La plebe, parte IV - 50
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tuo ultimo bacio. Questo sacro bacio mortale cancellerà l'onta dei baci
menzogneri e brutali che abbiamo dato, che ci siamo scambiati.
Zoe si torse le mani con disperazione.
— No, no; disse: darti io la morte, non posso... Vederti cadere innanzi
a me!...
— Non mi vedrai. Aspetterò a rompere l'involto in cui è rinchiuso il
veleno quando tu sarai partita di qui.
Uno di quegli impeti di generoso affetto, a cui sono aperte le
impressionabili anime delle donne, anche le men nobili, assalse allora
la cortigiana.
— Piuttosto, esclamò ella, moriamo insieme: rompi la fragil crosta,
mentre le nostre labbra si toccano, e beviamo tuttedue la morte.
— No, Zoe: perchè vuoi tu accrescere il mio delitto? Lasciami morir
solo.
Un'ombra nera comparve in mezzo ai fratelli della _misericordia_ che
s'erano ritirati presso la porta: era fra' Bonaventura che, secondo i
presi accordi, veniva per essere compagno in quelle ultime ore al
condannato.
— Il tempo preme: soggiunse Gian-Luigi che vide il gesuita, e gli fece
colla mano cenno di aspettare un momento: coraggio, Zoe.
Questa si recò la mano alla bocca e vi pose una pillola grossa come una
piccola nocciuola. Gian-Luigi afferrò la donna con un impeto che pareva
di passione; la strinse al petto con abbraccio furibondo; ne cercò
avidamente colle sue le labbra e le tenne suggellate in un bacio lungo,
tenace. Nel silenzio di quella stanza e di quell'ora, si sentiva il
palpito del cuore della Zoe; tanto era forte. Quando il _medichino_ la
sciolse dal suo amplesso, ella indietrò per alcuni passi vacillando,
come se stesse per cadere: la pillola mortale dalla sua bocca era
passata in quella di Gian-Luigi.
Successe un istante di silenzio.
— Addio! addio! gridò poi il _medichino_. Ora va... Tutto è finito.
Padre Bonaventura s'avanzava colla sua faccia ipocritamente dolcereccia.
La _Leggera_ parve voler parlare, ma la voce non uscì dalle sue labbra
allividite, due lagrime le colavano giù delle guancie; agitò le mani,
poi si premette il cuore, un penoso singhiozzo eruppe dalla sua gola, ed
abbassato il velo, uscì vacillando. Gian-Luigi l'accompagnò con un
ineffabile sguardo di compassione.
— Figliuol mio: disse il gesuita al condannato: in questa notte che
oramai è trascorsa, Dio ha egli parlato al vostro cuore?
Gian-Luigi guardò il frate con una occhiata fissa, da cui era sbandita
ogni espressione della primitiva ironia.
— Sì: diss'egli seriamente: e di quella sua parola me ne odo ancora
entro l'anima l'eco che risuona.
Fra' Bonaventura credette opportuno il momento di spacciare un'edizione
delle sue solite esortazioni che teneva in pronto per queste
circostanze: Gian-Luigi pareva ascoltarlo, ma in realtà non faceva al
sermonante ned alle sue parole la menoma attenzione. Egli ravvolgeva
nella sua bocca la mortifera pallottolina; era di gomma con entrovi una
goccia di acido prussico; e intanto pensava:
— Appena morto io, se il mio spirito non muore, come mi sono indotto a
credere, in quale condizione si troverà? Con quali attinenze ancora con
questo mondo, colla materia, colla luce, collo spazio, col tempo?... Sì,
questo è uno spaventevole abisso. Questa è tale curiosità che pure
sgomenta... Esito forse?... Ho io forse paura?... No.... Perchè dunque
mi trattengo innanzi a quell'attimo che deve tutto decidere, che deve
lanciarmi nell'eternità?
Guardò la faccia grassa e rubiconda del gesuita, il quale, gli occhi a
mezzo socchiusi, dipanava con una certa voluttà i periodi della sua
eloquenza da predicatore.
— Appena costui interrompa la sua onda di parole per prender fiato,
disse a se stesso sorridendo, morderò in questo chicco di morte.
Il sermonante non tardò a fare una piccola pausa necessaria ai suoi
polmoni; e Gian-Luigi si tenne parola. S'udì un lieve rumore: quello
della crosta di gomma rotta dai denti; e di botto la vita cessò come per
incanto in quel corpo giovane, robusto, nella più ricca e piena
espansione della sua vitalità. Non diede un grido, nè un gemito, nè
nulla: cadde improvviso quant'era lungo; nè la menoma convulsione gli
agitò le membra, gli contrasse i lineamenti. Padre Bonaventura, stupito,
spaventato, si chinò sopra un cadavere.
— Ah! questa è l'opera del marchese: pensò egli, e da buon gesuita stimò
opportuno consiglio tacere ed allontanarsi senz'altro.
La Zoe presso all'uscir della carcere vide appoggiato alla parete un
uomo che pareva un'ombra; suo primo impulso fu passar ratta senza
badargli; ma poi ravvisatasi gli si avvicinò. Stettero tuttedue l'uno
innanzi all'altra, senza parlarsi, senza guardarsi, tremando. Fu la
donna finalmente che ruppe il silenzio.
— Quello che tu hai fatto è infame; quello che mi hai obbligato a fare è
infame. Questa infamia che per altri sarebbe cagione di odio e
innalzerebbe fra loro una insuperabil barriera, noi invece accomuna. Ora
ci siamo ritrovati e ci apparteniamo; tu hai da essere strumento per le
mie passioni, come io fui per la tua. Ti servirò ancora, ma tu mi
servirai... La mia passione ora è una vendetta... Mi aiuterai a
compirla[4].
[4] Vedrassi in un altro romanzo in cui ricompariranno parecchi
dei personaggi di questo, qual fosse questa vendetta, e come
coll'aiuto di Barnaba la Zoe l'ottenesse.
Barnaba non rispose parola; ma promise con uno sguardo. La cortigiana
partì. Lungo le strade che ella percorse trovò già frequenti i gruppi
de' curiosi che s'affrettavano prima di giorno a recarsi sul luogo dove
avevano da essere giustiziati i rei. Senza sapere di avere questo voto
scellerato comune con Nerone, la cortigiana desiderò poter tenere in una
testa sola tutte le teste di quella folla crudele per ischiaffeggiarla e
sputarle sul viso. Giunse sino in Piazza Castello che quasi non sapeva
quale strada avesse percorsa e perchè fosse colà venuta. In fondo si
drizzava in una massa scura l'imponente Palazzo reale. Zoe tutta la sua
ira, tutto il suo odio, tutta la ferocia del suo dolore concentrò in un
punto e volse ad una persona sola. Tese la destra stretta a pugno verso
il Palazzo reale e disse coi denti serrati:
— Principe! Principe! Tu me la pagherai!
Sino al luogo in cui ella si trovava, pel queto aere della notte cui non
rompeva ancora il menomo raggio dell'alba, venivano i lenti e gravi
rintocchi della campana che suonava l'agonia degl'infelici che stavano
per morire per mano del boia.
CAPITOLO XXXIII.
Maurilio sta sul suo letto di morte. La ragione della vita è cessata per
lui. Ogni forza di vitalità in quegli ultimi così crudeli tormenti s'è
affatto consunta. Egli non ha dimenticato Virginia. Domandò un colloquio
al marchese, e perorò la causa dell'amore di lei. Alla forza de' suoi
argomenti, al calore della sua eloquenza aggiungeva efficacia e
solennità la sua morte che tutti vedevano vicina. Parlò della parte
dell'aristocrazia nella nuova fase della civiltà che s'annunziava:
quella che era stata sostenuta un giorno era irrimediabilmente finita:
una nuova parte doveva la nobiltà assumersi, o perire come inutile,
peggio che inutile, come inciampo. Bisognava quindi chiamasse a sè nuovi
elementi, si risanguasse coll'operosità del ceto medio, si avvicinasse
mercè l'intrammezzo della borghesia al gran serbatoio popolare. Il
marchese, già proclive a siffatte idee, subì l'influsso dei ragionamenti
e delle esortazioni del moribondo; diede la promessa, che, appena
opportune le circostanze, non avrebbe contrastato al matrimonio di
Virginia di Castelletto con Francesco Benda. Maurilio sapeva che una
promessa del marchese era una immanchevole verità nell'avvenire.
Si ricordò di _Gognino_, del povero fanciullo da lui trovato una sera,
piangente ed affamato, nel fango della strada, cui la sorte gli aveva
menato innanzi per aggruppare e sciogliere il più rilevante episodio del
dramma della sua vita, e col quale aveva comune non che il destino, ma
il sangue. Abbandonato a sè, coll'educazione ch'ei poteva ricevere dalla
sua nonna, la sorella di _Stracciaferro_, non era egli da temersi per
sicuro che quel bambino sarebbe riuscito quale era stato _Stracciaferro_
medesimo?
Maurilio lo raccomandò al marchese, il quale disse avrebbe tolto
quell'infelice dalle unghie della vecchia, infame venditrice di
_abitini_ e di rosarii, e fattolo allevare un onest'uomo.
Tutti coloro che avevano avuto attinenza con lui, che in qualche modo
gli erano stati cari o che lui avevano avuto caro, Maurilio volle ancora
vedere: anche il signor Defasi, cui volle far noto non esser egli
altrimenti il figliuolo della nobil dama, quale si era creduto un
istante, ma quello dell'assassino, morto sul patibolo, quasi a togliere
con ciò, o scemare almeno il rammarico che il buon libraio aveva
tuttavia di averlo sospettato reo d'un delitto.
Pregò Don Venanzio gli conducesse eziandio la povera Margherita. La
vecchia contadina, quando uscita dalla carcere in cui il suo diletto
Giannino aspettava l'ora della morte, era vissuta in una specie di
stupidimento che pareva insensibilità, ed era invece eccesso di spasimo,
fino al mattino vegnente, pochi minuti prima che cominciasse i suoi
rintocchi la campana dell'agonia. Allora s'era riscossa ed aveva
tormentate colle mani convulse le sue chiome canute, come persona che
risensi ad un tratto e si ricordi subitamente di cosa che prema oltre
misura. Erasi sferrata dal luogo ove si trovava, ed era corsa alla
carcere, appostatasi alla parete proprio dirimpetto alla porta e rimasta
lì cogli occhi fissi su quella soglia fatale, immobile che forza nessuna
sarebbe stata capace di trarla viva di là. Voleva vederlo ancora una
volta, gettargli ancora un saluto ed un bacio mentre passava, fare che
in mezzo ai ceffi ostili e curiosi che lo avrebbero con crudele avidità
contemplato, trovasse almeno uno sguardo amoroso, una faccia benigna, un
labbro che lo benediceva.
Quando le pesanti imposte s'aprirono, ed al dubbio lume d'un crepuscolo
invernale appena incominciato, cominciarono ad uscirne gli sgherri di
scorta, Margherita si aggrappò colle mani macilente alla parete della
casa contro cui s'appoggiava, per non cadere, tanto fu il commovimento
di tutto l'esser suo, vedendo due carri pesanti venir fuori dalla cupa
vôlta del portone e scantonar nella strada. Oh con quale ardore fisse le
sue pupille inaridite dal pianto sulle faccie di quegli sciagurati che,
le braccia legate dietro le reni, stavano seduti in mezzo ai preti su
quei carri sobbalzanti!... Ma nel primo il suo Giannino non c'era. Sarà
dunque nell'altro. Drizzò, per dirla con Dante, tutto il nerbo della sua
facoltà visiva su quel secondo carro che ad una certa distanza del primo
veniva fuori dall'oscurità del portone alla luce grigiastra del mattino;
— e neppure in esso non iscorse la bella figura del suo diletto. Stette
attonita da principio, e non seppe neppur rallegrarsi. Non le venne idea
nessuna a spiegare questo fatto. Credette non aver visto bene;
quantunque sentisse impossibile che suo figlio essendoci, gli occhi suoi
non l'avessero di presente trovato. Volle correre dietro i carri che
s'allontanavano lentamente nello scuriccio della strada, per vederli
anche una volta; ma la folla raccolta per vedere quello spettacolo ne la
impedì. Ebbe dalle ciarle di quella folla, le quali si fecero alte e
vive di subito, la conferma, ch'ella non s'era sbagliata, che aveva
veduto bene, che il suo Giannino colà non era.
— E perchè non c'è il _medichino_? diceva la gente. Oh che non aveva da
essere giustiziato anch'egli cogli altri questa mattina?
In un attimo corsero pel popolo colà raccolto le più varie novelle,
venute fuori, come sempre avviene, non si sapeva d'onde nè come: — che
il capo della _cocca_ lo si serbava per un altro giorno: — che gli era
stata fatta grazia: — che gli era fuggito; corse anche la voce della
verità: — che gli era morto: — ma questa nessuno volle crederla.
Margherita, agitata, presa da una viva speranza, si slanciò verso la
carcere a domandare di Gian-Luigi, a pregare glie lo si lasciasse
vedere; ma, com'è facile immaginarsi, fu bruscamente respinta. Ben le fu
detto anche colà che il capo della _cocca_ era morto, ma ella ciò non
credette meglio di quel che lo credesse il popolo. Ella ben lo aveva
detto, non esser possibile che _egli_ salisse il patibolo, che _egli_
così giovane e bello dovesse morire. La ragione del salvamento di lui,
ella non se la spiegava, non la cercava neppure: fosse anche
intravvenuto un miracolo visibile ad effettuare la sua speranza, ella
non si sarebbe menomamente stupita. Il fatto verificava il suo istintivo
indovinamento: ecco tutto. E siccome le più assurde dicerie correvano
per la plebe sul conto della scomparsa del _medichino_, e sulla mancanza
di lui alla orribil festa che la giustizia umana aveva preparata alla
sua crudeltà, Margherita accettava tutte per vere quelle che
conchiudevano alla salute di quel personaggio diventato di botto
misterioso e leggendario.
Anche presso l'infimo volgo erasi sparso delle relazioni che il
_medichino_ aveva con nobili e potenti famiglie; qualche cosa era
trapelato eziandio, e chi potrebbe dirne mai il come? circa la origine
di lui, che si attribuiva ad un alto e potente casato; volevasi ad ogni
costo che misteriosi ed illustri protettori lo avessero sottratto e per
nasconder meglio la cosa si facesse spargere la notizia della morte di
lui. Il popolo che, vedendolo menare al supplizio, avrebbe forse
manifestato per quello strano individuo la più viva simpatia, ora
vedendoselo mancare alla sua sanguinaria voluttà di feroci emozioni,
tumultuò di guisa che fu necessario l'accorrere dei soldati a disperdere
la riotta intorno alla carcere. Ma questa per lei felice illusione salvò
la povera Margherita dal morir disperata.
Quando fu introdotta presso il letto dove moriva Maurilio, la vecchia
contadina, senza voler parlar d'altro, si chinò all'orecchio del
giacente, e con un sorriso mezzo da scemo, gli disse piano all'orecchio:
— So che vive... Zitto!... Non si de' sapere..... Non lo dirò a nessuno,
sta certo; ma fra noi ce lo possiam dire... Andrà lontano, lontano,
neh?... Forse ci è già ito... Io non lo vedrò più sulla terra. (Si
asciugò una lagrima). Capisco che dev'esser così... e pazienza!... Tu lo
vedrai ancora, non è vero?... Digli che si ricordi di me... E poi quando
verrai al villaggio alcuna volta..... Guarirai, e ci verrai certo... mi
recherai le sue novelle... Intanto dàgli ancora un bacio per parte mia.
Baciò il moribondo colle sue labbra secche ed avvizzite.
— Ecco, io non ho più nulla da dirti: soggiunse poi con aria ed accento
vieppiù da dissensato; posso andarmene, e me ne vado al mio paese. Non
ho più nulla da far qui, in mezzo a questo rumore che mi toglie la
povera mia vecchia testa..... Vado al villaggio... Ma ch'ei non si
dimentichi la vecchia Margherita che lo ha allattato... La sua vera
madre, l'unica sua madre sono stata io.
Tornata al villaggio, il marchese provvide ad ogni suo bisogno; ma ella
non visse a lungo. Si trascinò due anni, senza quasi parlare altrui,
dalla sua misera casipola alla chiesa, e morì ancora con quella
illusione sul conto del suo Giannino; illusione cui lo stesso Don
Venanzio non ebbe coraggio di distrurre, credendola una pietà della
Provvidenza verso quell'infelice.
Maurilio era caduto in un assopimento che già pareva la morte: il medico
aveva detto che da quello non si sarebbe ridesto più, ma insensibilmente
passato nel sonno eterno. Intorno a lui stavano mesti e raccolti e lo
contemplavano con amore gli amici suoi: Giovanni Selva, Antonio Vanardi,
Romualdo, anche Mario Tiburzio, del quale il morente aveva chiesto
eziandio: il marchese si teneva dritto, nella sua mossa nobilmente
severa, da un lato del letto, e sulla sua bella fisionomia dignitosa di
vecchio, era una mestizia forse uguale a quella dei giovani amici del
morente. Maggiore d'ogni altro era il dolore che appariva sulla faccia
di Don Venanzio, il quale sedeva dall'altra parte del letto e teneva fra
le sue una delle mani abbandonate del moribondo. Gli occhi sempre così
miti e sereni del vecchio sacerdote erano pieni di lagrime, ed oltre
quelle lagrime avevano una desolazione, quale non vi era apparsa ancora
mai, in tutte le traversie che pure aveva egli passate nella vita.
Quei due giovani egli aveva amati come figli; si era tanto tempo
compiaciuto in essi, svolgendone la rara intelligenza; aveva deplorato i
traviamenti del loro pensiero, ma sperato sempre che li avrebbe un
giorno ricondotti sulla retta via segnata dalla Chiesa di cui egli era
membro e stromento, dalla religione di cui era ministro. Ora ambedue,
sul fiore dell'età, gli venivano tolti e crudelmente tanto! e lasciando
in lui tanto terrore della sorte loro futura, che appena se giungeva a
calmarlo l'immensa idea ch'egli aveva della clemenza di Dio.
Maurilio giaceva supino, gli occhi e le labbra chiusi. I suoi nerissimi
capelli, dritti e scarmigliati sul guanciale candidissimo, gli facevano
una corona che pareva di spine alla fronte vasta, dalle ossa
protuberanti, che sembrava imbiancatasi, che avreste detto lucente d'una
misteriosa fosforescenza. In quei supremi istanti i suoi lineamenti
grossolani avevano presa un'espressione di nobiltà di cui li avreste
creduti incapaci dapprima; la sua fisionomia trasformata aveva assunta
una nuova, una strana, inesplicabile, inesprimibile bellezza che non era
quella della misera forma umana, che anche uno scettico avrebbe detta
superiore alla terrena.
La predizione del medico ebbe torto. Il morente ad un punto aprì gli
occhi e girò intorno le pupille, conscio di sè e delle cose che lo
circondavano: salutò con un'occhiata di gratitudine e di compiacenza
coloro che lo attorniavano con mostre di dolce affetto e si dolevano del
suo destino; fermò più a lungo e più commosso lo sguardo sulla bella
testa canuta di Don Venanzio, che piangeva chetamente a lui vicino;
volle stringere colla sua la mano del vecchio prete, ma non n'ebbe la
forza; accennò lo sollevassero sopra i cuscini, e poichè fu soddisfatto
al suo desiderio, parlò pianamente a colui che era stato il suo primo e
vero e si può dire unico benefattore, che gli aveva fatto
intellettualmente ed anche per affetto da padre.
— Non pianga, Don Venanzio; io sto per giungere là dove un po' meglio si
vede la gloria di Dio. Non tema della salute dell'anima mia, non tema
del mio avvenire oltre tomba. Ai moribondi avviene qualche volta che si
conceda avere un sentore del mondo degli spiriti a cui stanno per
approdare. Dio mi fu largo di tanta ventura. Nel mio assopimento ed
anche ora mi stanno dinanzi le auree forme d'una sublime visione. Non
gli occhi del corpo la contemplano, ma quelli dello spirito già
apertisi, benchè tuttavia nel carcere della carne. Ella si spaventò per
me, che abbandonai le forme della fede da Lei apprese alla mia infanzia.
La si rassicuri: non è la forma, è la sostanza della fede che salva. Io
credo al buono, al bello ed a Dio. Credo ed amo! Ecco i profeti e la
legge.... Veggo nell'infinità dello spazio l'infinità dei mondi, e in
questi, traverso a questi, l'infinità delle vite degli spiriti, da
incarnazione ad incarnazione, da grado a grado; immenso elevarsi di
anime verso l'inarrivabile. Nel cammino chi s'arresta, chi travia, chi
cade: — ma niuno è perduto. Il male non ha l'autorità dell'assoluto; è
una contingenza; è l'ombra; privazione, non corpo; negazione, non
sussistenza; è il divenire del bene. La grande fraternità degli spiriti
che si sviluppano nella materia, cominciando dalle prime manifestazioni
della vita sino all'intelligenza che si accresce e si accresce vestendo
sempre meno di materia: questa grande fraternità scrive la sua storia e
la imprime per mezzo dell'eterea luce nell'infinità dello spazio che i
raggi percorsero, percorrono e percorreranno sempre, sempre, senza
principio, senza interruzione, senza fine. Questa luce, latrice delle
immagini d'ogni avvenimento cosmico, cammina, cammina nelle profondità
dello spazio: correte alla distanza che occorre e troverete
rappresentate le fasi geologiche dell'esistenza primitiva della nostra
terra. In queste pagine immortali mi lasciò un momento scorgere la
clemenza di Dio. Tosto che sarà spirito disumanato, le potrò leggere con
occhio sicuro. Tutto il passato è così sempre presente, e tutto coesiste
nell'attimo. La luce delle lontane stelle che giunge a noi dopo due mila
anni di viaggio è per noi il presente, e per loro è il tempo forse già
sepolto nell'oblio.
I presenti credevano ch'ei vaneggiasse; Don Venanzio lo pregò a non
istancarsi cotanto nella fatica di parlare che era molta e sempre
maggiore per lui, al quale il fiato ad ogni minuto diventava più
oppresso e più debole. Ma il moribondo scosse lievemente la testa,
facendo un mesto sorriso.
— Lasciatemi dire: rispose: pochi minuti soltanto mi rimangono, ed ho
desiderio di comunicarvi ancora tante cose!
Si rivolse ai giovani amici suoi, Selva, Romualdo, Vanardi e Tiburzio.
— Seguitate ad amare la patria. L'amore tanto è più nobile, quanto più
si stacca dall'individuo ed allarga la cerchia della sua azione. Chi si
sente di amare la patria, come altri ama la sua amante, è una delle
anime più generose del mondo. Cristo amò così l'umanità e fu l'essere il
più sublime e il più divino che abbia visto la terra. La patria avrà
bisogno di voi; possiate dare esempio agl'Italiani di sacrificio, non
solo della vita, ma dell'interesse, delle passioni, dei pregiudizi
personali: di questi sacrificii hanno bisogno le nazioni per risorgere e
farsi grandi: e di questi sacrificii temo gl'Italiani non troppo capaci.
Virtù ci vuole, ed amore!.... Amatevi tutti. Amate que' poveri vostri
fratelli costituiti nella perenne minor età dell'ignoranza, che formano
la plebe. Amateli ed educateli — e date alle loro famiglie il pane e la
sicurezza della vita....
Il respiro a questo punto gli mancò affatto. Fe' cenno che soffocava, e
Giovanni Selva fu lesto a sollevarlo nelle sue braccia.
— Quanto a me: soggiunse con voce che appena si poteva udire: non
obliatemi affatto... ed amatemi un pochino, anche morto.... Io ho
perdonato tutti e tutto... Domando che tutto e tutti mi perdonino.... Ho
sofferto molto, ed ho amato tanto!... E non ebbi un'ora di gioia....
L'avrò nell'avvenire... (Fece un ineffabile sorriso). Oh! se l'avrò!...
Vorrei parlare ancora... e non posso più... Sento un'onda di poesia
divina che m'invade... Se la potessi esprimere!.... Voi bacierete la mia
fronte, quando sarò cadavere..... Essa albergò un'intelligenza.... Date
quest'addio ad una miserabil forma che si distrurrà per sempre... Addio!
addio! addio!
Levò verso il cielo le sue pupille larghe, in cui correvano tratto
tratto guizzi di luce simili a quelli d'una lampada che sta per
ispegnersi, ed una inesprimibile aura di beatitudine gl'illuminò la
faccia: egli vedeva innanzi a sè lo spirito protettore della sua vita.
— Sei tu, madre mia: esclamò con immenso affetto: tu che pur da morta,
non abbandonasti il figliuol tuo nel mondo!... Tu che ora mi chiami ed
inviti!... Vengo, vengo, vengo!... Ecco la luce!... Ecco l'etere!...
Ecco l'infinito!
Gettò un grido e ricadde di tutto il suo peso sulle braccia di Selva.
Con quell'ultimo grido l'anima era fuggita da quell'infelice corpo
tormentato.
Il domani una piccola, mesta schiera accompagnava al cimitero le spoglie
di colui che fu nella vita terrena chiamato Maurilio. Quando la fossa in
cui venne calata la cassa mortuaria fu ricolma di terra, Don Venanzio
pronunziò sovr'essa le ultime preghiere, e gli amici del morto, credenti
e non credenti nelle forme cattoliche, udirono con religioso rispetto, a
capo scoperto, le solenni parole che colla voce tremolante del vecchio
sacerdote acquistavano efficacia maggiore; poi, quando con una ultima
benedizione, con un ultimo addio si staccarono da quella tomba, Mario
Tiburzio, disse ai giovani traendoli in disparte:
— Ora conviene recarci colà, ad altri, ma men tristi addii. È giunta
l'ora: venite.
Lasciarono tornar solo in città Don Venanzio, nella carrozza che il
marchese di Baldissero aveva fatta allestire per lui; ed essi, passando
traverso i campi, si recarono sulla strada che, passata la Dora sul
ponte Mosca, si dirige verso la pianura di Lombardia. Si posero alla
distanza di un centinaio di metri dall'ultima casa che si trovava al di
là del ponte; e stettero aspettando, silenziosi, mesti e raccolti,
dominati dalla solennità della scena di morte a cui avevano allora
allora assistito, da quella eziandio del convegno a cui erano venuti.
Dopo un poco, sulla strada deserta si udì il rumore di ruote correnti, e
si vide venir da Torino una carrozza in posta al trotto serrato di due
cavalli. Appena vide i giovani sulla strada, chi era dentro il legno,
diè ordine al postiglione di fermare: ed aperto l'usciòlo, ne discese un
uomo di alta statura, di nobile portamento, di faccia serena ed
intelligente, di aspetto da militare insieme e da cavaliere; era Massimo
d'Azeglio, verso cui i giovani s'affrettarono circondandolo con mostre
d'affettuosa riverenza.
— Ho voluto darvi qui l'addio: disse il valente scrittore e patriota;
per evitare ogni sospetto ed ogni sorveglianza della Polizia. Ci tenevo
a stringervi le mani, bravi giovani, ed a lasciarvi per addio e per
memoria di me alcuni consigli.... no, dirò meglio, alcune preghiere.
Credete a me: l'epoca delle congiure è passata: bisogna oggidì cospirare
al bene della patria ed al progresso dell'umanità alla chiara luce del
sole. Non si tratta d'_uccidere il tiranno_, ma di educare il popolo, ed
anco i principi, e di elevare le masse. Per questo ci vuole la
coraggiosa propaganda della pubblicità.
« — Carlo Alberto fa da senno, io ne sono persuaso; egli è con noi, è
obbligato ad essere con noi; non attraversiamogli il cammino, e
mettiamoci noi con esso lui.
Mario Tiburzio interruppe.
— Ella ha ragione, sor Massimo. Questi giorni ci ho pensato di molto a
codeste cose, e mi sono convinto che per ora miglior mezzo per giovare
all'Italia è farsi soldato di Carlo Alberto. Ho rinunciato al mio
repubblicanismo (mandò un sospiro) e domani stesso vestirò l'assisa di
soldato nell'esercito piemontese.
Massimo d'Azeglio gli strinse la mano.
— Ve ne lodo.... Spero che ci troveremo un giorno nei campi lombardi a
combattere, fianco a fianco.
— Vi ci troveremo tutti: esclamarono in coro gli altri con entusiasmo.
— Dio vi ascolti! Io ripiglio la mia giornata di messo della nuova
rivoluzione. Possa trovar io per tutta Italia anime come le vostre.
Dopo i più cordiali salutari ed augurii, d'Azeglio risalì nella carrozza
e continuò il viaggio verso Milano; i giovani stettero fermi guardando
dietro quel legno che s'allontanava, finchè non lo videro più.
Quando giunse il 1848 Mario Tiburzio non fu il solo che prendesse parte
alla guerra: si arruolarono eziandio Giovanni Selva, Romualdo e
Francesco Benda. Povera sora Teresa! Anche questo dolore le doveva
toccare: veder partire per la guerra il suo figlio dilettissimo, che
solo erale rimasto in casa. Il padre di Francesco soffrì molto ancor
egli, ma nell'attività del suo lavoro industriale a cui si diede con più
alacrità di prima, nella robustezza maggiore della sua tempra aveva gli
elementi da resistere meglio al dolore. La infelice Teresa, durante
l'assenza del figliuolo, andava a calmare l'ansietà dei suoi timori ed a
confortarsi colla preghiera, presso sua figlia, nel convento di Santa
Chiara, dove ad ogni costo Maria aveva voluto vestire il velo, e
consumare la sua giovinezza in una rassegnazione piena di speranza nella
vita futura.
Ma giorni di gioia erano pur tuttavia serbati ancora alla famiglia dei
Benda. Francesco, divenuto in breve capitano di cavalleria, decorato di
due medaglie al valor militare, otteneva finalmente nel 1850 la mano di
Virginia di Castelletto. La marchesa di Baldissero, che forse non
avrebbe consentito mai a queste nozze, era morta: il marchesino Ettore
viveva separato da suo padre, il quale, conosciutolo indegno del suo
affetto, come del grado in cui il destino l'aveva fatto nascere, l'aveva
menzogneri e brutali che abbiamo dato, che ci siamo scambiati.
Zoe si torse le mani con disperazione.
— No, no; disse: darti io la morte, non posso... Vederti cadere innanzi
a me!...
— Non mi vedrai. Aspetterò a rompere l'involto in cui è rinchiuso il
veleno quando tu sarai partita di qui.
Uno di quegli impeti di generoso affetto, a cui sono aperte le
impressionabili anime delle donne, anche le men nobili, assalse allora
la cortigiana.
— Piuttosto, esclamò ella, moriamo insieme: rompi la fragil crosta,
mentre le nostre labbra si toccano, e beviamo tuttedue la morte.
— No, Zoe: perchè vuoi tu accrescere il mio delitto? Lasciami morir
solo.
Un'ombra nera comparve in mezzo ai fratelli della _misericordia_ che
s'erano ritirati presso la porta: era fra' Bonaventura che, secondo i
presi accordi, veniva per essere compagno in quelle ultime ore al
condannato.
— Il tempo preme: soggiunse Gian-Luigi che vide il gesuita, e gli fece
colla mano cenno di aspettare un momento: coraggio, Zoe.
Questa si recò la mano alla bocca e vi pose una pillola grossa come una
piccola nocciuola. Gian-Luigi afferrò la donna con un impeto che pareva
di passione; la strinse al petto con abbraccio furibondo; ne cercò
avidamente colle sue le labbra e le tenne suggellate in un bacio lungo,
tenace. Nel silenzio di quella stanza e di quell'ora, si sentiva il
palpito del cuore della Zoe; tanto era forte. Quando il _medichino_ la
sciolse dal suo amplesso, ella indietrò per alcuni passi vacillando,
come se stesse per cadere: la pillola mortale dalla sua bocca era
passata in quella di Gian-Luigi.
Successe un istante di silenzio.
— Addio! addio! gridò poi il _medichino_. Ora va... Tutto è finito.
Padre Bonaventura s'avanzava colla sua faccia ipocritamente dolcereccia.
La _Leggera_ parve voler parlare, ma la voce non uscì dalle sue labbra
allividite, due lagrime le colavano giù delle guancie; agitò le mani,
poi si premette il cuore, un penoso singhiozzo eruppe dalla sua gola, ed
abbassato il velo, uscì vacillando. Gian-Luigi l'accompagnò con un
ineffabile sguardo di compassione.
— Figliuol mio: disse il gesuita al condannato: in questa notte che
oramai è trascorsa, Dio ha egli parlato al vostro cuore?
Gian-Luigi guardò il frate con una occhiata fissa, da cui era sbandita
ogni espressione della primitiva ironia.
— Sì: diss'egli seriamente: e di quella sua parola me ne odo ancora
entro l'anima l'eco che risuona.
Fra' Bonaventura credette opportuno il momento di spacciare un'edizione
delle sue solite esortazioni che teneva in pronto per queste
circostanze: Gian-Luigi pareva ascoltarlo, ma in realtà non faceva al
sermonante ned alle sue parole la menoma attenzione. Egli ravvolgeva
nella sua bocca la mortifera pallottolina; era di gomma con entrovi una
goccia di acido prussico; e intanto pensava:
— Appena morto io, se il mio spirito non muore, come mi sono indotto a
credere, in quale condizione si troverà? Con quali attinenze ancora con
questo mondo, colla materia, colla luce, collo spazio, col tempo?... Sì,
questo è uno spaventevole abisso. Questa è tale curiosità che pure
sgomenta... Esito forse?... Ho io forse paura?... No.... Perchè dunque
mi trattengo innanzi a quell'attimo che deve tutto decidere, che deve
lanciarmi nell'eternità?
Guardò la faccia grassa e rubiconda del gesuita, il quale, gli occhi a
mezzo socchiusi, dipanava con una certa voluttà i periodi della sua
eloquenza da predicatore.
— Appena costui interrompa la sua onda di parole per prender fiato,
disse a se stesso sorridendo, morderò in questo chicco di morte.
Il sermonante non tardò a fare una piccola pausa necessaria ai suoi
polmoni; e Gian-Luigi si tenne parola. S'udì un lieve rumore: quello
della crosta di gomma rotta dai denti; e di botto la vita cessò come per
incanto in quel corpo giovane, robusto, nella più ricca e piena
espansione della sua vitalità. Non diede un grido, nè un gemito, nè
nulla: cadde improvviso quant'era lungo; nè la menoma convulsione gli
agitò le membra, gli contrasse i lineamenti. Padre Bonaventura, stupito,
spaventato, si chinò sopra un cadavere.
— Ah! questa è l'opera del marchese: pensò egli, e da buon gesuita stimò
opportuno consiglio tacere ed allontanarsi senz'altro.
La Zoe presso all'uscir della carcere vide appoggiato alla parete un
uomo che pareva un'ombra; suo primo impulso fu passar ratta senza
badargli; ma poi ravvisatasi gli si avvicinò. Stettero tuttedue l'uno
innanzi all'altra, senza parlarsi, senza guardarsi, tremando. Fu la
donna finalmente che ruppe il silenzio.
— Quello che tu hai fatto è infame; quello che mi hai obbligato a fare è
infame. Questa infamia che per altri sarebbe cagione di odio e
innalzerebbe fra loro una insuperabil barriera, noi invece accomuna. Ora
ci siamo ritrovati e ci apparteniamo; tu hai da essere strumento per le
mie passioni, come io fui per la tua. Ti servirò ancora, ma tu mi
servirai... La mia passione ora è una vendetta... Mi aiuterai a
compirla[4].
[4] Vedrassi in un altro romanzo in cui ricompariranno parecchi
dei personaggi di questo, qual fosse questa vendetta, e come
coll'aiuto di Barnaba la Zoe l'ottenesse.
Barnaba non rispose parola; ma promise con uno sguardo. La cortigiana
partì. Lungo le strade che ella percorse trovò già frequenti i gruppi
de' curiosi che s'affrettavano prima di giorno a recarsi sul luogo dove
avevano da essere giustiziati i rei. Senza sapere di avere questo voto
scellerato comune con Nerone, la cortigiana desiderò poter tenere in una
testa sola tutte le teste di quella folla crudele per ischiaffeggiarla e
sputarle sul viso. Giunse sino in Piazza Castello che quasi non sapeva
quale strada avesse percorsa e perchè fosse colà venuta. In fondo si
drizzava in una massa scura l'imponente Palazzo reale. Zoe tutta la sua
ira, tutto il suo odio, tutta la ferocia del suo dolore concentrò in un
punto e volse ad una persona sola. Tese la destra stretta a pugno verso
il Palazzo reale e disse coi denti serrati:
— Principe! Principe! Tu me la pagherai!
Sino al luogo in cui ella si trovava, pel queto aere della notte cui non
rompeva ancora il menomo raggio dell'alba, venivano i lenti e gravi
rintocchi della campana che suonava l'agonia degl'infelici che stavano
per morire per mano del boia.
CAPITOLO XXXIII.
Maurilio sta sul suo letto di morte. La ragione della vita è cessata per
lui. Ogni forza di vitalità in quegli ultimi così crudeli tormenti s'è
affatto consunta. Egli non ha dimenticato Virginia. Domandò un colloquio
al marchese, e perorò la causa dell'amore di lei. Alla forza de' suoi
argomenti, al calore della sua eloquenza aggiungeva efficacia e
solennità la sua morte che tutti vedevano vicina. Parlò della parte
dell'aristocrazia nella nuova fase della civiltà che s'annunziava:
quella che era stata sostenuta un giorno era irrimediabilmente finita:
una nuova parte doveva la nobiltà assumersi, o perire come inutile,
peggio che inutile, come inciampo. Bisognava quindi chiamasse a sè nuovi
elementi, si risanguasse coll'operosità del ceto medio, si avvicinasse
mercè l'intrammezzo della borghesia al gran serbatoio popolare. Il
marchese, già proclive a siffatte idee, subì l'influsso dei ragionamenti
e delle esortazioni del moribondo; diede la promessa, che, appena
opportune le circostanze, non avrebbe contrastato al matrimonio di
Virginia di Castelletto con Francesco Benda. Maurilio sapeva che una
promessa del marchese era una immanchevole verità nell'avvenire.
Si ricordò di _Gognino_, del povero fanciullo da lui trovato una sera,
piangente ed affamato, nel fango della strada, cui la sorte gli aveva
menato innanzi per aggruppare e sciogliere il più rilevante episodio del
dramma della sua vita, e col quale aveva comune non che il destino, ma
il sangue. Abbandonato a sè, coll'educazione ch'ei poteva ricevere dalla
sua nonna, la sorella di _Stracciaferro_, non era egli da temersi per
sicuro che quel bambino sarebbe riuscito quale era stato _Stracciaferro_
medesimo?
Maurilio lo raccomandò al marchese, il quale disse avrebbe tolto
quell'infelice dalle unghie della vecchia, infame venditrice di
_abitini_ e di rosarii, e fattolo allevare un onest'uomo.
Tutti coloro che avevano avuto attinenza con lui, che in qualche modo
gli erano stati cari o che lui avevano avuto caro, Maurilio volle ancora
vedere: anche il signor Defasi, cui volle far noto non esser egli
altrimenti il figliuolo della nobil dama, quale si era creduto un
istante, ma quello dell'assassino, morto sul patibolo, quasi a togliere
con ciò, o scemare almeno il rammarico che il buon libraio aveva
tuttavia di averlo sospettato reo d'un delitto.
Pregò Don Venanzio gli conducesse eziandio la povera Margherita. La
vecchia contadina, quando uscita dalla carcere in cui il suo diletto
Giannino aspettava l'ora della morte, era vissuta in una specie di
stupidimento che pareva insensibilità, ed era invece eccesso di spasimo,
fino al mattino vegnente, pochi minuti prima che cominciasse i suoi
rintocchi la campana dell'agonia. Allora s'era riscossa ed aveva
tormentate colle mani convulse le sue chiome canute, come persona che
risensi ad un tratto e si ricordi subitamente di cosa che prema oltre
misura. Erasi sferrata dal luogo ove si trovava, ed era corsa alla
carcere, appostatasi alla parete proprio dirimpetto alla porta e rimasta
lì cogli occhi fissi su quella soglia fatale, immobile che forza nessuna
sarebbe stata capace di trarla viva di là. Voleva vederlo ancora una
volta, gettargli ancora un saluto ed un bacio mentre passava, fare che
in mezzo ai ceffi ostili e curiosi che lo avrebbero con crudele avidità
contemplato, trovasse almeno uno sguardo amoroso, una faccia benigna, un
labbro che lo benediceva.
Quando le pesanti imposte s'aprirono, ed al dubbio lume d'un crepuscolo
invernale appena incominciato, cominciarono ad uscirne gli sgherri di
scorta, Margherita si aggrappò colle mani macilente alla parete della
casa contro cui s'appoggiava, per non cadere, tanto fu il commovimento
di tutto l'esser suo, vedendo due carri pesanti venir fuori dalla cupa
vôlta del portone e scantonar nella strada. Oh con quale ardore fisse le
sue pupille inaridite dal pianto sulle faccie di quegli sciagurati che,
le braccia legate dietro le reni, stavano seduti in mezzo ai preti su
quei carri sobbalzanti!... Ma nel primo il suo Giannino non c'era. Sarà
dunque nell'altro. Drizzò, per dirla con Dante, tutto il nerbo della sua
facoltà visiva su quel secondo carro che ad una certa distanza del primo
veniva fuori dall'oscurità del portone alla luce grigiastra del mattino;
— e neppure in esso non iscorse la bella figura del suo diletto. Stette
attonita da principio, e non seppe neppur rallegrarsi. Non le venne idea
nessuna a spiegare questo fatto. Credette non aver visto bene;
quantunque sentisse impossibile che suo figlio essendoci, gli occhi suoi
non l'avessero di presente trovato. Volle correre dietro i carri che
s'allontanavano lentamente nello scuriccio della strada, per vederli
anche una volta; ma la folla raccolta per vedere quello spettacolo ne la
impedì. Ebbe dalle ciarle di quella folla, le quali si fecero alte e
vive di subito, la conferma, ch'ella non s'era sbagliata, che aveva
veduto bene, che il suo Giannino colà non era.
— E perchè non c'è il _medichino_? diceva la gente. Oh che non aveva da
essere giustiziato anch'egli cogli altri questa mattina?
In un attimo corsero pel popolo colà raccolto le più varie novelle,
venute fuori, come sempre avviene, non si sapeva d'onde nè come: — che
il capo della _cocca_ lo si serbava per un altro giorno: — che gli era
stata fatta grazia: — che gli era fuggito; corse anche la voce della
verità: — che gli era morto: — ma questa nessuno volle crederla.
Margherita, agitata, presa da una viva speranza, si slanciò verso la
carcere a domandare di Gian-Luigi, a pregare glie lo si lasciasse
vedere; ma, com'è facile immaginarsi, fu bruscamente respinta. Ben le fu
detto anche colà che il capo della _cocca_ era morto, ma ella ciò non
credette meglio di quel che lo credesse il popolo. Ella ben lo aveva
detto, non esser possibile che _egli_ salisse il patibolo, che _egli_
così giovane e bello dovesse morire. La ragione del salvamento di lui,
ella non se la spiegava, non la cercava neppure: fosse anche
intravvenuto un miracolo visibile ad effettuare la sua speranza, ella
non si sarebbe menomamente stupita. Il fatto verificava il suo istintivo
indovinamento: ecco tutto. E siccome le più assurde dicerie correvano
per la plebe sul conto della scomparsa del _medichino_, e sulla mancanza
di lui alla orribil festa che la giustizia umana aveva preparata alla
sua crudeltà, Margherita accettava tutte per vere quelle che
conchiudevano alla salute di quel personaggio diventato di botto
misterioso e leggendario.
Anche presso l'infimo volgo erasi sparso delle relazioni che il
_medichino_ aveva con nobili e potenti famiglie; qualche cosa era
trapelato eziandio, e chi potrebbe dirne mai il come? circa la origine
di lui, che si attribuiva ad un alto e potente casato; volevasi ad ogni
costo che misteriosi ed illustri protettori lo avessero sottratto e per
nasconder meglio la cosa si facesse spargere la notizia della morte di
lui. Il popolo che, vedendolo menare al supplizio, avrebbe forse
manifestato per quello strano individuo la più viva simpatia, ora
vedendoselo mancare alla sua sanguinaria voluttà di feroci emozioni,
tumultuò di guisa che fu necessario l'accorrere dei soldati a disperdere
la riotta intorno alla carcere. Ma questa per lei felice illusione salvò
la povera Margherita dal morir disperata.
Quando fu introdotta presso il letto dove moriva Maurilio, la vecchia
contadina, senza voler parlar d'altro, si chinò all'orecchio del
giacente, e con un sorriso mezzo da scemo, gli disse piano all'orecchio:
— So che vive... Zitto!... Non si de' sapere..... Non lo dirò a nessuno,
sta certo; ma fra noi ce lo possiam dire... Andrà lontano, lontano,
neh?... Forse ci è già ito... Io non lo vedrò più sulla terra. (Si
asciugò una lagrima). Capisco che dev'esser così... e pazienza!... Tu lo
vedrai ancora, non è vero?... Digli che si ricordi di me... E poi quando
verrai al villaggio alcuna volta..... Guarirai, e ci verrai certo... mi
recherai le sue novelle... Intanto dàgli ancora un bacio per parte mia.
Baciò il moribondo colle sue labbra secche ed avvizzite.
— Ecco, io non ho più nulla da dirti: soggiunse poi con aria ed accento
vieppiù da dissensato; posso andarmene, e me ne vado al mio paese. Non
ho più nulla da far qui, in mezzo a questo rumore che mi toglie la
povera mia vecchia testa..... Vado al villaggio... Ma ch'ei non si
dimentichi la vecchia Margherita che lo ha allattato... La sua vera
madre, l'unica sua madre sono stata io.
Tornata al villaggio, il marchese provvide ad ogni suo bisogno; ma ella
non visse a lungo. Si trascinò due anni, senza quasi parlare altrui,
dalla sua misera casipola alla chiesa, e morì ancora con quella
illusione sul conto del suo Giannino; illusione cui lo stesso Don
Venanzio non ebbe coraggio di distrurre, credendola una pietà della
Provvidenza verso quell'infelice.
Maurilio era caduto in un assopimento che già pareva la morte: il medico
aveva detto che da quello non si sarebbe ridesto più, ma insensibilmente
passato nel sonno eterno. Intorno a lui stavano mesti e raccolti e lo
contemplavano con amore gli amici suoi: Giovanni Selva, Antonio Vanardi,
Romualdo, anche Mario Tiburzio, del quale il morente aveva chiesto
eziandio: il marchese si teneva dritto, nella sua mossa nobilmente
severa, da un lato del letto, e sulla sua bella fisionomia dignitosa di
vecchio, era una mestizia forse uguale a quella dei giovani amici del
morente. Maggiore d'ogni altro era il dolore che appariva sulla faccia
di Don Venanzio, il quale sedeva dall'altra parte del letto e teneva fra
le sue una delle mani abbandonate del moribondo. Gli occhi sempre così
miti e sereni del vecchio sacerdote erano pieni di lagrime, ed oltre
quelle lagrime avevano una desolazione, quale non vi era apparsa ancora
mai, in tutte le traversie che pure aveva egli passate nella vita.
Quei due giovani egli aveva amati come figli; si era tanto tempo
compiaciuto in essi, svolgendone la rara intelligenza; aveva deplorato i
traviamenti del loro pensiero, ma sperato sempre che li avrebbe un
giorno ricondotti sulla retta via segnata dalla Chiesa di cui egli era
membro e stromento, dalla religione di cui era ministro. Ora ambedue,
sul fiore dell'età, gli venivano tolti e crudelmente tanto! e lasciando
in lui tanto terrore della sorte loro futura, che appena se giungeva a
calmarlo l'immensa idea ch'egli aveva della clemenza di Dio.
Maurilio giaceva supino, gli occhi e le labbra chiusi. I suoi nerissimi
capelli, dritti e scarmigliati sul guanciale candidissimo, gli facevano
una corona che pareva di spine alla fronte vasta, dalle ossa
protuberanti, che sembrava imbiancatasi, che avreste detto lucente d'una
misteriosa fosforescenza. In quei supremi istanti i suoi lineamenti
grossolani avevano presa un'espressione di nobiltà di cui li avreste
creduti incapaci dapprima; la sua fisionomia trasformata aveva assunta
una nuova, una strana, inesplicabile, inesprimibile bellezza che non era
quella della misera forma umana, che anche uno scettico avrebbe detta
superiore alla terrena.
La predizione del medico ebbe torto. Il morente ad un punto aprì gli
occhi e girò intorno le pupille, conscio di sè e delle cose che lo
circondavano: salutò con un'occhiata di gratitudine e di compiacenza
coloro che lo attorniavano con mostre di dolce affetto e si dolevano del
suo destino; fermò più a lungo e più commosso lo sguardo sulla bella
testa canuta di Don Venanzio, che piangeva chetamente a lui vicino;
volle stringere colla sua la mano del vecchio prete, ma non n'ebbe la
forza; accennò lo sollevassero sopra i cuscini, e poichè fu soddisfatto
al suo desiderio, parlò pianamente a colui che era stato il suo primo e
vero e si può dire unico benefattore, che gli aveva fatto
intellettualmente ed anche per affetto da padre.
— Non pianga, Don Venanzio; io sto per giungere là dove un po' meglio si
vede la gloria di Dio. Non tema della salute dell'anima mia, non tema
del mio avvenire oltre tomba. Ai moribondi avviene qualche volta che si
conceda avere un sentore del mondo degli spiriti a cui stanno per
approdare. Dio mi fu largo di tanta ventura. Nel mio assopimento ed
anche ora mi stanno dinanzi le auree forme d'una sublime visione. Non
gli occhi del corpo la contemplano, ma quelli dello spirito già
apertisi, benchè tuttavia nel carcere della carne. Ella si spaventò per
me, che abbandonai le forme della fede da Lei apprese alla mia infanzia.
La si rassicuri: non è la forma, è la sostanza della fede che salva. Io
credo al buono, al bello ed a Dio. Credo ed amo! Ecco i profeti e la
legge.... Veggo nell'infinità dello spazio l'infinità dei mondi, e in
questi, traverso a questi, l'infinità delle vite degli spiriti, da
incarnazione ad incarnazione, da grado a grado; immenso elevarsi di
anime verso l'inarrivabile. Nel cammino chi s'arresta, chi travia, chi
cade: — ma niuno è perduto. Il male non ha l'autorità dell'assoluto; è
una contingenza; è l'ombra; privazione, non corpo; negazione, non
sussistenza; è il divenire del bene. La grande fraternità degli spiriti
che si sviluppano nella materia, cominciando dalle prime manifestazioni
della vita sino all'intelligenza che si accresce e si accresce vestendo
sempre meno di materia: questa grande fraternità scrive la sua storia e
la imprime per mezzo dell'eterea luce nell'infinità dello spazio che i
raggi percorsero, percorrono e percorreranno sempre, sempre, senza
principio, senza interruzione, senza fine. Questa luce, latrice delle
immagini d'ogni avvenimento cosmico, cammina, cammina nelle profondità
dello spazio: correte alla distanza che occorre e troverete
rappresentate le fasi geologiche dell'esistenza primitiva della nostra
terra. In queste pagine immortali mi lasciò un momento scorgere la
clemenza di Dio. Tosto che sarà spirito disumanato, le potrò leggere con
occhio sicuro. Tutto il passato è così sempre presente, e tutto coesiste
nell'attimo. La luce delle lontane stelle che giunge a noi dopo due mila
anni di viaggio è per noi il presente, e per loro è il tempo forse già
sepolto nell'oblio.
I presenti credevano ch'ei vaneggiasse; Don Venanzio lo pregò a non
istancarsi cotanto nella fatica di parlare che era molta e sempre
maggiore per lui, al quale il fiato ad ogni minuto diventava più
oppresso e più debole. Ma il moribondo scosse lievemente la testa,
facendo un mesto sorriso.
— Lasciatemi dire: rispose: pochi minuti soltanto mi rimangono, ed ho
desiderio di comunicarvi ancora tante cose!
Si rivolse ai giovani amici suoi, Selva, Romualdo, Vanardi e Tiburzio.
— Seguitate ad amare la patria. L'amore tanto è più nobile, quanto più
si stacca dall'individuo ed allarga la cerchia della sua azione. Chi si
sente di amare la patria, come altri ama la sua amante, è una delle
anime più generose del mondo. Cristo amò così l'umanità e fu l'essere il
più sublime e il più divino che abbia visto la terra. La patria avrà
bisogno di voi; possiate dare esempio agl'Italiani di sacrificio, non
solo della vita, ma dell'interesse, delle passioni, dei pregiudizi
personali: di questi sacrificii hanno bisogno le nazioni per risorgere e
farsi grandi: e di questi sacrificii temo gl'Italiani non troppo capaci.
Virtù ci vuole, ed amore!.... Amatevi tutti. Amate que' poveri vostri
fratelli costituiti nella perenne minor età dell'ignoranza, che formano
la plebe. Amateli ed educateli — e date alle loro famiglie il pane e la
sicurezza della vita....
Il respiro a questo punto gli mancò affatto. Fe' cenno che soffocava, e
Giovanni Selva fu lesto a sollevarlo nelle sue braccia.
— Quanto a me: soggiunse con voce che appena si poteva udire: non
obliatemi affatto... ed amatemi un pochino, anche morto.... Io ho
perdonato tutti e tutto... Domando che tutto e tutti mi perdonino.... Ho
sofferto molto, ed ho amato tanto!... E non ebbi un'ora di gioia....
L'avrò nell'avvenire... (Fece un ineffabile sorriso). Oh! se l'avrò!...
Vorrei parlare ancora... e non posso più... Sento un'onda di poesia
divina che m'invade... Se la potessi esprimere!.... Voi bacierete la mia
fronte, quando sarò cadavere..... Essa albergò un'intelligenza.... Date
quest'addio ad una miserabil forma che si distrurrà per sempre... Addio!
addio! addio!
Levò verso il cielo le sue pupille larghe, in cui correvano tratto
tratto guizzi di luce simili a quelli d'una lampada che sta per
ispegnersi, ed una inesprimibile aura di beatitudine gl'illuminò la
faccia: egli vedeva innanzi a sè lo spirito protettore della sua vita.
— Sei tu, madre mia: esclamò con immenso affetto: tu che pur da morta,
non abbandonasti il figliuol tuo nel mondo!... Tu che ora mi chiami ed
inviti!... Vengo, vengo, vengo!... Ecco la luce!... Ecco l'etere!...
Ecco l'infinito!
Gettò un grido e ricadde di tutto il suo peso sulle braccia di Selva.
Con quell'ultimo grido l'anima era fuggita da quell'infelice corpo
tormentato.
Il domani una piccola, mesta schiera accompagnava al cimitero le spoglie
di colui che fu nella vita terrena chiamato Maurilio. Quando la fossa in
cui venne calata la cassa mortuaria fu ricolma di terra, Don Venanzio
pronunziò sovr'essa le ultime preghiere, e gli amici del morto, credenti
e non credenti nelle forme cattoliche, udirono con religioso rispetto, a
capo scoperto, le solenni parole che colla voce tremolante del vecchio
sacerdote acquistavano efficacia maggiore; poi, quando con una ultima
benedizione, con un ultimo addio si staccarono da quella tomba, Mario
Tiburzio, disse ai giovani traendoli in disparte:
— Ora conviene recarci colà, ad altri, ma men tristi addii. È giunta
l'ora: venite.
Lasciarono tornar solo in città Don Venanzio, nella carrozza che il
marchese di Baldissero aveva fatta allestire per lui; ed essi, passando
traverso i campi, si recarono sulla strada che, passata la Dora sul
ponte Mosca, si dirige verso la pianura di Lombardia. Si posero alla
distanza di un centinaio di metri dall'ultima casa che si trovava al di
là del ponte; e stettero aspettando, silenziosi, mesti e raccolti,
dominati dalla solennità della scena di morte a cui avevano allora
allora assistito, da quella eziandio del convegno a cui erano venuti.
Dopo un poco, sulla strada deserta si udì il rumore di ruote correnti, e
si vide venir da Torino una carrozza in posta al trotto serrato di due
cavalli. Appena vide i giovani sulla strada, chi era dentro il legno,
diè ordine al postiglione di fermare: ed aperto l'usciòlo, ne discese un
uomo di alta statura, di nobile portamento, di faccia serena ed
intelligente, di aspetto da militare insieme e da cavaliere; era Massimo
d'Azeglio, verso cui i giovani s'affrettarono circondandolo con mostre
d'affettuosa riverenza.
— Ho voluto darvi qui l'addio: disse il valente scrittore e patriota;
per evitare ogni sospetto ed ogni sorveglianza della Polizia. Ci tenevo
a stringervi le mani, bravi giovani, ed a lasciarvi per addio e per
memoria di me alcuni consigli.... no, dirò meglio, alcune preghiere.
Credete a me: l'epoca delle congiure è passata: bisogna oggidì cospirare
al bene della patria ed al progresso dell'umanità alla chiara luce del
sole. Non si tratta d'_uccidere il tiranno_, ma di educare il popolo, ed
anco i principi, e di elevare le masse. Per questo ci vuole la
coraggiosa propaganda della pubblicità.
« — Carlo Alberto fa da senno, io ne sono persuaso; egli è con noi, è
obbligato ad essere con noi; non attraversiamogli il cammino, e
mettiamoci noi con esso lui.
Mario Tiburzio interruppe.
— Ella ha ragione, sor Massimo. Questi giorni ci ho pensato di molto a
codeste cose, e mi sono convinto che per ora miglior mezzo per giovare
all'Italia è farsi soldato di Carlo Alberto. Ho rinunciato al mio
repubblicanismo (mandò un sospiro) e domani stesso vestirò l'assisa di
soldato nell'esercito piemontese.
Massimo d'Azeglio gli strinse la mano.
— Ve ne lodo.... Spero che ci troveremo un giorno nei campi lombardi a
combattere, fianco a fianco.
— Vi ci troveremo tutti: esclamarono in coro gli altri con entusiasmo.
— Dio vi ascolti! Io ripiglio la mia giornata di messo della nuova
rivoluzione. Possa trovar io per tutta Italia anime come le vostre.
Dopo i più cordiali salutari ed augurii, d'Azeglio risalì nella carrozza
e continuò il viaggio verso Milano; i giovani stettero fermi guardando
dietro quel legno che s'allontanava, finchè non lo videro più.
Quando giunse il 1848 Mario Tiburzio non fu il solo che prendesse parte
alla guerra: si arruolarono eziandio Giovanni Selva, Romualdo e
Francesco Benda. Povera sora Teresa! Anche questo dolore le doveva
toccare: veder partire per la guerra il suo figlio dilettissimo, che
solo erale rimasto in casa. Il padre di Francesco soffrì molto ancor
egli, ma nell'attività del suo lavoro industriale a cui si diede con più
alacrità di prima, nella robustezza maggiore della sua tempra aveva gli
elementi da resistere meglio al dolore. La infelice Teresa, durante
l'assenza del figliuolo, andava a calmare l'ansietà dei suoi timori ed a
confortarsi colla preghiera, presso sua figlia, nel convento di Santa
Chiara, dove ad ogni costo Maria aveva voluto vestire il velo, e
consumare la sua giovinezza in una rassegnazione piena di speranza nella
vita futura.
Ma giorni di gioia erano pur tuttavia serbati ancora alla famiglia dei
Benda. Francesco, divenuto in breve capitano di cavalleria, decorato di
due medaglie al valor militare, otteneva finalmente nel 1850 la mano di
Virginia di Castelletto. La marchesa di Baldissero, che forse non
avrebbe consentito mai a queste nozze, era morta: il marchesino Ettore
viveva separato da suo padre, il quale, conosciutolo indegno del suo
affetto, come del grado in cui il destino l'aveva fatto nascere, l'aveva
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