La spada di fuoco : racconto - 19
tardi. Io vado a Napoli, e là mi bisognerebbe l’aiuto di un amico come
voi; anzi, per dirvi tutto, mi bisognate voi, e un altro non potrebbe
servirmi come voi». La lettera non diceva di più; solo insisteva
sulla necessità di avermi a Napoli, e subito. Non posi tempo in mezzo,
immaginando che si trattasse di cosa gravissima, e pensando che a Don
Memmo Savelli io non potevo oramai ricusare nessun sacrifizio. —
Qui il signor conte di Riva sentì il bisogno di ricogliere il fiato.
Aveva già detto molto; ma proprio allora veniva il difficile. La
duchessa taceva, ma con molta attenzione seguiva il racconto, guardando
fissamente Massimo, pendendo quasi dalle sue labbra. Buon segno, non è
vero? E così doveva pensare anche lui.
Dopo un istante di pausa, Massimo ripigliò in questa forma:
— Che cosa vorrà il principe Savelli, che rinunzia alla speranza di un
pronto pagamento, per avermi a Napoli con lui? Fatta questa domanda a
me stesso, cercai tutte le spiegazioni possibili, senza appormi alla
vera. Questa, io non la conobbi che a Napoli, e proprio alla stazione
della strada ferrata, perchè egli era venuto ad aspettarmi, all’arrivo
del treno. «Massimo, mi disse egli subito, voi solo potete rendermi
il più felice degli uomini». E perchè io mi maravigliavo di tanto
potere che egli supponeva in me, Don Memmo fu pronto a soggiungere:
«Vi parrà strano, ma così è: la mia sorte è nelle vostre mani; sono
innamorato.... di miss Lockwood».
— Ah! — esclamò Serena. — E che c’entravate voi, conte?
— Ecco qua; — rispose Massimo, con aria di sommo candore. — Dovete
sapere che a Roma, sul principio dell’inverno, avevo conosciuto un
signore americano. Era una conoscenza superficiale, di cui non avevo
fatto caso, come non lo feci poi dell’incontro delle due signore, al
ballo dell’ambasciata inglese. Il signor Lockwood, poichè di lui si
parla, mi aveva preso in grande amore. Simpatie naturali, che non
si spiegano, perchè non si bada alle loro origini, al modo in cui
sono nate! Io avevo portati due biglietti di visita all’albergo di
Roma, dove i signori Lockwood erano alloggiati, e poi.... m’ero anche
dimenticato di loro.
— Non però di fare una visita nel loro palco a teatro; — osservò
placidamente la duchessa.
— Me ne fate ricordare; — rispose Massimo. — Cercavo il Mattei, per
quella certa questione d’onore, in cui eravamo impegnati; dovevo
parlargli ad ogni costo, mi dissero che era nel palco dei Lockwood, e
approfittai della conoscenza, per andarlo a cercare. Non rimasi là che
due minuti.... Anche di questa circostanza ho parlato al Montegalda,
mi pare. Comunque sia, ecco il fatto, spogliato di tutti i suoi
abbellimenti; i signori Lockwood avevano lasciato Roma per andare
a Napoli. Laggiù, non so come, nè perchè, aveva dovuto recarsi il
Savelli. E laggiù, vedendo la signorina Lockwood, se ne era invaghito.
Una delle sue stravaganze! Don Memmo, infatti, soleva dire che non gli
erano mai piaciute le bionde.
— In queste materie si cambia così facilmente d’opinione! — notò la
duchessa, sorridendo.
— Dev’esser così.... per Don Memmo; — rispose il conte di Riva,
felicissimo di vedere accettate con tante benignità le sue stentate
invenzioni. — Egli dunque si era invaghito di una bionda, e d’una
bionda americana. Il caso aveva fatto che non fosse entrato in
relazione con quella famiglia, quando era a Roma. Bisognava far
conoscenza allora....
— Ed era necessario chiamar voi da Venezia? — esclamò Serena. — In
verità, non credevo così povero di spirito il vostro Don Memmo!
— Qui forse non lo giudicate bene, signora. Egli non aveva modo di
farsi presentare da nessuno, perchè i Lockwood, che a Roma facevano
vita di società, a Napoli ci stavano da semplici viaggiatori, senza
nessuna relazione con la buona compagnia. Un solo personaggio, non
so come, era riuscito ad entrare in qualche dimestichezza con loro:
un certo marchese Gerolifi di Monte Carmelo: gran nobiltà, con pochi
quattrini, e urgente pericolo per l’innamorato Don Memmo. Fu allora
che questi, ricordando di avermi veduto a Roma in compagnia con
mister Lockwood, e non vedendo lì per lì altro modo di entrare in
relazione con lui, mi scrisse la sua lettera, chiedendo soccorso.
Gli ero obbligato da quel debito maledetto; non potei ricusarmi ad un
appello, di cui ignoravo tuttavia le cagioni. «Non è che questo?» gli
dissi, quando egli ebbe parlato. «Oggi stesso vi presenterò a mister
Lockwood». Egli così freddo e contegnoso, come un antico barone, poco
mancò non mi gittasse le braccia al collo. Quel medesimo giorno, per
fargli servizio, andavo a visitare i Lockwood, ed accettavo di fare
insieme una gita a Pompei. Due giorni dopo, presentavo Don Memmo. Era
tempo. Infatuato dei titoli, il minatore americano aveva disegnato
di fare della sua figliuola una marchesa di Monte Carmelo e di non so
quali altre terre ipotecate e castella smantellate. Don Memmo aveva più
titoli, ed era ricco per giunta: non si poteva credere che sposasse
soltanto per entrare al possesso di una miniera d’argento. Egli, ad
ogni modo, copriva le gracili spalle di miss Lockwood con un mantello
di ermellino; cingeva la sua piccola fronte con una corona chiusa di
principessa del Sacro Romano Impero. Mister Lockwood, una settimana
dopo la presentazione di Don Memmo, non vedeva più che per gli occhi di
lui. Il marchese Gerolifi se ne ritornò a Monte Carmelo, e il principe
Savelli ebbe la consolazione, che io veramente non riesco ad intendere,
di vedere accolta la sua domanda formale.
— Di matrimonio? — gridò Serena.
— Sicuramente.
— Il principe Savelli.... il principe Savelli sposa miss Lockwood? E
siete voi, conte, che avete combinato il matrimonio! Voi, al quale si
attribuiva anzi l’idea....
— L’idea sciocca di essere andato a Napoli, perchè invaghito della
bionda signorina, non è vero? — disse Massimo, torcendo le labbra con
aria di superbo dispregio. — Queste cose poteva pensarle soltanto un
uomo che non mi conoscesse; solo un nemico poteva dirle, ma ancora
senza crederle. Ora eccovi la mia giustificazione nel fatto. Avrei
lavorato per altri, se quella ricca dote e quella povera figura fossero
piaciute a me? —
La duchessa taceva, guardando sempre fissamente il signor Massimo,
come se volesse leggergli dentro l’anima quelle idee che egli andava
vestendo così faticosamente di parole. E tacque ancora, nella pausa
ch’egli fece, ammirato dell’antitesi che gli era fiorita dal labbro.
Perdoniamogli questo gaudio d’artefice, noi che nel caso suo, o in
altro consimile, faremmo altrettanto, e senza sentirne vergogna. Quante
volte non ci avviene egli di ammirarci, ingenui fabbricatori di frasi,
che volentieri abbiamo in conto d’idee!
— E così, — disse lentamente Serena, dopo quell’istante di pausa, —
avete assistiti gli amori nascenti di Memmo Savelli e della signorina
Lockwood? Non supponevo in voi tanta pazienza, davvero!
— Non è infatti nell’indole mia; — rispose Massimo, non intendendo il
pensiero di lei, o prendendolo troppo alla lettera. — M’importava poco
di assistere; mi cuoceva anzi di restare, poichè avevo reso all’amico
il servizio che aspettava da me. Ma io, per rendere quel servizio a
Don Memmo, avevo dovuto fingere un viaggio di piacere; e perciò fui
costretto a restare una diecina di giorni ancora, sempre in compagnia
degli amici, girando di qua e di là, come un grande curioso, ammirando
tutto quello che gli altri volevano ammirare, da Sorrento, dove il
Tasso è nato, fino al capo Miseno, dove Augustolo è morto. Come avrei
voluto correre a Roma, per raccontarvi ogni cosa! Ma ricordavo il mio
debito; quantunque Don Memmo mi pregasse di non darmene pensiero, io
non pensavo ad altro, in quei giorni. Orgoglio e vergogna volevano
così, lo immaginate anche voi; più allora che mai, mi comandavano di
provvedere a quel negozio, urgente fra tutti. Se il principe Savelli
avesse potuto immaginare che nell’animo mio ci fosse la speranza di
aver saldato un debito d’onore con una.... mediazione!... Anche il
vocabolo, oggi che ho pagato, mi scotta le labbra. Ritornai a Venezia,
e non osando confessare neanche allora il mio triste caso ai parenti,
ma alquanto più calmo, poichè avevo più tempo davanti a me, ricorsi
ai consigli di un avvocato. I miei beni non erano gravati di nessuna
ipoteca; potevo ottenere un imprestito. La somma era forte, nè io
avrei saputo a chi domandarla; ci pensò l’avvocato, e trovò egli il
mutuante. Si chiama così, il personaggio che impresta; — soggiunse
Massimo, sforzandosi di rallegrare la materia con una piccola celia.
— Ma queste cose non si fanno alla lesta; il personaggio è lento a
risolversi, minuzioso nell’osservare dove e in qual modo colloca il
suo denaro. Soltanto otto giorni fa potei aver conchiuso il contratto.
E neanche allora mi fu possibile allontanarmi da Venezia, perchè la
cosa era giunta all’orecchio dei miei signori zii. Dovetti umiliarmi,
raccontando come e perchè io mi fossi trovato in quel grave bisogno.
Meglio così, finalmente! Fui sgridato, ma fui anche perdonato. Ora
essi non hanno altro pensiero che di restituire la somma per me. Sul
castello dei conti di Riva, mi dissero, non sono mai state ipoteche;
sarebbe brutto incominciar ora, dopo seicent’anni di storia. Ah, nobili
vecchi! Li ho abbracciati, piangente, dopo aver fatto il giuramento
solenne di non dar loro mai più un altro dispiacere come quello. Oggi
finalmente respiro. Son ritornato a Roma, e mi sento quello di prima,
poichè ho riconquistato me stesso, e mi pare di essermi svegliato da
un sogno. Da un brutto sogno, diciamo, perchè il giuocatore è assai
brutto.
— Dite benissimo, conte; — replicò la duchessa. — Il giuocatore non è
neanche un uomo. Ma che racconto mi avete voi fatto! Anche a me par di
sognare. Non avrei creduto mai che un uomo serio come il Savelli....
— Ah, che dirvi? — interruppe Massimo. — Certo la sente anche lui, la
vergogna del fatto; anzi, diciamo pure che la sente più di me. Perchè,
infine, tra due giuocatori brutti, il più brutto è ancora quegli che
vince. Parlo di giuocatori gentiluomini, s’intende, e non considero i
giuocatori di professione. Vergognato da parte sua, Memmo Savelli mi
chiese il silenzio. Ma voi, Serena, dovevate sapere ogni cosa.
— Ed ora, speriamo, non giuocherete più.
— Ah, no davvero! Se anche non l’avessi giurato, me ne riterrebbe
l’orrore della cosa.
— E il gran rischio, — aggiunse la duchessa, — il gran rischio a cui vi
esponevate, di fare una brutta figura nel mondo. A quali pericoli si va
incontro, in un momento di follia! —
Massimo era contento e mortificato ad un tempo. Contento prima di
tutto, che la sua stramba invenzione fosse così facilmente creduta.
Ma era poi così stramba, se veniva a corroborarla il fatto del
matrimonio di Memmo Savelli? No, niente stramba, o non più di tante
cose che paiono inverisimili, ma che hanno per sè la dimostrazione
irrepugnabile dell’evidenza. Quanto all’essere mortificato, vi sarà
facile intenderlo, se penserete, come lui in quel punto, alla prontezza
con cui aveva riportata la sua grande vittoria. Quella donna non gli
aveva neanche lasciato il tempo di piangere nessuna di quelle lacrime,
che egli avrebbe piante così bene. Ma già egli riconosceva anche in
questo particolare la sua duchessa di San Secondo, gentile e buona,
ma fredda, come una bella statua di marmo. Le belle donne, del resto,
non sono un po’ tutte così, come le belle statue? A queste il sole più
ardente, a quelle il fuoco della passione più viva, non riscalda che la
superficie; alle une e alle altre non si può chieder di più.
Così pensava, il signor conte, e frattanto rispondeva a Serena.
— Ma se vi dico che fu un momento di aberrazione!... Io l’ho scontato
con dolori ineffabili. Se sapeste come ho pianto, lontano da Roma.... e
da ogni cosa più cara! Ma voi mi avete perdonato, non è vero?
— Sì, conte. E perchè non dovrebbe perdonarvi, l’amicizia, se ritornate
pentito?
Non era ciò che Massimo voleva. E capì in quel momento che meglio del
raccontare sarebbe giovato il piangere. Ma l’occasione di spargerle,
quelle lacrime vittoriose, non si era offerta ancora: gli bisognava
cercarla.
— L’amicizia! — esclamò, con accento drammatico. — È grande fortuna. Ma
di certe donne.... e per me di una sola al mondo.... l’amicizia è poco.
Voi solevate ridere, Serena, quando io, povero innamorato, vi parlavo
d’altro; quando nell’impeto della passione prorompente....
— Ora, come allora, — interruppe la duchessa, — io vi dico: fermatevi!
Non era bene, il ridere? Non era bene il trattenervi? Sapete pure che
le parole mi son sempre parse parole. L’amore, poichè volete ancora
ricordarlo, si conosce alla prova. E la prova è lunga, quando non può
ottenere l’evidenza da una solenne occasione.
— È giusto; — rispose Massimo, intendendo che bisognava passare per
un capitolo di filosofia. — E mancandomi l’occasione della prova
solenne, io non potevo far altro che darvi la prova di un amore
continuo, paziente, che nessun rigore poteva comprimere, nessuna
freddezza soffocarmi nel cuore. Fui sempre il vostro umile schiavo,
ve ne ricordate? E voi, che da principio ridevate, incominciaste
un giorno a non rider più. Mi fermavate ancora, lo so; volevate
così, ed io vi obbedivo, riluttante. Ma allora anche il mio silenzio
continuava a parlare. Serena, se conservate memoria di quei lunghi
giorni d’angoscia.... Serena, se il vostro cuore non è mutato, se
è ancora capace di compassione.... se avete perdonato ad un errore,
che non poteva offendere la donna adorata, e di cui ho sofferto io le
pene atrocissime.... se credete alle mie lacrime amare.... vi prego,
vi supplico, lasciate l’amicizia, che è troppo, se io sono indegno di
perdono, che è troppo poco, se io valgo ancora qualche cosa per voi.
Serena, io mi butto ai vostri piedi. Calpestatemi, se volete; ma ditemi
che mi amate ancora. —
E stava per inginocchiarsi, il lacrimoso eroe; ma la duchessa lo
trattenne col gesto.
— No; — gli rispose poscia, con accento tranquillo.
— No? — gridò egli, turbato. — No, avete detto?
— Se debbo dirvelo ancora!... — riprese la duchessa. — Non so che gusto
ci troviate a sentirlo ripetere. Ma sia pure come volete: no, non posso
amarvi, non vi amo.
— Ma è possibile, Dio santo? — gridò Massimo, piangendo davvero. — Ma
che ho fatto io, per dispiacervi così? Non intendete dunque come io sia
stato travolto dalla fatalità? Non avete voi perdonato?... Ah no, pur
troppo, voi non mi avete perdonato veramente, perchè non avete inteso.
— Ho inteso, conte; — rispose pacatamente Serena. — Calmatevi, signor
Massimo, e ragioniamo. Ho inteso che noi non eravamo nati l’uno per
l’altro. Anch’io ho sognato, un giorno. E quando sogno, credetemi,
sogno bene. Non so pensarli e non li voglio, gli amori vili, che
nascono nell’ozio elegante e si trascinano nella consuetudine, per
morire nella stanchezza. Valgo di più, e lo sento, e non mi abbasso.
Sto sul mio plinto, se volete, come una statua di marmo. Mi pare che
una volta siate arrivato a dirmelo voi, ed ho sorriso allora, come
ora. Statua greca, o idolo indiano ch’io sia (anche questo m’avete
detto un giorno, ed ho ancora sorriso), non sono una donna che si possa
lasciare.... neanche per una tavola da giuoco. Non sono una donna a
cui basti la prova di una servitù che tutte le abitudini di società
rendono molto facile ai gentiluomini come voi. Eravate forse nel
deserto, vivendo accanto a me? In questa Tebaide rumorosa, eremita da
burla (ve lo lascerete dire da una statua greca e da un idolo indiano),
voi passavate agli occhi di tutti per un cavalier servente.... chi sa?
fors’anche per un cavalier fortunato. Non ho io fatto molto? non ho
io fatto troppo, lasciandolo credere? Era venuto il momento di fare
a vostra volta qualche cosa, un po’ più di quello che la mia passata
condizione vi permettesse. Ma allora, proprio allora che io vivevo più
ritirata, non più a teatri nè a feste, che facevate voi, conte Massimo?
Seguitavate a frequentare i teatri, dove io non ero; a mostrarvi nelle
feste da ballo, dove io non andavo; a far conoscenze e visite, che io
non dovevo sapere. E mi son io lagnata? No. Son così fredda, io! così
insensibile! Povero conte, non piangete, vi prego; le lacrime non ci
hanno a far nulla.
— Son vere; — mormorò Massimo, tra un singhiozzo e l’altro.
— Lo credo; — ripigliò la duchessa. — Ora soffre in voi l’amor proprio,
e per quello si piange davvero, la finzione non c’entra. Anche il
mio ha sofferto, non mi vergogno di confessarvelo, ha sofferto più
lungamente del vostro. Facciamo una cosa, signor conte, la migliore che
possiamo fare in questo momento doloroso: prendiamo il vostro e il mio,
buttiamoli a fiume, e ridiamo. L’amicizia che io vi offro, è sincera,
consente almeno di ridere.
— E mi avevate permesso di venire da voi! — esclamò il conte Massimo,
che non sapeva rassegnarsi.
— Dovevo io proibirvelo? — replicò la duchessa. — Ho pensato invece
che l’onor vostro e l’onor mio domandassero questa scena. Ma noi, salvo
l’onore, non lo faremo più triste che la cosa non meriti.
— Io vi amo, signora! — gridò Massimo, esacerbato da quell’accento
tranquillo, donde traspariva lo scherno. — E voi.... amate un
altro. —
A quel colpo inatteso, la duchessa rizzò fieramente la testa, saettando
il conte Massimo di una occhiata severa.
— E se fosse?... — diss’ella.
— Ucciderei quell’uomo; — rispose Massimo, il cui amor proprio offeso
aveva finalmente trovato la via di sfogarsi.
— Ah, veramente? lo uccidereste? Dovrò io dunque nasconderlo con molta
cura, signor conte di Riva, per custodirlo dalle vostre vendette?
— Non lo custodirete, non lo nasconderete, signora. Saprò ben trovarlo
io.... l’ho già trovato: è un vil traditore dell’amicizia.... è
Almerico di Montegalda.
— Conte! Vi proibisco di offendere quell’uomo; — gridò la duchessa,
levandosi in piedi, sdegnata.
Ma l’atto imperatorio e l’accento severo non valsero a trattenere la
foga furibonda di Massimo.
— Ah, ah! — rispose egli, accompagnando l’esclamazione con un riso
sarcastico. — Voi me lo proibite, signora? Non mi basteranno allora le
parole, lo schiaffeggerò. —
La duchessa fu per replicare; e il gesto della mano distesa accennava
già con la replica il comando. Ma in quel punto la bussola si aperse, e
un nuovo interlocutore entrò in scena.
— Chi parla di schiaffeggiare? — diss’egli. — Chi alza la voce in casa
vostra, signora duchessa? —
Massimo si era voltato in soprassalto, e aveva riconosciuto il
Buonsanti. Irritato com’era, non poteva mutarsi di punto in bianco per
l’arrivo di un uomo. Insolente con una dama, doveva essere impertinente
col cavaliere che veniva in mal punto a sostenerne le parti. Meglio
così, del resto; aveva trovato con chi sfogare il suo grande dispetto.
Poc’anzi rideva sarcasticamente; fu allora il caso di ghignare. E
ghignando rispose:
— Si ascolta agli usci! È usanza da servitori.
— Non mi dispiace il nome; — replicò serio il cavaliere. — Quando la
padrona è offesa da un mascalzone, il servo entra e mette l’insultatore
nel caso di scegliere tra la porta e la finestra. Ho fatto promessa a
me medesimo di castigarvi, signor conte di Riva. Escite! —
Massimo strinse i pugni, sbuffando, e si morse le labbra a sangue.
Guardò il suo avversario; guardò la duchessa, che stendeva la mano al
nuovo venuto; poi disse, con voce soffocata dalla rabbia:
— E sia. Ci rivedremo.
— Come, e dove, e quando vorrete; — rispose il cavaliere.
Ciò detto, gli volse le spalle, senza darsi più cura di lui.
Massimo balenò tra due pensieri un istante; poi scosse la testa,
borbottò una minaccia e scomparve.
— Ah, cavaliere! che avete voi fatto? — esclamò la duchessa.
— Signora, il mio dovere; — rispose il Buonsanti. — Sapevo di questo
colloquio. Quel povero ragazzo di Almerico non aveva potuto nascondermi
nulla. Capirete che non ero tranquillo. Ho girato un pezzo per le
vie; finalmente mi son risoluto di venire da voi. «Non disturbiamo la
signora» ho detto al servitore «aspetterò, leggendo i giornali». Ed ho
aspettato, pazientemente, finchè non ho sentito gridare a quel modo.
Ah! il signorino vuol schiaffeggiare ed uccidere? Troverà il fatto suo.
Non mi si tocca Almerico; non si va contro lui, senza trovar me sulla
strada. Glieli darò io, gli schiaffi; in piombo, o in acciaio, a sua
scelta.
— Ah! — gridò la duchessa, atterrita. — Non accadrà nulla per me.
Questo duello è impossibile. Io non lo voglio. Qualunque cosa io farò,
per impedirlo.
— Signora, — disse il Buonsanti, — voi rimarrete tranquilla e
fiduciosa, nella vostra dignità di dama. Credete a me: le donne
non debbono frammettersi in queste cose. Infine, dovete pensare che
avete un cavaliere, e che in casa vostra non si alza impunemente la
voce. —
Ma così non vedeva le cose la duchessa Serena. Come tutte le donne
profondamente buone, aborriva da questi giuochi scellerati, non voleva
a nessun conto che si spargesse sangue per lei. Salda nella propria
dignità, quando era sola a custodirla, si sarebbe umiliata, prostrata
ai piedi del più vile tra gli uomini, pur d’impedire uno scontro di cui
ella fosse, o solamente dubitasse di poter essere la cagione innocente.
Il cavaliere di Carpigliano non durò fatica ad intendere lo stato
dell’animo di lei, e subito abbassò d’un tono la sua musica guerriera.
— Ebbene, — diss’egli mostrandosi scosso dalle sue paure, — sia come
volete. Io sono andato troppo innanzi, e forse sarebbe bastato che
io mi presentassi, visitatore discreto, per interrompere un penoso
colloquio. Ma non restava egualmente il pericolo che il conte di
Riva, escito di qui, andasse ad offendere, a provocare Almerico? Il
conte di Montegalda è d’animo prode, e non si lascia intimidire dai
rodomonti. Vedete, signora? è dunque assai meglio che il primo sfogo
sia stato contro di me, e che con me sia impegnato, prima che con
altri, qual birichino insolente. Impedire che egli si batta con me, mi
pare impossibile, nel modo che vorreste voi. Pensateci, duchessa; mi
fareste passare per un vile, che si trinciera dietro una gonnella....
scusate il vocabolo!... e un vile, perdio, non lo sono mai stato,
nè incomincierò ad esserlo, a cinquantadue anni.... suonati. Andrei
piuttosto io a schiaffeggiarlo, per ricominciar la partita.
— Ma allora.... — balbettò la duchessa.
— Ma allora, ecco qua; — rispose il buon cavaliere. — Ho forse
ascoltalo agli usci più che non dovessi, e certamente più che non
abbia detto poc’anzi. Il signor conte, dimenticando la vecchia
massima: «noblesse oblige», ha detto un sacco di bugie, per iscusare
la sua partenza da Roma, e per colorire la sua presenza a Napoli, al
fianco di madamigella Lockwood. Ma che colorire? A quel suo sciocco
romanzo è mancata ogni tinta di verisimile. Come abbia osato tuttavia
di sciorinarvelo, io non arrivo a capire. Forse ha fidato molto
nell’audacia dell’invenzione, ed anche un poco sul vostro silenzio. Ma
un terzo l’ha udito, e quel terzo son io, che so per l’appunto tutto
il contrario di ciò ch’egli narra. Ora sentite: egli manda da me i suoi
padrini; questo è naturale, è necessario, se egli non è vile, quanto è
stato bugiardo. Io rispondo, mettendo le carte in tavola, convincendolo
di menzogna; e scambio di condurlo sul terreno, lo faccio scappare da
Roma. —
La duchessa era stata ad udire con grande attenzione il discorso del
Buonsanti.
— Io non so come queste cose si facciano; — diss’ella, confusa. — Ma
voi mi promettete che una via si può trovare....
— Vi dico che ne son sicuro, sicurissimo.
— E che voi la cercherete?
— Naturalmente; non dubitate. —
XVIII.
Gli avanzi della Cernaia.
Sicurissimo? Non lo era punto, il buon cavaliere di Carpigliano. Aveva
parlato così, per una di quelle ispirazioni subitanee, che qualche
volta sono divinazioni del vero, ma più spesso gretole trovate in buon
punto, per cavare un uomo d’impiccio.
Certo, il buon cavaliere non amava il conte Massimo; certo, dubitava
della sua sincerità, come aveva dubitato della sua serietà; certo
lo aveva per il più bugiardo tra gli uomini. Ma in quel discorso di
Massimo, discorso lungo, donde traspariva lo stento della invenzione,
una cosa era notevole: l’annunziato matrimonio del principe Savelli. Di
quel matrimonio, cosa strana, a Roma non si sapeva ancor nulla. E come
poteva saperne già tanto, il signor conte di Riva? Con qual fiducia si
sarebbe egli arrischiato a dar la notizia, se avesse pensato di dir
cosa non vera? Sicuramente, egli annunziava un fatto, o il principio
d’un fatto; sicuramente tra Don Memmo Savelli e la famiglia Lockwood
erano corse promesse d’alleanza, e il conte di Riva ne era consapevole;
fors’anche ne era stato testimone. Ma come poteva essere avvenuto
ciò? e con qual gusto per il conte di Riva? Invaghito della bionda
americana, o forse de’ suoi milioni (il cavaliere Buonsanti propendeva
piuttosto per questa seconda opinione), fuggito a bella posta da
Roma per correre sulla traccia luminosa di quella miniera d’argento
e di quei capegli d’oro, come aveva potuto il conte di Riva lasciarsi
prendere il fatto suo da Don Memmo Savelli? lasciarsi soppiantare da
lui, senza far resistenza? ed apparendone ancora felicissimo?
Il nodo era lì. Al buon cavaliere di Carpigliano il cuore diceva: qui
bisogna cercare.
Ma intanto che si disponeva a cercare, non era altrimenti disposto
a mantener la promessa, che aveva fatta alla duchessa Serena, di
evitare lo scontro. Son queste le bugie pietose che un galantuomo
si fa lecito col sesso gentile, col sesso debole, il quale non ha,
generalmente parlando, i nostri furori titanici e non usa la nostra
logica, nella soluzione di certi problemi della convivenza sociale.
Che belle parole, non è vero? e per dirvi che questo consorzio umano
è una gran mescolanza di bestie d’ogni specie e d’ogni indole! Ma sì,
lettori cortesi: non veniamo noi tutti dall’arca di Noè? Quello è stato
l’esempio, il principio e l’archetipo della convivenza sociale.
La prima cosa che fece il cavaliere Buonsanti, a mala pena uscito
dal palazzo San Secondo, fu di andare al caffè Maravigli. Non si
fermò alla prima sala, ritrovo di giornalisti; non alla seconda,
conciliabolo di pezzi grossi del Parlamento; non alla terza, accademia
di professori, più o meno Lincèi; andò diritto alla quarta, circolo di
vecchi ufficiali. Colà, nelle prime ore della sera, si sentiva parlare
il buon piemontese di Cuneo e di Fossano, di Pinerolo e d’Ivrea, di
Cherasco e di Mondovì. Colà, secondo la piega della conversazione, si
rifacevano piani di vecchie battaglie, o si ragionava pacatamente di
stati, di competenze, di avanzamenti, di collocazioni a riposo, o in
posizione ausiliaria. Ho detto pacatamente; ed erano infatti uomini
calmi, contegnosi anche nella ilarità di certi momenti; avevano i baffi
grigi, le fronti aperte e gli occhi sereni. Il soldato che ha fornita
la sua lunga carriera, e la ricorre col pensiero e ci vede per entro,
come pietre miliari, tanti bei nomi di battaglie che hanno rifatta
l’unità e l’indipendenza della patria, ha questa serenità, questa
limpidezza nell’occhio, dove pare che si rispecchino ancora le grandi
cose compiute. Quando sono in parecchi, raccolti a discorrere in un’ora
di svago, vengono fuori anche i morti, con le loro alte virtù militari,
perfino coi loro difetti, trasformati, trasfigurati in qualità. Come
si ricorda allora il buon Cerale, «Ceralin d’or», che distingueva,
per le firme, il calamaio divisionale dal calamaio circondariale, ma
che sapeva far tanto bene una cosa, da lasciar credere che non sapesse
fame altra: andare avanti! E il maggior Quaglia, col suo cerimonioso
«passi pure!» al sottotenente che gli aveva detto impossibile rimettere
un cannone sul fusto, per fare una scarica di mitraglia, col nemico a
quaranta passi, e a cui egli, il bravo maggiore, aveva dimostrato col
fatto esser l’una cosa e l’altra egualmente possibili! E il capitano
Gatti, col suo «silenzio!» proferito ad alta voce, dopo aver egli
stesso interrogato l’inferiore! Era sordo, il valoroso, sordo ad ogni
voi; anzi, per dirvi tutto, mi bisognate voi, e un altro non potrebbe
servirmi come voi». La lettera non diceva di più; solo insisteva
sulla necessità di avermi a Napoli, e subito. Non posi tempo in mezzo,
immaginando che si trattasse di cosa gravissima, e pensando che a Don
Memmo Savelli io non potevo oramai ricusare nessun sacrifizio. —
Qui il signor conte di Riva sentì il bisogno di ricogliere il fiato.
Aveva già detto molto; ma proprio allora veniva il difficile. La
duchessa taceva, ma con molta attenzione seguiva il racconto, guardando
fissamente Massimo, pendendo quasi dalle sue labbra. Buon segno, non è
vero? E così doveva pensare anche lui.
Dopo un istante di pausa, Massimo ripigliò in questa forma:
— Che cosa vorrà il principe Savelli, che rinunzia alla speranza di un
pronto pagamento, per avermi a Napoli con lui? Fatta questa domanda a
me stesso, cercai tutte le spiegazioni possibili, senza appormi alla
vera. Questa, io non la conobbi che a Napoli, e proprio alla stazione
della strada ferrata, perchè egli era venuto ad aspettarmi, all’arrivo
del treno. «Massimo, mi disse egli subito, voi solo potete rendermi
il più felice degli uomini». E perchè io mi maravigliavo di tanto
potere che egli supponeva in me, Don Memmo fu pronto a soggiungere:
«Vi parrà strano, ma così è: la mia sorte è nelle vostre mani; sono
innamorato.... di miss Lockwood».
— Ah! — esclamò Serena. — E che c’entravate voi, conte?
— Ecco qua; — rispose Massimo, con aria di sommo candore. — Dovete
sapere che a Roma, sul principio dell’inverno, avevo conosciuto un
signore americano. Era una conoscenza superficiale, di cui non avevo
fatto caso, come non lo feci poi dell’incontro delle due signore, al
ballo dell’ambasciata inglese. Il signor Lockwood, poichè di lui si
parla, mi aveva preso in grande amore. Simpatie naturali, che non
si spiegano, perchè non si bada alle loro origini, al modo in cui
sono nate! Io avevo portati due biglietti di visita all’albergo di
Roma, dove i signori Lockwood erano alloggiati, e poi.... m’ero anche
dimenticato di loro.
— Non però di fare una visita nel loro palco a teatro; — osservò
placidamente la duchessa.
— Me ne fate ricordare; — rispose Massimo. — Cercavo il Mattei, per
quella certa questione d’onore, in cui eravamo impegnati; dovevo
parlargli ad ogni costo, mi dissero che era nel palco dei Lockwood, e
approfittai della conoscenza, per andarlo a cercare. Non rimasi là che
due minuti.... Anche di questa circostanza ho parlato al Montegalda,
mi pare. Comunque sia, ecco il fatto, spogliato di tutti i suoi
abbellimenti; i signori Lockwood avevano lasciato Roma per andare
a Napoli. Laggiù, non so come, nè perchè, aveva dovuto recarsi il
Savelli. E laggiù, vedendo la signorina Lockwood, se ne era invaghito.
Una delle sue stravaganze! Don Memmo, infatti, soleva dire che non gli
erano mai piaciute le bionde.
— In queste materie si cambia così facilmente d’opinione! — notò la
duchessa, sorridendo.
— Dev’esser così.... per Don Memmo; — rispose il conte di Riva,
felicissimo di vedere accettate con tante benignità le sue stentate
invenzioni. — Egli dunque si era invaghito di una bionda, e d’una
bionda americana. Il caso aveva fatto che non fosse entrato in
relazione con quella famiglia, quando era a Roma. Bisognava far
conoscenza allora....
— Ed era necessario chiamar voi da Venezia? — esclamò Serena. — In
verità, non credevo così povero di spirito il vostro Don Memmo!
— Qui forse non lo giudicate bene, signora. Egli non aveva modo di
farsi presentare da nessuno, perchè i Lockwood, che a Roma facevano
vita di società, a Napoli ci stavano da semplici viaggiatori, senza
nessuna relazione con la buona compagnia. Un solo personaggio, non
so come, era riuscito ad entrare in qualche dimestichezza con loro:
un certo marchese Gerolifi di Monte Carmelo: gran nobiltà, con pochi
quattrini, e urgente pericolo per l’innamorato Don Memmo. Fu allora
che questi, ricordando di avermi veduto a Roma in compagnia con
mister Lockwood, e non vedendo lì per lì altro modo di entrare in
relazione con lui, mi scrisse la sua lettera, chiedendo soccorso.
Gli ero obbligato da quel debito maledetto; non potei ricusarmi ad un
appello, di cui ignoravo tuttavia le cagioni. «Non è che questo?» gli
dissi, quando egli ebbe parlato. «Oggi stesso vi presenterò a mister
Lockwood». Egli così freddo e contegnoso, come un antico barone, poco
mancò non mi gittasse le braccia al collo. Quel medesimo giorno, per
fargli servizio, andavo a visitare i Lockwood, ed accettavo di fare
insieme una gita a Pompei. Due giorni dopo, presentavo Don Memmo. Era
tempo. Infatuato dei titoli, il minatore americano aveva disegnato
di fare della sua figliuola una marchesa di Monte Carmelo e di non so
quali altre terre ipotecate e castella smantellate. Don Memmo aveva più
titoli, ed era ricco per giunta: non si poteva credere che sposasse
soltanto per entrare al possesso di una miniera d’argento. Egli, ad
ogni modo, copriva le gracili spalle di miss Lockwood con un mantello
di ermellino; cingeva la sua piccola fronte con una corona chiusa di
principessa del Sacro Romano Impero. Mister Lockwood, una settimana
dopo la presentazione di Don Memmo, non vedeva più che per gli occhi di
lui. Il marchese Gerolifi se ne ritornò a Monte Carmelo, e il principe
Savelli ebbe la consolazione, che io veramente non riesco ad intendere,
di vedere accolta la sua domanda formale.
— Di matrimonio? — gridò Serena.
— Sicuramente.
— Il principe Savelli.... il principe Savelli sposa miss Lockwood? E
siete voi, conte, che avete combinato il matrimonio! Voi, al quale si
attribuiva anzi l’idea....
— L’idea sciocca di essere andato a Napoli, perchè invaghito della
bionda signorina, non è vero? — disse Massimo, torcendo le labbra con
aria di superbo dispregio. — Queste cose poteva pensarle soltanto un
uomo che non mi conoscesse; solo un nemico poteva dirle, ma ancora
senza crederle. Ora eccovi la mia giustificazione nel fatto. Avrei
lavorato per altri, se quella ricca dote e quella povera figura fossero
piaciute a me? —
La duchessa taceva, guardando sempre fissamente il signor Massimo,
come se volesse leggergli dentro l’anima quelle idee che egli andava
vestendo così faticosamente di parole. E tacque ancora, nella pausa
ch’egli fece, ammirato dell’antitesi che gli era fiorita dal labbro.
Perdoniamogli questo gaudio d’artefice, noi che nel caso suo, o in
altro consimile, faremmo altrettanto, e senza sentirne vergogna. Quante
volte non ci avviene egli di ammirarci, ingenui fabbricatori di frasi,
che volentieri abbiamo in conto d’idee!
— E così, — disse lentamente Serena, dopo quell’istante di pausa, —
avete assistiti gli amori nascenti di Memmo Savelli e della signorina
Lockwood? Non supponevo in voi tanta pazienza, davvero!
— Non è infatti nell’indole mia; — rispose Massimo, non intendendo il
pensiero di lei, o prendendolo troppo alla lettera. — M’importava poco
di assistere; mi cuoceva anzi di restare, poichè avevo reso all’amico
il servizio che aspettava da me. Ma io, per rendere quel servizio a
Don Memmo, avevo dovuto fingere un viaggio di piacere; e perciò fui
costretto a restare una diecina di giorni ancora, sempre in compagnia
degli amici, girando di qua e di là, come un grande curioso, ammirando
tutto quello che gli altri volevano ammirare, da Sorrento, dove il
Tasso è nato, fino al capo Miseno, dove Augustolo è morto. Come avrei
voluto correre a Roma, per raccontarvi ogni cosa! Ma ricordavo il mio
debito; quantunque Don Memmo mi pregasse di non darmene pensiero, io
non pensavo ad altro, in quei giorni. Orgoglio e vergogna volevano
così, lo immaginate anche voi; più allora che mai, mi comandavano di
provvedere a quel negozio, urgente fra tutti. Se il principe Savelli
avesse potuto immaginare che nell’animo mio ci fosse la speranza di
aver saldato un debito d’onore con una.... mediazione!... Anche il
vocabolo, oggi che ho pagato, mi scotta le labbra. Ritornai a Venezia,
e non osando confessare neanche allora il mio triste caso ai parenti,
ma alquanto più calmo, poichè avevo più tempo davanti a me, ricorsi
ai consigli di un avvocato. I miei beni non erano gravati di nessuna
ipoteca; potevo ottenere un imprestito. La somma era forte, nè io
avrei saputo a chi domandarla; ci pensò l’avvocato, e trovò egli il
mutuante. Si chiama così, il personaggio che impresta; — soggiunse
Massimo, sforzandosi di rallegrare la materia con una piccola celia.
— Ma queste cose non si fanno alla lesta; il personaggio è lento a
risolversi, minuzioso nell’osservare dove e in qual modo colloca il
suo denaro. Soltanto otto giorni fa potei aver conchiuso il contratto.
E neanche allora mi fu possibile allontanarmi da Venezia, perchè la
cosa era giunta all’orecchio dei miei signori zii. Dovetti umiliarmi,
raccontando come e perchè io mi fossi trovato in quel grave bisogno.
Meglio così, finalmente! Fui sgridato, ma fui anche perdonato. Ora
essi non hanno altro pensiero che di restituire la somma per me. Sul
castello dei conti di Riva, mi dissero, non sono mai state ipoteche;
sarebbe brutto incominciar ora, dopo seicent’anni di storia. Ah, nobili
vecchi! Li ho abbracciati, piangente, dopo aver fatto il giuramento
solenne di non dar loro mai più un altro dispiacere come quello. Oggi
finalmente respiro. Son ritornato a Roma, e mi sento quello di prima,
poichè ho riconquistato me stesso, e mi pare di essermi svegliato da
un sogno. Da un brutto sogno, diciamo, perchè il giuocatore è assai
brutto.
— Dite benissimo, conte; — replicò la duchessa. — Il giuocatore non è
neanche un uomo. Ma che racconto mi avete voi fatto! Anche a me par di
sognare. Non avrei creduto mai che un uomo serio come il Savelli....
— Ah, che dirvi? — interruppe Massimo. — Certo la sente anche lui, la
vergogna del fatto; anzi, diciamo pure che la sente più di me. Perchè,
infine, tra due giuocatori brutti, il più brutto è ancora quegli che
vince. Parlo di giuocatori gentiluomini, s’intende, e non considero i
giuocatori di professione. Vergognato da parte sua, Memmo Savelli mi
chiese il silenzio. Ma voi, Serena, dovevate sapere ogni cosa.
— Ed ora, speriamo, non giuocherete più.
— Ah, no davvero! Se anche non l’avessi giurato, me ne riterrebbe
l’orrore della cosa.
— E il gran rischio, — aggiunse la duchessa, — il gran rischio a cui vi
esponevate, di fare una brutta figura nel mondo. A quali pericoli si va
incontro, in un momento di follia! —
Massimo era contento e mortificato ad un tempo. Contento prima di
tutto, che la sua stramba invenzione fosse così facilmente creduta.
Ma era poi così stramba, se veniva a corroborarla il fatto del
matrimonio di Memmo Savelli? No, niente stramba, o non più di tante
cose che paiono inverisimili, ma che hanno per sè la dimostrazione
irrepugnabile dell’evidenza. Quanto all’essere mortificato, vi sarà
facile intenderlo, se penserete, come lui in quel punto, alla prontezza
con cui aveva riportata la sua grande vittoria. Quella donna non gli
aveva neanche lasciato il tempo di piangere nessuna di quelle lacrime,
che egli avrebbe piante così bene. Ma già egli riconosceva anche in
questo particolare la sua duchessa di San Secondo, gentile e buona,
ma fredda, come una bella statua di marmo. Le belle donne, del resto,
non sono un po’ tutte così, come le belle statue? A queste il sole più
ardente, a quelle il fuoco della passione più viva, non riscalda che la
superficie; alle une e alle altre non si può chieder di più.
Così pensava, il signor conte, e frattanto rispondeva a Serena.
— Ma se vi dico che fu un momento di aberrazione!... Io l’ho scontato
con dolori ineffabili. Se sapeste come ho pianto, lontano da Roma.... e
da ogni cosa più cara! Ma voi mi avete perdonato, non è vero?
— Sì, conte. E perchè non dovrebbe perdonarvi, l’amicizia, se ritornate
pentito?
Non era ciò che Massimo voleva. E capì in quel momento che meglio del
raccontare sarebbe giovato il piangere. Ma l’occasione di spargerle,
quelle lacrime vittoriose, non si era offerta ancora: gli bisognava
cercarla.
— L’amicizia! — esclamò, con accento drammatico. — È grande fortuna. Ma
di certe donne.... e per me di una sola al mondo.... l’amicizia è poco.
Voi solevate ridere, Serena, quando io, povero innamorato, vi parlavo
d’altro; quando nell’impeto della passione prorompente....
— Ora, come allora, — interruppe la duchessa, — io vi dico: fermatevi!
Non era bene, il ridere? Non era bene il trattenervi? Sapete pure che
le parole mi son sempre parse parole. L’amore, poichè volete ancora
ricordarlo, si conosce alla prova. E la prova è lunga, quando non può
ottenere l’evidenza da una solenne occasione.
— È giusto; — rispose Massimo, intendendo che bisognava passare per
un capitolo di filosofia. — E mancandomi l’occasione della prova
solenne, io non potevo far altro che darvi la prova di un amore
continuo, paziente, che nessun rigore poteva comprimere, nessuna
freddezza soffocarmi nel cuore. Fui sempre il vostro umile schiavo,
ve ne ricordate? E voi, che da principio ridevate, incominciaste
un giorno a non rider più. Mi fermavate ancora, lo so; volevate
così, ed io vi obbedivo, riluttante. Ma allora anche il mio silenzio
continuava a parlare. Serena, se conservate memoria di quei lunghi
giorni d’angoscia.... Serena, se il vostro cuore non è mutato, se
è ancora capace di compassione.... se avete perdonato ad un errore,
che non poteva offendere la donna adorata, e di cui ho sofferto io le
pene atrocissime.... se credete alle mie lacrime amare.... vi prego,
vi supplico, lasciate l’amicizia, che è troppo, se io sono indegno di
perdono, che è troppo poco, se io valgo ancora qualche cosa per voi.
Serena, io mi butto ai vostri piedi. Calpestatemi, se volete; ma ditemi
che mi amate ancora. —
E stava per inginocchiarsi, il lacrimoso eroe; ma la duchessa lo
trattenne col gesto.
— No; — gli rispose poscia, con accento tranquillo.
— No? — gridò egli, turbato. — No, avete detto?
— Se debbo dirvelo ancora!... — riprese la duchessa. — Non so che gusto
ci troviate a sentirlo ripetere. Ma sia pure come volete: no, non posso
amarvi, non vi amo.
— Ma è possibile, Dio santo? — gridò Massimo, piangendo davvero. — Ma
che ho fatto io, per dispiacervi così? Non intendete dunque come io sia
stato travolto dalla fatalità? Non avete voi perdonato?... Ah no, pur
troppo, voi non mi avete perdonato veramente, perchè non avete inteso.
— Ho inteso, conte; — rispose pacatamente Serena. — Calmatevi, signor
Massimo, e ragioniamo. Ho inteso che noi non eravamo nati l’uno per
l’altro. Anch’io ho sognato, un giorno. E quando sogno, credetemi,
sogno bene. Non so pensarli e non li voglio, gli amori vili, che
nascono nell’ozio elegante e si trascinano nella consuetudine, per
morire nella stanchezza. Valgo di più, e lo sento, e non mi abbasso.
Sto sul mio plinto, se volete, come una statua di marmo. Mi pare che
una volta siate arrivato a dirmelo voi, ed ho sorriso allora, come
ora. Statua greca, o idolo indiano ch’io sia (anche questo m’avete
detto un giorno, ed ho ancora sorriso), non sono una donna che si possa
lasciare.... neanche per una tavola da giuoco. Non sono una donna a
cui basti la prova di una servitù che tutte le abitudini di società
rendono molto facile ai gentiluomini come voi. Eravate forse nel
deserto, vivendo accanto a me? In questa Tebaide rumorosa, eremita da
burla (ve lo lascerete dire da una statua greca e da un idolo indiano),
voi passavate agli occhi di tutti per un cavalier servente.... chi sa?
fors’anche per un cavalier fortunato. Non ho io fatto molto? non ho
io fatto troppo, lasciandolo credere? Era venuto il momento di fare
a vostra volta qualche cosa, un po’ più di quello che la mia passata
condizione vi permettesse. Ma allora, proprio allora che io vivevo più
ritirata, non più a teatri nè a feste, che facevate voi, conte Massimo?
Seguitavate a frequentare i teatri, dove io non ero; a mostrarvi nelle
feste da ballo, dove io non andavo; a far conoscenze e visite, che io
non dovevo sapere. E mi son io lagnata? No. Son così fredda, io! così
insensibile! Povero conte, non piangete, vi prego; le lacrime non ci
hanno a far nulla.
— Son vere; — mormorò Massimo, tra un singhiozzo e l’altro.
— Lo credo; — ripigliò la duchessa. — Ora soffre in voi l’amor proprio,
e per quello si piange davvero, la finzione non c’entra. Anche il
mio ha sofferto, non mi vergogno di confessarvelo, ha sofferto più
lungamente del vostro. Facciamo una cosa, signor conte, la migliore che
possiamo fare in questo momento doloroso: prendiamo il vostro e il mio,
buttiamoli a fiume, e ridiamo. L’amicizia che io vi offro, è sincera,
consente almeno di ridere.
— E mi avevate permesso di venire da voi! — esclamò il conte Massimo,
che non sapeva rassegnarsi.
— Dovevo io proibirvelo? — replicò la duchessa. — Ho pensato invece
che l’onor vostro e l’onor mio domandassero questa scena. Ma noi, salvo
l’onore, non lo faremo più triste che la cosa non meriti.
— Io vi amo, signora! — gridò Massimo, esacerbato da quell’accento
tranquillo, donde traspariva lo scherno. — E voi.... amate un
altro. —
A quel colpo inatteso, la duchessa rizzò fieramente la testa, saettando
il conte Massimo di una occhiata severa.
— E se fosse?... — diss’ella.
— Ucciderei quell’uomo; — rispose Massimo, il cui amor proprio offeso
aveva finalmente trovato la via di sfogarsi.
— Ah, veramente? lo uccidereste? Dovrò io dunque nasconderlo con molta
cura, signor conte di Riva, per custodirlo dalle vostre vendette?
— Non lo custodirete, non lo nasconderete, signora. Saprò ben trovarlo
io.... l’ho già trovato: è un vil traditore dell’amicizia.... è
Almerico di Montegalda.
— Conte! Vi proibisco di offendere quell’uomo; — gridò la duchessa,
levandosi in piedi, sdegnata.
Ma l’atto imperatorio e l’accento severo non valsero a trattenere la
foga furibonda di Massimo.
— Ah, ah! — rispose egli, accompagnando l’esclamazione con un riso
sarcastico. — Voi me lo proibite, signora? Non mi basteranno allora le
parole, lo schiaffeggerò. —
La duchessa fu per replicare; e il gesto della mano distesa accennava
già con la replica il comando. Ma in quel punto la bussola si aperse, e
un nuovo interlocutore entrò in scena.
— Chi parla di schiaffeggiare? — diss’egli. — Chi alza la voce in casa
vostra, signora duchessa? —
Massimo si era voltato in soprassalto, e aveva riconosciuto il
Buonsanti. Irritato com’era, non poteva mutarsi di punto in bianco per
l’arrivo di un uomo. Insolente con una dama, doveva essere impertinente
col cavaliere che veniva in mal punto a sostenerne le parti. Meglio
così, del resto; aveva trovato con chi sfogare il suo grande dispetto.
Poc’anzi rideva sarcasticamente; fu allora il caso di ghignare. E
ghignando rispose:
— Si ascolta agli usci! È usanza da servitori.
— Non mi dispiace il nome; — replicò serio il cavaliere. — Quando la
padrona è offesa da un mascalzone, il servo entra e mette l’insultatore
nel caso di scegliere tra la porta e la finestra. Ho fatto promessa a
me medesimo di castigarvi, signor conte di Riva. Escite! —
Massimo strinse i pugni, sbuffando, e si morse le labbra a sangue.
Guardò il suo avversario; guardò la duchessa, che stendeva la mano al
nuovo venuto; poi disse, con voce soffocata dalla rabbia:
— E sia. Ci rivedremo.
— Come, e dove, e quando vorrete; — rispose il cavaliere.
Ciò detto, gli volse le spalle, senza darsi più cura di lui.
Massimo balenò tra due pensieri un istante; poi scosse la testa,
borbottò una minaccia e scomparve.
— Ah, cavaliere! che avete voi fatto? — esclamò la duchessa.
— Signora, il mio dovere; — rispose il Buonsanti. — Sapevo di questo
colloquio. Quel povero ragazzo di Almerico non aveva potuto nascondermi
nulla. Capirete che non ero tranquillo. Ho girato un pezzo per le
vie; finalmente mi son risoluto di venire da voi. «Non disturbiamo la
signora» ho detto al servitore «aspetterò, leggendo i giornali». Ed ho
aspettato, pazientemente, finchè non ho sentito gridare a quel modo.
Ah! il signorino vuol schiaffeggiare ed uccidere? Troverà il fatto suo.
Non mi si tocca Almerico; non si va contro lui, senza trovar me sulla
strada. Glieli darò io, gli schiaffi; in piombo, o in acciaio, a sua
scelta.
— Ah! — gridò la duchessa, atterrita. — Non accadrà nulla per me.
Questo duello è impossibile. Io non lo voglio. Qualunque cosa io farò,
per impedirlo.
— Signora, — disse il Buonsanti, — voi rimarrete tranquilla e
fiduciosa, nella vostra dignità di dama. Credete a me: le donne
non debbono frammettersi in queste cose. Infine, dovete pensare che
avete un cavaliere, e che in casa vostra non si alza impunemente la
voce. —
Ma così non vedeva le cose la duchessa Serena. Come tutte le donne
profondamente buone, aborriva da questi giuochi scellerati, non voleva
a nessun conto che si spargesse sangue per lei. Salda nella propria
dignità, quando era sola a custodirla, si sarebbe umiliata, prostrata
ai piedi del più vile tra gli uomini, pur d’impedire uno scontro di cui
ella fosse, o solamente dubitasse di poter essere la cagione innocente.
Il cavaliere di Carpigliano non durò fatica ad intendere lo stato
dell’animo di lei, e subito abbassò d’un tono la sua musica guerriera.
— Ebbene, — diss’egli mostrandosi scosso dalle sue paure, — sia come
volete. Io sono andato troppo innanzi, e forse sarebbe bastato che
io mi presentassi, visitatore discreto, per interrompere un penoso
colloquio. Ma non restava egualmente il pericolo che il conte di
Riva, escito di qui, andasse ad offendere, a provocare Almerico? Il
conte di Montegalda è d’animo prode, e non si lascia intimidire dai
rodomonti. Vedete, signora? è dunque assai meglio che il primo sfogo
sia stato contro di me, e che con me sia impegnato, prima che con
altri, qual birichino insolente. Impedire che egli si batta con me, mi
pare impossibile, nel modo che vorreste voi. Pensateci, duchessa; mi
fareste passare per un vile, che si trinciera dietro una gonnella....
scusate il vocabolo!... e un vile, perdio, non lo sono mai stato,
nè incomincierò ad esserlo, a cinquantadue anni.... suonati. Andrei
piuttosto io a schiaffeggiarlo, per ricominciar la partita.
— Ma allora.... — balbettò la duchessa.
— Ma allora, ecco qua; — rispose il buon cavaliere. — Ho forse
ascoltalo agli usci più che non dovessi, e certamente più che non
abbia detto poc’anzi. Il signor conte, dimenticando la vecchia
massima: «noblesse oblige», ha detto un sacco di bugie, per iscusare
la sua partenza da Roma, e per colorire la sua presenza a Napoli, al
fianco di madamigella Lockwood. Ma che colorire? A quel suo sciocco
romanzo è mancata ogni tinta di verisimile. Come abbia osato tuttavia
di sciorinarvelo, io non arrivo a capire. Forse ha fidato molto
nell’audacia dell’invenzione, ed anche un poco sul vostro silenzio. Ma
un terzo l’ha udito, e quel terzo son io, che so per l’appunto tutto
il contrario di ciò ch’egli narra. Ora sentite: egli manda da me i suoi
padrini; questo è naturale, è necessario, se egli non è vile, quanto è
stato bugiardo. Io rispondo, mettendo le carte in tavola, convincendolo
di menzogna; e scambio di condurlo sul terreno, lo faccio scappare da
Roma. —
La duchessa era stata ad udire con grande attenzione il discorso del
Buonsanti.
— Io non so come queste cose si facciano; — diss’ella, confusa. — Ma
voi mi promettete che una via si può trovare....
— Vi dico che ne son sicuro, sicurissimo.
— E che voi la cercherete?
— Naturalmente; non dubitate. —
XVIII.
Gli avanzi della Cernaia.
Sicurissimo? Non lo era punto, il buon cavaliere di Carpigliano. Aveva
parlato così, per una di quelle ispirazioni subitanee, che qualche
volta sono divinazioni del vero, ma più spesso gretole trovate in buon
punto, per cavare un uomo d’impiccio.
Certo, il buon cavaliere non amava il conte Massimo; certo, dubitava
della sua sincerità, come aveva dubitato della sua serietà; certo
lo aveva per il più bugiardo tra gli uomini. Ma in quel discorso di
Massimo, discorso lungo, donde traspariva lo stento della invenzione,
una cosa era notevole: l’annunziato matrimonio del principe Savelli. Di
quel matrimonio, cosa strana, a Roma non si sapeva ancor nulla. E come
poteva saperne già tanto, il signor conte di Riva? Con qual fiducia si
sarebbe egli arrischiato a dar la notizia, se avesse pensato di dir
cosa non vera? Sicuramente, egli annunziava un fatto, o il principio
d’un fatto; sicuramente tra Don Memmo Savelli e la famiglia Lockwood
erano corse promesse d’alleanza, e il conte di Riva ne era consapevole;
fors’anche ne era stato testimone. Ma come poteva essere avvenuto
ciò? e con qual gusto per il conte di Riva? Invaghito della bionda
americana, o forse de’ suoi milioni (il cavaliere Buonsanti propendeva
piuttosto per questa seconda opinione), fuggito a bella posta da
Roma per correre sulla traccia luminosa di quella miniera d’argento
e di quei capegli d’oro, come aveva potuto il conte di Riva lasciarsi
prendere il fatto suo da Don Memmo Savelli? lasciarsi soppiantare da
lui, senza far resistenza? ed apparendone ancora felicissimo?
Il nodo era lì. Al buon cavaliere di Carpigliano il cuore diceva: qui
bisogna cercare.
Ma intanto che si disponeva a cercare, non era altrimenti disposto
a mantener la promessa, che aveva fatta alla duchessa Serena, di
evitare lo scontro. Son queste le bugie pietose che un galantuomo
si fa lecito col sesso gentile, col sesso debole, il quale non ha,
generalmente parlando, i nostri furori titanici e non usa la nostra
logica, nella soluzione di certi problemi della convivenza sociale.
Che belle parole, non è vero? e per dirvi che questo consorzio umano
è una gran mescolanza di bestie d’ogni specie e d’ogni indole! Ma sì,
lettori cortesi: non veniamo noi tutti dall’arca di Noè? Quello è stato
l’esempio, il principio e l’archetipo della convivenza sociale.
La prima cosa che fece il cavaliere Buonsanti, a mala pena uscito
dal palazzo San Secondo, fu di andare al caffè Maravigli. Non si
fermò alla prima sala, ritrovo di giornalisti; non alla seconda,
conciliabolo di pezzi grossi del Parlamento; non alla terza, accademia
di professori, più o meno Lincèi; andò diritto alla quarta, circolo di
vecchi ufficiali. Colà, nelle prime ore della sera, si sentiva parlare
il buon piemontese di Cuneo e di Fossano, di Pinerolo e d’Ivrea, di
Cherasco e di Mondovì. Colà, secondo la piega della conversazione, si
rifacevano piani di vecchie battaglie, o si ragionava pacatamente di
stati, di competenze, di avanzamenti, di collocazioni a riposo, o in
posizione ausiliaria. Ho detto pacatamente; ed erano infatti uomini
calmi, contegnosi anche nella ilarità di certi momenti; avevano i baffi
grigi, le fronti aperte e gli occhi sereni. Il soldato che ha fornita
la sua lunga carriera, e la ricorre col pensiero e ci vede per entro,
come pietre miliari, tanti bei nomi di battaglie che hanno rifatta
l’unità e l’indipendenza della patria, ha questa serenità, questa
limpidezza nell’occhio, dove pare che si rispecchino ancora le grandi
cose compiute. Quando sono in parecchi, raccolti a discorrere in un’ora
di svago, vengono fuori anche i morti, con le loro alte virtù militari,
perfino coi loro difetti, trasformati, trasfigurati in qualità. Come
si ricorda allora il buon Cerale, «Ceralin d’or», che distingueva,
per le firme, il calamaio divisionale dal calamaio circondariale, ma
che sapeva far tanto bene una cosa, da lasciar credere che non sapesse
fame altra: andare avanti! E il maggior Quaglia, col suo cerimonioso
«passi pure!» al sottotenente che gli aveva detto impossibile rimettere
un cannone sul fusto, per fare una scarica di mitraglia, col nemico a
quaranta passi, e a cui egli, il bravo maggiore, aveva dimostrato col
fatto esser l’una cosa e l’altra egualmente possibili! E il capitano
Gatti, col suo «silenzio!» proferito ad alta voce, dopo aver egli
stesso interrogato l’inferiore! Era sordo, il valoroso, sordo ad ogni
- Parts
- La spada di fuoco : racconto - 01
- La spada di fuoco : racconto - 02
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