, avidi, entusiasti, al suono
provocante d’una musica a stromenti metallici, al galoppo del cavallo
che vi trasporta facendovi rompere l’aria tepente, impregnata di mille
effluvii e della polvere del circo, colla faccia arrossita, ai lazzi
dei buffoni nell’arena, alle grida e ai battimani degli applausi.
— Oh! — esclamo Alfredo, passandosi una mano sulla fronte. Quell’ideale
di donna che egli aveva amata nella bella persona che gli stava
accoccolata dinanzi; quell’ideale che già erasi sfaldato alle
rivelazioni avute dalle parole del principe, ora svaniva affatto... ma
rimaneva la bellezza materiale delle forme, fatta più procace ancora
dal pensiero di quei deplorabili trionfi.
— Voi vi indignate, non è vero? — continuò la Zoe, — come s’indignarono
tutti i nobili miei congiunti e conoscenti, quantunque avessi
accuratamente nascosto il mio nome e fossi andata lontano dalla mia
città... E intanto ebbi non solo pane, ma agiatezze da dare ai miei
genitori che mi disprezzavano e che più non vollero vedermi... E
vi giuro, Alfredo, che la mia condotta, i miei modi, la mia dignità
sempre mi fecero rispettare dai miei compagni e da quei poco morigerati
giovani che frequentano simili artisti.
(In tutto questo romanzetto la verità era che essa, dopo avere passato
la sua infanzia e la prima giovinezza coi saltimbanchi sulle piazze,
era stata arruolata in una compagnia equestre, dove la sua bellezza e
l’ardimento le avevano presto fatto acquistare una celebrità speciale
sotto il nomignolo della _Leggera_).
— Ma ora, — ella ripigliò dopo una breve pausa, e fingendo a meraviglia
di fare un penoso sforzo per continuare, — ora viene l’episodio più
doloroso, più vergognoso, più maledetto della mia vita.
XXV.
La Zoe si raccolse un momento come per chiamare a sè tutte le sue
forze onde abbisognava per ritornare su quei dolorosi fatti ed esporli;
Alfredo, avvertendo che qui era il punto principale ed importante della
narrazione, si chinò verso di lei con ancora maggiore interessamento.
— Io non aveva ancora amato mai... agli omaggi degli uomini mi sentivo
affatto indifferente, anzi n’ero sdegnosa e sprezzante... Avevo
conosciuta di tutti quelli che m’avevano avvicinata, e che pure secondo
la società dovevano essere dei migliori, la bassezza di animo, la
nullità dello spirito, la insufficienza del carattere!... Mi credevo
io stessa incapace di quel sentimento. La mia virtù non aveva grandi
difficoltà a salvarsi in mezzo a quelle dagli altri credute seduzioni,
che mi attorniavano; trovava un aiuto e una forza nella mia apatia,
nella stessa coscienza del mio valore, nel mio disprezzo d’altrui...
Ma venne un giorno fatale in cui anche la mia superbia fu vinta... Vi
ricordate che a Bologna, la prima volta che vi parlai, vi chiesi se
eravate del Piemonte? Fu perchè nei vostri occhi mi parve scorgere,
nella vostra voce sentire qualche cosa di colui... E fu per ciò, forse,
che incominciai subito ad amarvi.... Fu in una città piemontese che
lo vidi, che mi accostò, che mi vinse... Ah! ma come quell’uomo era
superiore a tutti!... Come cuore, mente, valore, bellezza, forza,
gentilezza erano in lui tali da offuscare ogni dote d’altrui!...
Si sollevò un momentino della persona, scoccò uno sguardo amorosissimo
negli occhi di Alfredo e soggiunse abbassando la voce, come peritosa
della sua confessione:
— Non vidi più altri che te degno d’essergli paragonato... te che me lo
ricordavi!
Camporolle sentì un calore subitaneo, come una scintilla corrergli
lungo la spina dorsale e poi invadergli le vene.
La donna continuava:
— Egli mi amò... Oh come seppe amarmi!... Egli lesse nel mio intimo,
nella mia coscienza, egli conobbe ed apprezzò la purezza della mia
vita, il coraggio della mia risoluzione, la nobiltà della mia indole
e della mia condotta in mezzo a quel mondo che tutti condannano per
corrotto ed ignobile; egli mi amò come mi avrebbe amata se mi avesse
conosciuta nell’elegante salone di mia madre ai tempi delle maggiori
prosperità della mia famiglia... Ed io l’amai... con adorazione,
con culto, con entusiasmo, con trasporto di sacrifici, con abbandono
appassionato, con tutto l’ardore e la potenza che può essere in una
creatura terrena.
Alfredo sentì nel cuore il morso d’una stupida gelosia retrospettiva.
— Ah! — esclamò quasi con dolere, liberando le sue braccia dalle mani
di lei che vi si stringevano tenaci, supplicanti, carezzevoli, calde,
febbrili, e si trasse un pochino in là.
Ella s’accorse di ciò che passava nell’animo di lui. Se ne compiacque:
era quello che voleva, suscitare le varie e più acute e più disparate
emozioni nel giovine, affine di rammollirne la fibra, di indebolirne il
vigore, di impossessarsi lei, colle arti sue, della volontà, del senso,
del pensiero del giovane.
Riafferrò con forza, con risoluta energia, quasi con autorità le
braccia di Alfredo, e sollevando il suo volto in quel momento animato,
soffuso d’un rosato colore, quale egli non le aveva visto mai e
che accresceva l’incanto della sua bellezza, continuò con voce più
sommessa, quasi soffocata, fremente, affannosa:
— L’amai... e non fui sua!... Ci amammo supremamente da esser tutto
l’uno per l’altra, da non aver più pensieri nè riguardi per nulla
al mondo fuori dell’amor nostro... eppure i nostri rapporti furono
incontaminati... Egli rispettò in me la donna cui avrebbe dato il suo
nome, che avrebbe fatta sua compagna nella vita... Sì, — aggiunse con
forza, levando in una mossa di nobile orgoglio la bella testa, — sì,
egli avrebbe calpestato ogni pregiudizio, superata ogni difficoltà
per condurmi all’altare, come pur n’ero degna. Ma la sventura appunto
precipitò su di noi; la più orribile sventura che ci separò... che
tolse a lui la vita — (abbassò la voce e chinò la testa), — a me
l’onore e la felicità di tutta l’esistenza!
La falsa donna, attrice abilissima, si accasciò sul pavimento, come
affranta da quel ricordo che rinnovasse in tutta la crudeltà d’un tempo
un dolore incomportabile; s’accasciò e si coprì colle mani il volto e
si pose a singhiozzare penosamente, con dolorosi sobbalzi che agitavano
convulsamente il suo bellissimo corpo.
— Non fui sua!... — pronunziò con rotte parole e con istentato accento:
— e un altro... Oh! l’infame!... E io ho potuto sopravvivere... e non
istrozzarlo, e non istrappargli il cuore dal petto... e contentarmi di
maledirlo!...
— Ah! — esclamò Alfredo con rabbiosa emozione: — il duca?...
Ella si levò impetuosa, furente, bella, terribile, le chiome ricascanti
sulle spalle, attorcigliate come serpenti sanguigni che s’agitassero,
il seno discinto, gli occhi fiammeggianti sotto il marmoreo pallor
della fronte.
— Sì, il duca: — fremette con voce che vibrava come una nota metallica,
che sibilava fra i denti, su cui si contraevano quelle labbra così
rosse di sangue. — Il duca!... questo flagellatore di donne che
s’abbassano a pregarlo...
Si torse le braccia in un trasporto di disperata rabbia che non
toglieva nulla, ma anzi calcolatamente aggiungeva all’efficacia delle
sue attrattive.
— Ah sono vile! — esclamò coll’accento di chi non è più padrone di sè.
— Fui vile a non ammazzarlo allora, quell’empio; sono stata vile a non
ammazzarlo ora... ora che m’ha insultata, lui che mi volle perduta, che
m’ha colpita del suo frustino, lui che mi gettò nel fango... Lasciatemi
abbreviare quest’orribile racconto... L’uomo ch’io amava era uno fra i
capi dei liberali: fu circondato di spie, fu venduto da un traditore;
un bel dì venne arrestato, si sequestrarono appo lui le prove più
patenti di una congiura da lui avviata... Si parlava nientemeno che
di condanna a morte... Io, povera fanciulla che non comprendevo nulla
di codeste cose, credetti che la vita di lui fosse in pericolo. Ero
disperata... Codesto duca da lungo tempo mi perseguitava con tutte le
proteste e le promesse e le tentazioni che siffatta gente crede atte a
vincere una donna... Mi dissero a un punto che una sola persona poteva
adoprarsi a salvar l’uomo da me adorato: questo mostro di principe,
e che io solamente potevo ottenere da lui che ciò facesse... Esitai,
lottai... oh quello che soffrii! Ma lasciarlo morire non volevo...
Ero pur certa che, caduta, egli non m’avrebbe amata più, m’avrebbe
respinta... Ma lasciarlo morire!.... Acconsentii che il duca mi
rapisse. Sacrificavo il mio amore, il mio onore, anche la stima di lui
alla salvezza della sua vita... Questa il duca me l’aveva giurata...
Fui tratta in una villa solitaria. Dio Eterno!.... Là mi attendevano
donne svergognate, libertini, ribaldi, degni compagni di lui... una
sequela d’orgie... infamie senza nome... là avvolta da una scellerata
ebbrezza... oh! non fatemi pronunziare più una parola...
Ricadde sul pavimento affranta, anelante, gemendo, la faccia chiusa
nelle mani, agitata la persona da piccole convulsioni di spasimo.
Oh l’ammirabile commediante! Chi non avrebbe creduta sincera quella
emozione? Chi non avrebbe dato fede a quel racconto?
Alfredo, lui, credette ciecamente. Sentiva ammassarsi in cuore un monte
di odio e di furore contro quello scellerato di principe che vendeva a
tanto infame prezzo la sua protezione. Turbato fino all’intimo del suo
essere, fremente egli stesso, incapace di più frenarsi, sorse in piedi
e si pose a passeggiare su e giù per la sala, le guancie contratte, i
pugni serrati. La Zoe non si mosse da quel luogo e da quella positura;
pareva proprio la Maddalena, nell’eccesso della sua umiliazione e del
suo pentimento, che aspetta la parola che deve redimerla dal Cristo
pietoso; ma di sottecchi frammezzo alle lunghe palpebre color d’oro,
le sue pupille scure dardeggiavano sul giovane certi sguardi saturi di
elettricità, di indicibile potenza magnetica.
Dopo un poco, il giovane si riaccostò lentamente alla donna, sempre
abbandonata a quel modo, e curvandosi alquanto su di lei, le domandò a
mezza voce:
— E colui... l’uomo da voi amato... fu salvo?
Zoe sorse di scatto, mandando una penosa esclamazione che pareva un
urlo soffocato.
— Voi non potete neppure immaginare fin dove si spinga la
scelleraggine di codesta gente cui la bassezza della natura umana
onora e riverisce!... No, tu non lo crederai neppure... Mentre io mi
sacrificava così dolorosamente... _egli_... era già spento!
— Come?
— Per sottrarsi alle torture della carcere.... egli si era avvelenato.
E la si lasciò cadere sul sofà, rompendo in un pianto di angoscia
disperata.
Alfredo stette un momento a guardarla; poi le si sedette accanto,
l’avviluppò colle sue braccia e la baciò sul collo.
— Hai molto sofferto! — le disse dolcemente.
— Fu tutto un dolore la mia vita... Odi ancora quel poco che mi rimane
a dirti perchè tu mi conosca affatto... Fuggii l’Italia... fui a
Vienna, dove il principe K., alleato della mia famiglia, mi accolse,
mi protesse, coprì il mio primitivo nome e il mio passato col nome di
baronessa di Muldorff... Un’eredità mi restituì la ricchezza; questa
e la mia dolorosa pratica del mondo mi diedero l’indipendenza... Ora
comprenderai perchè respingessi tutti gli uomini, comprenderai la forza
dell’amor mio per te, se ha potuto farmi obbliare il giuramento che
m’ero fatto di non più ascoltare una parola d’amore.
L’ombra d’un indefinito sospetto attraversò l’anima candida del giovane
Alfredo.
— Una cosa non comprendo, — disse egli, — ed è il perchè tu sia venuta
qui ora, fra le branche di quel mostro...
— Ah perchè? — sussurrò con voce fremente la donna: — sono venuta per
vendicarmi...
— Come?
— Il come te lo dirò forse un giorno... se continuerai ad amarmi.
Egli la strinse di nuovo e con più passione fra le braccia.
Invece del romanzo ch’essa gli aveva narrato, la verità era che la
Zoe aveva voluto per mezzo di Carlo di Borbone, figliuolo dell’allora
duca di Lucca, far salvo dall’estremo supplizio Gian-Luigi Quercia,
un famoso assassino che era vissuto nella società elegante torinese, e
che era di lei amante: che il duca non aveva voluto darle retta, e che,
per non salire sul patibolo, quel malfattore s’era ucciso con veleno
che la Zoe medesima gli aveva recato mercè l’aiuto del Pancrazi, allora
impiegato di Polizia in Piemonte.
Ma la maliarda si sciolse dall’amplesso di Alfredo.
— Lasciami, — disse risolutamente, — va... La notte è presso al suo
termine... Sono stanca, affranta... ho bisogno di riposo e di pensare
su quello che è accaduto, tu pure su quanto hai udito...
Per quante preghiere facesse il giovane, essa fu inesorabile. Ben
sapeva l’accorta che quei desideri da lei eccitati con tanta arte,
insoddisfatti, avrebbero acquistata una violenza di tanto maggiore, e
di questa ella abbisognava pe’ suoi fini.
Appena partito il giovane, ella scrisse poche parole sopra un
bigliettino: «Far sapere al duca che l’uomo nascosto in casa mia
questa notte era il conte Alfredo Corina di Camporolle:» e per mezzo
di Michele lo fece pervenire quella stessa mattina nelle mani del
direttore di Polizia.
XXVI.
Era ormai l’alba quando Alfredo uscì dalla casa abitata dalla
baronessa. Aveva indosso un malessere profondo, un’irritazione
strana, un turbamento complesso, confuso, quale non aveva provato
mai. Il sangue gli sussultava ancora e gli accendeva desideri,
che, insoddisfatti, gli erano tormenti; la materia parlava forte
con acri tentazioni, lo spirito si rincantucciava, per così dire,
sbalordito, indolenzito, malvoglioso, sfiduciato, caduto in una
specie di degradazione. Sentiva dileguatosi, offeso l’ideale d’amore
della sua gioventù, accarezzato con tanta virtuosa ardenza dell’anima
non volgare; ne provava un certo dolore, ma muto, nascosto, quasi
inconscio, e s’arrabbiava di non averne vergogna e disperazione. La
spregevole emozione della corrotta voluttà lo attirava. Come! Lui
che aveva voluto fare del suo cuore un altare alla donna che avrebbe
stimata degna dell’amor suo, ora si sarebbe abbandonato agli amplessi
d’una sirena dei sensi, che l’onesto istinto gli faceva pensare a
dispetto di tutto una creatura avvilita? ed egli anzi la desiderava,
tanta degradazione, vi anelava, soffriva di non esservi ancora
precipitato? Chi glie l’avrebbe detto un giorno! Sentiva moralmente, e
anco pienamente perfino, quell’amarezza, quel disagio, quella penosa
prostrazione che sente un libertino novizio dopo una notte di orgia,
quando rincasa, colle membra e l’animo fiacchi, la bocca allappata
disgustosamente e un infinito fastidio di tutto e di tutti, cominciando
da sè.
Nella strada non c’era nessuno. Il conte di Valneve e Pietro Carra,
visto partire il duca coll’Anviti e i due uomini di scorta, avevano
aspettato ancora un poco, e poi, persuasi che il Camporolle sarebbe
rimasto fino a giorno là dove gli era stato lasciato il campo libero,
se n’erano andati per riposarsi alquanto e fare poi i pochi preparativi
che occorrevano alla partenza.
Alfredo s’avviò di buon passo anch’egli verso casa, per cambiarsi in
fretta di abiti, chè appena glie ne restava il tempo, e recarsi quindi
dal conte Ernesto.
Ma nel suo alloggio trovò tutti i suoi dipendenti levati ad aspettarlo
inquieti, e più inquieto di tutti un uomo che era quello venuto a
mettere la casa in allarme a ora tarda della notte, che non s’era più
mosso e che nell’attesa percorreva agitato, a gran passi, il salotto,
accrescendo l’impazienza, i timori, le smanie, a ogni momento che
passasse.
Quell’uomo era Matteo Arpione.
Appena Alfredo comparve, un’esclamazione di gioia con cui lo salutò il
domestico nell’anticamera, ne annunziò l’arrivo a Matteo il quale si
precipitò colla massima premura all’incontro del giovane.
— Ah finalmente! — esclamò egli trovandosi di fronte al Camporolle; e
aveva la voce e le mani che tremavano dall’emozione. — Ah! che brutta,
tremenda notte ci ha fatto passare, signor conte!
Questi, per l’addietro, non aveva mai accolto quell’uomo con molta
espansione di tenerezza; le maniere di Matteo verso di lui erano d’una
umiltà così sottomessa e poco dignitosa che al giovane certe volte
facevano perfin rabbia; e insieme a ciò eravi nella figura, nei tratti,
nel tutt’insieme di colui qualche cosa che gli ripugnava, senza ch’egli
sapesse spiegarsene il perchè. Ora, da quello che glie ne aveva detto
Ernesto Sangré, Alfredo credeva di avere finalmente scoperto quel
perchè, subodorato dapprima dal suo generoso istinto. Quindi il modo
con cui quella mattina egli accolse il vecchio, non più solamente
freddo e riserbato, ma fu addirittura sprezzoso e crudele.
— Signor Arpione, — gli disse squadrandolo dalla testa ai piedi, — dopo
quello che ho appreso di voi, una completa spiegazione è assolutamente
necessaria. Ho diritto di sapere, e lo voglio, che uomo è quello
che tratta i miei interessi e ch’io ricevo colla famigliarità d’un
vecchio servo in casa mia; chè se quell’uomo non è degno della stima
dell’onesta gente, non è degno neppure nè di servirmi, nè di varcare la
soglia della mia abitazione.
Matteo nella sua faccia terrea e perfino nella sua fronte di pergamena
divenne a un tratto di un rosso cupo, che poi tosto si dileguò
per lasciare luogo a un pallore grigiastro, color di cenere; una
contrazione delle guancie e delle labbra, un umido bagliore degli
occhi affondati rivelarono in un baleno il subito morso in lui d’un
acutissimo dolore; ma fu un vero baleno; la fisonomia di quell’uomo
tornò nella sua fredda indifferenza abituale, e come se non avesse
udito nemmanco quelle fiere parole, trascurando affatto il proprio
tormento, egli non volle vedere che il turbamento e la pena del
giovane, rivelati dal pallore e dall’accasciamento.
— Ma Lei, conte, non si sente bene questa mattina, — disse con premura.
— Mi faccia la grazia; cominci per andare a letto a riposarsi...
Alfredo lo interruppe con superbo disdegno:
— Non avete intese le mie parole?
— Sì, signor conte... Io le darò ogni spiegazione che può desiderare...
Vedrà! Non ha punto da inquietarsi. Ma intanto quello che preme di più
è che Lei si metta a letto, si riposi, si curi...
— Avete in pensiero di fermarvi un poco a Parma? — domandò il giovane,
coll’intenzione di mostrare affatto che non badava alle parole di
quell’uomo.
— No: — rispose Matteo. — I miei affari non mi lasciano fare assenze
lunghe... a meno che Lei abbia bisogno dell’opera mia... Allora
disponga pure del mio tempo e di tutto me stesso... Già sono venuto qui
apposta per Lei...
— Sì? — interruppe più sprezzante che mai il conte di Camporolle. —
Credevo invece che foste venuto pel conte di Valneve.
— Anche per lui, è vero... Ma quello non è che un accessorio...
Avevo determinato già di venire presso di Lei, perchè ho bisogno di
parlarle... quando la famiglia Sangrè mi fece sapere occorrerle un
messo fidato e intelligente da spedire qui al conte Ernesto.
— E avete accettato d’essere voi codesto messo fidato e intelligente?
Matteo finse non avvertire o non avvertì l’ironia con cui erano dette
queste parole e rispose seriamente:
— Sì, signor conte... Anche con quella famiglia sono legato da
lungo tempo... sono stato suo uomo d’affari, suo intendente, suo
ragioniere... e ho conservato la fiducia del nobile conte padre... Or
dunque, se Lei, conte Alfredo, non ha bisogno della mia presenza qui...
Il giovane fece un atto sprezzoso ad accennare che non aveva neppur
l’ombra di tal bisogno.
Matteo continuò:
— Appena io avrò detto a Lei tutto quello che mi preme, che assai mi
preme di dirle, appena avrò comunicato al conte Ernesto quello che la
famiglia gli manda a dire per me, io me ne ripartirò.
— Il caso vuole che nè a me nè al conte di Valneve voi non possiate
parlare così presto.
— Perchè?
— Perchè stiamo per partire ambedue...
— Da Parma?
— Sì.
— Per dove?
— Ah! siete troppo curioso.
— E non tornerà più qui? — domandò Matteo con accento in cui si
travedeva una lieta speranza.
— Ci tornerò sicuro, appena finito l’affare per cui accompagno Valneve.
— Ah! gli è per un affare del conte Ernesto che partono!... Che sì che
l’indovino.
— Sareste bravo!
— Gli è per battersi con quell’ufficiale austriaco col quale è
cominciata fin da Milano la nemicizia...
— Oh come siete bene informato!
— È la famiglia che sa tutto, che vuol impedire codesto duello, che mi
ha mandato apposta.
— Troppo tardi: — si lasciò scappare Alfredo.
— Ah dunque gli è proprio per codesto che loro partono: — esclamò
Matteo. — Partono per battersi fuori di Parma, fuori del ducato;
e Lei, conte Alfredo, accompagna il conte Sangrè per servirgli da
testimonio?... Ma no; questo non può essere, non sarà. Il conte Ernesto
- Parts
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 01
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 02
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 03
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 04
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 05
- La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 06
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