La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 05
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— Lui! — esclamò con un sogghigno in cui c’era stupore, dispetto e la
solita allegria insieme. — Mi manda il buono! Possibile che mio padre e
mia madre non conoscano ancora che cattivo soggetto è costui!... Ma già
essi vivono in una sfera così superiore, in un mondo così diverso...
S’interruppe, e piegando trascuratamente il foglio per cacciarselo in
tasca, domandò al cameriere:
— Dov’è costui?
— Qui nella camera vicina.
— Ah va bene!... Abbi pazienza un momentino, Camporolle. Mi sbarazzo
in due parole di questo noioso... oh non ci perderò molto tempo, e poi
andremo.
Alfredo fece un segno che voleva dire all’amico s’accomodasse pure a
tutto suo talento.
Valneve uscì col cameriere, e dall’uscio rimasto aperto un momento
venne fino all’orecchio del Camporolle la voce dell’uomo che era venuto
in cerca d’Ernesto; la quale pronunziava chiaramente queste parole:
— Son io, signor conte.
Quella voce fece dare un balzo ad Alfredo. Egli la riconosceva, quella
voce: sì certo, gli era famigliare. Ma come l’uomo a cui apparteneva
tal voce era in relazione col conte di Valneve, e questi lo aveva detto
poc’anzi un cattivo soggetto?... Una pungente, irresistibile curiosità
assalì il giovane: egli fu d’un salto all’uscio socchiuso e udì il suo
nuovo amico dire a quell’uomo con un accento di profondo disprezzo:
— Ah vi riconosco, signor Matteo, caro, amabile e degno strozzino.
Matteo!... Anche il suo nome! Quell’uomo era colui che aveva tanto
operato, che aveva fatto tutto per l’allevamento, l’educazione,
l’istruzione, la condizione sociale d’Alfredo; era il misterioso suo
amico e protettore Matteo Arpione.
XIII.
Pel primo momento Alfredo volle ancora dubitare. Commise
l’indiscretezza di socchiudere leggermente l’uscio e di mettere
all’apertura prima l’orecchio, poi l’occhio per chiarirsi del tutto.
Il dubbio non era più possibile. Non capì pur una parola di quanto
quell’uomo diceva, ma la voce netta e distinta era dell’Arpione; la
luce di due candele che il cameriere aveva poste sopra una tavola
batteva di pieno sulla faccia di quell’uomo e quelle erano le fattezze
senza espressione, i tratti cascanti, gli occhi serpentini, la fronte
schiacciata, la bocca sottile, la pelle ulivigna di Matteo Arpione.
Il giovane sentì invadersi da capo a piedi d’un gelo. Colui che solo
al mondo gli aveva rappresentato fin’allora e gli rappresentava la
famiglia, da quel suo nuovo amico, del quale tutto gli faceva credere
alla franchezza e alla nobiltà, era detto un tristo, un cattivo
soggetto, era trattato con evidente disprezzo! Ma chi era dunque? Che
cosa faceva egli? Quali attinenze aveva con lui il conte Sangré? Per
che cosa egli era venuto a Parma?
Non potè molto tempo rimuginare siffatti pensieri, perchè l’uscio della
stanza vicina non tardò ad aprirsi, e la voce allegra del conte Ernesto
gli gridò:
— Vuoi venire, Camporolle? Ciò che abbiamo da fare ora mi preme più che
quello di cui mi ciancia quest’uomo.
Fu la volta per Matteo Arpione, — poichè era lui davvero, — di
trasalire e commuoversi. Quel nome di Camporolle, ch’egli non
s’aspettava mai più di udire in tal luogo, il comparire del giovane
che gli giungeva ancora più inatteso, lo turbarono profondamente, e
se il conte di Valneve avesse fatto attenzione a lui, avrebbe notato
quella sua subita commozione, come la vide Alfredo. Ma l’Arpione dominò
tosto il suo turbamento, ridiede alla sua faccia la solita apatica
tranquillità senza espressione, facendo però in fretta cogli occhi,
coll’atteggio delle labbra, colle mani un cenno, che era insieme di
preghiera e di comando, perchè il giovane non mostrasse di conoscerlo.
— Tornate domattina: — riprese il conte Ernesto volgendosi di nuovo a
Matteo sempre con quell’accento sprezzoso: — e allora potrò ascoltarvi;
ora vi ripeto di lasciarmi in libertà.
Pigliò il suo pastrano che era colà gettato sopra un sofà e fece per
vestirlo; Matteo accorse umilmente ad aiutarnelo, come avrebbe potuto
fare il più rispettoso dei domestici; e il conte Ernesto tollerò
quell’atto servile senza neanche mostrare d’accorgersene: ma quando fu
vestito e già col cappello in testa, Sangré di Valneve, toccatosi nelle
tasche del vestito e del pastrano, esclamò:
— O che testa! Facevo la solenne corbelleria d’uscire senza l’astuccio
dei sigari.... E non voglio mica andarne a comperare di que’ parmensi!
Corse di nuovo nell’altra stanza a cercare e prendere il portasigari.
Matteo colse questo tempo; guizzò lesto presso Alfredo e nell’atto di
aiutare anche lui a calzare il pastrano gli susurrò all’orecchio:
— Non mostri di conoscermi.... Non domandi neppure di me.... La
prego.... Domani mattina sarò da lei.... Son venuto apposta per
vederla, per parlarle... Le spiegherò tutto... Zitto!.... È qui il
conte.
E con un’agilità di cui non lo si sarebbe creduto capace, in un balzo
fu all’altro capo della stanza, prima che Ernesto, il quale apriva il
battente dell’uscio, fosse entrato.
L’ufficiale piemontese non fece più la menoma attenzione a Matteo;
prese amichevolmente il braccio di Alfredo, e, traendolo seco, si avviò
dicendo col suo solito piglio scherzoso:
— Andiamo alla pesca di quella balena... di acqua dolce.
Nell’anticamera trovò un cameriere.
— Andate a spegnere i lumi nel mio quartierino, — gli disse, — e
chiudete per bene. Naturalmente, metterete fuori quell’uomo che ci si
trova.
I due giovani, tenendosi così a braccetto, uscirono dalla locanda e
camminarono un poco in silenzio, preoccupati ambedue. La venuta di
quell’uomo, per ragioni diverse, aveva turbato l’uno e l’altro.
Fu Alfredo che ruppe il primo il silenzio, non potendo resistere più
oltre alla penosa curiosità che lo travagliava.
— Colui che è venuto a parlarti poc’anzi... quell’Arpione....
Ernesto lo interruppe stupito:
— Tu lo conosci? — domandò.
Camporolle esitò un momento. Dire la bugia rincresceva al suo carattere
leale; ma le parole che Matteo gli aveva dette, l’atto supplichevole
che gli aveva fatto perchè tacesse che fra loro correva qualche
relazione, lo rendevano pure riguardoso a confessare la verità.
— No; — rispose dopo un pochino e volgendo in là il capo a nascondere
al suo compagno la confusione che questa bugia gli metteva sulla faccia
aperta e sincera.
— E in che modo ne sai il nome?
— L’ho udito da te... questa sera... quando gli parlavi, a quel cotale.
— Ah sì?... È proprio un arpione, che disgraziato chi vi resta preso...
Tanto meglio che tu non lo conosca, e t’auguro che tu non abbia mai da
far nulla con lui.
Alfredo si sentì venir pallido.
— È dunque proprio qualche cosa di brutto e di cattivo? — domandò con
accento che si sforzò di rendere il più possibile indifferente.
— Tutto quello che v’ha di più brutto e di più cattivo... fuori del
delitto... Oh quanto a delitti propriamente detti secondo la legge,
no; il sor Matteo è troppo furbo per dar del naso in un articolo
qualsiasi del Codice penale... Ma dove non può o non vuole arrivare la
spada della legge, oh lascia fare a lui! Non c’è altri capace al pari
di lui di impiccare uno scapato giovanotto, di dissanguare un povero
sventurato di padre, di mettere sul lastrico una famiglia intiera.
La favola del ragno e dei moscerini è vecchia come il mondo, ma è
sempre giusta e conviene a costui come lo scarpino di raso al piede
della Carlotta. Guai ai moscerini che incappano nella sua tela; non ne
scappano più finchè abbiano dato all’ingordo animale fin l’ultimo loro
succhio.
— Ma come?... — mormorò Alfredo che si rifiutava a capire e che sentiva
turbarsi sempre più l’animo e impallidirsi il volto.
— Non comprendi? Oh bisogna dire che tu hai avuto una gran fortuna,
quella di non conoscere questa razza di iene codardamente feroci, per
non intender subito che io voglio dirti che quello è il più scellerato,
sfacciato, implacabile, mostruoso, spregievole, vigliacco, miserabile
usuraio del mondo.
Alfredo trattenne a stento un’esclamazione di dolorosa, indignata
sorpresa; curvò il capo come se su di sè pure sentisse a gravare
l’infamia di quell’uomo al quale, suo padre, ch’egli non aveva
conosciuto, aveva commesso di vegliare su di lui.
— Ma lasciamo stare questo discorso, che è molto uggioso: — disse
Ernesto crollando il capo come per iscacciarne spiacevoli pensieri; —
e affrettiamo il passo per arrivare in tempo a cogliere alla posta il
nostro dromedario austriaco.
Camminarono un poco in silenzio, e poi Alfredo, a cui di colpo era
venuto un sospetto, disse a un tratto:
— E certo quel... quell’usuraio è venuto a perseguitarti fin qui per
qualche tuo debito....
— Bravo! — interruppe Ernesto ridendo. — Hai indovinato perfettamente.
Quel furbo scellerato mette bene innanzi anche un altro pretesto... Ed
è tanto accorto, e il mio severo padre e la mia santa madre sono tanto
buoni, che se ne lasciarono abbindolare; ma la vera, essenziale ragione
del suo viaggio fin qui è quella che dici tu....
— E.... — riprese Alfredo impacciato da ciò che voleva e non osava
pur dire: — e tu.... scusami se ardisco farti questa domanda.... Ma la
nostra amicizia, benchè così recente, è pur già così viva che spero mi
perdonerai.... tu....
— Vuoi dire se sono in condizione di poterlo pagare? — interruppe
Ernesto che vide come il suo nuovo amico stentasse a cavarsene i piedi,
e sentì la vera e non isterile affezione che ispirava quella domanda ad
Alfredo.
— Ecco, appunto! — mormorò quest’ultimo; — perchè, se mai.... si sa
bene.... tutti noi giovani ci possiamo trovare in certi momenti.... io
ora sarei in grado di levarti d’impiccio.
Ernesto gli strinse la pano con viva cordialità.
— Grazie! — rispose. — Dove mi occorresse, approfitterei certo della
tua offerta così generosamente spontanea. Ma per questa volta, spero,
anzi quasi sono certo che mi potrò aggiustare senza aiuti estranei...
S’interruppe per fermarsi a guardare intorno ad osservare bene i luoghi.
— Sta!.... Se non mi sbaglio, siamo giunti alla meta... Questa mi pare
la casa dove abita la Carlotta.... Sicuro, è proprio quella; e quei
lumi colà al terzo piano raggiano dal suo quartiere.... Andiamo: il
bufalo o ci è già o non tarderà a venire.
E preso pel braccio Alfredo, si cacciò in una porticina e ambidue
salirono fino al terzo piano. In quella appunto l’alta statura
del capitano von Klernick si disegnava nella penombra della strada
scantonando dall’angolo più vicino e si dirigeva verso la porticina
della casa dove abitava la danzatrice milanese.
XIV.
Alfredo ed Ernesto saliti al terzo piano penetrarono nel quartiere
della ballerina. Fin dall’anticamera udirono un vivace discorrere
che pareva quasi un battibecco fra due voci, una di maschio e una di
femmina: e il conte di Valneve domandò alla serva, che aveva aperto
l’uscio di casa, se già colla Carlotta ci fosse il capitano austriaco.
— No signore: — rispose la fantesca, — è un altro... un giovane di
qui... un cugino della signora.
— Ho capito! — esclamò Ernesto colla sua fine ironia. — Un cugino?...
Ammirabile!... Oh vera sapienza eterna dei proverbi! Fra i due
litiganti eccetera... Io e quell’obelisco d’ulano siamo i due, ed ecco
spuntare il terzo. Ma con mio grande rammarico, mia cara ragazza, io
sono obbligato a disturbare quell’animato colloquio della Penelope tua
padrona con codesto cugino della razza dei Proci, e valle a dire che
son qui e che voglio subito subito parlarle.
Sotto la gentilezza (da cui non si dipartiva mai) delle maniere,
l’ufficiale piemontese seppe porre tanta autorità di comando, che
la serva senza fare la menoma osservazione, andò subito a recar
l’ambasciata.
Si udì tosto cessare affatto le due voci che così vivamente
discorrevano; ma dopo un breve istante in cui un bisbiglio indicava che
si erano scambiate alcune parole sommesse fra la padrona e la serva,
scoppiò di nuovo e più alta e concitata la voce dell’uomo che gridò:
— Alla croce di Dio!... Parlate forte dannate femmine... Chi è venuto?
Chi è che aspetta di là?... È forse già quel maledetto croato? Che sì
che lo ricevo io e lo faccio scender giù delle scale in minor tempo di
quel che ci abbia messo a salire.
— Oh oh! — esclamò ridendo il conte di Valneve. — L’austriaco dà sui
nervi anche a costui!... Vuol farlo saltar dalle scale! Ma ei non sa
dunque che montagna sia quel tentativo di gigante!
S’udì nella camera vicina il passo affrettato d’un uomo che si
appressava all’uscio dell’anticamera: ma la ballerina dovette mettersi
innanzi a quel cotale.
— No, no, — disse la voce di lei; — non è l’ulano... è un ufficiale
piemontese.
Queste parole parvero calmare affatto quell’uomo.
— Ah! un piemontese.... Meno male! — disse. — Del male ce n’è; e vedi,
Carlotta, darei non so che cosa perchè la figliuola della sorella di
mia madre lasciasse il palco scenico e la vita che conduce... Ma quando
poi penso che un austriaco... Giuraddio!
Ernesto guardò Alfredo con qualche meraviglia.
— Sta a vedere che questo è proprio un cugino per davvero, e che ha
tanto buon senso da odiare gli austriaci... Se pure codesta non è tutta
una commedia... Appunto, andiamo un po’ a vedere.
Aprì risolutamente l’uscio ed entrò con passo franco nella stanza
vicina, seguito da Alfredo.
— Scusino, — disse colla sua solita gentile giocosità, fissando ben
bene in volto i personaggi che si trovò dinanzi, — scusino se entro,
anzi se entriamo così, senza altre formalità: ma il torto è di queste
pareti di cartapesta e di questi ambienti larghi un palmo, che lasciano
udire in una stanza tutto quello che si fa e che si dice nella stanza
vicina. Invece di assistere al vostro colloquio non visti, ho pensato
più leale il mostrarci addirittura. Parlo anche per questo mio amico
che vi presento, Carlotta: il conte Alfredo di Camporolle, il quale
ha consentito ad assistermi in una certa occasione che son venuto a
cercare qui in casa vostra.
La ballerina fece un bell’inchino e regalò un grazioso sorriso
al giovane Alfredo. Era essa una donna di poco più che vent’anni,
belloccia, grassotta, volgaruccia, con occhi vivaci, labbra carnose e
quel non so che di piacevole e di voluttuoso che hanno quasi tutte le
milanesi.
L’uomo che era insieme con lei, giovane eziandio, certo non ancora
trentenne, incrociò le braccia al petto, corrugò molto fieramente
le sopracciglia e guardò con aria di fermezza e quasi di sfida i due
nuovi venuti. Non molto alto di statura, ma tarchiato, a spalle larghe,
con testa riccioluta e piuttosto grossa, ben piantata per un collo
taurino sopra un torace ampio e bene sviluppato, quel giovane aveva un
singolare aspetto di robustezza e di forza; e a questo vigore fisico
mostravano che corrispondeva anche quello morale le linee ferme delle
fattezze e della fronte, e sopratutto lo sguardo ardito, fiero, in
certi momenti quasi avreste detto feroce.
Ernesto lo esaminò con quel suo piglio sciolto e tutto franchezza, e
sorridendo disse a mezza voce ad Alfredo che gli era vicino:
— Corbezzoli! Questo pezzo di giovane è proprio capace di _me culbuter_
quel falso Golia là.
— Signori, — disse il giovane parmigiano avanzandosi d’un passo verso i
due conti, — io sono Pietro Carra sellaio; e costei è mia cugina.
— Me ne rallegro molto... con la signora Carlotta: — rispose Ernesto
di Valneve al solito gentile ed ameno. — Io sono Sangré di Valneve,
capitano delle guardie del Re di Sardegna. Sua cugina, l’ho conosciuta
a Torino; l’ho riconosciuta a Milano, e essendo qui di passaggio,
mi prendo la libertà di venirla a riconoscere a Parma. L’ora di
presentarmi per una visita non è molto opportuna, ma non ci avevo la
scelta: prima di tutto la Polizia parmense mi ha intimato di partirmene
domani da questi felicissimi Stati; poi... mia cara Carlotta, voi mi
permetterete d’essere affatto sincero: non sono venuto unicamente pel
piacere di vedervi, quantunque questo piacere mi fosse graditissimo,
ma son venuto eziandio perchè qui in casa vostra soltanto avrei potuto
avere la soddisfazione di dire due parole in tutta libertà a quel caro
torrione degli ulani austriaci von Klernick.
A questo nome Pietro Carra digrignò i denti e volse un’occhiataccia
rabbiosa alla cugina.
E questa sollecita:
— Ah signor conte! non mi parli di quel noiosissimo, seccante,
intollerabile tedesco... Ne ho proprio fino al di sopra dei capelli, di
colui... Mio cugino che si crede in dovere di farmi una scena, ma che
scena!... perchè nella città corrono voci che riguardano lui e me...
Come se si avesse da credere alle voci della gente!... Dica lei, signor
conte, che è stato a Milano, se io quel tedescaccio l’ho mai ricevuto
bene... Figurati Pietro, — soggiunse rivolgendosi di nuovo al cugino, —
che quel prepotente non voleva neppure ch’io venissi a Parma, e io gli
ho dato retta così bene che eccomi qua... Non è vero, signor conte?
— Verissimo: — rispose Ernesto con un leggero inchino e sorridendo
finamente ironico a suo modo.
— Or dunque, nè anco qui non lo riceverai per Dio! — gridò il Carra con
impeto. — Un austriaco!... Giuro al cielo! Lo strozzerei colle mie mani
se lo incontrassi qui.
— Bravo! — esclamò allegramente il conte di Valneve tendendo innanzi,
per moto quasi istintivo, la sua mano verso il giovine operaio. — Lei
non ama quella razza di gente.
Pietro Carra prese vivamente quella mano che gli era pôrta e la strinse
con forza.
— Ah! Lei mi capisce? — gridò: — li odio quelli là... e tutti gli
oppressori della nostra patria... E se mai si presenta l’occasione...
— Meneremo le mani: — aggiunse scherzevolmente il conte piemontese.
— Oh! se le meneremo! — concluse l’operaio.
La fisonomia di costui s’era illuminata d’un certo raggio di ardimento
e insieme di sicurezza, che lo faceva più bello, più piacevole, più
giovane. Ernesto, osservandolo in quel punto, fu colpito da una cosa
che sin allora non aveva notata, ed era una certa rassomiglianza fra
la figura robusta, fiera, anche un po’ rozza dell’operaio, e quella
gentile, delicata, elegante del suo nuovo amico il conte di Camporolle.
Si volse in fretta a guardare quest’ultimo per giudicare se la sua era
un’illusione, e in quel punto vide proprio che quantunque uno fosse
biondo e l’altro bruno, quegli sottile e spigliato, questi atticciato e
membruto, nei tratti del volto, nell’espressione dello sguardo e nella
piegatura delle labbra c’era qualche cosa di simile.
— Che bizzarria del caso! — pensò Ernesto, che poi non si preoccupò
altrimenti di questa strana combinazione.
La Carlotta saltò su a riprotestare che ella dell’austriaco non sapeva
che farsi e che non lo avrebbe ricevuto.
In quella s’udì una forte scampanellata e la ballerina cambiò colore.
— È qui il nostro elefante, — disse Ernesto: — per questa volta, cara
Carlotta, farete una eccezione e lo riceverete ancora per farmi un
piacere.
La serva andò ad aprire, e si udì nella stanza vicina un passo pesante
che si avvicinava.
— Ecco il terremoto! — esclamò Valneve. — La montagna viene a noi, più
felici che Maometto... Godo che al mio colloquio con quel colosso sia
presente anche il signor Carra.
Questi fece un saluto col capo; l’uscio si aprì e nel vano della porta
comparve la gigantesca figura dei capitano von Klernick, ancora in
tutto lo splendore del suo uniforme; ma vedendosi innanzi quei tre
uomini che egli non si aspettava di trovare, l’austriaco si fermò
di colpo, fece scorrere uno sguardo fra sospettoso e minaccioso
tutt’intorno e portò la mano all’impugnatura della sua lunga e grossa
sciabolona.
XV.
— Avanti! Avanti signor capitano! — gridò allegramente il conte di
Valneve. — Non c’è da stupirsi tanto a vederci qui. Io, a venirci,
ho diritto quanto, se non più, di lei: questo signore — e accennò
Alfredo — è un mio amico, il conte di Camporolle, ch’io ho pregato
d’accompagnarmi; e quest’altro — additò Pietro Carra, — ha più di tutti
noi il diritto di trovarcisi, perchè è cugino della Carlotta.
Il capitano austriaco non istaccò la mano dall’elsa.
— Dunque? — disse roteando terribilmente i suoi occhiacci. — Dunque io
qui son caduto in un _guet-à-pens?_
— _Guet-à-pens_ niente affatto... Qui la non trova che gente onorata,
non birri nè commissari di Polizia come quelli nelle cui mani la sua
generosa rivalità ha voluto darmi e a Milano e qui... Gente onorata,
in cospetto della quale io, poichè ho il bene di poterle parlare
liberamente, vengo a chiederle conto e ragione del suo modo di
procedere a mio riguardo, che mi permetto di qualificare poco civile,
indegno d’un militare onorato, villano e peggio.
Von Klernick era diventato scarlatto dalla collera.
— Signor!... Signor conte!... Voi m’insultate...
— Avete la compiacenza di sospettarlo? Che degnazione di furberia e che
miracolo di penetrazione!... Ma non è esatto nè anche questo. Io non
faccio che qualificare il vostro contegno verso di me, che fu sempre
tutto una provocazione ed un insulto.
L’austriaco, dominata alquanto la sua collera, guardò dall’alto al
basso il piemontese.
— Ma che cosa volete? Che pretendete da me? Forse che io mi batta con
voi?
— Siete davvero in vena di prodigi stassera in fatto d’intelligenza!
L’ulano sembrò esitare un momento.
— Eh via! — disse poi, — io non posso battermi.
— No? — esclamò col massimo stupore Valneve. — Ah! eccelso capitano,
io non sono un miracolo di acutezza mentale come siete voi, e ho
bisogno che aiutiate un pochino il mio comprendonio. Perchè non potete
battervi?
— Non siete voi ufficiale piemontese?
Ernesto Sangrè levò con atto fiero la testa.
— Sì signore.
— E dunque a noi ufficiali austriaci è proibito di batterci con
ufficiali stranieri, senza prima averne ottenuto il permesso.
Una intensa rabbia cominciava a salire dal petto al cervello del conte
di Valneve; ma pure si dominava tuttavia; solamente i pomelli delle
guancie gli erano diventati un po’ più rossi, i suoi piccoli denti
bianchi morsicchiavano i baffetti e la destra tormentava il pizzo di
barba castagno che gli ornava il mento.
— Ah sì? — disse. — Ma se aveste codesto permesso, voi non esitereste
più a battervi con me?
L’austriaco dall’alto della sua elevata statura gettò uno sguardo
quasi di compassionevole disprezzo sul piccolo ufficiale piemontese, e
rispose con un sogghigno:
— Se voi ci tenete assolutamente.
— Oh sarebbe un gusto così squisito!... Voi quindi domandereste quel
permesso?
— Lo domanderei.
— Ma ci vorrebbero almeno cinque o sei giorni, prima che se ne avesse
la risposta.
— Ci vorrebbero.
— E me domani la Polizia di Parma fa partire dai felici dominii di S. A.
— _Ja!_
— E dubito che voi spingiate la compiacenza sino a venire a farmi una
visita a Torino.
— A Torino?... certo no.
— E dunque sapete come da me e dalla gente che ha cuore si chiamano
codeste, per dirla alla francese, _défaites_? Lo sapete?
— So niente io.
— Ne sono persuaso. Riguardo a questo, per quanto poco dotto anch’io,
ho la fortuna di potervi istrurre del vero nome che si meritano. Si
chiamano e sono viltà d’uomo che ha paura ed è indegno di vestire
un’uniforme onorata.
L’ulano, che era già color di papavero, diventò pavonazzo; sparò una
grossa bestemmia tedesca e fece due passi concitati colle mani enorme
protese per ghermire il suo oltraggiatore dalla statura piccina.
Ernesto di Valneve afferrò ratto una seggiola e la brandì, pronto
a scaraventarla sulla grossa testa dell’austriaco se gli arrivava
addosso: Alfredo si slanciò al fianco dell’amico per difenderlo; ma il
colosso austriaco venne fermato di botto da una mano che lo strinse al
polso destro, proprio come una morsa di ferro.
— Ah! non facciamo violenze, signor croato! — gli disse una voce secca,
freddamente minacciosa: — perchè se Lei ci si prova, potrà trovarsene
ripagato a buona misura.
Von Klernick si volse e si vide dinanzi la figura risoluta, energica,
robusta di Pietro Carra, che gliene impose, come già lo metteva in
suggezione la forza con cui si sentiva stretto il polso.
— Mi batterò, — disse liberando a stento il suo braccio; — oh se mi
batterò... e fino all’ultimo sangue.
— Così va bene: — soggiunse Ernesto riprendendo tutta la sua gentile
finezza di modi. — Gliene sarò grato come di un favore. Ma bisognerà
far presto, e se il signor capitano me lo permette, le dirò quello che
ho già immaginato meco stesso a quest’effetto.
— Dite, dite pure: — gridò l’austriaco sbuffando.
— E sono persuaso che troverà le mie condizioni accettabili.
— Accetto, accetto tutto! — gridò von Klernick più sbuffante che mai.
— Come la è gentile!... Ecco dunque il mio disegno. Domattina per
tempissimo, Lei signor capitano con due testimonii, che non avrà
difficoltà nessuna di trovare fra i tanti suoi amici ufficiali del
valoroso esercito parmense, io con questi due signori che mi faranno il
favore di servirmi da testimoni a me... — Si volse prima verso il conte
di Camporolle, poi verso Pietro Carra; e l’uno e l’altro s’inchinarono
in segno di assentimento; Ernesto continuò: — partiamo tutti per Castel
San Giovanni, che trovasi alla frontiera del ducato verso il Piemonte,
vi ci batteremo con tutta quella serietà che desidero e che piace
anche al signor von Klernick, e dopo il fatto, se io ho la fortuna
di allungar per terra il mio nobile avversario, come n’ho quasi la
certezza...
L’austriaco fece un sogghigno che voleva essere di scherno, ma che
rivelava una irritazione niente affatto tranquilla.
— Ebbene, — continuava di Valneve, — faccio un passo e sono subito in
Piemonte, come desidera la buona Polizia del duca e come converrà molto
anche a me. Se invece il signor von Klernick avrà il sopravvento, cosa
che mi pare difficile, egli potrà a sua volta o tornare a Parma dove
non sarà certo inquietato, ma esaltato come un eroe, o andarsene a
Milano, dove non sarà accolto meno bene, quantunque non abbia ottenuto
quel certo permesso di battersi, di cui si parlava poc’anzi. Va bene
così?
— Va bene: — grugnì l’avversario: — non c’è più da stabilire che le
armi... e queste le scelgo io.
— Perdoni! — interruppe con tutta gentilezza il conte Sangré: — la
scelta spetta a me. Sono io che da un mese in qua la S. V. fa di tutto
per insultare.
— Io? — esclamò l’austriaco rotando i suoi occhi chiari.
— Sono io che ora, qui stesso, ho ricevuto una grossolana minaccia da
vossignoria, che ha dimenticato, come pare non le accada tanto di raro,
ogni precetto di buona educazione...
— _Der Teufel!_ — gridò von Klernick, venendo di nuovo scarlatto in
volto.
— È dunque mio diritto scegliere l’arma; e scelgo la spada... anzi,
per far meglio, due fioretti appuntati, che sono lo strumento più
agile, più sicuro, più bellino, più quieto per passarsi fuor fuori due
individui che abbiano una matta voglia di mandarsi reciprocamente nel
mondo di là.
— No signore: — gridò l’austriaco sempre più rosso e facendo girare
sempre più convulsamente quei suoi occhi da gufo; — no signore, non
accetto... Non già che io mi dia pensiero di battermi più con questa
che con quell’arma... Con qualunque son capace di dare a chicchessia la
lezione che si merita.
— Vedremo all’opera il signor professore: — disse ironicamente il
piemontese, con un leggero inchino.
— Ma ci ho un diritto, — continuava von Klernick, — e non voglio
rinunziarvi per Dio! la mia arma sarà la sciabola.
— Bene, bene, non si scaldi: — esclamò allora il conte di Sangré.
— Lei vuole la sciabola che è arma a lei più favorevole per la sua
statura....
— No signore! La voglio perchè....
— La vuole... E io sono così condiscendente da non contrariarla più
oltre. Sia pure la sciabola; ma escluso nessun colpo, non è vero?
— Escluso nessun colpo.
— Prosecuzione del combattimento finchè sia reso impossibile ad una
delle parti.
solita allegria insieme. — Mi manda il buono! Possibile che mio padre e
mia madre non conoscano ancora che cattivo soggetto è costui!... Ma già
essi vivono in una sfera così superiore, in un mondo così diverso...
S’interruppe, e piegando trascuratamente il foglio per cacciarselo in
tasca, domandò al cameriere:
— Dov’è costui?
— Qui nella camera vicina.
— Ah va bene!... Abbi pazienza un momentino, Camporolle. Mi sbarazzo
in due parole di questo noioso... oh non ci perderò molto tempo, e poi
andremo.
Alfredo fece un segno che voleva dire all’amico s’accomodasse pure a
tutto suo talento.
Valneve uscì col cameriere, e dall’uscio rimasto aperto un momento
venne fino all’orecchio del Camporolle la voce dell’uomo che era venuto
in cerca d’Ernesto; la quale pronunziava chiaramente queste parole:
— Son io, signor conte.
Quella voce fece dare un balzo ad Alfredo. Egli la riconosceva, quella
voce: sì certo, gli era famigliare. Ma come l’uomo a cui apparteneva
tal voce era in relazione col conte di Valneve, e questi lo aveva detto
poc’anzi un cattivo soggetto?... Una pungente, irresistibile curiosità
assalì il giovane: egli fu d’un salto all’uscio socchiuso e udì il suo
nuovo amico dire a quell’uomo con un accento di profondo disprezzo:
— Ah vi riconosco, signor Matteo, caro, amabile e degno strozzino.
Matteo!... Anche il suo nome! Quell’uomo era colui che aveva tanto
operato, che aveva fatto tutto per l’allevamento, l’educazione,
l’istruzione, la condizione sociale d’Alfredo; era il misterioso suo
amico e protettore Matteo Arpione.
XIII.
Pel primo momento Alfredo volle ancora dubitare. Commise
l’indiscretezza di socchiudere leggermente l’uscio e di mettere
all’apertura prima l’orecchio, poi l’occhio per chiarirsi del tutto.
Il dubbio non era più possibile. Non capì pur una parola di quanto
quell’uomo diceva, ma la voce netta e distinta era dell’Arpione; la
luce di due candele che il cameriere aveva poste sopra una tavola
batteva di pieno sulla faccia di quell’uomo e quelle erano le fattezze
senza espressione, i tratti cascanti, gli occhi serpentini, la fronte
schiacciata, la bocca sottile, la pelle ulivigna di Matteo Arpione.
Il giovane sentì invadersi da capo a piedi d’un gelo. Colui che solo
al mondo gli aveva rappresentato fin’allora e gli rappresentava la
famiglia, da quel suo nuovo amico, del quale tutto gli faceva credere
alla franchezza e alla nobiltà, era detto un tristo, un cattivo
soggetto, era trattato con evidente disprezzo! Ma chi era dunque? Che
cosa faceva egli? Quali attinenze aveva con lui il conte Sangré? Per
che cosa egli era venuto a Parma?
Non potè molto tempo rimuginare siffatti pensieri, perchè l’uscio della
stanza vicina non tardò ad aprirsi, e la voce allegra del conte Ernesto
gli gridò:
— Vuoi venire, Camporolle? Ciò che abbiamo da fare ora mi preme più che
quello di cui mi ciancia quest’uomo.
Fu la volta per Matteo Arpione, — poichè era lui davvero, — di
trasalire e commuoversi. Quel nome di Camporolle, ch’egli non
s’aspettava mai più di udire in tal luogo, il comparire del giovane
che gli giungeva ancora più inatteso, lo turbarono profondamente, e
se il conte di Valneve avesse fatto attenzione a lui, avrebbe notato
quella sua subita commozione, come la vide Alfredo. Ma l’Arpione dominò
tosto il suo turbamento, ridiede alla sua faccia la solita apatica
tranquillità senza espressione, facendo però in fretta cogli occhi,
coll’atteggio delle labbra, colle mani un cenno, che era insieme di
preghiera e di comando, perchè il giovane non mostrasse di conoscerlo.
— Tornate domattina: — riprese il conte Ernesto volgendosi di nuovo a
Matteo sempre con quell’accento sprezzoso: — e allora potrò ascoltarvi;
ora vi ripeto di lasciarmi in libertà.
Pigliò il suo pastrano che era colà gettato sopra un sofà e fece per
vestirlo; Matteo accorse umilmente ad aiutarnelo, come avrebbe potuto
fare il più rispettoso dei domestici; e il conte Ernesto tollerò
quell’atto servile senza neanche mostrare d’accorgersene: ma quando fu
vestito e già col cappello in testa, Sangré di Valneve, toccatosi nelle
tasche del vestito e del pastrano, esclamò:
— O che testa! Facevo la solenne corbelleria d’uscire senza l’astuccio
dei sigari.... E non voglio mica andarne a comperare di que’ parmensi!
Corse di nuovo nell’altra stanza a cercare e prendere il portasigari.
Matteo colse questo tempo; guizzò lesto presso Alfredo e nell’atto di
aiutare anche lui a calzare il pastrano gli susurrò all’orecchio:
— Non mostri di conoscermi.... Non domandi neppure di me.... La
prego.... Domani mattina sarò da lei.... Son venuto apposta per
vederla, per parlarle... Le spiegherò tutto... Zitto!.... È qui il
conte.
E con un’agilità di cui non lo si sarebbe creduto capace, in un balzo
fu all’altro capo della stanza, prima che Ernesto, il quale apriva il
battente dell’uscio, fosse entrato.
L’ufficiale piemontese non fece più la menoma attenzione a Matteo;
prese amichevolmente il braccio di Alfredo, e, traendolo seco, si avviò
dicendo col suo solito piglio scherzoso:
— Andiamo alla pesca di quella balena... di acqua dolce.
Nell’anticamera trovò un cameriere.
— Andate a spegnere i lumi nel mio quartierino, — gli disse, — e
chiudete per bene. Naturalmente, metterete fuori quell’uomo che ci si
trova.
I due giovani, tenendosi così a braccetto, uscirono dalla locanda e
camminarono un poco in silenzio, preoccupati ambedue. La venuta di
quell’uomo, per ragioni diverse, aveva turbato l’uno e l’altro.
Fu Alfredo che ruppe il primo il silenzio, non potendo resistere più
oltre alla penosa curiosità che lo travagliava.
— Colui che è venuto a parlarti poc’anzi... quell’Arpione....
Ernesto lo interruppe stupito:
— Tu lo conosci? — domandò.
Camporolle esitò un momento. Dire la bugia rincresceva al suo carattere
leale; ma le parole che Matteo gli aveva dette, l’atto supplichevole
che gli aveva fatto perchè tacesse che fra loro correva qualche
relazione, lo rendevano pure riguardoso a confessare la verità.
— No; — rispose dopo un pochino e volgendo in là il capo a nascondere
al suo compagno la confusione che questa bugia gli metteva sulla faccia
aperta e sincera.
— E in che modo ne sai il nome?
— L’ho udito da te... questa sera... quando gli parlavi, a quel cotale.
— Ah sì?... È proprio un arpione, che disgraziato chi vi resta preso...
Tanto meglio che tu non lo conosca, e t’auguro che tu non abbia mai da
far nulla con lui.
Alfredo si sentì venir pallido.
— È dunque proprio qualche cosa di brutto e di cattivo? — domandò con
accento che si sforzò di rendere il più possibile indifferente.
— Tutto quello che v’ha di più brutto e di più cattivo... fuori del
delitto... Oh quanto a delitti propriamente detti secondo la legge,
no; il sor Matteo è troppo furbo per dar del naso in un articolo
qualsiasi del Codice penale... Ma dove non può o non vuole arrivare la
spada della legge, oh lascia fare a lui! Non c’è altri capace al pari
di lui di impiccare uno scapato giovanotto, di dissanguare un povero
sventurato di padre, di mettere sul lastrico una famiglia intiera.
La favola del ragno e dei moscerini è vecchia come il mondo, ma è
sempre giusta e conviene a costui come lo scarpino di raso al piede
della Carlotta. Guai ai moscerini che incappano nella sua tela; non ne
scappano più finchè abbiano dato all’ingordo animale fin l’ultimo loro
succhio.
— Ma come?... — mormorò Alfredo che si rifiutava a capire e che sentiva
turbarsi sempre più l’animo e impallidirsi il volto.
— Non comprendi? Oh bisogna dire che tu hai avuto una gran fortuna,
quella di non conoscere questa razza di iene codardamente feroci, per
non intender subito che io voglio dirti che quello è il più scellerato,
sfacciato, implacabile, mostruoso, spregievole, vigliacco, miserabile
usuraio del mondo.
Alfredo trattenne a stento un’esclamazione di dolorosa, indignata
sorpresa; curvò il capo come se su di sè pure sentisse a gravare
l’infamia di quell’uomo al quale, suo padre, ch’egli non aveva
conosciuto, aveva commesso di vegliare su di lui.
— Ma lasciamo stare questo discorso, che è molto uggioso: — disse
Ernesto crollando il capo come per iscacciarne spiacevoli pensieri; —
e affrettiamo il passo per arrivare in tempo a cogliere alla posta il
nostro dromedario austriaco.
Camminarono un poco in silenzio, e poi Alfredo, a cui di colpo era
venuto un sospetto, disse a un tratto:
— E certo quel... quell’usuraio è venuto a perseguitarti fin qui per
qualche tuo debito....
— Bravo! — interruppe Ernesto ridendo. — Hai indovinato perfettamente.
Quel furbo scellerato mette bene innanzi anche un altro pretesto... Ed
è tanto accorto, e il mio severo padre e la mia santa madre sono tanto
buoni, che se ne lasciarono abbindolare; ma la vera, essenziale ragione
del suo viaggio fin qui è quella che dici tu....
— E.... — riprese Alfredo impacciato da ciò che voleva e non osava
pur dire: — e tu.... scusami se ardisco farti questa domanda.... Ma la
nostra amicizia, benchè così recente, è pur già così viva che spero mi
perdonerai.... tu....
— Vuoi dire se sono in condizione di poterlo pagare? — interruppe
Ernesto che vide come il suo nuovo amico stentasse a cavarsene i piedi,
e sentì la vera e non isterile affezione che ispirava quella domanda ad
Alfredo.
— Ecco, appunto! — mormorò quest’ultimo; — perchè, se mai.... si sa
bene.... tutti noi giovani ci possiamo trovare in certi momenti.... io
ora sarei in grado di levarti d’impiccio.
Ernesto gli strinse la pano con viva cordialità.
— Grazie! — rispose. — Dove mi occorresse, approfitterei certo della
tua offerta così generosamente spontanea. Ma per questa volta, spero,
anzi quasi sono certo che mi potrò aggiustare senza aiuti estranei...
S’interruppe per fermarsi a guardare intorno ad osservare bene i luoghi.
— Sta!.... Se non mi sbaglio, siamo giunti alla meta... Questa mi pare
la casa dove abita la Carlotta.... Sicuro, è proprio quella; e quei
lumi colà al terzo piano raggiano dal suo quartiere.... Andiamo: il
bufalo o ci è già o non tarderà a venire.
E preso pel braccio Alfredo, si cacciò in una porticina e ambidue
salirono fino al terzo piano. In quella appunto l’alta statura
del capitano von Klernick si disegnava nella penombra della strada
scantonando dall’angolo più vicino e si dirigeva verso la porticina
della casa dove abitava la danzatrice milanese.
XIV.
Alfredo ed Ernesto saliti al terzo piano penetrarono nel quartiere
della ballerina. Fin dall’anticamera udirono un vivace discorrere
che pareva quasi un battibecco fra due voci, una di maschio e una di
femmina: e il conte di Valneve domandò alla serva, che aveva aperto
l’uscio di casa, se già colla Carlotta ci fosse il capitano austriaco.
— No signore: — rispose la fantesca, — è un altro... un giovane di
qui... un cugino della signora.
— Ho capito! — esclamò Ernesto colla sua fine ironia. — Un cugino?...
Ammirabile!... Oh vera sapienza eterna dei proverbi! Fra i due
litiganti eccetera... Io e quell’obelisco d’ulano siamo i due, ed ecco
spuntare il terzo. Ma con mio grande rammarico, mia cara ragazza, io
sono obbligato a disturbare quell’animato colloquio della Penelope tua
padrona con codesto cugino della razza dei Proci, e valle a dire che
son qui e che voglio subito subito parlarle.
Sotto la gentilezza (da cui non si dipartiva mai) delle maniere,
l’ufficiale piemontese seppe porre tanta autorità di comando, che
la serva senza fare la menoma osservazione, andò subito a recar
l’ambasciata.
Si udì tosto cessare affatto le due voci che così vivamente
discorrevano; ma dopo un breve istante in cui un bisbiglio indicava che
si erano scambiate alcune parole sommesse fra la padrona e la serva,
scoppiò di nuovo e più alta e concitata la voce dell’uomo che gridò:
— Alla croce di Dio!... Parlate forte dannate femmine... Chi è venuto?
Chi è che aspetta di là?... È forse già quel maledetto croato? Che sì
che lo ricevo io e lo faccio scender giù delle scale in minor tempo di
quel che ci abbia messo a salire.
— Oh oh! — esclamò ridendo il conte di Valneve. — L’austriaco dà sui
nervi anche a costui!... Vuol farlo saltar dalle scale! Ma ei non sa
dunque che montagna sia quel tentativo di gigante!
S’udì nella camera vicina il passo affrettato d’un uomo che si
appressava all’uscio dell’anticamera: ma la ballerina dovette mettersi
innanzi a quel cotale.
— No, no, — disse la voce di lei; — non è l’ulano... è un ufficiale
piemontese.
Queste parole parvero calmare affatto quell’uomo.
— Ah! un piemontese.... Meno male! — disse. — Del male ce n’è; e vedi,
Carlotta, darei non so che cosa perchè la figliuola della sorella di
mia madre lasciasse il palco scenico e la vita che conduce... Ma quando
poi penso che un austriaco... Giuraddio!
Ernesto guardò Alfredo con qualche meraviglia.
— Sta a vedere che questo è proprio un cugino per davvero, e che ha
tanto buon senso da odiare gli austriaci... Se pure codesta non è tutta
una commedia... Appunto, andiamo un po’ a vedere.
Aprì risolutamente l’uscio ed entrò con passo franco nella stanza
vicina, seguito da Alfredo.
— Scusino, — disse colla sua solita gentile giocosità, fissando ben
bene in volto i personaggi che si trovò dinanzi, — scusino se entro,
anzi se entriamo così, senza altre formalità: ma il torto è di queste
pareti di cartapesta e di questi ambienti larghi un palmo, che lasciano
udire in una stanza tutto quello che si fa e che si dice nella stanza
vicina. Invece di assistere al vostro colloquio non visti, ho pensato
più leale il mostrarci addirittura. Parlo anche per questo mio amico
che vi presento, Carlotta: il conte Alfredo di Camporolle, il quale
ha consentito ad assistermi in una certa occasione che son venuto a
cercare qui in casa vostra.
La ballerina fece un bell’inchino e regalò un grazioso sorriso
al giovane Alfredo. Era essa una donna di poco più che vent’anni,
belloccia, grassotta, volgaruccia, con occhi vivaci, labbra carnose e
quel non so che di piacevole e di voluttuoso che hanno quasi tutte le
milanesi.
L’uomo che era insieme con lei, giovane eziandio, certo non ancora
trentenne, incrociò le braccia al petto, corrugò molto fieramente
le sopracciglia e guardò con aria di fermezza e quasi di sfida i due
nuovi venuti. Non molto alto di statura, ma tarchiato, a spalle larghe,
con testa riccioluta e piuttosto grossa, ben piantata per un collo
taurino sopra un torace ampio e bene sviluppato, quel giovane aveva un
singolare aspetto di robustezza e di forza; e a questo vigore fisico
mostravano che corrispondeva anche quello morale le linee ferme delle
fattezze e della fronte, e sopratutto lo sguardo ardito, fiero, in
certi momenti quasi avreste detto feroce.
Ernesto lo esaminò con quel suo piglio sciolto e tutto franchezza, e
sorridendo disse a mezza voce ad Alfredo che gli era vicino:
— Corbezzoli! Questo pezzo di giovane è proprio capace di _me culbuter_
quel falso Golia là.
— Signori, — disse il giovane parmigiano avanzandosi d’un passo verso i
due conti, — io sono Pietro Carra sellaio; e costei è mia cugina.
— Me ne rallegro molto... con la signora Carlotta: — rispose Ernesto
di Valneve al solito gentile ed ameno. — Io sono Sangré di Valneve,
capitano delle guardie del Re di Sardegna. Sua cugina, l’ho conosciuta
a Torino; l’ho riconosciuta a Milano, e essendo qui di passaggio,
mi prendo la libertà di venirla a riconoscere a Parma. L’ora di
presentarmi per una visita non è molto opportuna, ma non ci avevo la
scelta: prima di tutto la Polizia parmense mi ha intimato di partirmene
domani da questi felicissimi Stati; poi... mia cara Carlotta, voi mi
permetterete d’essere affatto sincero: non sono venuto unicamente pel
piacere di vedervi, quantunque questo piacere mi fosse graditissimo,
ma son venuto eziandio perchè qui in casa vostra soltanto avrei potuto
avere la soddisfazione di dire due parole in tutta libertà a quel caro
torrione degli ulani austriaci von Klernick.
A questo nome Pietro Carra digrignò i denti e volse un’occhiataccia
rabbiosa alla cugina.
E questa sollecita:
— Ah signor conte! non mi parli di quel noiosissimo, seccante,
intollerabile tedesco... Ne ho proprio fino al di sopra dei capelli, di
colui... Mio cugino che si crede in dovere di farmi una scena, ma che
scena!... perchè nella città corrono voci che riguardano lui e me...
Come se si avesse da credere alle voci della gente!... Dica lei, signor
conte, che è stato a Milano, se io quel tedescaccio l’ho mai ricevuto
bene... Figurati Pietro, — soggiunse rivolgendosi di nuovo al cugino, —
che quel prepotente non voleva neppure ch’io venissi a Parma, e io gli
ho dato retta così bene che eccomi qua... Non è vero, signor conte?
— Verissimo: — rispose Ernesto con un leggero inchino e sorridendo
finamente ironico a suo modo.
— Or dunque, nè anco qui non lo riceverai per Dio! — gridò il Carra con
impeto. — Un austriaco!... Giuro al cielo! Lo strozzerei colle mie mani
se lo incontrassi qui.
— Bravo! — esclamò allegramente il conte di Valneve tendendo innanzi,
per moto quasi istintivo, la sua mano verso il giovine operaio. — Lei
non ama quella razza di gente.
Pietro Carra prese vivamente quella mano che gli era pôrta e la strinse
con forza.
— Ah! Lei mi capisce? — gridò: — li odio quelli là... e tutti gli
oppressori della nostra patria... E se mai si presenta l’occasione...
— Meneremo le mani: — aggiunse scherzevolmente il conte piemontese.
— Oh! se le meneremo! — concluse l’operaio.
La fisonomia di costui s’era illuminata d’un certo raggio di ardimento
e insieme di sicurezza, che lo faceva più bello, più piacevole, più
giovane. Ernesto, osservandolo in quel punto, fu colpito da una cosa
che sin allora non aveva notata, ed era una certa rassomiglianza fra
la figura robusta, fiera, anche un po’ rozza dell’operaio, e quella
gentile, delicata, elegante del suo nuovo amico il conte di Camporolle.
Si volse in fretta a guardare quest’ultimo per giudicare se la sua era
un’illusione, e in quel punto vide proprio che quantunque uno fosse
biondo e l’altro bruno, quegli sottile e spigliato, questi atticciato e
membruto, nei tratti del volto, nell’espressione dello sguardo e nella
piegatura delle labbra c’era qualche cosa di simile.
— Che bizzarria del caso! — pensò Ernesto, che poi non si preoccupò
altrimenti di questa strana combinazione.
La Carlotta saltò su a riprotestare che ella dell’austriaco non sapeva
che farsi e che non lo avrebbe ricevuto.
In quella s’udì una forte scampanellata e la ballerina cambiò colore.
— È qui il nostro elefante, — disse Ernesto: — per questa volta, cara
Carlotta, farete una eccezione e lo riceverete ancora per farmi un
piacere.
La serva andò ad aprire, e si udì nella stanza vicina un passo pesante
che si avvicinava.
— Ecco il terremoto! — esclamò Valneve. — La montagna viene a noi, più
felici che Maometto... Godo che al mio colloquio con quel colosso sia
presente anche il signor Carra.
Questi fece un saluto col capo; l’uscio si aprì e nel vano della porta
comparve la gigantesca figura dei capitano von Klernick, ancora in
tutto lo splendore del suo uniforme; ma vedendosi innanzi quei tre
uomini che egli non si aspettava di trovare, l’austriaco si fermò
di colpo, fece scorrere uno sguardo fra sospettoso e minaccioso
tutt’intorno e portò la mano all’impugnatura della sua lunga e grossa
sciabolona.
XV.
— Avanti! Avanti signor capitano! — gridò allegramente il conte di
Valneve. — Non c’è da stupirsi tanto a vederci qui. Io, a venirci,
ho diritto quanto, se non più, di lei: questo signore — e accennò
Alfredo — è un mio amico, il conte di Camporolle, ch’io ho pregato
d’accompagnarmi; e quest’altro — additò Pietro Carra, — ha più di tutti
noi il diritto di trovarcisi, perchè è cugino della Carlotta.
Il capitano austriaco non istaccò la mano dall’elsa.
— Dunque? — disse roteando terribilmente i suoi occhiacci. — Dunque io
qui son caduto in un _guet-à-pens?_
— _Guet-à-pens_ niente affatto... Qui la non trova che gente onorata,
non birri nè commissari di Polizia come quelli nelle cui mani la sua
generosa rivalità ha voluto darmi e a Milano e qui... Gente onorata,
in cospetto della quale io, poichè ho il bene di poterle parlare
liberamente, vengo a chiederle conto e ragione del suo modo di
procedere a mio riguardo, che mi permetto di qualificare poco civile,
indegno d’un militare onorato, villano e peggio.
Von Klernick era diventato scarlatto dalla collera.
— Signor!... Signor conte!... Voi m’insultate...
— Avete la compiacenza di sospettarlo? Che degnazione di furberia e che
miracolo di penetrazione!... Ma non è esatto nè anche questo. Io non
faccio che qualificare il vostro contegno verso di me, che fu sempre
tutto una provocazione ed un insulto.
L’austriaco, dominata alquanto la sua collera, guardò dall’alto al
basso il piemontese.
— Ma che cosa volete? Che pretendete da me? Forse che io mi batta con
voi?
— Siete davvero in vena di prodigi stassera in fatto d’intelligenza!
L’ulano sembrò esitare un momento.
— Eh via! — disse poi, — io non posso battermi.
— No? — esclamò col massimo stupore Valneve. — Ah! eccelso capitano,
io non sono un miracolo di acutezza mentale come siete voi, e ho
bisogno che aiutiate un pochino il mio comprendonio. Perchè non potete
battervi?
— Non siete voi ufficiale piemontese?
Ernesto Sangrè levò con atto fiero la testa.
— Sì signore.
— E dunque a noi ufficiali austriaci è proibito di batterci con
ufficiali stranieri, senza prima averne ottenuto il permesso.
Una intensa rabbia cominciava a salire dal petto al cervello del conte
di Valneve; ma pure si dominava tuttavia; solamente i pomelli delle
guancie gli erano diventati un po’ più rossi, i suoi piccoli denti
bianchi morsicchiavano i baffetti e la destra tormentava il pizzo di
barba castagno che gli ornava il mento.
— Ah sì? — disse. — Ma se aveste codesto permesso, voi non esitereste
più a battervi con me?
L’austriaco dall’alto della sua elevata statura gettò uno sguardo
quasi di compassionevole disprezzo sul piccolo ufficiale piemontese, e
rispose con un sogghigno:
— Se voi ci tenete assolutamente.
— Oh sarebbe un gusto così squisito!... Voi quindi domandereste quel
permesso?
— Lo domanderei.
— Ma ci vorrebbero almeno cinque o sei giorni, prima che se ne avesse
la risposta.
— Ci vorrebbero.
— E me domani la Polizia di Parma fa partire dai felici dominii di S. A.
— _Ja!_
— E dubito che voi spingiate la compiacenza sino a venire a farmi una
visita a Torino.
— A Torino?... certo no.
— E dunque sapete come da me e dalla gente che ha cuore si chiamano
codeste, per dirla alla francese, _défaites_? Lo sapete?
— So niente io.
— Ne sono persuaso. Riguardo a questo, per quanto poco dotto anch’io,
ho la fortuna di potervi istrurre del vero nome che si meritano. Si
chiamano e sono viltà d’uomo che ha paura ed è indegno di vestire
un’uniforme onorata.
L’ulano, che era già color di papavero, diventò pavonazzo; sparò una
grossa bestemmia tedesca e fece due passi concitati colle mani enorme
protese per ghermire il suo oltraggiatore dalla statura piccina.
Ernesto di Valneve afferrò ratto una seggiola e la brandì, pronto
a scaraventarla sulla grossa testa dell’austriaco se gli arrivava
addosso: Alfredo si slanciò al fianco dell’amico per difenderlo; ma il
colosso austriaco venne fermato di botto da una mano che lo strinse al
polso destro, proprio come una morsa di ferro.
— Ah! non facciamo violenze, signor croato! — gli disse una voce secca,
freddamente minacciosa: — perchè se Lei ci si prova, potrà trovarsene
ripagato a buona misura.
Von Klernick si volse e si vide dinanzi la figura risoluta, energica,
robusta di Pietro Carra, che gliene impose, come già lo metteva in
suggezione la forza con cui si sentiva stretto il polso.
— Mi batterò, — disse liberando a stento il suo braccio; — oh se mi
batterò... e fino all’ultimo sangue.
— Così va bene: — soggiunse Ernesto riprendendo tutta la sua gentile
finezza di modi. — Gliene sarò grato come di un favore. Ma bisognerà
far presto, e se il signor capitano me lo permette, le dirò quello che
ho già immaginato meco stesso a quest’effetto.
— Dite, dite pure: — gridò l’austriaco sbuffando.
— E sono persuaso che troverà le mie condizioni accettabili.
— Accetto, accetto tutto! — gridò von Klernick più sbuffante che mai.
— Come la è gentile!... Ecco dunque il mio disegno. Domattina per
tempissimo, Lei signor capitano con due testimonii, che non avrà
difficoltà nessuna di trovare fra i tanti suoi amici ufficiali del
valoroso esercito parmense, io con questi due signori che mi faranno il
favore di servirmi da testimoni a me... — Si volse prima verso il conte
di Camporolle, poi verso Pietro Carra; e l’uno e l’altro s’inchinarono
in segno di assentimento; Ernesto continuò: — partiamo tutti per Castel
San Giovanni, che trovasi alla frontiera del ducato verso il Piemonte,
vi ci batteremo con tutta quella serietà che desidero e che piace
anche al signor von Klernick, e dopo il fatto, se io ho la fortuna
di allungar per terra il mio nobile avversario, come n’ho quasi la
certezza...
L’austriaco fece un sogghigno che voleva essere di scherno, ma che
rivelava una irritazione niente affatto tranquilla.
— Ebbene, — continuava di Valneve, — faccio un passo e sono subito in
Piemonte, come desidera la buona Polizia del duca e come converrà molto
anche a me. Se invece il signor von Klernick avrà il sopravvento, cosa
che mi pare difficile, egli potrà a sua volta o tornare a Parma dove
non sarà certo inquietato, ma esaltato come un eroe, o andarsene a
Milano, dove non sarà accolto meno bene, quantunque non abbia ottenuto
quel certo permesso di battersi, di cui si parlava poc’anzi. Va bene
così?
— Va bene: — grugnì l’avversario: — non c’è più da stabilire che le
armi... e queste le scelgo io.
— Perdoni! — interruppe con tutta gentilezza il conte Sangré: — la
scelta spetta a me. Sono io che da un mese in qua la S. V. fa di tutto
per insultare.
— Io? — esclamò l’austriaco rotando i suoi occhi chiari.
— Sono io che ora, qui stesso, ho ricevuto una grossolana minaccia da
vossignoria, che ha dimenticato, come pare non le accada tanto di raro,
ogni precetto di buona educazione...
— _Der Teufel!_ — gridò von Klernick, venendo di nuovo scarlatto in
volto.
— È dunque mio diritto scegliere l’arma; e scelgo la spada... anzi,
per far meglio, due fioretti appuntati, che sono lo strumento più
agile, più sicuro, più bellino, più quieto per passarsi fuor fuori due
individui che abbiano una matta voglia di mandarsi reciprocamente nel
mondo di là.
— No signore: — gridò l’austriaco sempre più rosso e facendo girare
sempre più convulsamente quei suoi occhi da gufo; — no signore, non
accetto... Non già che io mi dia pensiero di battermi più con questa
che con quell’arma... Con qualunque son capace di dare a chicchessia la
lezione che si merita.
— Vedremo all’opera il signor professore: — disse ironicamente il
piemontese, con un leggero inchino.
— Ma ci ho un diritto, — continuava von Klernick, — e non voglio
rinunziarvi per Dio! la mia arma sarà la sciabola.
— Bene, bene, non si scaldi: — esclamò allora il conte di Sangré.
— Lei vuole la sciabola che è arma a lei più favorevole per la sua
statura....
— No signore! La voglio perchè....
— La vuole... E io sono così condiscendente da non contrariarla più
oltre. Sia pure la sciabola; ma escluso nessun colpo, non è vero?
— Escluso nessun colpo.
— Prosecuzione del combattimento finchè sia reso impossibile ad una
delle parti.
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