La plebe, parte IV - 47
aspirazioni della vita in pieno vigore dell'organismo; la cosa dapprima
non sembra possibile; si crede ad un giuoco feroce, ad un orribile
inganno che cesserà ad un punto, si spera follemente un miracolo che vi
salvi, si aspetta anche una catastrofe; l'io, avvezzo a far centro se
stesso all'universo, come può persuadersi che impreparato, senza
transizione, ad un tratto, abbia da venir tolto di mezzo, e quella
natura che crede fatta per lui, in mezzo alla quale vive, cui egli per
sè riempie della sua personalità, stiasi indifferente ed immota? Esso
argomenta contro l'evidenza; come una mosca dentro una chiusa invetrata,
gli pare che debba trovare ad ogni momento il passo per fuggire da
quella orribile realtà e si urta il capo vanamente contro l'impervia
necessità inesorabile. Ad un punto la certezza di questa impossibilità
lo assale, lo afferra, direi quasi, alla gola, e l'uomo sente invaso dal
sangue in tumulto il cervello indebolito. Entra allora in furore:
bestemmia, minaccia, freme, ruggisce; vorrebbe infierire contro sè,
contro tutta l'umanità, contro il mondo; si scaglia colla temerità di
Satana contro Dio. Più tardi succede la spossatezza; il parosismo della
febbre suscitatasi lascia l'abbattimento; la stessa fatica materiale
della prima esaltazione, conferisce a domare quel sussulto di nervi;
l'incessante crudele pensiero: «fra poche ore morrò» è un potente
interno corrosivo che consuma l'energia e le forze. Nell'inoltrarsi
della notte cresce questa prostrazione: è quello il tempo che i preti
accorti sanno più propizio a rendere efficaci le loro esortazioni
religiose. Respinta d'ordinario nelle prime ore in cui il condannato è
in _confortatorio_, nella notte la parola religiosa è accolta con
tolleranza dapprima, poi il più spesso, con fervore. Visto inutile ogni
lusinga nelle cose umane, il morituro si getta disperatamente nelle
braccia della religione e cerca in essa quella forza che sente da ogni
altra parte mancargli. Verso il mattino, di regola generale, una certa
pace, e per parecchi una vera e positiva pace, è entrata nell'anima del
condannato, e il misero s'addormenta di un sonno quasi sempre calmo e
tranquillo.
Le impressioni provate, o per dir meglio manifestate dai nostri tre
personaggi all'annunzio fatale furono diverse. _Stracciaferro_ colla sua
aria sempre più stupidita parve non aver nemmeno compreso; guardò col
suo occhio semispento le persone che lo attorniavano; e siccome il
secondino lo aveva fatto levare dritto in piedi per ascoltare quella
terribile comunicazione, si dispose a sdraiarsi di nuovo sul suo
giaciglio. Ne lo impedirono dicendogli che bisognava cambiar di cella ed
entrare nel _confortatorio_. Si lasciò passivamente indossare la
_camicia di forza_, trascinare alla stanza destinatagli, e guardò con
una certa curiosità da scemo il carceriere che gli attaccava alla gamba
la catena di ferro. I due fratelli della Misericordia che stavano a
fargli compagnia (e due dovevano rimanere sempre di guardia intorno a
ciascuno dei condannati) vollero cominciare a dirgli qualche parola di
conforto; ma egli li guardò con aria così ferocemente imbestialita,
ch'essi pensarono essere miglior consiglio per allora non toccare quel
tasto. Ch'egli però capisse la sua condizione diede prova poco stante
facendo la seguente domanda:
— In _confortatorio_ si dà al condannato tutto quello che desidera, non
è vero?
— È una pia usanza della nostra compagnia della _Misericordia_, gli fu
risposto, di cercar di soddisfare ai desiderii di quegl'infelici, per
quanto lo consentono le nostre facoltà; e se voi desiderate qualche
cosa....
— Ebbene sì; proruppe quell'omaccione in cui fino all'ultimo avevano da
predominare gl'istinti materiali: desidero fare una buona corpacciata.
Voglio provare il gusto dei ricchi, mangiare come un signore, almeno
l'ultimo giorno della mia vita... Mi si dia una pernice... e tutto
quello che vi ha di più fino e costoso... e buon vino, barbera
suggellato, e una caraffa di _cognac_.
_Graffigna_, d'ordinario così calmo, così cauto e prudente, perdette la
padronanza di sè, e salì subitamente in un furore senza misura all'udire
il brutto annunzio. Si dovette ricorrere alla forza per contenerlo; due
uomini robusti furono necessari a vestirgli la _camicia di forza_, e
bestemmiante, urlante, gli occhi piccoli fuori della testa, la schiuma
alla bocca, bisognò trasportarlo a braccia nella cella a lui assegnata.
Seguitò per un poco a strepitare, maledire, imprecare, minacciare,
contorcersi, agitarsi: ma poi abbattuto, non domo, si accovacciò presso
il muro dov'era infisso il capo della sua catena e stette rotando
intorno occhi spauriti e insieme feroci, che lo facevano rassomigliare
in vero ad una volpe presa al laccio che s'aspetta da un momento
all'altro il colpo mortale.
Il _medichino_, egli, com'è facile aspettarsi, aveva mostrato un più
nobile e più fiero contegno.
Udito che quello era l'ultimo giorno della sua vita, Gian-Luigi s'era
vezzosamente inchinato come per ringraziare chi glie ne aveva data la
novella, come per salutare la morte che vedesse comparirgli sulla soglia
della sua carcere. Nessun altro segno d'emozione fu da notarsi in lui,
fuorchè un lievissimo tremar delle ciglia; non impallidì il suo viso,
non diede il menomo sussulto pur uno de' suoi membri: sorrise. Quando
seppe che gli bisognava calzare la _camicia di forza_ ed essere
incatenato per il nodello ad una gamba, domandò se questo non poteva
essergli risparmiato; rispostogli che no assolutamente, mandò un
sospiro, e vi si acconciò senz'altra osservazione. Messo nella cella a
lui destinata, guardò con empia ironia l'altare preparatovi, il
crocifisso e l'inginocchiatoio postovi dinanzi; girò intorno alle pareti
per quanto gli concedeva la lunghezza della catena, e lesse con
apparente interessamento parecchie iscrizioni che vi erano
scombiccherate su. Ad un punto vi era una filza di nomi accompagnati da
qualche parola di preghiera e di rimpianto: erano i nomi di coloro che
da più anni erano passati in quel confortatorio per andarne a morire:
ciascuno vi aveva scritto il suo nome, la sua età, la data della sua
dimora nel luogo funesto ed un'invocazione alla pietà ed alla
compassione di chi leggesse. Il _medichino_ si volse ad uno dei fratelli
della Misericordia che stavano guardandolo con un interesse di curiosità
che ben gli valevano la sua trista rinomanza e gli strani casi della sua
vita:
— Avrebbe Lei un toccalapis da imprestarmi?
Il confratello della Misericordia s'affrettò a soddisfare alla sua
richiesta. Gian-Luigi scrisse poche parole e si allontanò: i due suoi
assistenti si accostarono a leggere avidamente. L'ultima di quelle
lamentanze diceva: «Ah! come crudele morire a trent'anni, sano e robusto
da viverne ancora altri cinquanta!» Il _medichino_ aveva scritto con
mano ferma al di sotto di tutti que' rimpianti: «Imbecilli tutti! si
muore e si tace!»
I due fratelli della Misericordia si guardarono in volto stupiti, non
comprendendo il significato di quella disperata rassegnazione.
— Ella non ha voluto fare come gli altri e metterci il suo nome: disse
il più audace de' due.
Il _medichino_, pure in quella estrema condizione in cui si trovava,
aveva conservato tanta apparenza di superiorità che il buon popolano
sotto la cappa della confraternita non osava trattarlo altrimenti che
col Lei.
— A me non piace fare come gli altri: rispose superbamente il
condannato. Il mio nome!... Perchè metterci costì su quella ignominiosa
parete, vicino a que' nomi infami anche il mio? Per farmi ricordare? Ho
più caro essere obliato. E chi lo leggerebbe? Qualche altro miserabile
che passerà angosciato per quest'anticamera del patibolo.
Si piantò innanzi alla parete dov'erano scritti que' nomi e li lesse
forte con accento d'una sprezzosa ironia.
— Ne ricordo alcuni di questi buoni arnesi. Costui che ha scritto la
massima la più affettuosa e più tenera del Vangelo, cui certo gli aveva
allor allora soffiata nell'orecchio il confessore, aveva ucciso una
vecchia a colpi di sasso per pigliarle quaranta franchi; quest'altro
ammazzò suo padre, perchè non voleva dargli dieci lire da pagare una
meretrice.... E tutti costoro si sono purgati con una buona confessione,
s'illustrarono con un pentimento esemplare, sono partiti dal mondo «puri
e disposti a salire alle stelle» ed ora godono nelle beatitudini del
paradiso il premio delle loro buone azioni.
I due della Compagnia della Misericordia, senza capire tutta l'empietà
dell'ironia che era nelle parole del condannato, pure se ne sentivano
ghiacciare il sangue; lo guardavano quasi esterrefatti, e non sapevano
trovare parola.
Il _medichino_ riprese dopo un poco:
— Loro ne hanno assistito qualcheduno di questa brava gente nelle sue
ultime ore?
— Signor sì: rispose quello de' due che aveva lo scilinguagnolo più
sciolto. Feci quest'opera di carità per tre di codestoro; e li
accompagnai, sostenendoli, proprio sino ai piedi.....
Si trattenne dal dire l'ultima parola.
— Della forca: suggerì il condannato con un sorriso pieno d'innocenza.
— Sì, signore.
— Bravo! È uno zelante Lei!
— Eh eh! fece il confratello insaccando modestamente il capo fra le
spalle.
— Ne la felicito. Che professione è la sua?
— Sono barbiere.
— E la trascura la sua bottega per passar qui la giornata nella
compagnia poco gradevole di uomini che stanno per dar calci all'aria. Ci
prova dunque una soddisfazione?
— Quella di fare un'opera buona.
— E ne spera compenso?
— Da Quel di lassù.
— Benone! La sarà chiamata a far la barba nel regno dei cieli.
E voltò le spalle ai due confratelli, a cui quello scherno ispirò più
terrore che risentimento. Passeggiò per un poco su e giù, poi andò a
sedersi sul gradino dell'inginocchiatoio. I due assistenti si dissero
che loro debito era quello di confortare il condannato, e che per
confortarlo bisognava parlargli; si consultarono quindi a bassa voce fra
di loro, si fecero reciprocamente coraggio, s'avvicinarono al paziente
uno dall'una parte, l'altro dall'altra, e cominciarono colla maggior
convinzione del mondo a snocciolare la filza delle consolazioni e degli
ammonimenti volgari che erano del caso. Gian-Luigi sollevò il capo e
guardò stupito questo poi quello, come avrebbe guardato due automi di
Vaucanson, così perfezionati da favellare; poi ad un punto li
interruppe.
— Signori, la loro eloquenza a duetto senz'accompagnamento è tale da
disgradare quella del Segneri, dello Scarpa, di tutti i predicatori
gesuiti e del professore Paravia; ne faccio loro i miei complimenti, ma
io non amo l'eloquenza — fuor quella dei fatti — detesto i sermonanti e
gli avvocati; e il susurro delle loro parole mi riesce molesto come il
ronzio di due tafani. Li prego di credere che ho abbastanza fantasia per
immaginarmi tutte le belle cose che trovano da dirmi, e di lasciarmi
quindi tranquillo. Ho piacere di meditare: è l'ultimo giorno che mi
servo di questo strano stromento che è il cervello, e mi piace, come si
suol dire, darmene una satolla. Le loro buone intenzioni che apprezzo,
tradotte in discorsi, non riescono che a disturbarmi.
I confratelli s'allontanarono da lui mortificati, e lasciandolo immerso
ne' suoi pensieri, non gli rivolsero più la parola.
Erano passate parecchie ore, quando il condannato, uscito dalla sua
meditazione, s'accorse che i due soci della pietosa confraternita stavan
sull'uscio della cella discorrendo vivamente, a bassa voce, con
qualcheduno.
— Che cosa c'è? domandò egli uscendo per la prima volta dalla sua apatia
e lasciando apparire una certa inquietudine.
I confratelli si volsero verso di lui a rispondergli. Il tempo di
guardia dei due primi era trascorso, ed altri due si erano a quelli
sostituiti, senza che il condannato pur se ne avvedesse. Uno di questi
nuovi assistenti rispose adunque:
— È un buon religioso, il bravo Padre Bonaventura de' frati gesuiti che
vorrebbe parlarle.
Gian-Luigi corrugò leggermente le sopracciglia.
— A me? domandò egli con accento d'uomo che non capisce il perchè d'una
cosa: Padre Bonaventura? E che può egli aver da dirmi?
Il frate non lasciò rispondere da altri: cominciò per allungare il collo
e mostrare il suo cappellone da gesuita e la sua faccia pienotta nel
vano della porta, poi si fece innanzi e introdusse la sua grassa persona
vestita di cotta nera.
— Caro mio figliuolo: disse con voce d'un'affettata dolcezza, che riuscì
al paziente oltremodo antipatica: ti dispiace ch'io venga a fare un poco
di conversazione con te?
Era una delle specialità di quel gesuita il confortare i condannati a
morte, ed aveva fama di saper toccare il cuore ai più riottosi e
convertire i più ricalcitranti. Si narrava di scellerati dal cuore
induritissimo, che, avendo resistito alle esortazioni dei più eloquenti
confessori, avevano poi finito per cedere alla insinuantesi, melliflua
voce del gesuita. I casi più serii ed i birboni più matricolati erano
riservati a lui; era questo uno dei suoi vanti eziandio, e soleva
accorrere come divisione invincibile di riserva nella battaglia contro
il demonio, per istrappare dagli artigli di quest'ultimo l'anima
scellerata che si stava per lanciare nell'eternità. Il contegno del
_medichino_ coi due primi confratelli della Misericordia aveva già
provato chiaro come quest'infelice appartenesse alla schiera dei
pervicaci, e s'era pensato senz'attender altro, di far venire subito
all'assalto le poderose forze dialettiche e teologiche dell'eloquenza
del gesuita.
Questi poi era da se stesso offertosi sollecitamente ed andato incontro
all'ufficio, perchè una gran curiosità gli era nata in corpo di veder
chiaro in certi misteri cui frequentando assiduamente la casa Baldissero
aveva colla sua solita accortezza notato in quella famiglia da alcuni
giorni, misteri nei quali aveva subodorato aver parte il famoso
_medichino_, condannato a morire. Come abbiam visto aveva egli appreso
dalla confessione del moribondo Nariccia che il creduto Maurilio non era
altrimenti il figliuolo della marchesina Aurora, ma che questi era da
trovarsi in altro individuo possessore della metà di quella certa
lettera di cui egli s'era reso padrone e che per suo mezzo era passata
nelle mani del marchese. A lui non si era detto nulla più intorno a
quell'affare: ma col suo acume il gesuita non tardò a concepire il
sospetto che quel vero figliuolo fosse stato trovato, e da certi sguardi
scambiati, da certi pallori e silenzi impacciosi subitamente avvenuti
fra i componenti della famiglia Baldissero, quando nel loro salotto il
discorso cadeva, come in que' giorni era troppo facile succedesse, sul
così detto _medichino_, il frate era venuto ad argomentare che quel tale
smarrito fanciullo potesse benissimo esser costui. Sdegnato che a lui
non se ne fosse fatta la confidenza, e pensando che in qualche modo
nell'avvenire la scoperta di questo segreto di famiglia aggiunto a
quegli altri ch'egli conosceva già, avrebbe forse potuto giovargli,
Padre Bonaventura decise impiegare tutta la sua arte nell'apprendere il
vero, ed avvisò che metodo buonissimo da ciò fosse il sentire il
condannato a morte nell'ultima sua confessione. Ed ecco perchè con tanto
maggior zelo si affrettava a venir disputare quell'anima al demonio.
Ma al pari della voce falsamente amorevole, fu antipatica al condannato
la figura ancora più falsa di quel frate. Il sorriso piacentiere di
quelle labbra carnose da ghiottone gli dispiacque estremamente: quel
sentirsi a dar del tu (usanza che il gesuita aveva con tutti i suoi
penitenti) fece inalberare l'orgoglio permaloso di Gian-Luigi. Questi si
levò in piedi, guardò il gesuita dalla cera ipocritamente umile, come un
principe avrebbe guardato un pezzente, e rispose con superbo piglio:
— Che cosa vuoi _tu_ ch'io me ne faccia della tua conversazione?
Padre Bonaventura, offeso, arrossì alquanto nelle sue guancie paffute, e
nello sforzo di voler dominare la sua bizza, fece una smorfia che pareva
di chi inghiottisca qualche amara medicina.
— Oh oh! disse fra sè: che tono.... Ma gli è tutto l'orgoglio dei
Baldissero.... Cospetto! E' rassomiglia di molto alla marchesa
Aurora.... Non ci è più dubbio: questo è il figliuolo di Valpetrosa.
— Mio caro, riprese di poi con un forzato sorriso: chi sa che la mia
conversazione non possa esservi utile più che non crediate. E se
d'altronde, a voi non interessa, fate conto che la vostra interessi me,
e concedetemi un momento di colloquio per farmi piacere.
Gian-Luigi sorrise più superbo che mai; e passando ancor egli a dargli
del voi, rispose:
— Sia come volete. Inoltratevi; sedete... o state in piedi, come vi
piace meglio; e dite quello che vi pare.
Padre Bonaventura s'introdusse col suo solito sorriso e il suo passo
discreto che non faceva rumore, sedette, si levò il cappellone e se lo
pose sulle ginocchia, vi pose su le mani incrociate e guardò col suo
occhio esaminatore il condannato; il quale, dopo averlo fissato un poco
con aria di non dissimulato disprezzo, si era dato a passeggiare in su e
in giù per quanto gli permettesse la sua catena.
Il frate non tardò a farsi certo che le sue usate sdolcinerie gesuitiche
e le carezzevoli forme per cui soleva insinuarsi nell'animo altrui, non
avrebbero approdato con questo cotale; ed avvisò che a scuotere quella
superba avversione onde il giovane lo aveva accolto, a farne oscillar
l'anima fiera, e poter trovare un giunto, se pur vi era, di quella
corazza di incredulità e d'orgoglio cui vestiva quella robusta volontà,
occorreva percuotere un gran colpo. Stette un buon quarto d'ora senza
parlare, seguitando sempre collo sguardo de' suoi furbi occhi
penetrativi l'andare e le mosse del condannato: voleva eccitarne
alquanto con quel silenzio la curiosità; il giovane non avrebbe di certo
potuto a meno di pensare: «che mai ha in animo di dirmi costui? come se
la vuol prendere per convertirmi? e perchè non parla?» voleva suscitarne
coll'attesa l'impazienza e così provocarne di meglio l'attenzione. Di
fatti il _medichino_, che andando e venendo gettava sempre uno sguardo
sul gesuita e ne vedeva le pupille fisse su di lui con espressione di
pietà, di cordoglio, di rammarico, finì per impazientirsi di quella
taciturnità e di quelle guardate.
— Ebbene, diss'egli piantandosi innanzi al frate, la è questa la
conversazione che volete fare?
— Sapete pure, rispose Padre Bonaventura, che quando si hanno le tante
cose da dire, gli è appunto allora che non si trovano le parole. Stavo
pensando.
— Quando siete venuto qui, disse Gian-Luigi con fine ironia, dovevate
già aver pensato. Alle corte, voi siete venuto per salvare l'anima mia.
(Fece un satanico sogghigno nel dir ciò). Non è egli vero?
Il gesuita alzò gli occhi al soffitto in una mossa da estatico, come si
dipingono i santi che si adorano sugli altari.
— Ho pregato vivamente, rispos'egli con voce che pareva piagnolosa, ho
pregato la Madonna del Carmine mia santa patrona, perchè mi rendesse
degno di questa grazia.
— Or bene, continuava il condannato colla medesima empia ironia, se la
vostra Madonna vuol farvi questa grazia, deve già avervi ispirato i
mezzi di pervenire al vostro santo fine, gli argomenti da convincere la
mia incredulità (perchè io sono un incredulo, signor mio), l'eloquenza
da penetrarmi in cuore. Parlate adunque sollecito e saremo più presto
liberi tuttedue, voi dell'obbligo del vostro mestiere, io....
Si arrestò, perchè la sua natìa gentilezza gli fece sentire in quella
tutta la brutale grossolanità della espressione che stava per usare.
— Della mia compagnia: soggiunse il gesuita terminando la frase, con
accento di mite umiltà e faccia di rassegnata tolleranza. Ditelo pure.
Oh! non crediate d'offendermi. Me, come uomo, voi potete ferire come e
peggio che vi piaccia; non mi lamenterò, vi benedirò anzi. Vorrei esser
fatto segno non solo della vostra ironia, del vostro scherno e del
vostro disprezzo, ma dei più fieri insulti eziandio e dei mali
trattamenti. Ricordate ch'io son servo e ministro di Colui che venne in
terra per tutto soffrire dagli uomini in beneficio degli uomini, di
Colui che disse: «se vi percotono la guancia destra, e voi porgete la
sinistra.»
Queste parole pronunciate con un tono dolciato ed untuoso che sapeva
d'ipocrita lontano le mille miglia, irritarono vieppiù il paziente: una
matta voglia glie ne venne di percuotere una di quelle guancie paffute
del frate, per porlo tosto in condizione d'applicare la massima del
Vangelo; si tolse di là per resistere alla tentazione, e prese di nuovo
a passeggiare.
Padre Bonaventura, che s'accorse dell'effetto delle sue parole,
continuava:
— Vedo tutta l'irritazione dell'animo vostro, e la capisco. La è
naturale, è necessaria, e vorrei benissimo che la potesse avere uno
sfogo, sicuro che di poi la cederebbe per lasciarvi luogo a penetrare
alla parola di Dio. Deh! (e levò più che mai gli occhi al soffitto)
potess'io essere occasione e vittima anche di questo sfogo: io vi direi
come Temistocle: «batti ed ascolta»; ma per carità, per l'amore di voi
medesimo, per l'anima vostra, rispettate quello che v'ha di più
rispettabile e di più venerando: la nostra santa religione....
Il _medichino_ lo interruppe con impazienza:
— Voi, quantunque gesuita, mancate di quell'arte rettorica che mostrate
a vostro uso alle generazioni crescenti. Mi scongiurate a nome di cose
che non hanno, che non possono avere su di me nessuna efficacia. La
carità? Come volete che ci creda un uomo che gli altri uomini mandano a
morire? L'amore di me medesimo? Fra dodici ore non esisterò più. L'anima
mia? Non credo a questa invenzione dei pusilli che i furbi di tutte le
epoche col nome di sacerdoti, hanno sfruttata per tenere a sè soggetto
il genere umano. Noi siamo un organismo come quello dei bruti, più
perfetto, e che quindi è arrivato al fenomeno del pensiero: distrutto
quest'organismo, tutto è distrutto. La vostra anima l'ho cercata collo
scalpello dell'anatomico, e non l'ho trovata; ho trovato bensì la
materia e le leggi necessarie che la reggono da cui tutto mi viene
spiegato senza bisogno d'altra ipotesi. Come volete voi ch'io rispetti
la religione? La vostra, al par di tutte le altre, non è che un insigne
inganno a cui si pigliano i semplici: l'uomo, stupito egli medesimo
d'avere una ragione, vi ha rinunciato per credere alle assurdità dei
dogmi.
Padre Bonaventura tolse dalla coppa del suo cappello le sue mani bianche
e grassotte, e le levò in alto inorridite. Allora pensò che non
bisognava più indugiare a dar quel certo gran colpo che aveva meditato.
— Sapete una cosa, signor incredulo? diss'egli con maggior forza
nell'accento: io son quello che assistè fino alla morte l'agonia del
povero Nariccia, e ne udì l'ultima confessione.
La botta fu veramente efficace; le guancie già pallide del condannato
impallidirono ancora; un tremito, tosto frenato, gli agitò le membra;
negli occhi corse come uno sgomento; ma il vigoroso atleta si riebbe
tosto; i muscoli della faccia si fermarono in una espressione di feroce
impudenza, lo sguardo sfavillò d'una luce infernale.
— Ebbene? domandò egli freddamente. Che cosa ne volete inferire da ciò?
— Che in questo dovreste riconoscere la mano di quel Dio che negate,
l'opera di quella Provvidenza cui bestemmiate.
Gian-Luigi crollò le spalle.
— Non ci vedo che il fatto naturalissimo di un caso volgare. È vostro
mestiere udire confessioni ed assistere moribondi.
Il gesuita piantò in faccia al condannato i suoi occhi fissi, acuti,
penetrativi.
— Gli è da lungo tempo che io conosceva messer Nariccia: diss'egli
lentamente: fin dal tempo ch'egli era ragioniere del fu marchese di
Baldissero, padre dell'attuale.
Il lieve movimento con cui si rivelarono l'interesse e la sorpresa di
Gian-Luigi, non isfuggì allo sguardo attento del frate.
— Io sapeva già molto di lui e della sua vita: continuò questi con la
medesima lentezza: ma non sapevo _tutto_..... Di un uomo qual era quel
povero Nariccia (Dio gli voglia usare misericordia!) è impossibile saper
mai tutti i segreti; ma in faccia al sepolcro, al momento di comparire
innanzi al giudice eterno, anche le anime più nere e più false sentono
la pressione della verità e provano il bisogno di riconoscere la
giustizia divina.
Quercia protestò con un sorriso.
— Eh! esclamò egli. Ho conosciuto anch'io e per bene quello sciagurato.
Era un impostore.....
— Innanzi alla morte ed alla paura della dannazione eterna non vi hanno
più ipocrisie. Quell'uomo disse tutta la verità, così che io potei
riparare ad un grave errore in cui per sua colpa stava per cadere
un'illustre famiglia, adottando come suo membro un estraneo che non le
apparteneva.
Il _medichino_ non pensò neppure a dissimulare la sua meraviglia.
— Ah! siete voi che avete appreso al marchese la verità?... Voi dunque
sapete tutto?
— Vi ho già detto che così era.
Padre Bonaventura non ebbe più dubbio nessuno sull'essere del giovane.
S'e' non fosse stato lo smarrito fanciullo, come avrebb'egli avuto
cognizione di codeste cose?
— Or bene: disse dopo una brevissima pausa il condannato: per qual
motivo venite voi a ricordarmi codesto? Poichè siete così appuntino
informato a tal riguardo, saprete pure che tutto ciò gli è, dev'essere
come se non fosse stato mai, che quindi non se ne ha pur da discorrere.
— Vengo a ricordarvelo, disse il frate, appunto perchè nella sequela di
questi avvenimenti riconosciate qualche cosa di più che l'opera del
caso, la mano di quell'Essere supremo che tutto muove.
Volse uno sguardo verso i due confratelli della Misericordia, che fino
dal principio del colloquio si erano ritratti il più lontano che si
potesse, ed abbassò tuttavia la voce perchè neppure il suono di una
parola giungesse sino a loro.
— Quel bambino cui Nariccia derubò dell'aver suo e volle smarrito fu
quello che venne ad assassinarlo, spogliarlo e trarlo a morte...
Questa vicenda di casi era veramente così speciale che già n'era stato
colpito, meditandovi sopra, l'assassino medesimo; nel rimettergliela ora
innanzi la mente, fra' Bonaventura, che aveva di botto determinato
giovarsi di quella circostanza per influire sull'animo del giovane,
ridestò in costui tutta l'emozione, tutto il turbamento che già
pensandovi da solo, egli ne aveva provato. Fece vivamente un atto colla
mano come per dirgli, per imporgli tacesse, ed allontanatosi da lui,
stette un istante immobile, muto, colla faccia nascosta nelle palme
delle mani. Ma fu breve l'istante della sua commozione; la fiera natura
non tardò a riagire in lui: rialzò la faccia in cui brillava da
agghiacciare il sangue a chi lo mirasse in tutta la sua potenza malefica
un sogghigno mefistofelico e disse con acre ironia:
— Io non sono dunque stato, a vostro senno, che lo stromento della
Provvidenza, per punire la colpa di quell'....
Trattenne l'epiteto oltraggioso che stava per uscire dalle sue labbra a
carico di quell'individuo da lui ucciso.
— Di quell'uomo: soggiunse ripigliando. Non c'è dunque imputabilità in
me. E che s'immischia la giustizia umana a voler sindacare gli atti e
gli stromenti di quella divina?... Se la voleva concedersi gusto di fare
un processo, non è a me che lo doveva rivolgere, ma a Domineddio.
— Sì, rispose il gesuita, voi foste stromento della Provvidenza, come lo
siamo tutti quanti siamo, effettuando ognuno il disegno di Dio; ma ciò
non toglie che ciascuno debba portare la risponsabilità dei suoi atti.
— Signore, interruppe Gian-Luigi, queste le sono teorie filosofiche da
spacciarsi ai babbei che adottano lo stupido assioma: _credo quia
absurdum_. Se io nei miei fatti sono l'agente d'una volontà superiore
che mi domina, non posso io essere accagionato di quel che faccio; non
ho più la libertà del mio arbitrio, e senza questa libertà come aver
merito o colpa?
Stimo troppo fastidioso pei miei lettori il riferir qui le ragioni
addotte dal gesuita a difendere le grandi teorie dell'esistenza di Dio e
dell'anima umana immortale, non che la guisa con cui esprime questi
non sembra possibile; si crede ad un giuoco feroce, ad un orribile
inganno che cesserà ad un punto, si spera follemente un miracolo che vi
salvi, si aspetta anche una catastrofe; l'io, avvezzo a far centro se
stesso all'universo, come può persuadersi che impreparato, senza
transizione, ad un tratto, abbia da venir tolto di mezzo, e quella
natura che crede fatta per lui, in mezzo alla quale vive, cui egli per
sè riempie della sua personalità, stiasi indifferente ed immota? Esso
argomenta contro l'evidenza; come una mosca dentro una chiusa invetrata,
gli pare che debba trovare ad ogni momento il passo per fuggire da
quella orribile realtà e si urta il capo vanamente contro l'impervia
necessità inesorabile. Ad un punto la certezza di questa impossibilità
lo assale, lo afferra, direi quasi, alla gola, e l'uomo sente invaso dal
sangue in tumulto il cervello indebolito. Entra allora in furore:
bestemmia, minaccia, freme, ruggisce; vorrebbe infierire contro sè,
contro tutta l'umanità, contro il mondo; si scaglia colla temerità di
Satana contro Dio. Più tardi succede la spossatezza; il parosismo della
febbre suscitatasi lascia l'abbattimento; la stessa fatica materiale
della prima esaltazione, conferisce a domare quel sussulto di nervi;
l'incessante crudele pensiero: «fra poche ore morrò» è un potente
interno corrosivo che consuma l'energia e le forze. Nell'inoltrarsi
della notte cresce questa prostrazione: è quello il tempo che i preti
accorti sanno più propizio a rendere efficaci le loro esortazioni
religiose. Respinta d'ordinario nelle prime ore in cui il condannato è
in _confortatorio_, nella notte la parola religiosa è accolta con
tolleranza dapprima, poi il più spesso, con fervore. Visto inutile ogni
lusinga nelle cose umane, il morituro si getta disperatamente nelle
braccia della religione e cerca in essa quella forza che sente da ogni
altra parte mancargli. Verso il mattino, di regola generale, una certa
pace, e per parecchi una vera e positiva pace, è entrata nell'anima del
condannato, e il misero s'addormenta di un sonno quasi sempre calmo e
tranquillo.
Le impressioni provate, o per dir meglio manifestate dai nostri tre
personaggi all'annunzio fatale furono diverse. _Stracciaferro_ colla sua
aria sempre più stupidita parve non aver nemmeno compreso; guardò col
suo occhio semispento le persone che lo attorniavano; e siccome il
secondino lo aveva fatto levare dritto in piedi per ascoltare quella
terribile comunicazione, si dispose a sdraiarsi di nuovo sul suo
giaciglio. Ne lo impedirono dicendogli che bisognava cambiar di cella ed
entrare nel _confortatorio_. Si lasciò passivamente indossare la
_camicia di forza_, trascinare alla stanza destinatagli, e guardò con
una certa curiosità da scemo il carceriere che gli attaccava alla gamba
la catena di ferro. I due fratelli della Misericordia che stavano a
fargli compagnia (e due dovevano rimanere sempre di guardia intorno a
ciascuno dei condannati) vollero cominciare a dirgli qualche parola di
conforto; ma egli li guardò con aria così ferocemente imbestialita,
ch'essi pensarono essere miglior consiglio per allora non toccare quel
tasto. Ch'egli però capisse la sua condizione diede prova poco stante
facendo la seguente domanda:
— In _confortatorio_ si dà al condannato tutto quello che desidera, non
è vero?
— È una pia usanza della nostra compagnia della _Misericordia_, gli fu
risposto, di cercar di soddisfare ai desiderii di quegl'infelici, per
quanto lo consentono le nostre facoltà; e se voi desiderate qualche
cosa....
— Ebbene sì; proruppe quell'omaccione in cui fino all'ultimo avevano da
predominare gl'istinti materiali: desidero fare una buona corpacciata.
Voglio provare il gusto dei ricchi, mangiare come un signore, almeno
l'ultimo giorno della mia vita... Mi si dia una pernice... e tutto
quello che vi ha di più fino e costoso... e buon vino, barbera
suggellato, e una caraffa di _cognac_.
_Graffigna_, d'ordinario così calmo, così cauto e prudente, perdette la
padronanza di sè, e salì subitamente in un furore senza misura all'udire
il brutto annunzio. Si dovette ricorrere alla forza per contenerlo; due
uomini robusti furono necessari a vestirgli la _camicia di forza_, e
bestemmiante, urlante, gli occhi piccoli fuori della testa, la schiuma
alla bocca, bisognò trasportarlo a braccia nella cella a lui assegnata.
Seguitò per un poco a strepitare, maledire, imprecare, minacciare,
contorcersi, agitarsi: ma poi abbattuto, non domo, si accovacciò presso
il muro dov'era infisso il capo della sua catena e stette rotando
intorno occhi spauriti e insieme feroci, che lo facevano rassomigliare
in vero ad una volpe presa al laccio che s'aspetta da un momento
all'altro il colpo mortale.
Il _medichino_, egli, com'è facile aspettarsi, aveva mostrato un più
nobile e più fiero contegno.
Udito che quello era l'ultimo giorno della sua vita, Gian-Luigi s'era
vezzosamente inchinato come per ringraziare chi glie ne aveva data la
novella, come per salutare la morte che vedesse comparirgli sulla soglia
della sua carcere. Nessun altro segno d'emozione fu da notarsi in lui,
fuorchè un lievissimo tremar delle ciglia; non impallidì il suo viso,
non diede il menomo sussulto pur uno de' suoi membri: sorrise. Quando
seppe che gli bisognava calzare la _camicia di forza_ ed essere
incatenato per il nodello ad una gamba, domandò se questo non poteva
essergli risparmiato; rispostogli che no assolutamente, mandò un
sospiro, e vi si acconciò senz'altra osservazione. Messo nella cella a
lui destinata, guardò con empia ironia l'altare preparatovi, il
crocifisso e l'inginocchiatoio postovi dinanzi; girò intorno alle pareti
per quanto gli concedeva la lunghezza della catena, e lesse con
apparente interessamento parecchie iscrizioni che vi erano
scombiccherate su. Ad un punto vi era una filza di nomi accompagnati da
qualche parola di preghiera e di rimpianto: erano i nomi di coloro che
da più anni erano passati in quel confortatorio per andarne a morire:
ciascuno vi aveva scritto il suo nome, la sua età, la data della sua
dimora nel luogo funesto ed un'invocazione alla pietà ed alla
compassione di chi leggesse. Il _medichino_ si volse ad uno dei fratelli
della Misericordia che stavano guardandolo con un interesse di curiosità
che ben gli valevano la sua trista rinomanza e gli strani casi della sua
vita:
— Avrebbe Lei un toccalapis da imprestarmi?
Il confratello della Misericordia s'affrettò a soddisfare alla sua
richiesta. Gian-Luigi scrisse poche parole e si allontanò: i due suoi
assistenti si accostarono a leggere avidamente. L'ultima di quelle
lamentanze diceva: «Ah! come crudele morire a trent'anni, sano e robusto
da viverne ancora altri cinquanta!» Il _medichino_ aveva scritto con
mano ferma al di sotto di tutti que' rimpianti: «Imbecilli tutti! si
muore e si tace!»
I due fratelli della Misericordia si guardarono in volto stupiti, non
comprendendo il significato di quella disperata rassegnazione.
— Ella non ha voluto fare come gli altri e metterci il suo nome: disse
il più audace de' due.
Il _medichino_, pure in quella estrema condizione in cui si trovava,
aveva conservato tanta apparenza di superiorità che il buon popolano
sotto la cappa della confraternita non osava trattarlo altrimenti che
col Lei.
— A me non piace fare come gli altri: rispose superbamente il
condannato. Il mio nome!... Perchè metterci costì su quella ignominiosa
parete, vicino a que' nomi infami anche il mio? Per farmi ricordare? Ho
più caro essere obliato. E chi lo leggerebbe? Qualche altro miserabile
che passerà angosciato per quest'anticamera del patibolo.
Si piantò innanzi alla parete dov'erano scritti que' nomi e li lesse
forte con accento d'una sprezzosa ironia.
— Ne ricordo alcuni di questi buoni arnesi. Costui che ha scritto la
massima la più affettuosa e più tenera del Vangelo, cui certo gli aveva
allor allora soffiata nell'orecchio il confessore, aveva ucciso una
vecchia a colpi di sasso per pigliarle quaranta franchi; quest'altro
ammazzò suo padre, perchè non voleva dargli dieci lire da pagare una
meretrice.... E tutti costoro si sono purgati con una buona confessione,
s'illustrarono con un pentimento esemplare, sono partiti dal mondo «puri
e disposti a salire alle stelle» ed ora godono nelle beatitudini del
paradiso il premio delle loro buone azioni.
I due della Compagnia della Misericordia, senza capire tutta l'empietà
dell'ironia che era nelle parole del condannato, pure se ne sentivano
ghiacciare il sangue; lo guardavano quasi esterrefatti, e non sapevano
trovare parola.
Il _medichino_ riprese dopo un poco:
— Loro ne hanno assistito qualcheduno di questa brava gente nelle sue
ultime ore?
— Signor sì: rispose quello de' due che aveva lo scilinguagnolo più
sciolto. Feci quest'opera di carità per tre di codestoro; e li
accompagnai, sostenendoli, proprio sino ai piedi.....
Si trattenne dal dire l'ultima parola.
— Della forca: suggerì il condannato con un sorriso pieno d'innocenza.
— Sì, signore.
— Bravo! È uno zelante Lei!
— Eh eh! fece il confratello insaccando modestamente il capo fra le
spalle.
— Ne la felicito. Che professione è la sua?
— Sono barbiere.
— E la trascura la sua bottega per passar qui la giornata nella
compagnia poco gradevole di uomini che stanno per dar calci all'aria. Ci
prova dunque una soddisfazione?
— Quella di fare un'opera buona.
— E ne spera compenso?
— Da Quel di lassù.
— Benone! La sarà chiamata a far la barba nel regno dei cieli.
E voltò le spalle ai due confratelli, a cui quello scherno ispirò più
terrore che risentimento. Passeggiò per un poco su e giù, poi andò a
sedersi sul gradino dell'inginocchiatoio. I due assistenti si dissero
che loro debito era quello di confortare il condannato, e che per
confortarlo bisognava parlargli; si consultarono quindi a bassa voce fra
di loro, si fecero reciprocamente coraggio, s'avvicinarono al paziente
uno dall'una parte, l'altro dall'altra, e cominciarono colla maggior
convinzione del mondo a snocciolare la filza delle consolazioni e degli
ammonimenti volgari che erano del caso. Gian-Luigi sollevò il capo e
guardò stupito questo poi quello, come avrebbe guardato due automi di
Vaucanson, così perfezionati da favellare; poi ad un punto li
interruppe.
— Signori, la loro eloquenza a duetto senz'accompagnamento è tale da
disgradare quella del Segneri, dello Scarpa, di tutti i predicatori
gesuiti e del professore Paravia; ne faccio loro i miei complimenti, ma
io non amo l'eloquenza — fuor quella dei fatti — detesto i sermonanti e
gli avvocati; e il susurro delle loro parole mi riesce molesto come il
ronzio di due tafani. Li prego di credere che ho abbastanza fantasia per
immaginarmi tutte le belle cose che trovano da dirmi, e di lasciarmi
quindi tranquillo. Ho piacere di meditare: è l'ultimo giorno che mi
servo di questo strano stromento che è il cervello, e mi piace, come si
suol dire, darmene una satolla. Le loro buone intenzioni che apprezzo,
tradotte in discorsi, non riescono che a disturbarmi.
I confratelli s'allontanarono da lui mortificati, e lasciandolo immerso
ne' suoi pensieri, non gli rivolsero più la parola.
Erano passate parecchie ore, quando il condannato, uscito dalla sua
meditazione, s'accorse che i due soci della pietosa confraternita stavan
sull'uscio della cella discorrendo vivamente, a bassa voce, con
qualcheduno.
— Che cosa c'è? domandò egli uscendo per la prima volta dalla sua apatia
e lasciando apparire una certa inquietudine.
I confratelli si volsero verso di lui a rispondergli. Il tempo di
guardia dei due primi era trascorso, ed altri due si erano a quelli
sostituiti, senza che il condannato pur se ne avvedesse. Uno di questi
nuovi assistenti rispose adunque:
— È un buon religioso, il bravo Padre Bonaventura de' frati gesuiti che
vorrebbe parlarle.
Gian-Luigi corrugò leggermente le sopracciglia.
— A me? domandò egli con accento d'uomo che non capisce il perchè d'una
cosa: Padre Bonaventura? E che può egli aver da dirmi?
Il frate non lasciò rispondere da altri: cominciò per allungare il collo
e mostrare il suo cappellone da gesuita e la sua faccia pienotta nel
vano della porta, poi si fece innanzi e introdusse la sua grassa persona
vestita di cotta nera.
— Caro mio figliuolo: disse con voce d'un'affettata dolcezza, che riuscì
al paziente oltremodo antipatica: ti dispiace ch'io venga a fare un poco
di conversazione con te?
Era una delle specialità di quel gesuita il confortare i condannati a
morte, ed aveva fama di saper toccare il cuore ai più riottosi e
convertire i più ricalcitranti. Si narrava di scellerati dal cuore
induritissimo, che, avendo resistito alle esortazioni dei più eloquenti
confessori, avevano poi finito per cedere alla insinuantesi, melliflua
voce del gesuita. I casi più serii ed i birboni più matricolati erano
riservati a lui; era questo uno dei suoi vanti eziandio, e soleva
accorrere come divisione invincibile di riserva nella battaglia contro
il demonio, per istrappare dagli artigli di quest'ultimo l'anima
scellerata che si stava per lanciare nell'eternità. Il contegno del
_medichino_ coi due primi confratelli della Misericordia aveva già
provato chiaro come quest'infelice appartenesse alla schiera dei
pervicaci, e s'era pensato senz'attender altro, di far venire subito
all'assalto le poderose forze dialettiche e teologiche dell'eloquenza
del gesuita.
Questi poi era da se stesso offertosi sollecitamente ed andato incontro
all'ufficio, perchè una gran curiosità gli era nata in corpo di veder
chiaro in certi misteri cui frequentando assiduamente la casa Baldissero
aveva colla sua solita accortezza notato in quella famiglia da alcuni
giorni, misteri nei quali aveva subodorato aver parte il famoso
_medichino_, condannato a morire. Come abbiam visto aveva egli appreso
dalla confessione del moribondo Nariccia che il creduto Maurilio non era
altrimenti il figliuolo della marchesina Aurora, ma che questi era da
trovarsi in altro individuo possessore della metà di quella certa
lettera di cui egli s'era reso padrone e che per suo mezzo era passata
nelle mani del marchese. A lui non si era detto nulla più intorno a
quell'affare: ma col suo acume il gesuita non tardò a concepire il
sospetto che quel vero figliuolo fosse stato trovato, e da certi sguardi
scambiati, da certi pallori e silenzi impacciosi subitamente avvenuti
fra i componenti della famiglia Baldissero, quando nel loro salotto il
discorso cadeva, come in que' giorni era troppo facile succedesse, sul
così detto _medichino_, il frate era venuto ad argomentare che quel tale
smarrito fanciullo potesse benissimo esser costui. Sdegnato che a lui
non se ne fosse fatta la confidenza, e pensando che in qualche modo
nell'avvenire la scoperta di questo segreto di famiglia aggiunto a
quegli altri ch'egli conosceva già, avrebbe forse potuto giovargli,
Padre Bonaventura decise impiegare tutta la sua arte nell'apprendere il
vero, ed avvisò che metodo buonissimo da ciò fosse il sentire il
condannato a morte nell'ultima sua confessione. Ed ecco perchè con tanto
maggior zelo si affrettava a venir disputare quell'anima al demonio.
Ma al pari della voce falsamente amorevole, fu antipatica al condannato
la figura ancora più falsa di quel frate. Il sorriso piacentiere di
quelle labbra carnose da ghiottone gli dispiacque estremamente: quel
sentirsi a dar del tu (usanza che il gesuita aveva con tutti i suoi
penitenti) fece inalberare l'orgoglio permaloso di Gian-Luigi. Questi si
levò in piedi, guardò il gesuita dalla cera ipocritamente umile, come un
principe avrebbe guardato un pezzente, e rispose con superbo piglio:
— Che cosa vuoi _tu_ ch'io me ne faccia della tua conversazione?
Padre Bonaventura, offeso, arrossì alquanto nelle sue guancie paffute, e
nello sforzo di voler dominare la sua bizza, fece una smorfia che pareva
di chi inghiottisca qualche amara medicina.
— Oh oh! disse fra sè: che tono.... Ma gli è tutto l'orgoglio dei
Baldissero.... Cospetto! E' rassomiglia di molto alla marchesa
Aurora.... Non ci è più dubbio: questo è il figliuolo di Valpetrosa.
— Mio caro, riprese di poi con un forzato sorriso: chi sa che la mia
conversazione non possa esservi utile più che non crediate. E se
d'altronde, a voi non interessa, fate conto che la vostra interessi me,
e concedetemi un momento di colloquio per farmi piacere.
Gian-Luigi sorrise più superbo che mai; e passando ancor egli a dargli
del voi, rispose:
— Sia come volete. Inoltratevi; sedete... o state in piedi, come vi
piace meglio; e dite quello che vi pare.
Padre Bonaventura s'introdusse col suo solito sorriso e il suo passo
discreto che non faceva rumore, sedette, si levò il cappellone e se lo
pose sulle ginocchia, vi pose su le mani incrociate e guardò col suo
occhio esaminatore il condannato; il quale, dopo averlo fissato un poco
con aria di non dissimulato disprezzo, si era dato a passeggiare in su e
in giù per quanto gli permettesse la sua catena.
Il frate non tardò a farsi certo che le sue usate sdolcinerie gesuitiche
e le carezzevoli forme per cui soleva insinuarsi nell'animo altrui, non
avrebbero approdato con questo cotale; ed avvisò che a scuotere quella
superba avversione onde il giovane lo aveva accolto, a farne oscillar
l'anima fiera, e poter trovare un giunto, se pur vi era, di quella
corazza di incredulità e d'orgoglio cui vestiva quella robusta volontà,
occorreva percuotere un gran colpo. Stette un buon quarto d'ora senza
parlare, seguitando sempre collo sguardo de' suoi furbi occhi
penetrativi l'andare e le mosse del condannato: voleva eccitarne
alquanto con quel silenzio la curiosità; il giovane non avrebbe di certo
potuto a meno di pensare: «che mai ha in animo di dirmi costui? come se
la vuol prendere per convertirmi? e perchè non parla?» voleva suscitarne
coll'attesa l'impazienza e così provocarne di meglio l'attenzione. Di
fatti il _medichino_, che andando e venendo gettava sempre uno sguardo
sul gesuita e ne vedeva le pupille fisse su di lui con espressione di
pietà, di cordoglio, di rammarico, finì per impazientirsi di quella
taciturnità e di quelle guardate.
— Ebbene, diss'egli piantandosi innanzi al frate, la è questa la
conversazione che volete fare?
— Sapete pure, rispose Padre Bonaventura, che quando si hanno le tante
cose da dire, gli è appunto allora che non si trovano le parole. Stavo
pensando.
— Quando siete venuto qui, disse Gian-Luigi con fine ironia, dovevate
già aver pensato. Alle corte, voi siete venuto per salvare l'anima mia.
(Fece un satanico sogghigno nel dir ciò). Non è egli vero?
Il gesuita alzò gli occhi al soffitto in una mossa da estatico, come si
dipingono i santi che si adorano sugli altari.
— Ho pregato vivamente, rispos'egli con voce che pareva piagnolosa, ho
pregato la Madonna del Carmine mia santa patrona, perchè mi rendesse
degno di questa grazia.
— Or bene, continuava il condannato colla medesima empia ironia, se la
vostra Madonna vuol farvi questa grazia, deve già avervi ispirato i
mezzi di pervenire al vostro santo fine, gli argomenti da convincere la
mia incredulità (perchè io sono un incredulo, signor mio), l'eloquenza
da penetrarmi in cuore. Parlate adunque sollecito e saremo più presto
liberi tuttedue, voi dell'obbligo del vostro mestiere, io....
Si arrestò, perchè la sua natìa gentilezza gli fece sentire in quella
tutta la brutale grossolanità della espressione che stava per usare.
— Della mia compagnia: soggiunse il gesuita terminando la frase, con
accento di mite umiltà e faccia di rassegnata tolleranza. Ditelo pure.
Oh! non crediate d'offendermi. Me, come uomo, voi potete ferire come e
peggio che vi piaccia; non mi lamenterò, vi benedirò anzi. Vorrei esser
fatto segno non solo della vostra ironia, del vostro scherno e del
vostro disprezzo, ma dei più fieri insulti eziandio e dei mali
trattamenti. Ricordate ch'io son servo e ministro di Colui che venne in
terra per tutto soffrire dagli uomini in beneficio degli uomini, di
Colui che disse: «se vi percotono la guancia destra, e voi porgete la
sinistra.»
Queste parole pronunciate con un tono dolciato ed untuoso che sapeva
d'ipocrita lontano le mille miglia, irritarono vieppiù il paziente: una
matta voglia glie ne venne di percuotere una di quelle guancie paffute
del frate, per porlo tosto in condizione d'applicare la massima del
Vangelo; si tolse di là per resistere alla tentazione, e prese di nuovo
a passeggiare.
Padre Bonaventura, che s'accorse dell'effetto delle sue parole,
continuava:
— Vedo tutta l'irritazione dell'animo vostro, e la capisco. La è
naturale, è necessaria, e vorrei benissimo che la potesse avere uno
sfogo, sicuro che di poi la cederebbe per lasciarvi luogo a penetrare
alla parola di Dio. Deh! (e levò più che mai gli occhi al soffitto)
potess'io essere occasione e vittima anche di questo sfogo: io vi direi
come Temistocle: «batti ed ascolta»; ma per carità, per l'amore di voi
medesimo, per l'anima vostra, rispettate quello che v'ha di più
rispettabile e di più venerando: la nostra santa religione....
Il _medichino_ lo interruppe con impazienza:
— Voi, quantunque gesuita, mancate di quell'arte rettorica che mostrate
a vostro uso alle generazioni crescenti. Mi scongiurate a nome di cose
che non hanno, che non possono avere su di me nessuna efficacia. La
carità? Come volete che ci creda un uomo che gli altri uomini mandano a
morire? L'amore di me medesimo? Fra dodici ore non esisterò più. L'anima
mia? Non credo a questa invenzione dei pusilli che i furbi di tutte le
epoche col nome di sacerdoti, hanno sfruttata per tenere a sè soggetto
il genere umano. Noi siamo un organismo come quello dei bruti, più
perfetto, e che quindi è arrivato al fenomeno del pensiero: distrutto
quest'organismo, tutto è distrutto. La vostra anima l'ho cercata collo
scalpello dell'anatomico, e non l'ho trovata; ho trovato bensì la
materia e le leggi necessarie che la reggono da cui tutto mi viene
spiegato senza bisogno d'altra ipotesi. Come volete voi ch'io rispetti
la religione? La vostra, al par di tutte le altre, non è che un insigne
inganno a cui si pigliano i semplici: l'uomo, stupito egli medesimo
d'avere una ragione, vi ha rinunciato per credere alle assurdità dei
dogmi.
Padre Bonaventura tolse dalla coppa del suo cappello le sue mani bianche
e grassotte, e le levò in alto inorridite. Allora pensò che non
bisognava più indugiare a dar quel certo gran colpo che aveva meditato.
— Sapete una cosa, signor incredulo? diss'egli con maggior forza
nell'accento: io son quello che assistè fino alla morte l'agonia del
povero Nariccia, e ne udì l'ultima confessione.
La botta fu veramente efficace; le guancie già pallide del condannato
impallidirono ancora; un tremito, tosto frenato, gli agitò le membra;
negli occhi corse come uno sgomento; ma il vigoroso atleta si riebbe
tosto; i muscoli della faccia si fermarono in una espressione di feroce
impudenza, lo sguardo sfavillò d'una luce infernale.
— Ebbene? domandò egli freddamente. Che cosa ne volete inferire da ciò?
— Che in questo dovreste riconoscere la mano di quel Dio che negate,
l'opera di quella Provvidenza cui bestemmiate.
Gian-Luigi crollò le spalle.
— Non ci vedo che il fatto naturalissimo di un caso volgare. È vostro
mestiere udire confessioni ed assistere moribondi.
Il gesuita piantò in faccia al condannato i suoi occhi fissi, acuti,
penetrativi.
— Gli è da lungo tempo che io conosceva messer Nariccia: diss'egli
lentamente: fin dal tempo ch'egli era ragioniere del fu marchese di
Baldissero, padre dell'attuale.
Il lieve movimento con cui si rivelarono l'interesse e la sorpresa di
Gian-Luigi, non isfuggì allo sguardo attento del frate.
— Io sapeva già molto di lui e della sua vita: continuò questi con la
medesima lentezza: ma non sapevo _tutto_..... Di un uomo qual era quel
povero Nariccia (Dio gli voglia usare misericordia!) è impossibile saper
mai tutti i segreti; ma in faccia al sepolcro, al momento di comparire
innanzi al giudice eterno, anche le anime più nere e più false sentono
la pressione della verità e provano il bisogno di riconoscere la
giustizia divina.
Quercia protestò con un sorriso.
— Eh! esclamò egli. Ho conosciuto anch'io e per bene quello sciagurato.
Era un impostore.....
— Innanzi alla morte ed alla paura della dannazione eterna non vi hanno
più ipocrisie. Quell'uomo disse tutta la verità, così che io potei
riparare ad un grave errore in cui per sua colpa stava per cadere
un'illustre famiglia, adottando come suo membro un estraneo che non le
apparteneva.
Il _medichino_ non pensò neppure a dissimulare la sua meraviglia.
— Ah! siete voi che avete appreso al marchese la verità?... Voi dunque
sapete tutto?
— Vi ho già detto che così era.
Padre Bonaventura non ebbe più dubbio nessuno sull'essere del giovane.
S'e' non fosse stato lo smarrito fanciullo, come avrebb'egli avuto
cognizione di codeste cose?
— Or bene: disse dopo una brevissima pausa il condannato: per qual
motivo venite voi a ricordarmi codesto? Poichè siete così appuntino
informato a tal riguardo, saprete pure che tutto ciò gli è, dev'essere
come se non fosse stato mai, che quindi non se ne ha pur da discorrere.
— Vengo a ricordarvelo, disse il frate, appunto perchè nella sequela di
questi avvenimenti riconosciate qualche cosa di più che l'opera del
caso, la mano di quell'Essere supremo che tutto muove.
Volse uno sguardo verso i due confratelli della Misericordia, che fino
dal principio del colloquio si erano ritratti il più lontano che si
potesse, ed abbassò tuttavia la voce perchè neppure il suono di una
parola giungesse sino a loro.
— Quel bambino cui Nariccia derubò dell'aver suo e volle smarrito fu
quello che venne ad assassinarlo, spogliarlo e trarlo a morte...
Questa vicenda di casi era veramente così speciale che già n'era stato
colpito, meditandovi sopra, l'assassino medesimo; nel rimettergliela ora
innanzi la mente, fra' Bonaventura, che aveva di botto determinato
giovarsi di quella circostanza per influire sull'animo del giovane,
ridestò in costui tutta l'emozione, tutto il turbamento che già
pensandovi da solo, egli ne aveva provato. Fece vivamente un atto colla
mano come per dirgli, per imporgli tacesse, ed allontanatosi da lui,
stette un istante immobile, muto, colla faccia nascosta nelle palme
delle mani. Ma fu breve l'istante della sua commozione; la fiera natura
non tardò a riagire in lui: rialzò la faccia in cui brillava da
agghiacciare il sangue a chi lo mirasse in tutta la sua potenza malefica
un sogghigno mefistofelico e disse con acre ironia:
— Io non sono dunque stato, a vostro senno, che lo stromento della
Provvidenza, per punire la colpa di quell'....
Trattenne l'epiteto oltraggioso che stava per uscire dalle sue labbra a
carico di quell'individuo da lui ucciso.
— Di quell'uomo: soggiunse ripigliando. Non c'è dunque imputabilità in
me. E che s'immischia la giustizia umana a voler sindacare gli atti e
gli stromenti di quella divina?... Se la voleva concedersi gusto di fare
un processo, non è a me che lo doveva rivolgere, ma a Domineddio.
— Sì, rispose il gesuita, voi foste stromento della Provvidenza, come lo
siamo tutti quanti siamo, effettuando ognuno il disegno di Dio; ma ciò
non toglie che ciascuno debba portare la risponsabilità dei suoi atti.
— Signore, interruppe Gian-Luigi, queste le sono teorie filosofiche da
spacciarsi ai babbei che adottano lo stupido assioma: _credo quia
absurdum_. Se io nei miei fatti sono l'agente d'una volontà superiore
che mi domina, non posso io essere accagionato di quel che faccio; non
ho più la libertà del mio arbitrio, e senza questa libertà come aver
merito o colpa?
Stimo troppo fastidioso pei miei lettori il riferir qui le ragioni
addotte dal gesuita a difendere le grandi teorie dell'esistenza di Dio e
dell'anima umana immortale, non che la guisa con cui esprime questi
- Parts
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