La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 08
Zoe andò a raccattare per terra la lettera così sprezzosamente trattata
dal duca, e poi venendogli innanzi colle più seducenti maniere di cui
fosse capace, messagli con amorevole, ma pure rispettosa famigliarità
la mano sul braccio, gli disse con voce così sommessa che nemmeno
l’Anviti, lontano solamente due passi, non potè udirne le parole:
— No, Altezza; non disprezzi questo avvertimento. La sua Polizia qui
sarà ben fatta, ma non è ancora una perfezione. Ho mezzi ed elementi
da provarle che essa ignora molte cose e non sa penetrare in molti
misteri. Mi dia un po’ di tempo, Altezza, ed io le farò scoprire e
conoscere quanto Lei non s’aspetta mai più.
— Quanto tempo?
— Non più d’una settimana, e vedrà. Sono venuta apposta. Oh! io non ho
mai potuto dimenticare V. A. — e saettò il principe con uno sguardo che
lo fece sorridere di sguaiata e vanitosa compiacenza. — E per Lei, per
la sua salvezza sono disposta a qualunque cosa. Vengo da un viaggio
per tutta l’Italia centrale; conosco i raggiri dei rivoluzionari in
ogni città dello Stato Pontificio, della Toscana, del ducato di Modena
e ne ho meco le prove; so, e saprò meglio fra poco, dove fanno capo
anche qui a Parma i fili della trama. V. A. può fidarsi di me; non avrà
servitore più devoto, più zelante, e — abbassò ancora più la voce, —
più innamorato.
Ed occhieggiò di nuovo, amorevole, seducente, voluttuosa.
Carlo III, inuzzolito, afferrò la donna, la strinse al petto e le
stampò un grosso bacio sulle labbra. Essa — oh ammirabile commediante!
— si divincolò, si sciolse, corse all’altro capo della sala, presso
la tenda dell’uscio della sua camera, con un atto di pudore, di virtù
oltraggiata, di dignità offesa, che ognuno, il quale non conoscesse
il di lei passato, non avesse udito le parole da lei susurrate al
duca, l’avrebbe dicerto creduta una innocente perseguitata dal vizio
tracotante.
— Oh Altezza! — ella esclamò ancora, con accento affatto pari e degno
della significazione delle mosse.
La tenda di seta damaschina che pendeva innanzi all’uscio della camera
cubicolare s’agitò un pochino.
Il colonnello Anviti, da quel prudente e accorto cortigiano ch’egli
era, capì che il momento di ritirarsi era venuto. Si fece innanzi di
due passi verso il duca, s’inchinò profondamente e disse:
— Io non voglio perdere neppure un minuto di tempo, Altezza, per
mettere in sodo quello che può esserci di vero nelle fatte rivelazioni.
Corro in questo punto medesimo dal direttore della Polizia.
— Sicuro! Bravissimo! — gridò ridendo sguaiatamente il principe. — Vai,
vai... Il tuo zelo, Anviti, non fu mai così opportuno.
Il colonnello fece un altro inchino profondissimo, salutò la donna che
gli corrispose appena con un legger cenno di testa e sparì per l’uscio
che metteva nell’antisala.
Il duca e la Zoe rimasero fronte a fronte.
— A noi due! — disse la donna fra sè, avvolgendo il principe in uno di
quei suoi sguardi fieri e terribili.
Carlo di Borbone si avvicinò alla donna, le braccia tese e un sorriso
da satiro sul volto.
— Ora, Zoe, siamo soli, e non ti darai più nessun’aria da Lucrezia
Romana.
La donna fece un gesto nobilissimo colla mano per tenere a distanza
l’audace uomo: un gesto così nobile e di effetto che il principe
medesimo ne rimase un momento colpito e s’arrestò.
— Altezza! — ella cominciò con una intonazione di voce che ogni più
valente attrice le avrebbe invidiata. C’era mestizia e risoluzione,
preghiera e severità, dignitosa fiducia e insieme coscienza e sicurezza
d’un’intima forza. — Altezza! Ella non trova più in me la donna
d’un tempo. Quella che Lei ha conosciuta, quell’infelice è morta; la
creatura che ora ha l’onore di starle dinanzi, conosce, sa e vuole
scrupolosamente conservare e difendere la sua dignità, la sua onestà, i
suoi doveri, l’anima sua rinobilitata e il suo cuore.
Il duca stette un momento lì, come sbalordito; guardava la donna coi
suoi occhi di vetro che parevan diventati più grossi, teneva la bocca
aperta come in un mezzo sbadiglio. Poi a un tratto diede una scrollata
del capo e delle spalle, trinciò l’aria con un colpo dello scudiscio e
ruppe in un’alta risata.
— Corpo di Dio!... Sei la gran buffona!... Quasi quasi ti pigliavo sul
serio... Dopo la Lucrezia Romana, vuoi farmi la Maddalena convertita...
Sì, la è una cosa che può far ridere, che può divertire, ma per poco,
te ne avverto, sopratutto con un uomo del mio carattere e della mia
sorte.
Ma la donna non cambiò modi nè accento; anzi, appoggiandosi con una
mano alla spalliera d’una seggiola vicina, come se le forze fossero
per mancarle, con un abbandono pieno di dolore, con una voce piena di
melanconia, di umiltà, di rassegnato tormento, riprese:
— V. A. ha ragione a parlarmi così. Io che credo avere il diritto...
che ho il diritto — aggiunse incalzando con forza — di mostrarmi
severa e superba verso tutti: io devo pure curvare il capo alle parole
oltraggiose e al contegno ancor più oltraggioso di V. A. verso di me...
— Oh come? — interruppe il duca preso da nuovo e non minore stupore. —
Tu hai tanto di fegato?...
Ma ella, continuando con crescente calore, non lo lasciò dire.
— Sì, Altezza; qui siamo soli e non è mancanza di rispetto se io
le parlo con tutta franchezza. Che le pare Ella possa, quantunque
principe, introdursi quasi colla violenza in casa d’una donna a un’ora
di notte?...
— Ma corpo del diavolo!
— Le pare che questa donna possa tollerare che un uomo, fosse pure il
più potente sovrano del mondo, le parli, agisca con lei, e ancora in
presenza d’un suo cagnotto, come farebbe con una donna perduta?...
— Oh ma corpo di Dio e del diavolo!...
E la donna incalzando sempre più:
— Sì, la mia disgrazia vuole che V. A. possa credersi in facoltà di
trattar meco in tal guisa... Ah quel passato, quell’orribile passato,
che mi sta impresso pur troppo nella mia memoria come un marchio
di fuoco nella carne! Ma se V. A. non sa tutto quanto ho fatto per
liberarmene, per espiarlo, per farmi degna che fosse cancellato, Ella
deve pur sapere quali circostanze dolorose, terribili venissero ad
attenuare... non dirò neppure la mia colpa... ma la mia sventura.
Il duca allargava sempre più gli occhi e la bocca.
— Che giuoco è codesto?... Che scena di commedia mi vieni recitando?
Smetti, via, che m’impazienti... ed è tutto tempo perduto.
Fece un atto come per prenderla ad un braccio; ella mandò il grido
che mandano in teatro, nella scena culminante di un dramma a forti
emozioni, le vittime senza difesa perseguitate dalla violenta passione
del feroce tiranno: gettò questo grido e si fece indietro, fino a
prendere in mano la tenda dell’uscio, pronta a fuggire per esso gli
audaci atti del principe. — Altezza, — disse; — io faccio appello a
tutta la generosità della sua natura. Ella non disprezzerà la preghiera
d’una donna che la supplica. Dimentichi il passato: non veda più in me
che una donna, la quale è venuta qui per salvarla.
Il duca stava per interrompere e dire qualche cosa, quando l’uscio
dell’antisala s’aprì bruscamente e comparve di nuovo, sollecito, il
colonnello Anviti.
— Perdono Altezza! — diss’egli, mentre il principe si voltava a
fulminarlo d’uno sguardo fieramente corrucciato. — Perdoni se oso
entrare di questa guisa; ma ho appreso or ora tal cosa, che mi è parso
importante, indispensabile di venire subito a comunicare a V. A.
Il principe rispianò un pochino la sua fronte corrugata di Giove in
collera.
— Che cosa? — domandò.
— Che poc’anzi nel quartiere di questa signora s’è introdotto
misteriosamente un uomo.
Carlo di Borbone fulminò un’occhiataccia alla Zoe, poi scoppiò in una
gran risata, e torcendosi dal ridere e facendo fischiare l’aria collo
scudiscio, si lasciò cadere sulla più vicina poltrona.
XXII.
Il colonnello Anviti, discese le scale, aveva subito cercato dei due
gendarmi, e non aveva dovuto attendere pure un attimo, perchè essi,
visto appena chi era il personaggio venuto giù, s’affrettarono a
presentargli per riceverne i comandi.
— Voi non vi muoverete di qua finchè S. A. non ne esca, — disse loro:
— e quando venga fuori lo scorterete con tutta la possibile attenzione:
qui intanto, per tutto il tempo in cui ci rimarrà il principe, non
lascierete penetrare nessuno, qualunque pretesto o ragione adduca per
introdursi. Avete capito?
I gendarmi fecero un segno di assentimento; e già l’Anviti s’avviava
per partirsene, quando i due uomini, scambiatosi uno sguardo dubitoso,
interrogante, come per consultarsi, dissero a un tratto insieme:
— Signor colonnello!
— Eccellenza!
Avevano pensato di comune accordo che la venuta in quella casa di un
uomo dopo il principe, doveva essere un fatto abbastanza importante per
comunicarlo al colonnello dei gendarmi.
E in vero quando l’udì, il conte mostrò prenderne molto interessamento:
volle sapere quali erano i connotati di lui, al che i gendarmi non
furono in grado che di rispondere molto superficialmente; e poichè ebbe
inteso che quel tale era entrato nel quartiere della donna e non n’era
ancora uscito, avvisò subito anch’egli che era necessario appurare un
tal fatto e renderne avvertito il principe medesimo. Per ciò corse di
nuovo su delle scale, penetrò nell’alloggio della Zoe, e si precipitò
nel salotto a quel punto a fare la rivelazione che ebbe per effetto dal
duca una sì chiassosa e impertinente ilarità.
La Zoe, mentre il duca si contorceva dalle risa sulla poltrona,
incrociò le braccia al petto, corrugò fieramente le sopracciglia,
e stette immobile, pallida, gli occhi a terra: certo pensava come
regolarsi in questo caso che forse non aveva previsto.
Carlo III, poichè ebbe sfogato sguaiatamente la sua voglia di ridere,
appuntò il suo frustino al volto della donna e disse con voce beffarda:
— Ah! la Lucrezia romana! Ah! la Maddalena convertita!... Ora capisco
la scena. Ci aveva l’amico nascosto!... Forse costà, in quella camera
innanzi all’uscio della quale tu stai piantata come una statua?
Zoe alzò risolutamente il capo, sollevò gli occhi e li fissò
arditamente in quelli del principe. La sua decisione era presa.
— Ebbene sì: — rispose con sicurezza. — V’è una persona che ha più di
tutte al mondo la mia stima e il mio affetto...
— Me ne rallegro con lui: — interruppe colla sua insolenza tracotante
il Borbone: — e me ne rallegro tanto che voglio aver il piacere di fare
la sua conoscenza. Chi è?
— Ah questo no! — gridò con forza la donna. — Mille volte no!...
Piuttosto morire.
— Ah!... che parolaccie! A me che ti conosco da un pezzo non le
dovresti dire... Se tu non vuoi nominare quel birbo fortunato, penso
ch’egli almeno avrà la franchezza e il buon gusto di mostrarsi e
soddisfare il nostro desiderio... Animo, signor incognito, venga fuori.
La donna allargò le braccia come ad impedire che la tenda dell’uscio
potesse venir sollevata e gridò:
— No, no, non voglio!
— Non voglio! — ripetè il duca alzandosi da sedere e con accento in cui
cominciava a farsi sentire la collera. — Tu dimentichi, disgraziata,
che qui sono io a comandare e che quella che ha da eseguirsi è la mia
volontà...
Tese lo scudiscio in atto di comando e disse:
— Aprimi quell’uscio.
— No! — rispose più risoluta che mai la donna gettando uno sguardo
di fuoco al principe, atteggiandosi ad una mossa che era delle più
seducenti.
— Corpo di Dio! Se quel cotale non vuol venir fuori, se tu non gli
permetti di venire, saremo noi che avremo la degnazione di andarlo a
cercare.
E camminò risolutamente verso l’uscio.
— No, Altezza, — gridò ancora la Zoe con accento di supplicazione; — la
prego, non faccia...
E tendeva le mani con atto che ogni pittore avrebbe voluto copiare per
disegnare una perfezione di supplicante.
Il duca la prese ad un braccio e fece per tirarla via; essa resistette.
— No, no, per grazia, per pietà! — ella pregava con voce piena di malìa.
La tenda innanzi all’uscio si mosse un pochino e si udì un lieve
rumore come d’un battente che si socchiuda; Zoe con uno strappo si
liberò dalle mani del duca, fu in un balzo alla porta, la richiuse
violentemente, e poichè la chiave trovavasi da quella parte, diede un
giro alla serratura, levò la chiave e se la pose in tasca. Tutto ciò in
un batter di ciglia.
— Nessuno entrerà qui dentro! — esclamò essa con una specie di sfida
trionfante.
Il principe si morse le labbra.
— Mala femmina che tu sei! — gridò. — Non sai che io posso far gettare
abbasso quell’uscio... far arrestare quello sciocco tuo drudo che là si
nasconde?... Anviti, fa venire i due uomini....
— Altezza! — interruppe con ardimento e con forza la donna: — Io
scriverò a Vienna...
— Scrivi anche all’inferno! — scoppiò il duca, invaso affatto da una
cieca collera. — Che cosa mi importa di Vienna e de’ tuoi protettori
e del tuo stupido principe?... Qui sono padrone, giuro al cielo! e
voglio esserlo... E posso far cacciare in fortezza quei ganimede che
nascondi, e te, se mi talenta, e cacciarti fuori de’ miei Stati come
una prostituta...
La donna, fattasi calma, strette le braccia al seno, pallida, ma
sicura, il capo eretto, l’occhio fiammeggiante, lo interruppe con
fredda risoluzione:
— Faccia se le pare, Altezza...
Il principe, irritato anche dalla provocazione di quella bellezza
che negandoglisi lo inuzzoliva sempre più, sdegnato di riconoscere
impotente la sua autorità a cui era avvezzo vedere tutti curvarsi
vilmente, perdette il lume della ragione, si slanciò collo scudiscio
levato sulla donna e la percosse sulla spalla.
Un grido, un urlo d’indignazione uscì dalle labbra di Zoe; il duca
indietreggiò come respinto da un colpo nel petto, ma la sua collera
non era ancora abbastanza sfogata; col medesimo frustino si pose
bestialmente a flagellare i mobili, gettando a terra porcellane,
cristalli, candelabri, gingilli, candele, orologio, bestemmiando come
un carrettiere, ruggendo come una belva. Quando fu stanco, lanciò uno
sguardo sulla donna: essa stava sempre ritta innanzi all’uscio, più
pallida di prima, pallida come una morta, con una riga rossa sulla
spalla alla radice del collo, cogli occhi che parevano due carboni
accesi; il duca non sostenne quello sguardo; buttò via lo scudiscio,
e, senza aggiungere una parola alla Zoe, prese pel braccio Anviti che
stava lì interito e dettogli bruscamente: «Andiamo!» partì di buon
passo traendolo via con sè.
All’uscio dell’antisala comparve la faccia sgomentata della governante
accorsa al rumore. Al vedere tanta strage, essa congiunse le mani in
atto disperato e aprì la bocca per mandare un’esclamazione; ma la Zoe
in un balzo le fu allato.
— Zitto! — le disse a voce bassa ma con forza: — tu ritirati nella tua
camera e non lasciarti vedere nè sentire. Va.
La spinse fuor dell’uscio da quella parte, poi corse all’uscio della
sua camera; passando innanzi allo specchio vi gettò uno sguardo a
mirarvisi; fu contenta del suo pallore, del selvaggio fuoco dei suoi
occhi: si cacciò ancora una mano nelle treccie a disordinarle di
più; si sorrise soddisfatta; fu alla porta, aprì con mano tremante il
battente e con voce che pareva quella d’una donna all’agonia susurrò:
— Venite, Alfredo!
Il conte di Camporolle si presentò pallido quanto lei, gli occhi più
smarriti di lei, un fremito di dolore, di furore in tutte le membra.
Ella stava appoggiata all’uscio tenendo stretta nella mano la chiave
posta nella serratura; il suo sguardo cercava quello del giovane, ma
gli occhi di costui lo sfuggivano; c’era in quella sala un silenzio di
morte.
— Alfredo! Alfredo! — ella gemette dopo un istante di penosissimo
silenzio. Parve voler dire chi sa quanto; agitò le labbra senza che
suono ne uscisse; fu scossa da un brivido che avreste detto mortale,
sollevò le braccia, accennò volerle gettare al collo del giovane, ma
non potò, e scivolando rasente la persona di lui, il suo bel corpo
cadde lungo e disteso, come morto, per terra.
XXIII.
Alfredo s’era lasciato menare dalla governante traverso due o tre
stanze all’oscuro, fino a che quella donna che lo traeva per mano gli
aveva susurrato all’orecchio:
— Stia qui; e non si muova: — e poi era scomparsa.
Egli s’era trovato in una camera da letto piuttosto vasta, immersa
in una semi-oscurità, poichè la sola luce che vi fosse era quella
piccola e velata d’una lampadina da veglia con globo di cristallo
opaco e ventola di color verde. La prima impressione che provò colà
dentro fu quella d’un profumo delicato, sottile, penetrante, squisito,
che rivelava senza il menomo dubbio possibile la camera d’una donna
— e d’una donna elegante. A tutta prima aveva il sangue in tal
turbamento che quasi non vedeva intorno a sè, non poteva avvertire
altro che il battito frequente e violento del suo cuore. Il sospetto
e la gelosia che gli avevano suscitato il sapere colà dentro, colla
baronessa, il duca di Parma, insolente, sfacciato donnaiuolo, più
libertino d’ogni corrotto giovinastro; quell’essere introdotto così
misteriosamente e trovarsi lì, nascosto, incerto di che fare, di che
gli dovesse succedere, davano all’anima sua giovanile un’emozione
che non poteva dominare. A poco a poco si calmò. Guardò intorno a sè,
curioso, interessato, avido. La camera era tutta parata in bianco e
cilestre. Di seta azzurra erano coperti sofà, poltroncine e seggiole;
di seta azzurra e di preziose trine era incortinato il letto su
cui scintillavano i riflessi metallici del raso azzurro; in mezzo a
quelle cortine non penetrava raggio di quella mite, debole luce, e la
tenebra fitta in cui pareva ritrarsi, affondarsi la parte superiore
dell’elegante letto di mogano scolpito, appariva agli occhi d’un
giovane ventenne ricca e promettente di voluttuosi, ineffabili misteri.
Una stupenda pelle di tigre col capo belluino imbalsamato e gli
unghioni dorati, faceva l’effetto di un mostro domato che strisciasse,
schiacciato a terra, a domandare pietà. Ad Alfredo sembrò vedere una
ferocia di desiderii insani che tentasse arrampicarsi all’assalto di
quelle ombre in cui doveva annidarsi un’Iside tremenda e seducente.
Sopra un leggero tavolino monopodo, entro un vaso chinese, languiva
un mazzo di fiori esalando nella sua morte il dolce veleno dei suoi
profumi; e lì presso, un guanto abbandonato, un guanto che serbava
ancora il modello della mano, un guanto che mandava ancor esso un
effluvio e più inebbriante di quello dei fiori.
Alfredo fu scosso come da un brivido. Quel guanto gli pareva animato,
gli pareva accennasse a lui con atto pieno di malìa, di amorevolezza;
gli pareva vederlo attaccato ad un braccio di forma scultoria, e col
pensiero saliva su di quel braccio, incontrava una spalla, un collo,
un seno.... quali aveva visto quella sera stessa, poche ore prima,
nell’ardente, infuocata atmosfera del teatro. Ma e il volto? Strano
a dirsi! Il volto che pensava, che voleva, che cercava rivedere, non
gli appariva chiaro, netto e preciso come gli sarebbe piaciuto, quale
lo aveva pur visto le mille volte nelle sue fantasticherie. Egli lo
aveva tanto impresso nella mente: credeva sentirselo stampato nel
cuore; eppure ora non se lo vedeva che in confuso, una nebbia sembrava
avvolgerlo; lo mirava come in una lontananza che vela i particolari;
era una rassomiglianza, non l’efficacia dell’identità. Sollevò il
capo dispettoso di sè stesso. Una piccola scintilla di fuoco s’accese
ai suoi occhi nell’angolo d’una cornice dorata su cui batteva un
raggio della lampadina. Fu come un richiamo al suo sguardo; in mezzo
a quella cornice occhieggiava, sorrideva una donna: lei! Il pittore,
felicemente ispirato da quella malìa di sembianze, era riuscito a fare
un piccolo capolavoro. Era proprio lo sguardo di quella affascinatrice,
profondo, penetrante, ardente, misterioso, crudele, pieno di voluttà,
di sarcasmo, di passione, diabolico; erano le carnose di lei labbra,
color di corallo, color del sangue, che, socchiuse, lasciavano scorgere
denti di bianchezza canina, piccoli, acuti, taglienti, quasi avreste
detto bramosi di mordere; era il pallore d’avorio di quella carnagione,
su cui il tempo e il dolore e una travagliosa cura incessante parevano
pure volere incidere il loro marchio di rughe e non poterlo; era
nel complesso quell’espressione indefinibile, attraente, segreta che
faceva all’osservatore, di tal creatura una sfinge, o gli accendeva
nell’anima, nel cuore e nei sensi una prepotente smania di cercarne,
di trovarne il motto e spiegarne l’enigma; su tutto questo aveva messo
ancora il suo incanto la potenza dell’arte che solleva la realtà alle
più sublimi bellezze dell’ideale. Quel poco di asprezza e di volgarità,
che si poteva talvolta notare nel modello vivente, qui era scomparso;
la preoccupazione pareva forza di pensiero e spoglia affatto d’ogni
accenno di mal talento: il labbro muto riusciva eloquente; l’ombra
lieve sulla fronte appariva la mestizia d’un intimo dolore cui sarebbe
felicità suprema il dileguare, il consolare, il far cadere in oblìo;
la stessa voluttà promessa dal sorriso audace e provocante, prendeva
alcun che di superiore, di più nobile, di più squisito delle materiali
soddisfazioni dei sensi.
Alfredo stette un poco rapito innanzi a quel ritratto a contemplarlo.
I profumi di quell’ambiente, la calda temperatura, la debol luce,
la vista di tutti quegli oggetti che a lei appartenevano, che ella
forse un sol minuto prima aveva toccati, che erano quasi parte di
lei; la vista di quel dipinto producevano in lui un’ebbrezza che gli
saliva poco a poco al cervello. Provò quell’incanto e quelle emozioni
che ci descrive così bene il Rousseau nella sua _Nuova Eloisa_, come
provate dal Saint-Preux introdottosi nella camera dell’amata donzella.
Anch’egli prese, brancicò colle mani tremanti quelle cose che gli
parevano ancora calde del tocco di lei, ancora impregnate degli effluvi
delle carni di lei; baciò con delirio quel guanto, quei cuscini,
quella coltre... Ma nella sua estasi venne ad interromperlo una voce
d’uomo, una voce ingrata, ch’egli riconobbe per quella del duca.
S’accostò vivamente a quella porta donde tal voce veniva; trovò l’uscio
socchiuso, e traverso i battenti, benchè la tenda di seta pendente
nell’altra stanza gl’impedisse di vedere, potè giungere al suo orecchio
tutto ciò che fu detto.
Dapprima non volle credere: quella donna che a lui pareva la prima del
mondo, tollerava un simile linguaggio da quel libertino di principe:
riconosceva essa stessa ch’egli aveva un certo diritto a parlarle in
tal modo! Al passato di lei, Alfredo non aveva mai neppure pensato.
Ammetteva ch’ella avesse potuto amare altri: glie l’aveva detto essa
stessa; ma una vita di disonore come quella che ora gli rivelavano
le parole del principe, no, in lei non l’avrebbe creduta mai, non
l’avrebbe neppure sognata possibile. Sentiva un dolore grandissimo
invadergli l’animo: egli che, giusto a quel punto, in mezzo a
quell’ambiente pieno di lei, innanzi alle sembianze di lei, l’aveva
più che mai idealizzata, esaltata! Ciò che succedeva nel suo intimo,
egli non se lo spiegava bene; ma era un grande e profondo cambiamento.
L’affetto che sentiva per quella donna forse n’era diminuito, forse
no; ma si faceva a un tratto ben diverso. La parte materiale di esso
subitamente predominava. Quasi gli era parso fin allora inaccessibile
quella bellezza superba che aveva visto sempre schiva, sprezzante,
cinta di disdegnoso riserbo; la voce che la rivelava una caduta gli
pareva dicesse: «sarà anche tua!» Sentiva degl’impeti d’indignazione
che lo spingevano a disistimarla, a levarla da quel piedestallo
su cui l’aveva fino allora adorata; e in pari tempo sentiva degli
impulsi di desiderio violento che lo inebriavano col pensiero: «da
quel piedestallo cadrà nelle tue braccia.» La foga de’ suoi venti anni
imponeva silenzio alla ragione, alla morale, al dolore del disinganno.
La voce stessa della donna che, traverso quel leggero tessuto, gli
giungeva calda, sonora, palpitante, piena di fremiti e di passione,
riusciva per lui una seducente provocazione. Un’aspra, velenosa gelosia
lo morse, pensando a quell’uomo — fosse pure un principe — che aveva il
diritto di parlare così a quella donna, che aveva con lei tali vincoli
nel passato, che poteva, che voleva, e ci sarebbe riuscito dicerto,
rinnovare con essa siffatti legami.
Più volte fu sul punto di slanciarsi in quella sala ad affrontare quel
suo potente, e da quel punto odiatissimo rivale; quando il duca fu
per recarsi esso stesso a vedere chi fosse l’uomo nascosto, Alfredo
sarebbe uscito certamente; e già s’era mosso, se la Zoe non avesse
ratto chiusa la porta a chiave. Udì fremendo la scena che ne seguì:
e quando, partito il principe, la donna aprì l’uscio, egli venne
fuori con un misto sì confuso di sentimenti, con un tumulto tale di
pensieri e d’affetti da non riconoscersi, da non raccapezzarcisi egli
stesso. Ira e vergogna, spasimo di cuore e delirio di sensi, una smania
indefinibile, un acre, feroce anelito di voluttà e di vendetta lo
tormentavano: gli pareva insieme voler battere anch’egli quella donna
su cui era discesa l’infamia della scudisciata ducale, e gettarsele
al collo a divorarla di baci, sputarle l’insulto sulla faccia e
trascinarsele ai piedi a mormorarle una dichiarazione d’amore.
Essa gli tolse ogni imbarazzo di scelta: gli gettò quello sguardo in
cui pareva aver messa tutta l’anima sua, mandò quei grido, quei gemito
che sembravano significare il trabocco del dolore nel cuore d’una
povera donna — ed era caduta priva di sensi ai piedi di lui.
Alfredo atterrito, per prima cosa pensò a chiamare soccorso. Si
slanciò verso il camino per tirare il cordone del campanello; ma udì
un sommesso gemito, una specie di leggero rantolo dalle labbra della
svenuta, e s’affrettò a tornare presso di lei.
XXIV.
Alto, profondo silenzio regnava tutt’intorno. Era uno strano
spettacolo, da cui Alfredo, malgrado il tumulto della sua anima, fu
pure colpito: quella sala elegante, sfarzosamente illuminata, coi
mobili in disordine, tanti oggetti a terra in frantumi, una quiete
sepolcrale, e distesa sul ricco tappeto persiano una giovane donna che
pareva cadavere.
Il giovane si accostò a quel bellissimo corpo abbandonato, l’occhio
fisso con potenza magnetica su di esso. Le chiome disciolte s’erano
diffuse intorno al capo leggiadro sul tappeto a fondo bianco e
facevano come un’aureola d’oro alla pallida faccia, la veste da camera
slacciatasi davanti s’era aperta e mostrava nudo il collo fidiaco, una
parte della spalla che poteva dirsi una perfezione, e su quella pelle
bianca, fine come una seta, correva alla base del collo la striscia
rossa lasciatavi dallo scudiscio del duca.
Alfredo s’inginocchiò presso la caduta, si chinò verso di lei con
sempre crescente emozione; quelle labbra sanguigne, cui neppure lo
svenimento aveva impallidite, lo attiravano con insuperabile potenza;
il candore della pelle nel collo, nella spalla, nel seno lo abbacinava;
si chinò, si chinò fino a sentire sul suo volto il lieve alito che
usciva dalle semiaperte di lei labbra; le pose una mano sul cuore, lo
sentì battere lento e piano; si chinò ancora: quella striscia rossa
sulla pelle bianca era lì sotto ai suoi occhi alla distanza di un
palmo; la sua bocca vi precipitò sopra avida, fremente, e vi stampò su
un bacio caldo, appassionato, rabbioso.
Zoe si scosse tutta, di subito, come se una corrente elettrica
l’avesse invasa; aprì gli occhi, da cui balenò ratta una luce e tosto
li rinchiuse; mandò un grido soffocato che si spense in un sospiro;
le braccia, come allo scatto di una molla, si serrarono con soave
pressione intorno al collo di Alfredo e tennero chiusamente appoggiata
quella giovane testa al seno della donna, mentre con una specie di
inconscio trasporto le labbra di lei ne baciavano furiosamente le
chiome, la fronte, gli occhi, e mormoravano con accento di traboccante
passione:
— Alfredo! Alfredo! Alfredo!
Egli si sentì rapire, si sentì mancare il rifiato, si sentì morire
dal duca, e poi venendogli innanzi colle più seducenti maniere di cui
fosse capace, messagli con amorevole, ma pure rispettosa famigliarità
la mano sul braccio, gli disse con voce così sommessa che nemmeno
l’Anviti, lontano solamente due passi, non potè udirne le parole:
— No, Altezza; non disprezzi questo avvertimento. La sua Polizia qui
sarà ben fatta, ma non è ancora una perfezione. Ho mezzi ed elementi
da provarle che essa ignora molte cose e non sa penetrare in molti
misteri. Mi dia un po’ di tempo, Altezza, ed io le farò scoprire e
conoscere quanto Lei non s’aspetta mai più.
— Quanto tempo?
— Non più d’una settimana, e vedrà. Sono venuta apposta. Oh! io non ho
mai potuto dimenticare V. A. — e saettò il principe con uno sguardo che
lo fece sorridere di sguaiata e vanitosa compiacenza. — E per Lei, per
la sua salvezza sono disposta a qualunque cosa. Vengo da un viaggio
per tutta l’Italia centrale; conosco i raggiri dei rivoluzionari in
ogni città dello Stato Pontificio, della Toscana, del ducato di Modena
e ne ho meco le prove; so, e saprò meglio fra poco, dove fanno capo
anche qui a Parma i fili della trama. V. A. può fidarsi di me; non avrà
servitore più devoto, più zelante, e — abbassò ancora più la voce, —
più innamorato.
Ed occhieggiò di nuovo, amorevole, seducente, voluttuosa.
Carlo III, inuzzolito, afferrò la donna, la strinse al petto e le
stampò un grosso bacio sulle labbra. Essa — oh ammirabile commediante!
— si divincolò, si sciolse, corse all’altro capo della sala, presso
la tenda dell’uscio della sua camera, con un atto di pudore, di virtù
oltraggiata, di dignità offesa, che ognuno, il quale non conoscesse
il di lei passato, non avesse udito le parole da lei susurrate al
duca, l’avrebbe dicerto creduta una innocente perseguitata dal vizio
tracotante.
— Oh Altezza! — ella esclamò ancora, con accento affatto pari e degno
della significazione delle mosse.
La tenda di seta damaschina che pendeva innanzi all’uscio della camera
cubicolare s’agitò un pochino.
Il colonnello Anviti, da quel prudente e accorto cortigiano ch’egli
era, capì che il momento di ritirarsi era venuto. Si fece innanzi di
due passi verso il duca, s’inchinò profondamente e disse:
— Io non voglio perdere neppure un minuto di tempo, Altezza, per
mettere in sodo quello che può esserci di vero nelle fatte rivelazioni.
Corro in questo punto medesimo dal direttore della Polizia.
— Sicuro! Bravissimo! — gridò ridendo sguaiatamente il principe. — Vai,
vai... Il tuo zelo, Anviti, non fu mai così opportuno.
Il colonnello fece un altro inchino profondissimo, salutò la donna che
gli corrispose appena con un legger cenno di testa e sparì per l’uscio
che metteva nell’antisala.
Il duca e la Zoe rimasero fronte a fronte.
— A noi due! — disse la donna fra sè, avvolgendo il principe in uno di
quei suoi sguardi fieri e terribili.
Carlo di Borbone si avvicinò alla donna, le braccia tese e un sorriso
da satiro sul volto.
— Ora, Zoe, siamo soli, e non ti darai più nessun’aria da Lucrezia
Romana.
La donna fece un gesto nobilissimo colla mano per tenere a distanza
l’audace uomo: un gesto così nobile e di effetto che il principe
medesimo ne rimase un momento colpito e s’arrestò.
— Altezza! — ella cominciò con una intonazione di voce che ogni più
valente attrice le avrebbe invidiata. C’era mestizia e risoluzione,
preghiera e severità, dignitosa fiducia e insieme coscienza e sicurezza
d’un’intima forza. — Altezza! Ella non trova più in me la donna
d’un tempo. Quella che Lei ha conosciuta, quell’infelice è morta; la
creatura che ora ha l’onore di starle dinanzi, conosce, sa e vuole
scrupolosamente conservare e difendere la sua dignità, la sua onestà, i
suoi doveri, l’anima sua rinobilitata e il suo cuore.
Il duca stette un momento lì, come sbalordito; guardava la donna coi
suoi occhi di vetro che parevan diventati più grossi, teneva la bocca
aperta come in un mezzo sbadiglio. Poi a un tratto diede una scrollata
del capo e delle spalle, trinciò l’aria con un colpo dello scudiscio e
ruppe in un’alta risata.
— Corpo di Dio!... Sei la gran buffona!... Quasi quasi ti pigliavo sul
serio... Dopo la Lucrezia Romana, vuoi farmi la Maddalena convertita...
Sì, la è una cosa che può far ridere, che può divertire, ma per poco,
te ne avverto, sopratutto con un uomo del mio carattere e della mia
sorte.
Ma la donna non cambiò modi nè accento; anzi, appoggiandosi con una
mano alla spalliera d’una seggiola vicina, come se le forze fossero
per mancarle, con un abbandono pieno di dolore, con una voce piena di
melanconia, di umiltà, di rassegnato tormento, riprese:
— V. A. ha ragione a parlarmi così. Io che credo avere il diritto...
che ho il diritto — aggiunse incalzando con forza — di mostrarmi
severa e superba verso tutti: io devo pure curvare il capo alle parole
oltraggiose e al contegno ancor più oltraggioso di V. A. verso di me...
— Oh come? — interruppe il duca preso da nuovo e non minore stupore. —
Tu hai tanto di fegato?...
Ma ella, continuando con crescente calore, non lo lasciò dire.
— Sì, Altezza; qui siamo soli e non è mancanza di rispetto se io
le parlo con tutta franchezza. Che le pare Ella possa, quantunque
principe, introdursi quasi colla violenza in casa d’una donna a un’ora
di notte?...
— Ma corpo del diavolo!
— Le pare che questa donna possa tollerare che un uomo, fosse pure il
più potente sovrano del mondo, le parli, agisca con lei, e ancora in
presenza d’un suo cagnotto, come farebbe con una donna perduta?...
— Oh ma corpo di Dio e del diavolo!...
E la donna incalzando sempre più:
— Sì, la mia disgrazia vuole che V. A. possa credersi in facoltà di
trattar meco in tal guisa... Ah quel passato, quell’orribile passato,
che mi sta impresso pur troppo nella mia memoria come un marchio
di fuoco nella carne! Ma se V. A. non sa tutto quanto ho fatto per
liberarmene, per espiarlo, per farmi degna che fosse cancellato, Ella
deve pur sapere quali circostanze dolorose, terribili venissero ad
attenuare... non dirò neppure la mia colpa... ma la mia sventura.
Il duca allargava sempre più gli occhi e la bocca.
— Che giuoco è codesto?... Che scena di commedia mi vieni recitando?
Smetti, via, che m’impazienti... ed è tutto tempo perduto.
Fece un atto come per prenderla ad un braccio; ella mandò il grido
che mandano in teatro, nella scena culminante di un dramma a forti
emozioni, le vittime senza difesa perseguitate dalla violenta passione
del feroce tiranno: gettò questo grido e si fece indietro, fino a
prendere in mano la tenda dell’uscio, pronta a fuggire per esso gli
audaci atti del principe. — Altezza, — disse; — io faccio appello a
tutta la generosità della sua natura. Ella non disprezzerà la preghiera
d’una donna che la supplica. Dimentichi il passato: non veda più in me
che una donna, la quale è venuta qui per salvarla.
Il duca stava per interrompere e dire qualche cosa, quando l’uscio
dell’antisala s’aprì bruscamente e comparve di nuovo, sollecito, il
colonnello Anviti.
— Perdono Altezza! — diss’egli, mentre il principe si voltava a
fulminarlo d’uno sguardo fieramente corrucciato. — Perdoni se oso
entrare di questa guisa; ma ho appreso or ora tal cosa, che mi è parso
importante, indispensabile di venire subito a comunicare a V. A.
Il principe rispianò un pochino la sua fronte corrugata di Giove in
collera.
— Che cosa? — domandò.
— Che poc’anzi nel quartiere di questa signora s’è introdotto
misteriosamente un uomo.
Carlo di Borbone fulminò un’occhiataccia alla Zoe, poi scoppiò in una
gran risata, e torcendosi dal ridere e facendo fischiare l’aria collo
scudiscio, si lasciò cadere sulla più vicina poltrona.
XXII.
Il colonnello Anviti, discese le scale, aveva subito cercato dei due
gendarmi, e non aveva dovuto attendere pure un attimo, perchè essi,
visto appena chi era il personaggio venuto giù, s’affrettarono a
presentargli per riceverne i comandi.
— Voi non vi muoverete di qua finchè S. A. non ne esca, — disse loro:
— e quando venga fuori lo scorterete con tutta la possibile attenzione:
qui intanto, per tutto il tempo in cui ci rimarrà il principe, non
lascierete penetrare nessuno, qualunque pretesto o ragione adduca per
introdursi. Avete capito?
I gendarmi fecero un segno di assentimento; e già l’Anviti s’avviava
per partirsene, quando i due uomini, scambiatosi uno sguardo dubitoso,
interrogante, come per consultarsi, dissero a un tratto insieme:
— Signor colonnello!
— Eccellenza!
Avevano pensato di comune accordo che la venuta in quella casa di un
uomo dopo il principe, doveva essere un fatto abbastanza importante per
comunicarlo al colonnello dei gendarmi.
E in vero quando l’udì, il conte mostrò prenderne molto interessamento:
volle sapere quali erano i connotati di lui, al che i gendarmi non
furono in grado che di rispondere molto superficialmente; e poichè ebbe
inteso che quel tale era entrato nel quartiere della donna e non n’era
ancora uscito, avvisò subito anch’egli che era necessario appurare un
tal fatto e renderne avvertito il principe medesimo. Per ciò corse di
nuovo su delle scale, penetrò nell’alloggio della Zoe, e si precipitò
nel salotto a quel punto a fare la rivelazione che ebbe per effetto dal
duca una sì chiassosa e impertinente ilarità.
La Zoe, mentre il duca si contorceva dalle risa sulla poltrona,
incrociò le braccia al petto, corrugò fieramente le sopracciglia,
e stette immobile, pallida, gli occhi a terra: certo pensava come
regolarsi in questo caso che forse non aveva previsto.
Carlo III, poichè ebbe sfogato sguaiatamente la sua voglia di ridere,
appuntò il suo frustino al volto della donna e disse con voce beffarda:
— Ah! la Lucrezia romana! Ah! la Maddalena convertita!... Ora capisco
la scena. Ci aveva l’amico nascosto!... Forse costà, in quella camera
innanzi all’uscio della quale tu stai piantata come una statua?
Zoe alzò risolutamente il capo, sollevò gli occhi e li fissò
arditamente in quelli del principe. La sua decisione era presa.
— Ebbene sì: — rispose con sicurezza. — V’è una persona che ha più di
tutte al mondo la mia stima e il mio affetto...
— Me ne rallegro con lui: — interruppe colla sua insolenza tracotante
il Borbone: — e me ne rallegro tanto che voglio aver il piacere di fare
la sua conoscenza. Chi è?
— Ah questo no! — gridò con forza la donna. — Mille volte no!...
Piuttosto morire.
— Ah!... che parolaccie! A me che ti conosco da un pezzo non le
dovresti dire... Se tu non vuoi nominare quel birbo fortunato, penso
ch’egli almeno avrà la franchezza e il buon gusto di mostrarsi e
soddisfare il nostro desiderio... Animo, signor incognito, venga fuori.
La donna allargò le braccia come ad impedire che la tenda dell’uscio
potesse venir sollevata e gridò:
— No, no, non voglio!
— Non voglio! — ripetè il duca alzandosi da sedere e con accento in cui
cominciava a farsi sentire la collera. — Tu dimentichi, disgraziata,
che qui sono io a comandare e che quella che ha da eseguirsi è la mia
volontà...
Tese lo scudiscio in atto di comando e disse:
— Aprimi quell’uscio.
— No! — rispose più risoluta che mai la donna gettando uno sguardo
di fuoco al principe, atteggiandosi ad una mossa che era delle più
seducenti.
— Corpo di Dio! Se quel cotale non vuol venir fuori, se tu non gli
permetti di venire, saremo noi che avremo la degnazione di andarlo a
cercare.
E camminò risolutamente verso l’uscio.
— No, Altezza, — gridò ancora la Zoe con accento di supplicazione; — la
prego, non faccia...
E tendeva le mani con atto che ogni pittore avrebbe voluto copiare per
disegnare una perfezione di supplicante.
Il duca la prese ad un braccio e fece per tirarla via; essa resistette.
— No, no, per grazia, per pietà! — ella pregava con voce piena di malìa.
La tenda innanzi all’uscio si mosse un pochino e si udì un lieve
rumore come d’un battente che si socchiuda; Zoe con uno strappo si
liberò dalle mani del duca, fu in un balzo alla porta, la richiuse
violentemente, e poichè la chiave trovavasi da quella parte, diede un
giro alla serratura, levò la chiave e se la pose in tasca. Tutto ciò in
un batter di ciglia.
— Nessuno entrerà qui dentro! — esclamò essa con una specie di sfida
trionfante.
Il principe si morse le labbra.
— Mala femmina che tu sei! — gridò. — Non sai che io posso far gettare
abbasso quell’uscio... far arrestare quello sciocco tuo drudo che là si
nasconde?... Anviti, fa venire i due uomini....
— Altezza! — interruppe con ardimento e con forza la donna: — Io
scriverò a Vienna...
— Scrivi anche all’inferno! — scoppiò il duca, invaso affatto da una
cieca collera. — Che cosa mi importa di Vienna e de’ tuoi protettori
e del tuo stupido principe?... Qui sono padrone, giuro al cielo! e
voglio esserlo... E posso far cacciare in fortezza quei ganimede che
nascondi, e te, se mi talenta, e cacciarti fuori de’ miei Stati come
una prostituta...
La donna, fattasi calma, strette le braccia al seno, pallida, ma
sicura, il capo eretto, l’occhio fiammeggiante, lo interruppe con
fredda risoluzione:
— Faccia se le pare, Altezza...
Il principe, irritato anche dalla provocazione di quella bellezza
che negandoglisi lo inuzzoliva sempre più, sdegnato di riconoscere
impotente la sua autorità a cui era avvezzo vedere tutti curvarsi
vilmente, perdette il lume della ragione, si slanciò collo scudiscio
levato sulla donna e la percosse sulla spalla.
Un grido, un urlo d’indignazione uscì dalle labbra di Zoe; il duca
indietreggiò come respinto da un colpo nel petto, ma la sua collera
non era ancora abbastanza sfogata; col medesimo frustino si pose
bestialmente a flagellare i mobili, gettando a terra porcellane,
cristalli, candelabri, gingilli, candele, orologio, bestemmiando come
un carrettiere, ruggendo come una belva. Quando fu stanco, lanciò uno
sguardo sulla donna: essa stava sempre ritta innanzi all’uscio, più
pallida di prima, pallida come una morta, con una riga rossa sulla
spalla alla radice del collo, cogli occhi che parevano due carboni
accesi; il duca non sostenne quello sguardo; buttò via lo scudiscio,
e, senza aggiungere una parola alla Zoe, prese pel braccio Anviti che
stava lì interito e dettogli bruscamente: «Andiamo!» partì di buon
passo traendolo via con sè.
All’uscio dell’antisala comparve la faccia sgomentata della governante
accorsa al rumore. Al vedere tanta strage, essa congiunse le mani in
atto disperato e aprì la bocca per mandare un’esclamazione; ma la Zoe
in un balzo le fu allato.
— Zitto! — le disse a voce bassa ma con forza: — tu ritirati nella tua
camera e non lasciarti vedere nè sentire. Va.
La spinse fuor dell’uscio da quella parte, poi corse all’uscio della
sua camera; passando innanzi allo specchio vi gettò uno sguardo a
mirarvisi; fu contenta del suo pallore, del selvaggio fuoco dei suoi
occhi: si cacciò ancora una mano nelle treccie a disordinarle di
più; si sorrise soddisfatta; fu alla porta, aprì con mano tremante il
battente e con voce che pareva quella d’una donna all’agonia susurrò:
— Venite, Alfredo!
Il conte di Camporolle si presentò pallido quanto lei, gli occhi più
smarriti di lei, un fremito di dolore, di furore in tutte le membra.
Ella stava appoggiata all’uscio tenendo stretta nella mano la chiave
posta nella serratura; il suo sguardo cercava quello del giovane, ma
gli occhi di costui lo sfuggivano; c’era in quella sala un silenzio di
morte.
— Alfredo! Alfredo! — ella gemette dopo un istante di penosissimo
silenzio. Parve voler dire chi sa quanto; agitò le labbra senza che
suono ne uscisse; fu scossa da un brivido che avreste detto mortale,
sollevò le braccia, accennò volerle gettare al collo del giovane, ma
non potò, e scivolando rasente la persona di lui, il suo bel corpo
cadde lungo e disteso, come morto, per terra.
XXIII.
Alfredo s’era lasciato menare dalla governante traverso due o tre
stanze all’oscuro, fino a che quella donna che lo traeva per mano gli
aveva susurrato all’orecchio:
— Stia qui; e non si muova: — e poi era scomparsa.
Egli s’era trovato in una camera da letto piuttosto vasta, immersa
in una semi-oscurità, poichè la sola luce che vi fosse era quella
piccola e velata d’una lampadina da veglia con globo di cristallo
opaco e ventola di color verde. La prima impressione che provò colà
dentro fu quella d’un profumo delicato, sottile, penetrante, squisito,
che rivelava senza il menomo dubbio possibile la camera d’una donna
— e d’una donna elegante. A tutta prima aveva il sangue in tal
turbamento che quasi non vedeva intorno a sè, non poteva avvertire
altro che il battito frequente e violento del suo cuore. Il sospetto
e la gelosia che gli avevano suscitato il sapere colà dentro, colla
baronessa, il duca di Parma, insolente, sfacciato donnaiuolo, più
libertino d’ogni corrotto giovinastro; quell’essere introdotto così
misteriosamente e trovarsi lì, nascosto, incerto di che fare, di che
gli dovesse succedere, davano all’anima sua giovanile un’emozione
che non poteva dominare. A poco a poco si calmò. Guardò intorno a sè,
curioso, interessato, avido. La camera era tutta parata in bianco e
cilestre. Di seta azzurra erano coperti sofà, poltroncine e seggiole;
di seta azzurra e di preziose trine era incortinato il letto su
cui scintillavano i riflessi metallici del raso azzurro; in mezzo a
quelle cortine non penetrava raggio di quella mite, debole luce, e la
tenebra fitta in cui pareva ritrarsi, affondarsi la parte superiore
dell’elegante letto di mogano scolpito, appariva agli occhi d’un
giovane ventenne ricca e promettente di voluttuosi, ineffabili misteri.
Una stupenda pelle di tigre col capo belluino imbalsamato e gli
unghioni dorati, faceva l’effetto di un mostro domato che strisciasse,
schiacciato a terra, a domandare pietà. Ad Alfredo sembrò vedere una
ferocia di desiderii insani che tentasse arrampicarsi all’assalto di
quelle ombre in cui doveva annidarsi un’Iside tremenda e seducente.
Sopra un leggero tavolino monopodo, entro un vaso chinese, languiva
un mazzo di fiori esalando nella sua morte il dolce veleno dei suoi
profumi; e lì presso, un guanto abbandonato, un guanto che serbava
ancora il modello della mano, un guanto che mandava ancor esso un
effluvio e più inebbriante di quello dei fiori.
Alfredo fu scosso come da un brivido. Quel guanto gli pareva animato,
gli pareva accennasse a lui con atto pieno di malìa, di amorevolezza;
gli pareva vederlo attaccato ad un braccio di forma scultoria, e col
pensiero saliva su di quel braccio, incontrava una spalla, un collo,
un seno.... quali aveva visto quella sera stessa, poche ore prima,
nell’ardente, infuocata atmosfera del teatro. Ma e il volto? Strano
a dirsi! Il volto che pensava, che voleva, che cercava rivedere, non
gli appariva chiaro, netto e preciso come gli sarebbe piaciuto, quale
lo aveva pur visto le mille volte nelle sue fantasticherie. Egli lo
aveva tanto impresso nella mente: credeva sentirselo stampato nel
cuore; eppure ora non se lo vedeva che in confuso, una nebbia sembrava
avvolgerlo; lo mirava come in una lontananza che vela i particolari;
era una rassomiglianza, non l’efficacia dell’identità. Sollevò il
capo dispettoso di sè stesso. Una piccola scintilla di fuoco s’accese
ai suoi occhi nell’angolo d’una cornice dorata su cui batteva un
raggio della lampadina. Fu come un richiamo al suo sguardo; in mezzo
a quella cornice occhieggiava, sorrideva una donna: lei! Il pittore,
felicemente ispirato da quella malìa di sembianze, era riuscito a fare
un piccolo capolavoro. Era proprio lo sguardo di quella affascinatrice,
profondo, penetrante, ardente, misterioso, crudele, pieno di voluttà,
di sarcasmo, di passione, diabolico; erano le carnose di lei labbra,
color di corallo, color del sangue, che, socchiuse, lasciavano scorgere
denti di bianchezza canina, piccoli, acuti, taglienti, quasi avreste
detto bramosi di mordere; era il pallore d’avorio di quella carnagione,
su cui il tempo e il dolore e una travagliosa cura incessante parevano
pure volere incidere il loro marchio di rughe e non poterlo; era
nel complesso quell’espressione indefinibile, attraente, segreta che
faceva all’osservatore, di tal creatura una sfinge, o gli accendeva
nell’anima, nel cuore e nei sensi una prepotente smania di cercarne,
di trovarne il motto e spiegarne l’enigma; su tutto questo aveva messo
ancora il suo incanto la potenza dell’arte che solleva la realtà alle
più sublimi bellezze dell’ideale. Quel poco di asprezza e di volgarità,
che si poteva talvolta notare nel modello vivente, qui era scomparso;
la preoccupazione pareva forza di pensiero e spoglia affatto d’ogni
accenno di mal talento: il labbro muto riusciva eloquente; l’ombra
lieve sulla fronte appariva la mestizia d’un intimo dolore cui sarebbe
felicità suprema il dileguare, il consolare, il far cadere in oblìo;
la stessa voluttà promessa dal sorriso audace e provocante, prendeva
alcun che di superiore, di più nobile, di più squisito delle materiali
soddisfazioni dei sensi.
Alfredo stette un poco rapito innanzi a quel ritratto a contemplarlo.
I profumi di quell’ambiente, la calda temperatura, la debol luce,
la vista di tutti quegli oggetti che a lei appartenevano, che ella
forse un sol minuto prima aveva toccati, che erano quasi parte di
lei; la vista di quel dipinto producevano in lui un’ebbrezza che gli
saliva poco a poco al cervello. Provò quell’incanto e quelle emozioni
che ci descrive così bene il Rousseau nella sua _Nuova Eloisa_, come
provate dal Saint-Preux introdottosi nella camera dell’amata donzella.
Anch’egli prese, brancicò colle mani tremanti quelle cose che gli
parevano ancora calde del tocco di lei, ancora impregnate degli effluvi
delle carni di lei; baciò con delirio quel guanto, quei cuscini,
quella coltre... Ma nella sua estasi venne ad interromperlo una voce
d’uomo, una voce ingrata, ch’egli riconobbe per quella del duca.
S’accostò vivamente a quella porta donde tal voce veniva; trovò l’uscio
socchiuso, e traverso i battenti, benchè la tenda di seta pendente
nell’altra stanza gl’impedisse di vedere, potè giungere al suo orecchio
tutto ciò che fu detto.
Dapprima non volle credere: quella donna che a lui pareva la prima del
mondo, tollerava un simile linguaggio da quel libertino di principe:
riconosceva essa stessa ch’egli aveva un certo diritto a parlarle in
tal modo! Al passato di lei, Alfredo non aveva mai neppure pensato.
Ammetteva ch’ella avesse potuto amare altri: glie l’aveva detto essa
stessa; ma una vita di disonore come quella che ora gli rivelavano
le parole del principe, no, in lei non l’avrebbe creduta mai, non
l’avrebbe neppure sognata possibile. Sentiva un dolore grandissimo
invadergli l’animo: egli che, giusto a quel punto, in mezzo a
quell’ambiente pieno di lei, innanzi alle sembianze di lei, l’aveva
più che mai idealizzata, esaltata! Ciò che succedeva nel suo intimo,
egli non se lo spiegava bene; ma era un grande e profondo cambiamento.
L’affetto che sentiva per quella donna forse n’era diminuito, forse
no; ma si faceva a un tratto ben diverso. La parte materiale di esso
subitamente predominava. Quasi gli era parso fin allora inaccessibile
quella bellezza superba che aveva visto sempre schiva, sprezzante,
cinta di disdegnoso riserbo; la voce che la rivelava una caduta gli
pareva dicesse: «sarà anche tua!» Sentiva degl’impeti d’indignazione
che lo spingevano a disistimarla, a levarla da quel piedestallo
su cui l’aveva fino allora adorata; e in pari tempo sentiva degli
impulsi di desiderio violento che lo inebriavano col pensiero: «da
quel piedestallo cadrà nelle tue braccia.» La foga de’ suoi venti anni
imponeva silenzio alla ragione, alla morale, al dolore del disinganno.
La voce stessa della donna che, traverso quel leggero tessuto, gli
giungeva calda, sonora, palpitante, piena di fremiti e di passione,
riusciva per lui una seducente provocazione. Un’aspra, velenosa gelosia
lo morse, pensando a quell’uomo — fosse pure un principe — che aveva il
diritto di parlare così a quella donna, che aveva con lei tali vincoli
nel passato, che poteva, che voleva, e ci sarebbe riuscito dicerto,
rinnovare con essa siffatti legami.
Più volte fu sul punto di slanciarsi in quella sala ad affrontare quel
suo potente, e da quel punto odiatissimo rivale; quando il duca fu
per recarsi esso stesso a vedere chi fosse l’uomo nascosto, Alfredo
sarebbe uscito certamente; e già s’era mosso, se la Zoe non avesse
ratto chiusa la porta a chiave. Udì fremendo la scena che ne seguì:
e quando, partito il principe, la donna aprì l’uscio, egli venne
fuori con un misto sì confuso di sentimenti, con un tumulto tale di
pensieri e d’affetti da non riconoscersi, da non raccapezzarcisi egli
stesso. Ira e vergogna, spasimo di cuore e delirio di sensi, una smania
indefinibile, un acre, feroce anelito di voluttà e di vendetta lo
tormentavano: gli pareva insieme voler battere anch’egli quella donna
su cui era discesa l’infamia della scudisciata ducale, e gettarsele
al collo a divorarla di baci, sputarle l’insulto sulla faccia e
trascinarsele ai piedi a mormorarle una dichiarazione d’amore.
Essa gli tolse ogni imbarazzo di scelta: gli gettò quello sguardo in
cui pareva aver messa tutta l’anima sua, mandò quei grido, quei gemito
che sembravano significare il trabocco del dolore nel cuore d’una
povera donna — ed era caduta priva di sensi ai piedi di lui.
Alfredo atterrito, per prima cosa pensò a chiamare soccorso. Si
slanciò verso il camino per tirare il cordone del campanello; ma udì
un sommesso gemito, una specie di leggero rantolo dalle labbra della
svenuta, e s’affrettò a tornare presso di lei.
XXIV.
Alto, profondo silenzio regnava tutt’intorno. Era uno strano
spettacolo, da cui Alfredo, malgrado il tumulto della sua anima, fu
pure colpito: quella sala elegante, sfarzosamente illuminata, coi
mobili in disordine, tanti oggetti a terra in frantumi, una quiete
sepolcrale, e distesa sul ricco tappeto persiano una giovane donna che
pareva cadavere.
Il giovane si accostò a quel bellissimo corpo abbandonato, l’occhio
fisso con potenza magnetica su di esso. Le chiome disciolte s’erano
diffuse intorno al capo leggiadro sul tappeto a fondo bianco e
facevano come un’aureola d’oro alla pallida faccia, la veste da camera
slacciatasi davanti s’era aperta e mostrava nudo il collo fidiaco, una
parte della spalla che poteva dirsi una perfezione, e su quella pelle
bianca, fine come una seta, correva alla base del collo la striscia
rossa lasciatavi dallo scudiscio del duca.
Alfredo s’inginocchiò presso la caduta, si chinò verso di lei con
sempre crescente emozione; quelle labbra sanguigne, cui neppure lo
svenimento aveva impallidite, lo attiravano con insuperabile potenza;
il candore della pelle nel collo, nella spalla, nel seno lo abbacinava;
si chinò, si chinò fino a sentire sul suo volto il lieve alito che
usciva dalle semiaperte di lei labbra; le pose una mano sul cuore, lo
sentì battere lento e piano; si chinò ancora: quella striscia rossa
sulla pelle bianca era lì sotto ai suoi occhi alla distanza di un
palmo; la sua bocca vi precipitò sopra avida, fremente, e vi stampò su
un bacio caldo, appassionato, rabbioso.
Zoe si scosse tutta, di subito, come se una corrente elettrica
l’avesse invasa; aprì gli occhi, da cui balenò ratta una luce e tosto
li rinchiuse; mandò un grido soffocato che si spense in un sospiro;
le braccia, come allo scatto di una molla, si serrarono con soave
pressione intorno al collo di Alfredo e tennero chiusamente appoggiata
quella giovane testa al seno della donna, mentre con una specie di
inconscio trasporto le labbra di lei ne baciavano furiosamente le
chiome, la fronte, gli occhi, e mormoravano con accento di traboccante
passione:
— Alfredo! Alfredo! Alfredo!
Egli si sentì rapire, si sentì mancare il rifiato, si sentì morire
- Parts
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