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La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 07

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  — Voi! — esclamò essa con un accento in cui era appena mascherato un
  certo disprezzo. — Voi no, non odio... quello che ho pel principe
  è tale che assorbe tutto.... Voi d’altronde mi siete necessario al
  compimento della mia vendetta; e avete pur giurato di servirmi.
  Pancrazi chinò il capo.
  Essa riprese al punto in cui s’era interrotta:
  — Fui costretta io stessa a recare nella carcere a quell’infelice
  la morte, perchè sfuggisse l’ignominia del pubblico supplizio e il
  contatto del boia!...
  La voce di lei fremeva: il corpo tutto era agitato da una specie di
  convulsione.
  — Ah queste cose non si dimenticano, non si perdonano. Giurai odio
  eterno a quella società, a quell’ordine di cose che mi aveva condannata
  a cotanto spasimo, e quell’ordine, quella società tiranna e prepotente
  li vidi incarnati in quest’uomo più empio, più basso, più corrotto del
  condannato, che avrebbe potuto salvarlo e non lo fece, che mi sprezzò e
  derise.... Vedete s’io posso mutare!
  — Sentite, Zoe, — disse freddamente il poliziotto, — v’ho già detto a
  Bologna tutte le difficoltà dell’impresa....
  — Difficoltà non sono impossibilità, — interruppe la donna. — E
  qualunque siasi difficoltà una donna come sono io e un uomo come siete
  voi, hanno capacità e forza di superarle.
  — Parliamo freddamente, da persone pratiche, — disse il Pancrazi
  dopo un breve intervallo, — l’ultima volta che ci siamo veduti, io vi
  diceva....
  La donna lo interruppe.
  — Mi ricordo di tutto: che nella rivoluzione c’era poco o punto da
  sperare....
  — Questo siete in grado voi stessa di saperlo quanto me. Dovreste
  essermi grata dell’idea che vi ho suggerita e dei mezzi che vi ho
  forniti di diventare agente segreta della Polizia austriaca.
  — Sì, e grazie al principe K. la cosa mi riuscì meglio di quel che
  si sarebbe previsto. Ho potuto così fare ottenere a voi la carica di
  direttore della Polizia qui a Parma....
  — E voi essere informata di tutte le trame dei rivoluzionarii, per
  aiutarle segretamente, quando vi sembrassero utili al vostro scopo.
  — E questo mi porge pure buona ragione da presentarmi qui e di
  dimorarvi. Io reco al duca relazioni delle Polizie di Lombardia, del
  Veneto, delle Marche, della Romagna.
  — Va benissimo.... E dunque dovete essere tanto più persuasa che la
  rivoluzione in Italia, malgrado e a dispetto del Piemonte che fa di
  tutto per aiutarla, è affatto impotente e non leverà un ragno da un
  buco, altro che mettere giù un principe dal suo trono. Fra gli italiani
  sono pochi quelli che hanno il coraggio della rivolta aperta e di
  affrontare le baionette dei soldati e la corda del boia. Si congiura
  volentieri, ma quando si bandisce venuto il giorno della prova, sono
  quei pochi soltanto che si fanno ammazzare: i più si rintanano e il
  popolaccio, che non capisce gran cosa di nazione e di patria, assiste
  indifferente ai supplizi. La forza del principe di qui, come quella del
  Modenese e del Toscano, sta a Vienna, e finchè questa avrà guarnigione
  a Milano, ogni sommossa italiana non sarà che un ridicolo tentativo.
  Bisognerebbe adunque, per ispuntarla, far guerra all’Austria e
  vincerla; e non sarà certo il Piemonte che potrà far questo, quantunque
  si sobbarchi pazzamente per ciò ai più grandi sacrifizi.
  — Avete ragione, — disse con una certa impazienza la donna. — Sì,
  mi sarebbe piaciuto vedere questo triste tirannello assalito dal suo
  popolo in furore, strappato al trono, al palazzo, trascinato per le
  strade, insultato, schernito, coperto di contumelie, di maledizioni e
  di fango, lentamente ammazzato... Ma poichè ciò non si può, mi basterà
  vederlo morire assassinato nel meglio della sua gioventù, della sua
  potenza, della sua oltraggiosa tracotanza... Per ciò bisogna ricorrere
  alle passioni personali... all’odio e all’amore, in cui l’uomo mette
  tutto il suo essere, la soddisfazione più intima e più acuta del suo
  egoismo.
  Il direttore della Polizia fece gravemente un segno d’assenso.
  — Benissimo: — disse: — voi conoscete l’uomo.
  — Questo signor duca fa di tutto per tirarsi addosso di quegli odii
  che non perdonano.... come il mio. E qui son venuta per cercarmi,
  per farmi, per prepararmi un alleato in quest’odio mortale, nel quale
  alleato io trovi un sicuro stromento.
  — Indovino. Cotesto stromento sperate averlo in quel giovane ch’avete
  qui mandato prima di giungervi voi, e che io, secondo il vostro
  desiderio, aiutai a fare ammettere a Corte?
  — Forse! — esclamò la donna. — Or dunque rivedrò il principe....
  — E ridesterete in lui una vampa dell’antica passione.
  — Per quanto poco ne abbia bisogno, sarò il suo dèmone consigliatore
  dei più scellerati fatti. Lo spingerò a calpestare più ancora di quel
  che faccia ogni virtù, ogni scrupolo, ogni dignità umana...
  — E mostrerete a quel giovanetto, già mezzo impazzito per voi, che può
  arrivare solamente a possedervi, passando sopra il cadavere del duca.
  — Voi mi farete sapere tutto quello che riguarda il principe: le sue
  menome azioni, ogni passo che sia per muovere, ogni cosa che intenda e
  che prepari.
  — Vi servirò più di quanto vi aspettate: — disse il Pancrazi colla
  solita freddezza d’accento. — Prima di tutto perchè ve l’ho giurato;
  poi, perchè questo insolente che si serve di voi e vi umilia, che vi
  vuole e fa vili e poi vi beffeggia, che vi dà una manciata d’oro e una
  frustata sulla faccia: questo principe l’odio anch’io....
  La donna fece un balzo e afferrò ambedue le mani del Pancrazi.
  — Ah sì? — disse con lieta concitazione. — Voi mi dite una parola
  che tutta mi rassicura e mi allegra. I nostri odii uniti saranno
  onnipossenti....
  Il poliziotto si accostò vieppiù alla seducente baronessa, si curvò
  verso di lei, e, benchè fossero soli, abbassò la voce tanto che appena
  essa ne potè udire le parole.
  — E i nostri odii non sono soli... Ce n’è un altro, che quel tristo si
  è ben meritato... un altro assai in alto, il quale probabilmente non
  farebbe nulla di positivo per aiutarci nel compito.... ma però lascierà
  fare.
  La baronessa mandò un’esclamazione.
  — Silenzio! — disse il Pancrazi. — Spero che non faccia bisogno che io
  vi raccomandi la massima prudenza.
  — State tranquillo... Ma avete fatto bene ad accennarmi di ciò: me ne
  saprò approfittare, e senza nulla compromettere, vi assicuro.
  — In che modo?
  — Se riuscissi ad irritare ancora vieppiù quell’odio spingendo _lui_ a
  sempre nuovi torti?
  — Bene!... Sì, certo... Avete avuto ragione poc’anzi. Siete un vero
  dèmone... e vi ammiro.
  Zoe crollò le spalle con atto di sprezzosa indifferenza.
  — Ho bisogno che voi mettiate a mia disposizione un uomo fidato,
  destro, obbediente, capace e volonteroso di tutto.
  — L’avrete. Ci ho appunto chi è fatto apposta: un certo Michele, la più
  furba delle nostre spie, il meno scrupoloso dei nostri agenti segreti.
  — Mandatemelo subito.
  — Fra un’ora sarà qui.... Volete ora ch’io parli di voi al principe?
  — No, guardatevi bene.
  — Che annunzi almeno il vostro arrivo?
  — Neppure.... Voglio comparirgli inaspettata.... Questa sera stessa
  andrò a teatro e mi ci farò vedere.
  — Io vi terrò informata di tutto quel che può interessarvi; ma voi, da
  vostra parte, promettetemi che non tenterete nulla, che non avvierete
  nulla senza darmene avviso.
  — Ve lo prometto.
  — Per mezzo di quel Michele che vi manderò combineremo i luoghi, le ore
  e i modi de’ nostri colloquii.
  Partito il Pancrazi, la donna prese un bagno, riposò per un’ora, si
  fece servire un pranzo succulento, e poi dandosi in mano alla cameriera
  le disse:
  — Questa sera voglio un’acconciatura proprio eccezionale: tu hai da
  farmi bella quanto è possibile.
  E riuscì seducentissima, come fu detto.
  Prima di uscire per recarsi al teatro, la sedicente baronessa ricevette
  un uomo che per essere introdotto presso di lei le fece pervenire un
  bigliettino su cui erano scritte queste poche parole: «Eccovi quel
  Michele di cui vi ho parlato.» Nello scritto la donna riconobbe la mano
  dei Pancrazi.
  — Voi siete pratico di Parma affatto affatto? — domandò la Zoe a
  quell’uomo, squadrandolo bene.
  — Sì, signora: — rispose il segreto agente poliziesco — ci andrei ad
  occhi chiusi dappertutto, come nella mia camera.
  — E conoscete gli abitanti?
  — Quasi tutti: saprei dire del primo venuto che fa, che dice, che
  pensa, e perfino quel che mangia. E se di alcuno, che vive ritirato,
  non lo saprei dire a prima vista, in poco di tempo mi sento capace di
  scovar fuori tutto quello che lo riguarda.
  — Avete sentito parlare del conte Alfredo di Camporolle?
  — Conosciutissimo! So dove abita, come vive, la società che vede, le
  case che frequenta.
  — Andrà sovente a teatro?
  — Tutte le sere: ci ha un palchetto al terzo ordine a destra.
  — Va bene: ecco quel che dovete fare.
  Gli diede le istruzioni perchè Alfredo ricevesse a tempo quel suo
  bigliettino e perchè poi fosse condotto da lei all’ora posta.
  — E poi? — domandò la spia.
  — Niente!... Per questa sera basta.
  Finito lo spettacolo la baronessa fu a casa e indossò una stupenda
  vesta da camera che mirabilmente aiutava l’efficacia della provocante
  di lei bellezza; e nel suo salotto pieno di fiori che profumavano
  l’aria, pieno di luce che faceva brillare gli specchi, i bronzi dorati,
  le cornici, le sete dei mobili suntuosi, stette aspettando con sulle
  labbra un certo sogghigno che avreste detto pieno di mal talento.
  Era vicina l’ora in cui Alfredo sarebbe giunto, quando essa udì nella
  stanza che precedeva il salotto un vivace scambio di parole, quasi un
  diverbio, in cui si facevano sentire, oltre la voce della governante
  di lei, quella di due uomini, fra cui più alta e imperiosa una, che la
  fece trasalire, impallidire, poi arrossire.
  — Il duca! — ella disse a sè stessa con un’emozione di stupore insieme
  e di maligno soddisfacimento. — Possibile! Sì, quella è la sua voce.
  Senza aspettar altro si slanciò essa stessa nell’antisala. Si trovò
  innanzi la faccia insolente e tracotante di Carlo III di Borbone duca
  di Parma. Vicino a lui stava il tenente colonnello conte Luigi Anviti,
  e sulla soglia i due gendarmi in abiti borghesi che avevano scortato il
  principe, duri, impalati, nella postura del soldato senz’armi innanzi
  al suo superiore, pronti ad ogni cenno.
  
  
  XIX.
  
  Arrivati all’uscio dell’appartamento della Zoe, il duca e l’Anviti
  l’avevano trovato aperto e senza punto esitare erano entrati.
  L’anticamera era deserta, debolmente illuminata da una lampada
  appiccata alla parete.
  — Andiamo avanti; — disse il duca spingendosi verso l’uscio che si
  trovava in prospetto a quello d’entrata e che doveva certo introdurre
  nell’appartamento.
  — Scusi, Altezza: — disse l’Anviti facendo un passo per mettersi
  innanzi al duca. — Qui dentro non sappiamo ben bene chi ci si possa
  trovare. Mi permetto di pregare V. A. di non entrar primo lì dentro.
  — Che bravo Anviti! — esclamò il duca con un leggero accento di
  scherno. — Ci vuoi penetrar tu... nuovo Curzio che si getta nella
  voragine?
  — Mi vi getterei volentieri per V. A., — rispose il tenente colonnello:
  — ma poichè abbiamo qui due uomini...
  — Mandiamoli loro: — interruppe il Borbone ridendo. — Bravissimo!
  Previdenza e prudenza! Hai ragione.
  Si volse ai due gendarmi e comandò:
  — Penetrate lì dentro finchè troviate qualcheduno a cui dar l’ordine
  che m’introduca presso la padrona di casa.
  I gendarmi fecero il saluto militare e col passo cadenzato entrarono
  nella stanza vicina. Non ebbero da andar oltre, chè venne loro incontro
  frettolosa e quasi impaurita una donna la quale era la solita fedele
  compagna della baronessa.
  — Chi sono lor signori? — domandò. — Che cosa cercano?
  — La padrona di casa.
  — A quest’ora? All’una dopo la mezzanotte! Facciano il piacere d’uscire
  subito subito e lasciar tranquilla l’onesta gente.
  — L’augusta persona che ora vuol vedere la signora ha diritto di
  penetrare dappertutto, in casa di qualunque e a qualsiasi ora, e la
  esortiamo a non farla aspettare di là in anticamera.
  — Ah! è costì?... Ebbene, facciano il piacere di andare a dire a quella
  persona che se ne vada subito subito, e loro la accompagnino senza
  ritardo.
  — Se sapesse chi è!...
  — Fosse anche l’imperatore della China...
  — È qualche cosa di più: è il nostro augusto, legittimo sovrano Carlo
  III.
  La donna stette lì un momento sbalordita.
  — Il duca!... Lui qui, a quest’ora!... Impossibile!
  In questo punto il principe che, accostatosi all’uscio, aveva udito
  la voce di una donna e inteso queste ultime parole da lei pronunciate,
  aprì il battente ed entrò seguito dal fido compagno.
  — Io stesso! — esclamò con qualche enfasi. — Spero che non avrete
  difficoltà ora a lasciarmi penetrare fin presso la vostra padrona.
  I due gendarmi si ritirarono rispettosamente in fondo, lasciando faccia
  a faccia il duca, l’Anviti e la governante.
  — Mille perdoni! — disse quest’ultima impacciata non poco. — Ma la
  signora baronessa ora riposa...
  — Che bugia! — interruppe insolentemente il duca.
  — Almeno è in letto...
  — Bugia anche questa! Abbiamo veduto le finestre illuminate come non si
  suole nella camera d’una donna che è a letto.
  — Infine V. A. capirà... Io non posso, non devo lasciarla passare senza
  prima avere avvertita la signora.
  — Io non capisco niente: — gridò alzando la voce il duca col suo tono
  di petulante comando. — Voi dovete obbedirmi e tacere... Additatemi la
  camera della vostra padrona e non mi seccate dell’altro.
  — Ma prego ancora V. A. di considerare...
  — Le zucche!... Cominciate ad impazientarmi. Obbedite.
  Fu in quel punto che la baronessa aprì la porta e si presentò sulla
  soglia.
  — Ah! eccovi finalmente voi stessa, mia cara Zoe! — esclamò il duca,
  andandole incontro, colpito, affascinato dalla provocante di lei
  bellezza, a cui la civettesca acconciatura accresceva tanta efficacia.
  — Spero che non mi lascierete fare anticamera più oltre, e che
  insegnerete a questa vostra donna che un par mio si riceve in ogni
  momento, in ogni occasione.
  La Muldorff fece una profonda riverenza.
  — V. A. mi onora troppo con una sua visita, ancorchè sia affatto
  inaspettata e in ora tanto straordinaria.
  — Via, via, — disse il principe accostandosele con famigliare
  confidenza e prendendola ad un braccio. — Per quanto straordinaria
  l’ora, trattandosi di me... e di voi, non può dirsi inopportuna...
  Andiamo a sedere e discorrere più comodamente di là.
  — Ai suoi ordini, Altezza: — rispose la donna: — ma tutti questi
  signori?
  E il suo sguardo accennò all’Anviti e ai due gendarmi piantati sulla
  soglia.
  — Non datevene pensiero: — disse il duca. — Questi — (e accennò il
  colonnello) — è un mio fidatissimo, è un compagno... non sarà mai
  un impaccio: — aggiunse notando bene il significato delle parole con
  uno sguaiato sorriso. — Quei là sono due statue che non vedono, non
  sentono, e daranno segno della loro esistenza solamente in quanto noi
  vogliamo.
  — Altezza! — saltò su la donna con vivacità, — la mia povera casa non è
  un museo da statue, e le sarei riconoscentissima se la volesse liberare
  dalla presenza di quelle due, le quali qui non sarà mai il caso che
  abbiano a manifestare la loro esistenza.
  Il principe rise e voltosi ai due uomini, comandò loro:
  — Andatevene! _Dietro front!_... _Marche!_...
  I gendarmi obbedirono colla rapidità e colla precisione di vecchi
  soldati; ma l’Anviti fu accosto a loro in un lampo, e disse loro
  vivamente a bassa voce:
  — Non allontanatevi; rimanete qui sotto nel cortile della casa, e
  attendete finchè uscirà S. A. o vi darò io stesso altri ordini.
  I due uomini fecero il saluto militare e si dileguarono.
  La baronessa aprì l’uscio del salotto e accennando con atto di ossequio
  al duca disse:
  — V. A. si compiaccia di passare.
  Il principe varcò la soglia, seguìto dall’Anviti: e poi vedendo che la
  donna s’era fermata nell’antisala, si volse e le domandò sollecito:
  — E voi?
  — Vengo subito: dico una sola parola alla mia governante, e sono da V.
  A.
  Mise le labbra all’orecchio di quella donna e le sussurrò in fretta:
  — Aspetta nell’anticamera quell’altro; appena giunga, facendolo passare
  per la stanza da pranzo, menalo nella mia camera, e lasciavelo senza
  più: digli che abbia pazienza ed aspetti, e non aggiungervi una parola.
  E ciò detto, corse lesta a raggiungere l’augusto e poco rispettabile
  suo visitatore.
  In questo momento medesimo, Alfredo di Camporolle, abbandonato Michele,
  staccatosi dal conte di Valneve e dal Carra, penetrava nel vestibolo
  della casa e saliva trepidando le scale. Egli non vide i due gendarmi
  appostati nell’ombra, ma i due videro lui.
  Si consultarono un momento sommesso intorno a quello che avrebbero
  dovuto fare. Uno voleva arrestare issofatto questo nuovo venuto;
  l’altro, allegando che nessun ordine simile era loro stato
  dato, combattè tale partito e vinse. Alfredo potè giungere fino
  all’appartamento della baronessa, dove la donna appostata lo prese per
  mano e lo guidò senza parlare nel luogo che le era stato detto.
  
  
  XX.
  
  Il duca, appena entrato nel salotto, si tolse il mantello e apparve
  ancora vestito di nero, colla cravatta bianca e il cordone del Toson
  d’oro: in mano, secondo suo uso, aveva uno scudiscio, che si piaceva
  sempre ad agitare e far fischiare per aria. Tenne il cappello in
  testa, e prima di andarsi a sedere sulla poltrona che la baronessa gli
  additava presso al camino in cui ardeva un bel fuoco, piantato in mezzo
  alla stanza, diede una sguardata attenta e insolente tutt’intorno.
  — Corbezzoli! — esclamò battendo col suo scudiscio sui mobili: — tu sei
  qui alloggiata come una principessa...
  — Ne godo, perchè così il mio quartiere è meno indegno di ricevere un
  principe.
  Carlo III diede un lieve tocco della punta del suo scudiscio sulla
  guancia della donna: a suo credere quello era un atto carezzevole.
  — Ah birbona! — disse egli ridendo. — È forse per ricevere un principe
  che a quest’ora, all’una dopo la mezzanotte, tu ci hai acceso un simil
  fuoco nel caminetto del salotto, e hai fatto una acconciatura così
  conquistatrice? Non avrai già l’audacia di dire che aspettavi noi?
  — Non sono certo così scioccamente superba da essermi lusingata che V.
  A., non che venirmi ad onorare di una sua visita, pensasse pure a me.
  Il principe si sdraiò sulla poltrona, levò le gambe ad appoggiare i
  piedi sulle sculture del camino di marmo, nella positura che potrebbe
  avere uno stalliere o un americano, e battendosi collo scudiscio gli
  stivali e i pantaloni soggiunse:
  — Era dunque un altro che aspettavi, eh? sempre bella e scellerata
  peccatrice!... E codesto altro non può essere un principe, che di
  principi qui non ce n’è... nemmeno quel povero principe K... che t’ha
  cacciata nella... diciamo nella diplomazia... E sono curioso di sapere
  chi sia nella mia capitale il fortunato che ti ha fatta venire.
  La Zoe, forse per risparmiarsi la risposta, si voltò verso il
  colonnello Anviti.
  — E Lei, signore, s’accomodi.
  — Ah! non te l’ho presentato: — proruppe il duca: — è il conte Luigi
  Anviti, tenente-colonnello della mia gendarmeria, uomo fatto apposta
  per quella carica... e per me.
  L’Anviti si pose sopra una semplice seggiola a quattro passi più in là
  del duca, e disse con accento devoto di abile cortigiano:
  — Nessuno certo incontrerà mai S. A. che sia più fedele di me, più
  disposto a dare per Lei tutto il suo sangue.
  — Sicuro, sicuro! — esclamò il principe: — epperò questo bravo Anviti
  è la befana di quegli straccioni di liberali che l’odiano come i topi
  fanno del gatto... Va là, mio caro colonnello, che, se non ci fossi io
  e quei scellerati potessero averti nelle mani, ti farebbero passare un
  brutto quarto d’ora.
  Rise grossolanamente.
  — Oh! non ne dubito: — aggiunse, il conte, ridendo anche lui, forse
  con non troppa buona voglia: — ma per fortuna V. A. c’è e siamo noi che
  abbiamo quei scellerati nelle mani.
  — Li abbiamo!... Fra te e il Pancrazi sapete strappar per bene la
  gramigna delle velleità rivoluzionarie che tenta pullulare nel mio
  Stato. Il tuo principe K., mia cara Zoe, mi ha fatto un vero regalo
  designandomi per direttore di Polizia quel brutto muso del Pancrazi...
  Ma frattanto tu non hai risposto alla mia domanda, biricchina: chi è
  che stavi aspettando?
  — Nessuno: — rispose la baronessa. — V. A. sa come io ami vegliare la
  notte...
  — Sì... sei un animale notturno... come le civette: — interruppe il
  duca ridendo sguaiato.
  Il colonnello Anviti fece eco a quel riso: la donna schiuse le sue
  labbra color di sangue ad un leggero sorriso e senza parlare si chinò
  sul fuoco a rassettarvi colle molle i tizzi che bruciavano.
  — Ma ripeto, — continuò il duca, — che per vegliare da sola non si
  tiene un salotto come questo così galantemente illuminato, non si
  accende un fuoco come quello e non si fa un’acconciatura da tentatrice
  di S. Antonio come quella che tu porti.
  Zoe levò il capo e rispose lentamente, punto per punto, con una specie
  di pedanteria:
  — Io amo la _toilette_ per me medesima: anche stando sola ho bisogno
  d’un bel fuoco, perchè sono molto freddolosa: e benchè sia un animale
  notturno, come dice V. A., mi piace l’allegria della luce.
  — Insomma, non vuoi parlare... Già sei una ostinata, me lo ricordo
  bene... Ma anche col tuo silenzio, se noi vogliamo venir in chiaro
  della verità, bada che sapremo riuscirci. Abbiamo una Polizia, per la
  quale i muri delle case sono di vetro: non è vero, Anviti?
  L’interpellato fece un profondo inchino in segno d’assentimento.
  — Non ne dubito, — disse la donna con leggero accento d’ironia. — E io
  dunque lascio alla onniveggente Polizia di V. A. lo scoprire il segreto
  che non c’è.
  — È quasi una sfida che tu ci fai! — esclamò il duca. — Va
  benissimo!... Anviti, tocca a te a raccogliere il guanto. T’intenderai
  col Pancrazi, metterete in campo i vostri più abili e solerti agenti,
  e non sei che un minchione se domani stesso... anzi di questo medesimo
  giorno che è già incominciato, poichè siamo all’una e mezzo, tu non
  sai venirmi a dire perchè la Zoe è venuta a Parma e chi s’aspettava di
  ricevere questa notte.
  Il conte s’inchinò di nuovo profondamente.
  — V. A. ci conti sopra.
  La donna strinse al seno le braccia incrociate con aspetto di graziosa
  petulanza e disse lasciando volteggiare sulle sue labbra quel sorriso
  malizioso e beffeggiatore:
  — Vedremo... Quanto al motivo che mi ha condotta qui, presso V. A.,
  senza che s’incomodi menomamente la Polizia, sono io desiderosa di
  comunicarlo. Non sono ragioni leggiere e di galanteria, come V. A.
  sembra supporre, ma gravi e d’importanza, attinenti a quelle difficili
  e delicate incombenze che V. A. sa...
  — Sì, sì: — interruppe insolentemente il duca, battendosi gli stivali
  collo scudiscio. — Avevi già una buona corda al tuo arco, ghiotta e
  maliziosa creatura: la tua bellezza; e non ti è bastata, alla smania di
  guadagno che divora te... e i patrimoni di coloro che incappano nelle
  tue reti.
  La Zoe, sempre pallida, diventò ora d’un color cinerino, e il suo
  occhio scuro lanciò uno sguardo ratto, fulmineo, sulla tenda di seta
  di damasco che cadeva a larghe e ricche pieghe innanzi all’uscio della
  camera da letto.
  — Principe! — esclamò essa con tono tra di preghiera tra di minaccia.
  E il duca senza badarle continuava:
  — Hai voluto aggiungervi... a quell’arco micidiale... un’altra corda:
  ti sei fatta agente politico... esploratrice...
  La donna si alzò in piedi, e, interrompendo audacemente il principe,
  disse:
  — Altezza! Prima che Ella compia la sua frase, mi permetterà che io le
  consegni una lettera confidenzialissima del principe K.
  — Ah quel caro principe... Già, lui si crede di menare da Vienna le
  Polizie di tutta Europa. Son persuaso che egli di colà va certo di
  saperne più di me stesso intorno a quello che succede nella mia Parma
  medesima...
  — Forse! — esclamò la donna che andò ad un elegante stipetto di bronzo
  dorato posto sopra una mensola, e lo aprì con una chiavetta inglese che
  teneva appesa al collo per un cordoncino.
  — Fu il principe che ti arrolò nell’esercito numerosissimo de’ suoi...
  fidi stromenti, e ti fece subito generale... Già è un furbo volpone
  quello là... Ma non è il solo che sia abile, e noi pure.
  Zoe aveva tratto da quello stipetto una lettera in una busta
  accuratamente suggellata e venne a porgerla al duca.
  — Prenda e legga, Altezza.
  — Subito?
  — Sarà meglio.
  — Sono tentato di esclamare, come quello spartano a Tebe: A domani le
  cose serie.
  — Altezza! — esclamò l’Anviti, — se mi ricordo bene, a quello spartano
  gliene incolse male...
  — Bravo!... Cospetto, conte Luigi, tu ti ricordi ancora de’ tuoi studi
  elementari di storia.... Ebbene, in omaggio degli insegnamenti della
  storia elementare, apriamo subito il plico e assorbiamoci dieci minuti
  di noia nella prosa pseudo-francese di quel politicone tedesco.
  Ruppe il suggello, spiegò la carta contenuta nel plico, e, sdraiato
  come si trovava, alzando il foglio all’altezza degli occhi colla
  mano sinistra, mentre colla destra seguitava ad agitare lo scudiscio,
  cominciò a leggere quella lettera, scritta, com’egli aveva previsto,
  nel solito francese delle cancellerie diplomatiche.
  La donna venne lentamente a porsi ad un lato del camino, in guisa da
  poter vedere bene in faccia il principe: e là, appoggiando un gomito
  alla caminiera di marmo, il capo un po’ inclinato in avanti, lo sguardo
  fisso sul volto del duca, stette attentamente, quasi ansiosamente, a
  spiare le impressioni che avrebbe destate in lui la lettura di quello
  scritto.
  Da principio Carlo III lesse indifferentemente; poi parve interessarsi:
  a un punto scattò in piedi, percosse violentemente collo scudiscio
  il seggiolone più vicino, mandò una bestemmia, e all’Anviti, il quale
  s’era alzato anch’egli e guardava inquieto il suo principe, disse con
  voce turbata:
  — Sai quello che ci fa sapere la Polizia di Vienna? Che c’è una
  congiura qui contro di noi e che... mi si vuole assassinare.
  
  
  XXI.
  
  Il conte Luigi Anviti, tenente colonnello della gendarmeria parmense,
  mandò un grido d’orrore, fece l’atto di portare la mano all’elsa della
  sciabola che non aveva, essendo vestito in borghese, ed esclamò con
  tutto il calore di una profonda indignazione:
  — Impossibile!... Si calunnia Parma... Un simile scellerato non può
  esistere qui... Ma se mai ci fosse... per Dio, siamo in molti, e
  io primo fra tutti... che faremmo scudo del nostro petto a quello
  dell’amatissimo principe.
  — Eh! codeste sono frasi rettoriche: — disse con un po’ d’impazienza
  il duca. — L’importante è sapere se la congiura esiste realmente, e
  sventarla arrestando tutti i rei.
  — E facendogliela pagare a ognuno di essi con tutto il rigore che si
  meritano: — esclamò ferocemente il colonnello dei gendarmi.
  La donna non si era mossa: guardava sempre il duca con quello sguardo
  penetrativo e quel sorriso leggermente schernitore. Carlo III travide
  quello sguardo e quel sorriso, benchè tosto sparissero, appena egli
  volse gli occhi verso di lei; ruppe in una risata e gettando in aria la
  lettera del principe K. e poi cogliendola al volo con una sferzata del
  suo scudiscio, esclamò:
  — Ma che! È uno spauracchio di quel parruccone del principe... Eh,
  conosco anch’io le arti di Vienna!... Vogliono ottenere qualche
  cos’altra da me, e cercano prepararmivi con di queste rivelazioni di
  pericoli da loro inventati... Quantunque non so bene che cosa possano
  pretendere di più da noi che abbiamo oramai posto tutto il nostro Stato
  in loro balia... A ogni modo non ci credo, non ci credo, e m’infischio
  degli avvertimenti del principe.
  
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