La vendetta di Zoe : Aristocrazia I - 01


ARISTOCRAZIA
ROMANZO
DI
VITTORIO BERSEZIO
PARTE PRIMA

_LA VENDETTA DI ZOE._

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1895
Seconda Edizione.


La stagione carnevalesca al ducale teatro di Parma nell’inverno
dall’anno 1853 all’anno 1854 era, come s’usa dire, brillantissima.
Quell’odioso tirannello che fu Carlo III di Borbone credeva che potesse
conferire a dare alla sua persona di piccolo principe alcuna maggior
grandezza, al suo governo degno del pazzo Eliogabalo alcuna luce
di splendido fasto, l’avere nel ricco teatro un sontuoso spettacolo
d’opera e di ballo, con artisti di prim’ordine, con apparati scenici
di costosa eleganza. A ristaurare il teatro e farlo più sfarzoso di
ornamenti che qualunque altro, il bravo duca aveva speso oltre a un
mezzo milione di lire; e ogni anno una vistosa somma era profusa
a procurare su quelle scene spettacoli meravigliosi. È vero che
tutti i denari occorrenti a siffatte spese venivano tolti con poco
o nessun garbo dalla borsa dei sudditi; ma il principe trovava
ciò naturalissimo, piacevole, affatto d’accordo colla sua profonda
convinzione che il popolo, così felice da essere affidato al suo
reggimento, fosse stato creato apposta per soddisfare in ogni modo i
gusti, le passioni, i capricci, le avidità, le curiosità del principe.
La sera da cui comincia il nostro racconto era una delle ultime di
carnevale. Il teatro era pienissimo: ad accrescere la folla degli
spettatori concorreva la curiosità destata dal _debutto_ di una nuova
prima ballerina venuta a sostituire quella della stagione, ammalatasi;
ne’ palchetti si vedevano le più giovani ed eleganti signore, sulle cui
troppo nude bellezze faceva scorrere un cinico sguardo di conoscitore
beffeggiante l’occhio vitreo del principe; sulla scena contendevano
l’attenzione sovrana alle dee olimpiche delle loggie le procaci
sguaiataggini delle ninfe del corpo di ballo, fatte venire quasi tutte
da Milano, le quali ostentavano trionfalmente l’opulenza delle loro
forme lombarde; in platea la massa scura degli umili spettatori —
popolo e ceto medio — vigilata sospettosamente dagli occhi grifagni e
dai baffi ispidi dei gendarmi.
Il principe sedeva al parapetto della loggia a destra del proscenio, al
secondo ordine. Era vestito con abiti cittadineschi, ma sulla cravatta
bianca spiccava il colore giallognolo del nastro del _Toson d’oro_;
la sua testa piccola, piantata sopra un collo esile e lungo, come un
ragazzo fa d’una mela in cima ad una bacchetta, si voltava irrequieta
a guardare la densa platea, le dame, la scena, ad ascoltare le parole
che si scambiavano i cortigiani che stavano con lui nella loggia. Di
quando in quando prendeva parte anche lui al chiacchiericcio, e quasi
sempre erano parole ciniche, invereconde, oscene che uscivano dalle sue
labbra principesche, e riscuotevano l’onore di risa più sgangherate,
più sguaiate delle solite, dal coro dei suoi seguaci.
Erano quasi tutti giovani, i quali, per darsi l’aria di bravura
militare, ostentavano il piglio prepotente; che avevano innanzi
al duca, cui s’erano fatti servi, un sorriso da cortigiano, delle
mosse da cane fidato, delle umiltà da vigliacco adulatore, e se ne
ricattavano colla più oltraggiosa insolenza verso la debolezza dei
comuni cittadini. Un solo vi si vedeva d’età matura: una faccia strana,
che pareva una curiosa combinazione ben riuscita del muso della faina
col grugno del porco; alle guancie magre ed asciutte, magre e lunghe
fedine d’una barba rossiccia brizzolata; la fronte stretta, fuggente
all’indietro, si confondeva col cranio calvo, bernoccoluto, grandemente
sviluppato nella parte posteriore del capo, dove stava ancora una
corona di capelli scarmigliati rossicci e brizzolati come la barba. Era
un inglese, già cozzone di stalla, già _fantino_ di corse di cavalli,
poi amico e confidente del duca padre, a cui aveva fatto trovare
denari nelle più pressanti strettezze, confidente ed amico del duca
figlio, a cui sapeva sempre suggerire nuovi pretesti e nuove maniere
per ispremere nuovi balzelli ai sudditi. Carlo III lo trattava come
un lacchè e gli aveva dato titolo e stipendio di ministro, gli dava
del tu e lo copriva d’ingiurie, lo minacciava, com’era suo uso, collo
scudiscio e lo lasciava rubare tranquillamente nei redditi dello Stato.
L’inglese parlava poco, guardava raramente in faccia alla gente; osava
dire alle volte al duca certe verità ch’egli non avrebbe tollerate da
nessun altro. I cortigiani l’odiavano, lo disprezzavano anche, ma lo
adulavano pure perchè lo temevano.
La moglie del duca non era in teatro. Maria Luisa di Borbone, figliuola
di quel duca di Berry che fu ucciso di coltello alla porta del teatro
dell’Opera di Parigi, compariva raramente in pubblico insieme col
marito; pareva, mercè la sua riservatezza e il suo distacco dal duca,
volere allontanare da sè la responsabilità della condotta del principe
e condannare essa stessa quella condotta veramente indegna. Erano
troppo palesi a tutti e sfacciatamente resi tali i torti che le veniva
facendo il duca come marito; sapevano tutti quanto pochi riguardi egli
avesse per lei anche come gentiluomo; e gli addetti a Corte susurravano
come quel villano coronato, in certi momenti di collera, avesse perfino
posto in oblio ciò che si deve alla debolezza del sesso gentile e
trasceso a mali trattamenti da bifolco ubbriaco. Del resto ancorchè
ella fosse stata presente, Carlo di Borbone non ne avrebbe presa la
menoma soggezione per frenare la sfacciataggine dei suoi sguardi e
dei suoi cenni d’ammicco alle ballerine, alle corifee, alle più o men
facili bellezze del palco e della sala, e la laidezza de’ suoi discorsi
degni di lupanare. A un punto osservò che un movimento d’attenzione
erasi prodotto nella platea e nelle loggie che aveva di faccia e che
quest’attenzione era rivolta ad un palchetto del terzo ordine così
vicino al proscenio che egli per quanto si sporgesse in fuori non potè
scorgere chi fosse ad occuparlo. Vide solo uno svolazzo di trine e
di sete che rivelavano la persona d’una donna e di certo elegante; e
dalla insistenza con cui si fissavano a quel punto i cannocchiali dei
giovani, comprese che quella doveva essere eziandio una donna più che
mediocremente bella.
Si volse al vecchio inglese che stava in un angolo del palchetto,
taciturno, gli occhi socchiusi, nella mossa d’un gatto in riposo, che
non vede nessuna preda all’arrivo degli artigli.
— Tommaso, — gli disse, — va subito, guarda, informati e torna presto,
sapendomi dire senza errore chi sia la quaglia che appuntano con tanta
intensità i cannocchiali di tutti quegli sciocchi.
L’inglese si alzò, mandò una voce sommessa che pareva un grugnito,
ed uscì sollecito: cinque minuti dopo compariva, in un palchetto del
terz’ordine che trovavasi dalla parte opposta a quello dove era il
duca; nel qual palchetto stava solo, con aria fin allora di svogliato e
di annoiato, un bel giovane che non mostrava e non aveva in verità più
di venti anni.
— Ah! ah! — ghignò il duca, — il nostro furbo Tommaso è andato ad
esaminare il nemico da una buonissima posizione, dalla loggia di quella
pudibonda verginella vestita da uomo che è il Camporolle.
I cortigiani scoppiarono dalle risa, come se avessero udita la più
spiritosa facezia.
— Sicuro! Una vera ragazza quel Camporolle!
— Se non avesse quel po’ di peli sul labbro.
— È timido, vergognoso... diciamo la parola, stupido.
— Alto là, — interruppe con un cachinno, che voleva essere malizioso,
il duca — le ragazze, se sono belle, non possono mai dirsi stupide; il
loro còmpito lo sanno sempre bene, troppo bene!
Altra sghignazzata di calda approvazione dei cortigiani.
— E il nemico par proprio degno di una accurata osservazione, —
continuò il duca: — vedete come il nostro Tommaso sta incantato ad
ammirare.
— Sarà un nemico che promette delle facili capitolazioni.
— Oh! oh! — esclamò il principe con un nuovo sogghigno. — Gli occhi del
nostro Tommaso risplendono come quelli d’un levriero che ha visto la
lepre. Date retta ch’egli vorrebbe fare come il santo apostolo omonimo,
che non si contentava di guardare, ma toccava.
Uno scoppio di risa entusiastiche.
La faccia dell’inglese manifestava veramente una impressione piuttosto
viva, e i suoi occhietti color dell’acciaio, fissi sulla loggia di
facciata, dal fondo delle incavate occhiaie mandavano proprio un
bagliore che pareva qualche cosa di più che curiosità ed ammirazione.
Il bel giovanetto che abbiamo udito chiamato dal duca col nome di
Camporolle, anche lui si mostrava interessato, quasi avrebbe potuto
dirsi turbato dalla vista che aveva dinanzi agli occhi. Dapprima
svogliato, il Camporolle s’era riscosso; i suoi occhi pure avevano
brillato, un lieve rossore gli era corso alle guancie a far più fresca
ancora la sua bella carnagione, e un piccolo tremito gli agitava la
piccola mano inguantata con cui teneva il cannocchiale dorato fisso
sulla loggia di fronte.
Quel giovanetto sarà uno dei personaggi principali del nostro racconto
ed è utile quindi che ne facciamo un po’ meglio la conoscenza.


II.

Alfredo Corina conte di Camporolle, quale si era presentato da un mese
nella migliore società di Parma, aveva vissuto una gran parte della
sua giovane vita senza conoscersi bene egli stesso. Della sua infanzia
serbava memorie poche, confuse, incerte; non aveva mai conosciuto nè il
padre nè la madre: questa gli avevano detto che era morta dandolo alla
luce; quello era mancato prima ancora ch’egli nascesse. Gli rimaneva
leggero, sfumato, come un’ombra, il ricordo d’una casa rustica,
soggiorno di contadini, isolata in mezzo ai campi, in cui insieme con
alcuni fanciulli vestiti ed educati alla villereccia, doveva essere
passata la sua infanzia, e ogni volta che si affondasse nel pensiero
del suo passato, chiudendo gli occhi, gli pareva di rivedere un basso
tetto di paglia all’ombra di alti olmi, de’ polli razzolanti per
l’aia, le fatiche, le allegrie della mietitura e della trebbiatura;
gli pareva d’udire il muggito de’ buoi nella stalla, di sentire
l’odore di fieno e quello appetitoso del pane che cuoce nel forno. Un
uomo, ch’egli s’accorgeva fin d’allora come non parlasse il medesimo
linguaggio degli abitatori di quella casa, veniva a visitarlo di quando
in quando; gli portava balocchi, dolci, vesti calde l’inverno, leggere
la state, ricche ed eleganti sempre; era trattato con molto rispetto
dai contadini, a cui lasciava ad ogni volta quanto denaro chiedessero.
Quell’uomo era allora e fu sempre anche di poi il solo legame, la
sola relazione, che stringesse l’esistenza di Alfredo alla società, al
mondo, che gli tenesse luogo di parenti, di famiglia, di tutti coloro a
cui tocca la protezione della puerizia d’un nato nella vita civile.
Quando il bambino ebbe compito i sette anni, quell’uomo venne a
prenderlo dalla casa contadinesca, lo condusse sino a Milano e lo
allogò in uno dei principali e più costosi collegi educativi di quella
città, nel qual collegio non entravano che figliuoli di ricchi e di
nobili. Alfredo cominciò allora ad apprendere che il luogo dov’egli
era stato fino a quel tempo era l’abitazione della sua nutrice; che
egli apparteneva ad una ricca e distinta famiglia, e che quell’uomo,
il quale provvedeva ai bisogni dell’orfano, era un antico servo fidato,
un fattore, una specie d’intendente, a cui, prima di morire, i genitori
avevano affidato la tutela della persona, degl’interessi, e l’avvenire
del figliuolo. Rimase dieci anni in quel collegio, e siccome aveva
ingegno, cuore e leggiadria di forme, il giovanetto imparò meglio di
qualunque altro, prese le più squisite e gentili maniere, e divenne uno
dei più simpatici a vedersi.
Un poco se ne teneva. Aveva osservato una cosa. L’uomo che vegliava su
di lui, a seconda ch’egli cresceva negli anni, usava verso il pupillo
di maggiori riguardi, d’una deferenza che era rispetto, che poteva
quasi dirsi riverenza. Alfredo si ricordava che da principio, quando
andava a trovarlo in casa della nutrice, quell’uomo se lo prendeva in
braccio con un vero trasporto d’affetto appassionato, e lo baciava
e lo accarezzava con una tenerezza commossa che nulla più. A poco
a poco, aveva smesse tali dimostrazioni accalorate; e da quando il
giovinetto era entrato in collegio, egli non erasi più dipartito dalle
maniere le più correttamente umili d’un subalterno anche affezionato,
d’un servitore anche devotissimo, antico e fedele. Allora Alfredo
aveva pure appreso che si chiamava, di nome di famiglia, Corina; ma
per allora nessun cenno gli era stato fatto che a lui spettasse un
titolo nobiliare. L’intendente gli diceva sempre che era ricco, che
non si riguardasse a spendere, che qualunque cosa desiderasse, glie
la chiedesse pure, che per ogni caso, per ogni bisogno, per ogni
capriccio ricorresse a lui. Il ricapito con cui e il giovanetto e
i rettori del collegio dovevano scrivergli per quanto occorresse,
era: «Matteo Arpione, negoziante, Torino.» Le visite al collegio di
questo Matteo si vennero facendo sempre più rade, finchè poi venne il
giorno in cui il giovanetto dovette uscirne, e quell’uomo si recò a
prenderlo e lo condusse con sè, non a Torino, ma a Bologna, dove gli
fece trovare un quartiere sontuosamente arredato, un aio e istitutore
che era uomo di vaglia, un maestro di casa, da lui scelto e diretto con
opportune istruzioni, una donna di governo abilissima, una servitù bene
addestrata e disciplinata, una scuderia fornita di quattro magnifici
cavalli, e una libertà accompagnata da larghi assegni mensili di
denaro, della quale, se il giovane non abusò, fu merito in parte della
sua indole, in parte dell’aio.
Matteo Arpione si lasciò vedere dal giovane a Bologna ancora più
raramente di quel che avesse fatto a Milano. Ad ogni richiesta mandava
denari, mandava istruzioni ed ordini al mastro di casa; anche da
lontano si sentiva che non cessava mai dal vegliare sulla esistenza e
sugli interessi economici d’Alfredo; non compariva che in pochissime
occasioni, e anche allora le sue visite erano corte e sopratutto
nascoste, così che fuori del giovine e di quelli che più da vicino lo
attorniavano, nessuno lo vedeva mai.
In una di queste rare sue venute, Matteo aveva portato al pupillo
uno stromento di compra d’un gran tenimento nelle vicinanze di Lugo,
possesso feudale che aveva congiunto il titolo di conte, compra fatta
a nome del nobile Alfredo Corina, e un diploma del governo pontificio
che investiva della contea di Camporolle (chè tale era il nome di quel
possesso) il medesimo compratore.
Quel giovanetto era dunque ricco, nobile, anzi titolato, padrone di sè,
bello, bene educato, favorito di mente, perspicace, buono, robusto; e
aveva quindi tutte le condizioni per essere felice. E invece non si
trovava contento. Egli possedeva pure un’anima affettuosa, e non si
vedeva nessuno intorno che lo amasse senza tornaconto, proprio per lui,
dietro impulso e debito caro di natura: ned egli aveva potuto mettere
in nessuno un affetto, quale si sentiva capace di nutrire. Il vecchio
Matteo egli lo vedeva troppo raramente per amarlo come un congiunto;
gli altri erano tutti con lui in attinenze precarie di subordinati,
e l’affezione vuole essere fra uguali. Di amici non ne aveva potuto
avere: al collegio quel vederlo sempre senza relazioni di famiglia
aveva suscitato i sospetti, dato cagione alle satire, per cui la
adolescenza ha pure una feroce felicità, ed egli essendovisi ribellato,
fiero e impetuoso com’era, si trovò sceverato quasi del tutto da’ suoi
compagni. Nella società, non ebbe la fortuna di incontrare ancora un
amico vero e leale; e viveva per ciò solo, melanconico, malvoglioso,
infastidito, irritato di sè stesso e delle sue condizioni.
Quante volte aveva egli interrogato Matteo intorno alla sua famiglia!
Ma l’Arpione non aveva mai datogli risposta che lo appagasse. Ecco in
breve quanto egli aveva risposto al giovane.
«Il padre di Alfredo aveva ereditato da lontani parenti una ricca
sostanza; la madre invece era povera, ma ammirabile per bellezza e
virtù. Matteo, per vicende che era inutile e non gli piaceva narrare,
era legato di grandissimo affetto di riconoscenza a colui che aveva
dato la vita al giovane, e per lui e pel figlio di lui avrebbe fatto
ogni più difficil cosa. Quando morì, il padre di Alfredo, che non aveva
parenti, che non aveva altri amici a cui fidarsi, aveva raccomandato
a Matteo il figliuolo perchè lo educasse da gentiluomo, procurasse in
ogni guisa il benessere di lui economico, morale, sociale; e Matteo
aveva accettato l’incarico.»
Alfredo aveva domandato a Matteo perchè lo tenesse sempre così lontano
da sè, perchè egli, Matteo, abitando Torino, non avesse fatto stabilire
la dimora al suo pupillo in quella città, che egli desiderava pur
tanto conoscere; ma il vecchio Arpione, senza spiegarne un perchè,
aveva risposto che a Torino non avrebbe mai desiderato che il giovane
venisse, e lo pregava anzi a non pensarci.
Così era giunta pel nostro giovane l’età di vent’anni, quando, com’era
facile a prevedersi, egli incappò in una passione amorosa. Questa può
essere un elemento di felicità se si capita bene; è una deplorevole
e funesta disgrazia se la passione ci è ispirata da una indegna e
malvagia femmina. E Alfredo di Camporolle era capitato il peggio che si
potesse immaginare.
Era giunta di que’ giorni a Bologna una donna misteriosa che si faceva
chiamare la baronessa di Muldorff; viaggiava con una dama di compagnia
e quattro servitori, aveva preso stanza nel più sontuoso albergo,
vi aveva occupato il più ricco appartamento, ci viveva con tutte le
mostre, le petulanze, le esigenze di una milionaria, capricciosa e
avvezza a ottenere, e sollecitamente, soddisfatto ogni suo capriccio.
Il nome era quello d’una tedesca, alcuni invece la dicevano francese,
altri polacca; il vero era che parlava benissimo cinque o sei lingue,
e un cameriere affermava averla udita in un momento di collera
bestemmiare in italiano.


III.

Era molto facile fare il giudizio temerario che quella fosse
un’avventuriera; e la società bolognese non mancò al suo più stretto
obbligo di farlo. Ma dovette presto convenire che, se non altro, la
era da dirsi un’avventuriera di genere affatto speciale. Il Cardinale
Legato erasi recato a visitarla; alcune delle principali famiglie
fra le più devote al governo papale avevano aperto il loro salone
alla forestiera, ma essa, comparsavi appena una volta, aveva di poi
trascurato di metterci i piedi; non cercava di far relazioni, aveva
fatto chiudere l’uscio in faccia a tutti i più eleganti e i più ricchi
damerini che avevano voluto esserle presentati; frequentava i teatri,
le passeggiate, offuscando colla splendidezza delle sue costosissime
acconciature, un po’ strambe, quelle delle più eleganti signore della
città; non la si mostrava mai accompagnata da nessuno; e quando tutta
la gente la guardava, l’ammirava, ella, non curandosi di nulla e
di nessuno, come assorta in un pensiero che la dominasse, l’occhio
scuro smarrito in una contemplazione mentale, la fronte corrugata,
un’espressione di fierezza e quasi direi di crudeltà nella fisonomia,
che non nuoceva, ma anzi dava un nuovo spicco, un mordente alla
originale di lei bellezza, passava, lasciando dietro di sè un ambiente
profumato, quasi una traccia luminosa della luce dei suoi occhi, dello
sbarbaglio del suo abbigliamento.
Visto che non si poteva trovare nessuna prova che la fosse
un’avventuriera galante, la gente disse che era un’avventuriera
politica. Si susurrò che essendo davvero non solamente tedesca, ma
austriaca, era una segreta agente, esploratrice e ambasciatrice del
Gabinetto di Vienna, il quale, dopo lo scoppio rivoluzionario del 1848,
aveva pensato bene raddoppiare ancora di cautele, di sorveglianza,
di rigore contro le mire dei patrioti italiani. Codesta baronessa da
Vienna sarebbe stata mandata apposta a percorrere le ragioni della
Penisola, dove più sobbolliva lo spirito ribelle, fomentato, come
credevasi, dal costituzionale Piemonte: e notar tutto, riferire al
governo austriaco intorno a uomini e cose, e sopratutto raccogliere e
trasmettere le prove della complicità dell’odiato Regno subalpino coi
cospiratori. Per ciò, dicevasi, nel suo giro per l’Italia centrale,
essere ella capitata a soggiornare a Bologna, città fatta centro
importante dei segreti maneggi dei liberali.
Ma di tutto questo — fosse quella donna un’avventuriera o una spia
— non si preoccupò in nessun modo il giovane Alfredo Corina di
Camporolle, il quale, al vedere le sembianze, i modi, il piglio,
l’espressione di volto, l’originalità delle mosse della baronessa,
rimase abbagliato, affascinato, rapito. Se egli avesse potuto
accostarla subito e soddisfare l’impetuoso desiderio nato nella
giovanile sua natura appassionata, forse avrebbe potuto questo
non essere altro che un passeggero capriccio; ma le difficoltà
dell’impresa, che a un certo punto parvero includere addirittura
l’impossibilità della riuscita, come sempre suole, massime nell’animo
ardente de’ giovani, non valsero che ad aizzare vieppiù quello smanioso
desiderio che egli stesso scambiò per un potente amore, e farlo più
tenace, più ardito, più tormentato nei suoi propositi. Non trovò
nessuno che fosse in grado di presentarlo alla baronessa: e sì che egli
conosceva tutti i più eleganti e nobili signori della città. Facendo
violenza alla sua timidità, egli si decise a presentarsi da sè, e gli
fu mandata indietro la polizzina di visita con cui s’era annunziato,
dicendoglisi che non lo si conosceva e che non si ricevevano che le
persone conosciute. Allora egli scrisse lettere che cominciarono per
essere cortesi e briose, poi diventarono supplichevoli, poi anche
impertinenti e minacciose, poi d’un’ardenza vulcanica; non ebbe mai
neppure una parola di risposta. Si sdegnò, si vergognò, pianse di
umiliazione e di dispetto, e gli parve alla stretta dei conti di
innamorarsene sempre più. Ed ella, sul cui passaggio il giovane si
trovava ogni giorno, ogni volta, ogni momento che la uscisse; ella che
dalle finestre del suo appartamento poteva vederlo, quel povero giovane
innamorato, andare e venire le mille volte sulla strada, l’occhio fisso
su quei cristalli; ella non aveva mai mostrato ancora d’essersi accorta
dell’esistenza di lui, passava indifferente, sprezzante, gli occhi
socchiusi, la fronte annuvolata, il labbro sdegnoso, avvolta nel suo
scialle come una regina da scena nel manto, estranea al mondo che la
circondava, quasi superiore, misteriosa, con una nuova attrattiva nella
sua _posa_ da sfinge.
In un momento di esaltazione disperata, Alfredo ebbe una temerità, di
cui non si sarebbe forse mai creduto capace egli stesso. Passeggiava
una mattina per tempo, solo, cupo, rodendosi fra sè per la passione,
alla Montagnola. La passeggiata era deserta; quand’ecco al basso
della salita fermarsi una carrozza, scendere una signora bene avvolta
nel mantello impellicciato (si era alla fine di novembre) e, seguita
alla distanza di dieci passi da un domestico, venir su verso il luogo
appunto in cui trovavasi il giovane. Questi si riscosse proprio come
se fosse stato colpito dalla scarica d’una batteria elettrica. Fin
da lontano aveva riconosciuto il portamento, il garbo, la malìa,
quel non so che onde non sapeva darsi ragione, ma che gli rendeva
seducentissima la baronessa di Muldorff. In un attimo i più diversi e
opposti partiti si presentarono alla sua mente: scappare, precipitarsi
incontro a quella donna, gettarsele in ginocchio davanti, afferrarla
violentemente e rapirla. Non fece nulla di tutto ciò, non si mosse,
chè i piedi gli parevano aver piantato le radici nella ghiaia del
viale. La donna si avanzò senza badargli; aveva il velo tirato sulla
faccia, ma a pochi passi da lui lo sollevò come per respirare più
liberamente, come per farsi percuotere il viso dall’aria frizzante
di quella mattinata. Lo sguardo di lei era, come di solito, vago,
assorto, pareva non vedere innanzi a sè gli oggetti materiali e
contemplare qualche interna, segreta visione. Alfredo s’accorse che
essa non aveva fatto, non faceva la menoma attenzione alla presenza di
lui. Era pallida come un cadavere, come uno di quei vampiri che sogna
la fantasia dei poeti e del popolo di Polonia; gli occhi apparivano
più scuri, le labbra d’un rosso più vivido, come di fresco sangue
spicciante dalle arterie. Il giovane continuò a rimanere immobile,
avvolgendola in uno sguardo pieno di ardore, che gli pareva impossibile
non dovesse penetrare quella crosta di ghiaccio ond’ella si mostrava
avvolta, giungerle sino all’anima, sino allo spirito, a ferirla, se
non altro, come una provocazione, come un insulto. Ella passò, sempre
assorta, badando così poco alla persona d’Alfredo, che col braccio,
colla spalla sfiorò, toccò, soffregò il petto di lui, agitato,
palpitante. Egli provò in quel contatto di pelliccia una dolcezza
strana, mai più immaginata; sentì un’onda di profumo indefinibile
avvolgerlo, carezzarlo, solleticarlo, inebbriarlo; gli parve tutto
il sangue gli si raccogliesse al cuore, poi di subito con impeto gli
salisse al cervello, vide tutto vacillare e girare intorno a sè; i
nervi gli vibrarono come corde d’arpa invase da un’onda armonica; senza
sapere quel che si facesse, tese le mani verso quella donna che gli
sconvolgeva tutto l’essere, che gli gettava nel sangue il fuoco e il
gelo, nell’anima un disperato tumulto, e con voce strozzata nella gola,
che avreste detto simile all’ultimo grido d’uom che s’annega, esclamò:
— Oh ascoltatemi!... Ascoltatemi per pietà!
La donna diede un sobbalzo, non ispaventata, ma fortemente e
inopinatamente sorpresa; i suoi occhi divennero più brillanti e si
rivolsero sul giovane, rivelando fatto presente a sè stesso e alle
condizioni circostanti lo spirito di lei: da quelle pupille brune
balenò subita, ratta, una fiamma di splendore sinistro.
— Che c’è? Che volete? Chi siete? — domandò essa coll’accento il più
fiero, dispettoso e sprezzante che avrebbe potuto usare la più superba
donna della più orgogliosa aristocrazia.
Alfredo era pallido come uomo che sta per isvenire; ma tutta la sua
vitalità, concentrata nel cuore, tutto l’ardore della sua passione
raggiavano dall’intensità del suo sguardo; era straordinariamente
bello in quell’atto, in quella commozione, con quello scintillìo degli
occhi nerissimi. La espressione dello sguardo e della fisonomia nella
baronessa cambiò d’improvviso. La figura del giovane, sopratutto la
fiamma degli occhi, ebbero la fortuna di eccitare in lei più viva la
memoria di altri occhi, di altra figura d’uomo che le stavano impressi
profondamente nel cuore: le parve scorgere innanzi rediviva l’immagine
d’un sempre diletto estinto, e tutta si commosse, e tremò da capo a
piedi, e, portandosi le mani al petto, fu lei a vacillare, mormorando
fra sè:
— Ah! gli occhi di Gian Luigi!
Il giovane non intese quelle parole, ma vide la commozione, il tremito,
il vacillar della donna; se ne accrebbe il suo coraggio e tese le
braccia per sostenerla. Ma ella, già fatta di subito padrona di sè,
si trasse in là d’un passo, incrociò le braccia al seno, e guardò
fissamente il giovane, attentamente, ma non più con apparenza ostile.
Il domestico si affrettò a raggiungere la padrona coll’atto minaccioso
di chi s’apparecchia a respingere un insolente.
— State in là, — gli disse freddamente la baronessa: — ho da parlare
col signore.


IV.

Il domestico si allontanò nuovamente di dieci passi coll’ubbidienza
disciplinata d’un soldato austriaco; e la donna, guardando sempre
Alfredo, gli domandò con accento fatto gentile:
— Chi è dunque lei?... Che cosa può volere da me?
Alfredo parlò; cominciò balbettando, timoroso, con parole incerte,
confuse, impacciate; ma poi a poco a poco si scaldò; la passione gli