La plebe, parte IV - 43
significava avrebbe accondisceso al desiderio del giovane. Questi con
moto vivace di curiosità, trasse innanzi la sua seggiola e, i gomiti
appoggiati alle ginocchia, si curvò verso il marchese ad ascoltare.
Dopo un istante, lo zio di Virginia, disse lentamente con voce sommessa
e quasi stentata:
— Voi non avete famiglia?
— No: rispose Gian-Luigi riscuotendosi tutto e impallidendo per una
subita, violenta emozione che lo assalse.
— Foste abbandonato nell'ospizio...
— Lo fui!...
— Ed avevate per segno di riconoscimento...
— Una lettera stracciata per metà.
Il marchese trasse di tasca un portafogli, lo aprì, ne levò due pezzi di
carta sgualcita ed ingiallita dal tempo, e li tese verso il giovane.
— Ecco la lettera intiera.
Quercia sorse in piedi di scatto. La mano del marchese nel porgere la
lettera tremava; la mano di Gian-Luigi nel prenderla tremava del pari.
Afferrò quei due squarci, li scorse, li esaminò, ne lesse lo scritto.
Quei caratteri gli danzavano innanzi agli occhi; la vista gli si
abbuiava; una folata di supposizioni faceva ressa nel suo cervello; che
si trattasse della sua origine in quel misterioso colloquio glie n'era
già, fra i mille altri impossibili, balenato il pensiero. Ora non
esisteva più dubbio: aveva quella lettera in mano; la sua famiglia era
trovata. Si recò alla fronte i pugni chiusi e premendoveli come per
contenere il cervello che era in bollore:
— Chi son io?... Chi son io dunque? esclamò; poi gettò uno sguardo
inesprimibile sulla fisionomia mesta e severa del vecchio gentiluomo,
tese verso di lui le mani che stringevano ancora e convulsamente quei
pezzi di lettera, fece un passo a quella volta con mossa d'ineffabile
trasporto e gridò, proprio dal fondo dell'anima:
— Ah! siete voi mio padre!
Il marchese si trasse vivamente all'indietro sulla sua seggiola, come se
avesse ricevuto un urto nella fronte e mandò un'esclamazione soffocata.
Sostenne un momento col suo lo sguardo vivo, fiammante del giovane che
palpitava innanzi a lui, poscia chinò gli occhi con un'espressione che
avrebbe potuto dirsi ripugnanza e si coprì colle mani il volto, come se
assalito da un accesso di vergogna.
— No, non son io vostro padre: susurrò con voce appena intelligibile.
Don Venanzio, mi faccia grazia, racconti Lei a questo infelice tutta la
verità.
Il _medichino_ fece un cenno al parroco, perchè indugiasse alquanto a
cominciar la sua narrazione. Giunto al momento tanto desiderato di
apprendere la verità, sentiva, per così dire, tremar l'anima ed aveva
bisogno di prepararsi per accogliere con calma il vero qualunque egli si
fosse. Si premette colla destra la fronte, coprendosi gli occhi; poi
incrociò le braccia e si recò lentamente alla finestra, dove rivolse lo
sguardo in su e stette contemplando pochi minuti secondi quella esigua
luce grigiastra che pioveva dalla tramoggia; finalmente venne presso il
sacerdote; sedette in faccia a lui, appoggiò i gomiti sulle ginocchia,
affondò il volto nelle palme delle mani e disse:
— Parli pure, Don Venanzio.
Ascoltò immobile in quella postura tutto il racconto del parroco. Non un
atto manifestò in lui le impressioni ch'e' dovette provarne; il viso,
sempre nascosto, non lasciava scorgere nulla di quanto sentisse l'anima
sua. Quando il vecchio prete ebbe finito, tutti si tacquero per un poco;
solamente si sentiva il rumore di due respirazioni affannate: quella del
marchese e quella di Gian-Luigi.
Fu quest'ultimo che ruppe finalmente il silenzio. Levò dalle mani la
faccia che era pallida, pallida, ma con nessun'altra traccia d'emozione,
e volse il capo verso il marchese, però senza levare gli occhi su di
lui.
— Or bene: disse sommesso e quasi penosamente: or bene, quali intenzioni
ha Ella a mio riguardo?
Baldissero non rispose subito; rifletteva profondamente e con visibile
amarezza; con voce bassa e stentata egli pure, disse poi:
— Ora capite voi perchè m'importi sapere se voi siete innocente?
Quercia mandò un'esclamazione; volle parlare, ma di subito se ne
trattenne; alla pallidezza successe sulle sue guancie un cupo rossore,
l'immobilità tenuta fin allora diede luogo per riazione ad un'agitazione
irrefrenabile; egli sorse e si mise ad andar su e giù con passo
concitato, lasciandosi sfuggir dalle labbra interiezioni, rotti accenti
e gridi a mala pena soffocati. La punizione crudelissima a' suoi
delitti, di cui aveva fatto cenno Don Venanzio, era piombata in tutta la
sua gravezza sull'anima ambiziosa di Gian-Luigi: quel grado a cui egli
aspirava, quell'altezza a cui aveva voluto giungere erano suo diritto,
li avrebbe potuto arrivare naturalmente ed onestamente; ed egli col suo
fatto ora se li era resi impossibili... Impossibili? No, egli non voleva
ammettere questa orrenda verità; egli non poteva rassegnarsi a questa
troppo fiera condanna. Come! Gli Orti Esperidi della ricchezza e della
potenza verrebbero ad aprirglisi ed egli sarebbe impotente ad entrarvi?
Avere dinanzi le onorificenze, la grandezza e la gloria, e precipitare
nell'ignominia!..... Doveva esserci un mezzo di salvarlo. La famiglia a
cui egli apparteneva rappresentava la potenza sociale: e questa poteva
creare a sua convenienza il giusto e l'ingiusto: la sua vita anteriore
doveva cancellarsi, non esister più, non aver mai esistito. S'era
trascinato miserabil bruco nel letame sociale: ora aveva da svegliarsi
farfalla al sole della prosperità. Chi alla splendida bellezza della
farfalla domanda conto della sua vile esistenza anteriore di verme? A
questa sua riabilitazione l'autorità monarchica, la società, la natura
medesima parevagli dovessero concorrere. Egli si sentiva rinnovato,
risorto per una meravigliosa palingenesi in un essere degno della sua
ventura: perchè gli altri non lo avrebbero voluto accettare come tale?
Il miserabile trovatello, senza legami nel mondo, poteva essere
condannato e giustiziato come un assassino, ma il nipote d'un ministro
di Stato, d'un discendente degli eroi delle crociate, d'un consigliere,
quasi d'un amico del Re, non doveva aver nulla di comune con quella
sorte ignominiosa: sognava la trasmutazione dell'Ernani di Vittor Hugo,
ieri bandito, oggi grande di Spagna.
Si fermò innanzi al marchese e ripetè con voce balzellante per èmpito
d'emozione la sua prima richiesta:
— Or bene, quali sono ora le sue intenzioni a mio riguardo?... Io sono
sangue suo; io sono sangue d'una delle più nobili prosapie del regno...
Lo sento bene in me!... L'ho sempre pensato; l'ho sempre saputo! Vedrà
zio mio che in me non è tralignata quella pianta.
(All'udirsi chiamare con quel titolo di parentela da tali labbra, il
marchese di Baldissero diede in una leggera scossa).
— Il passato che importa? Continuava il giovane. Non esiste più, non ha
mai esistito. Quella è la notte, ed ora mi si leva innanzi il giorno.
Tutto sarà sepolto nel buio: io sorgerò raggiante nella mia nuova
carriera di grandezza.... Signor marchese, glie lo giuro sulla sacra
febbre della mia ambizione: io mi sento la potenza di soggiogare il
mondo.
Don Venanzio gemette innanzi a quell'audace svelarsi d'un feroce
egoismo: il marchese mandò un sospiro.
— Ma voi, disse quest'ultimo con solenne mestizia, non avete ancora
risposto a quello che vi ho domandato. Siete voi innocente?
Il _medichino_ si trasse indietro d'un passo e si percosse coi pugni
chiusi la fronte.
— Innocente! Innocente! esclamò. Ma le dico che ciò non monta.... Mi
tragga di qua.... Gian-Luigi Quercia sarà morto: fra pochi anni sarà
perfettamente obliato, fuorchè, come una leggenda, nella memoria dei
miserabili... Maurilio di Valpetrosa, poichè quello è il mio vero nome,
comparirà essere novello sulla scena più elevata del mondo.... Non sono
che al principio della mia giovinezza.... Posso bene sottrarmi per un
lustro, a prepararmi, oscura crisalide, alla mia grandezza avvenire...
Mi mandi in Francia: andrò soldato in Algeria; mi sacrerò cavaliere al
fuoco delle battaglie: sento nelle mie vene il sangue dei prodi nostri
avi, signor marchese: cimenterò il mio nuovo nome al battesimo del
valore; tornerò coll'illustrazione della gloria, glie lo prometto.
Baldissero levò il suo viso improntato di severità e disse con accento
solenne:
— Ma se voi siete colpevole, ciò tutto non toglierà che alla nostra
famiglia abbia appartenuto un.....
Non disse la parola, ma Luigi la lesse nell'espressione inorridita dello
sguardo, nella piegatura dolorosa delle labbra. Il _medichino_ non osò
più sostenere l'incontro degli occhi del marchese.
Questi, dopo un poco, ripigliava con crescente imponenza e gravità:
— E la giustizia, a cui dovete pagare il fio? Perchè credete voi potervi
ad essa sottrarre?
— La giustizia è il ragnatelo. Debole moscerino vi sarò impigliato; mi
si aiuti a valermi delle mie ali di falco e vi passerò trammezzo.....
Il marchese scosse gravemente la testa.
— Al Re medesimo dissi non è guari che nessuna considerazione avrebbe
dovuto sottrarvi alla azione delle leggi: e quello che dissi allora
penso anche adesso.
Gian-Luigi scoppiò in queste orribili parole:
— Ella dunque lascierà suo nipote, il figliuolo di sua sorella salire il
patibolo?...
A questa cruda confessione di colpevolezza, Baldissero impallidì ancora
di più, ma stette come il Farinata di Dante nell'inferno; Don Venanzio
mandò un gemito e levò le mani congiunte al cielo.
— Sì, continuava con impeto Gian-Luigi, cui la emozione di quel
gravissimo momento aveva tolto il possesso ch'egli soleva avere della
sua volontà e della sua anima; sì, sono un miserabile, perchè ho
impegnato la lotta contro la vostra società che mi aveva scacciato dal
suo seno e me ne lasciai vincere. Ma di chi la colpa? Perchè m'avete
respinto? M'avete cacciato nel fango e mi condannate perchè ne vengo
fuori imbrattato!.... Fin dalla nascita io ho recato meco le aspirazioni
verso quel mondo a cui dovevo appartenere, e che mi fu barbaramente
precluso. Sentivo che era mio diritto il penetrarvi, e quando mi vi
affacciai conobbi che ogni sforzo sarebbe stato inutile al trovatello
per farvisi luogo, e che soli mezzi gli rimanevano da ciò l'inganno e il
delitto.... Credete voi ch'io mi vi sia deciso senza strazianti dolori e
senza lotte? Quando un bel giorno io mi trovai colle passioni, coi vizi,
colle vanità eccitati, irritati, non soddisfatti, senza più un
centesimo, in faccia ad una società che schernisce il povero ed il
debole; anche a me per prima si affacciò l'idea volgare del suicidio. La
somma lasciatami dal medico del villaggio aveva bastato appena a farmi
delibare la coppa de' piaceri mondani: la sete se n'era accresciuta e
non avevo più mezzi da accostarvi le labbra desiose. Il lavoro era mezzo
troppo lento e di troppo miseri effetti. Mi cacciai, come in una
voragine, in una casa di giuoco. Perdevo: l'oro esercitava su di me il
suo fascino infame ed irresistibile; e vedevo passarmi dinanzi le orde
sonore delle monete e sfuggirmi. Avrei dato l'anima al demonio: un
arrolatore dell'esercito del male, uno dei capi della segreta congrega
dei ribelli sociali mi lesse nel cuore, mi trasse in disparte, mi tastò
l'animo indolorito ed infierito, mi espose bruscamente in termini
grossolani la teoria delle vicende terrene che incominciava ad essere la
mia. Vi è una lotta universale nella creazione organica: tutto quello
che vive s'alimenta e si vantaggia di organismi più deboli del suo.
L'uomo sfrutta tutto il resto della creazione, appunto perchè si trova
al fastigio della medesima: col medesimo diritto l'uomo che è più forte,
più accorto, più audace può vantaggiarsi del più debole, più stupido e
più timido. Il tentatore cominciò a propormi ed a mostrarmi a giuocare
di baro. Divenni maestro nell'arte in breve, e dividemmo i guadagni. Una
sera, uscendo dal giuoco, carico appunto d'oro, venni assalito da un
assassino, che mi fece luccicare innanzi agli occhi la lama d'un
pugnale. Colla destra afferrai la mano che stringeva l'arma, colla
sinistra il collo di quell'uomo, e l'ebbi in un attimo messo a terra
presso a basire strangolato. Sopraggiunse in quella, per sua fortuna, il
mio complice, e lo riconobbe.
« — _Graffigna_, gli disse, ti sei male indirizzato; costui è dei nostri
e tu vedi che polso è il suo.
«Lasciai andare il mio assalitore che si scosse come un cane che vien
fuor dall'acqua.
« — Signore: mi disse umilmente, raccattando per terra il suo pugnale:
vedo proprio che ho sbagliato e glie ne domando mille perdoni. Ella d'or
innanzi ha la mia ammirazione e può contare sulla mia servitù.
«Que' due appartenevano ad una vasta associazione di malfattori che
stavasi appunto riordinando e cercava un capo autorevole, coraggioso,
intelligente. Non vi dirò tutte le fasi per le quali sono passato prima
di diventar io quel capo. Il male, il delitto è una macchina tremenda di
ruote e di rocchetti, i cui denti imboccano, e guai chi se ne lascia
pigliare pur per un solo lembo del vestito! La forza cieca, meccanica lo
trae, lo trae finchè tutto lo ha preso e maciullato. E poi m'ero fatto
un concetto più grandioso di quella guerra che avevo bandito agli ordini
sociali e degli effetti della medesima..... Mi allontanai per due anni
da questa città... Quando vi fui di ritorno ero il capo supremo della
_cocca_. Quell'attività, quell'intelligenza che ho impiegato nell'opera
del delitto, che cosa non avrebbero ottenuto se, rincalzate
dall'autorità di potenti aderenze, dall'influenza d'un grado, le avessi
rivolte in aiuto della società esistente?... Che cosa non potrei ancora
ottenere se mi si accetta, non ostante il mio passato, nel campo degli
onesti?
— E ciò è impossibile: interruppe severamente il marchese. Nessuno può
fare che il passato non sia. L'avete detto voi stesso testè: ogni uomo
deve portare la responsabilità de' suoi fatti. Io qui non sono per
giudicarvi: ma vi giudica la coscienza civile rappresentata dalla
giustizia umana. Avete violate le leggi della società, questa vi
bandisce dal suo seno; nulla si può mutare; quello che deve compirsi si
compia.
L'esaltazione a cui era stato in preda fin allora Gian-Luigi sparì ad un
tratto; egli si lasciò cadere sopra una seggiola, ed esclamò coprendosi
colle mani la faccia:
— E dunque mi si lascierà morire? Dunque non si vuol dare i mezzi ad
un'anima come la mia di rigenerarsi e compensare il male? E Lei,
marchese, lascierà che la mia ignominia sprizzi fino sul suo blasone?
Successe un istante di penoso silenzio, cui poscia fu Don Venanzio a
rompere.
— L'anima umana si rigenera col pentimento, il male si espia colla
punizione: disse il buon vecchio prete. Subir questa con rassegnazione,
curvandosi ai voleri di Dio, è indizio ed effetto di quello. Pentimento
ed espiazione conducono al perdono. Siamo deboli pur troppo noi uomini e
le arti dell'eterno nostro nemico sono potenti: ma dall'altra parte
immensurabile è la misericordia di Dio, e nessuno di noi può dire
dov'ella si arresti e che pure abbia limiti. Se dunque vi è la speranza,
anzi la certezza del perdono per tutti, vi è pure la necessità di subire
la pena per tutti quelli che fallirono; o sarebbe lesa la giustizia.
— Voi avete dichiarato alla società costituita una guerra, come diceste
voi medesimo: così parlò a sua volta il marchese: e rimaneste vinto. Ma
voi meglio d'ogni altro, voi di più vivido ingegno, di maggiore
istruzione del volgo, sapevate a quali rischi andavate incontro, qual
posta mettevate al giuoco, quali conseguenze affrontavate. Avete
perduto....
Il _medichino_ levò il capo e interruppe vivacemente con un fiero
sorriso:
— Bisogna pagare. Ella ha ragione.
Guardò bene in volto il vecchio gentiluomo e soggiunse, parlando
lentamente:
— E dunque che sarà di me verso la famiglia, e della famiglia verso di
me?
— Quello che vorrete voi medesimo. La famiglia non rifiuterà di
affermare pubblicamente il vero, quando voi lo esigiate, quando a voi
piaccia si gravi su di lei una parte di disdoro con nessuna utilità
vostra....
Negli occhi di Gian-Luigi corse un lampo.
— La comprendo: diss'egli vivamente; ed affondato di nuovo il volto
nelle palme delle mani, stette un poco meditando.
La cristiana santità di quel vecchio povero prete vero seguace del
Vangelo, la rigida onestà e la severa onoratezza del vecchio gentiluomo
facevano intorno al giovane un ambiente, per così dire, di tanto pura e
sana e morale influenza, che tutto quello che v'era ancora di generoso
nella traviata e sedotta di lui natura si ridestò, fu suscitato ed ebbe
in quel punto nuova e maggior forza che mai.
— Ebbene: soggiunse egli poi levando il capo e sorridendo amaramente:
che importa egli al mondo che il figliuolo della marchesa Aurora sia
ritrovato o no? che importerà a me medesimo si sappia, se ciò non avrà
da mutar per nulla la mia sorte?.... Ch'io scompaia ignoto ed ignorato,
portando meco nel sepolcro il mio segreto e l'onore soltanto d'un
miserabile plebeo che non ha nome... Hanno essi un onore quella razza di
gente?... Avrò fatto alla famiglia che mi ha rigettato ancora questo
sacrificio... Io non sono che il misero trovatello, signor marchese, si
rassicuri: e morrò come tale.
Spiegò bene i due squarci di lettera che aveva ancora tra mano; li
raccostò e li tenne innanzi agli occhi alcuni minuti quasi leggendo e
rileggendo lo scritto parecchie fiate, poi disse scuotendo mestamente il
capo:
— Ecco tutto ciò che mi rimane del padre mio; ecco tutta la mia eredità
nel mondo... Povero mio padre!... Se tu avessi vissuto che cosa avresti
fatto di me?
Baldissero che aveva versato il sangue di Valpetrosa, a queste parole
che gli ricordavano efficacemente la risponsabilità ond'era aggravato,
sentì più viva la fitta del rimorso.
Gian-Luigi accostò quei due pezzi di carta ingiallita alle labbra e ve
li premette con passione.
— Addio! Addio memoria di mio padre. Oh potessi credere che tu esisti
ancora, essere che fosti qui in terra l'autore della mia vita, e che un
giorno ti potrò vedere e conoscere!... Addio tu pure, pensiero della
madre mia; addio per sempre: voi non esistete più; tutto ha da essere
precipitato nella notte dell'oblio.
Colle mani convulse stracciò in minutissime parti quella lettera e ne
sparse al suolo i pezzetti; una lagrima, una lagrima sola colò
lentamente sulle sue guancie pallidissime che parean di marmo.
Il marchese si alzò e disse con accento commosso e molto nobilmente:
— Vi ringrazio.
Parve che volesse tendere al prigioniero la mano; ma se ne trattenne.
— Or dunque tutto è finito per me: esclamò con voce tremante quel
misero: ogni mio legame con questo mondo è sciolto...
In quel punto, per effetto d'una di quelle complesse visioni della mente
che abbracciano un mondo indefinito, passarono innanzi a lui le immagini
del suo passato sin dall'infanzia, e l'immagine di quello che avrebbero
potuto essere la sua vita e il suo avvenire.
— Oh giovinezza! soggiunse: oh mie sciupate forze di volontà e
d'ingegno!... Meglio non avessi abbandonato mai Lei, Don Venanzio, e il
villaggio e la povera vecchia Margherita..... Ma l'istinto del sangue mi
spingeva. Mi sentivo della razza dei leoni.....
Scosse le spalle con superba mossa da angelo fulminato.
— Ma il rimpiangere che giova?... Fu il destino che così volle..... No,
io non rimpiango nulla...... Sono vinto, non sono soggiogato.....
Guarderò in faccia la mia sorte fino alla fine col sogghigno che merita
questa irrisione di casi che è la vita.
S'interruppe e cambiò tono.
— Sì, v'è pure alcuna cosa che rimpiango. Alcune anime generose mi hanno
amato, ed io fui empio e scellerato per esse. Povera Ester! (e represse
un sospiro). Povera Maria!..... Povera Candida!..... Le ho odiosamente
ingannate e tradite..... Vorrei potere a ciò rimediare... e non ce n'è
mezzo nessuno.....
In quella si ricordò delle lettere della contessa di Staffarda, che
possedute, com'egli credeva ancora, dalla Zoe, erano per la misera donna
una minaccia continua.
— Ah sì, soggiunse, alcuna cosa posso pur fare in favore di una di esse.
Domandò di scrivere poche parole; e il marchese potè dargli un
fogliolino di carta ed una matita; Gian-Luigi scrisse alla Zoe l'ordine,
la preghiera di restituire alla contessa le lettere, e di non
tormentarla altrimenti. Don Venanzio accettò l'incarico di portar egli
stesso in persona alla _Leggera_ quella carta che doveva por fine agli
spasimi ed agli sgomenti d'una povera anima: e già vedemmo quali ne
fossero gli effetti.
— Ed ora: disse finalmente Gian-Luigi; prego che mi si lasci solo.
Il marchese ed il parroco partirono, quest'ultimo promettendo di tornare
a visitare il prigioniero quante più volte gli fosse concesso; e il
_medichino_ venne ricondotto nella sua segreta.
Quel che passasse nell'anima sua chi lo potrebbe descriver mai? Certo
furono spasimi che dovettero contare come parte migliore della dovuta
espiazione innanzi alla clemenza di Dio: ma il segreto di quella
tormentosa meditazione fu tra lui, tra l'anima sua e Colui che tutto
vede.
Quando i secondini entrarono, parecchie ore più tardi, a portargli il
cibo giornaliero, lo trovarono steso sul giaciglio bocconi, la faccia
premuta contro la coperta di lana ravvoltolata. All'invito che il
secondino gli fece di mangiare, non si mosse punto.
— La è malata? domandò il carceriere.
Il _medichino_ agitò la testa con un atto impaziente che indicava egli
non desiderar altro che di essere lasciato stare.
Alla visita della sera, ed ore parecchie erano trascorse, fu trovato
ancora nella medesima postura, immobile come un cadavere; e i cibi erano
intatti. Il guardiano gli si accostò alquanto sbigottito e lo toccò
sovra una spalla: Gian-Luigi sussultò come se fosse stato bruciato da un
ferro rovente, e volse verso il carceriere una faccia in cui tanta era
l'ira, e tanto insieme il tormento che pareva il sembiante di Satana
fulminato. Il secondino s'arretrò intimorito e s'avviò senz'altro per
uscire; ma quando fu all'uscio si ricordò che aveva una comunicazione da
fargli.
— Debbo avvertirla che domani cominceranno i pubblici dibattimenti del
suo processo.
Gian-Luigi si drizzò di scatto.
— Domani? domandò con emozione.
— Sì.
— Va bene.
Il guardiano uscì e il prigioniero stette ad ascoltare con una specie
d'interesse il rumore delle serrature che si chiudevano, dei paletti che
scorrevano; poi si mise a passeggiare nella sua oscura celletta su e
giù, proprio come una belva in gabbia. Comparire al pubblico
dibattimento, agli occhi curiosi di tanta gente, spettacolo miserando a
quel mondo ch'egli aveva voluto dominare e cui abborriva e disprezzava!
Gli era un primo supplizio, quello della gogna; gli era un'anticipazione
di quell'ultima ignominiosa scena che aveva da conchiudere la sua vita,
sull'infame legno del patibolo. Egli fremeva e rabbrividiva; aveva delle
fiamme e dei geli che s'avvicendavano lungo i suoi nervi, entro le sue
vene; sentiva la passione morale tradursi in dolori fisici che
cominciando dal cervello si propagavano per tutto il suo organismo.
Pensò a morire; ma come? Misurò la sua cella; non c'era spazio bastante
da prendere un aire di tanta forza da fracassarsi il capo alle pareti:
ed egli non voleva a niun conto il ridicolo d'un suicidio non riuscito,
il quale poi avrebbe ancora preclusagli la via ad altri tentativi: e nel
suicidio oramai era la sola sua speranza.
— Sosterrò anche questa prova: si disse: affronterò gli sguardi di tutta
quella canèa di curiosi, la cui onestà non è che codardia; a quelle
virtù bacate, a quelle infamie nascoste che si atteggiano a gente
onorata, farò abbassare gli occhi sotto il fuoco de' miei e li atterrirò
ancora colla mia audacia.
Al mattino volle fare un'elegante acconciatura quale d'un giovane di
garbo e di buona società che si reca a far visite di rispetto; e quando
lo si venne a prendere nella carcere per condurlo alla sala del pubblico
dibattimento, aveva la figura tranquilla e il calmo sorriso d'un uomo
sicuro di sè, che non ha rimorsi, nè timori, nè manco soggezioni.
Traversando i corridoi, i suoi occhi incontrarono ad uno svolto quelli
affondati del Sott'Ispettore Barnaba.
— Signore, disse Gian-Luigi, accostandosegli. Potrei io avere un
colloquio con voi?
Barnaba s'inchinò in segno d'assenso.
— Quando?
— Quando avrete avuta la vostra condanna di morte.
Il _medichino_ fece un superbo sorriso, mosse leggermente il capo, come
per dire «sta bene;» e passò.
CAPITOLO XXX.
Se la sala dell'udienza nella Corte d'appello (che allora aveva in
Piemonte nome di Senato) fosse zeppa di spettatori, lascio pensare ai
lettori che sanno quale morbosa curiosità sia nelle cittadinanze pei
processi criminali di siffatta specie. Quella banda di malfattori aveva
per tanto tempo incusso timore alla città intiera; la frequenza e la
gravità dei delitti commessi erano tali da far rabbrividire; la
circostanza straordinaria che il capo di quella orrenda sêtta fosse un
giovane elegante, accolto con favore nelle migliori società, accresceva
l'interesse della cosa. Dal giorno dell'arresto dei malandrini poteva
dirsi che nei crocchi cittadineschi, in tutti i convegni, nelle
conversazioni delle famiglie, non erasi parlato d'altro più fuor che di
ciò; in quel tempo di calma e di servitù, non essendoci concorso di
novità politiche a far diversione. Tutti volevano vedere le faccie
orribili di quegli assassini; e principalmente quella del loro capo, che
dicevasi, e molti di veduta conoscevano, non essere niente affatto
orribile, ma anzi bellissima. Le donne sopratutto avevano questo curioso
desiderio, il quale, in quelle creature così facilmente eccessive,
spingevasi per alcune fino all'ardore della passione. I biglietti di
ingresso alle tribune riservate erano quindi stati ricercatissimi; e
quel primo giorno in cui cominciavano i dibattimenti molti e molti
banchi erano occupati da rappresentanti del sesso gentile di tutte le
età, venute in grande eleganza d'acconciatura a cercare poco gentili
emozioni in quel dramma di sangue di processo criminale. Fra queste
spiccava, ned ella cercava pure nascondersi, la Zoe, la quale nel tempo
di attesa, prima che entrassero gli accusati a prendere il loro posto,
era il punto di mira di tutti gli sguardi e l'argomento di tutti i
discorsi. Era essa giunta delle prime — in una tribuna riservata
s'intende — epperò s'era impadronita del miglior posto che si potesse
avere di faccia e più vicino che era possibile all'ordine dei banchi
preparati pei prigionieri. Le prime signore che erano giunte dopo di
lei, avevano schivato il contatto e la vicinanza della cortigiana,
prendendo posto più in là che potessero dalla sontuosa di lei veste di
seta; ma quelle che erano sopravvenute più tardi non avevano avuto il
coraggio di andarsene piuttosto che occupare i posti che rimanevano a
fianco della cortigiana, e vi si erano sedute, ostentando però di tener
le spalle volte alla loro vicina, e di non lasciar posare mai su di lei
gli occhi che pure la sbirciavano di soppiatto con viva curiosità. La
_Leggera_, in una mossa quasi abbandonata, pareva non accorgersi di
nulla, e la sua attenzione era tutta fissa sui seggioloni dove sarebbe
venuta a sedere la Corte, sui banchi destinati ai rei. Nello
scompartimento lasciato al pubblico volgare senza privilegio di polizza
d'ingresso, fin dal primo momento in cui s'erano aperte le porte della
sala, si agitava una massa variegata di popolo cencioso, che ora ronzava
come uno sciame di tafani, ora muggiva come un maroso di burrasca, ora
rompeva in esclamazioni d'impazienza, in bestemmie contro chi urtava di
dietro per ispingersi nella sala, in motti sconci, impertinenti, tenuta
in freno dai cappelli a becchi, dalle faccie burbere e dalle baionette
dei carabinieri.
Stante il gran numero degl'inquisiti, per questi, come ho già detto,
erasi preparato un ordine di banchi, un dietro l'altro, che venivano
salendo sino alla parete della sala, in ciascuno dei quali potevano
moto vivace di curiosità, trasse innanzi la sua seggiola e, i gomiti
appoggiati alle ginocchia, si curvò verso il marchese ad ascoltare.
Dopo un istante, lo zio di Virginia, disse lentamente con voce sommessa
e quasi stentata:
— Voi non avete famiglia?
— No: rispose Gian-Luigi riscuotendosi tutto e impallidendo per una
subita, violenta emozione che lo assalse.
— Foste abbandonato nell'ospizio...
— Lo fui!...
— Ed avevate per segno di riconoscimento...
— Una lettera stracciata per metà.
Il marchese trasse di tasca un portafogli, lo aprì, ne levò due pezzi di
carta sgualcita ed ingiallita dal tempo, e li tese verso il giovane.
— Ecco la lettera intiera.
Quercia sorse in piedi di scatto. La mano del marchese nel porgere la
lettera tremava; la mano di Gian-Luigi nel prenderla tremava del pari.
Afferrò quei due squarci, li scorse, li esaminò, ne lesse lo scritto.
Quei caratteri gli danzavano innanzi agli occhi; la vista gli si
abbuiava; una folata di supposizioni faceva ressa nel suo cervello; che
si trattasse della sua origine in quel misterioso colloquio glie n'era
già, fra i mille altri impossibili, balenato il pensiero. Ora non
esisteva più dubbio: aveva quella lettera in mano; la sua famiglia era
trovata. Si recò alla fronte i pugni chiusi e premendoveli come per
contenere il cervello che era in bollore:
— Chi son io?... Chi son io dunque? esclamò; poi gettò uno sguardo
inesprimibile sulla fisionomia mesta e severa del vecchio gentiluomo,
tese verso di lui le mani che stringevano ancora e convulsamente quei
pezzi di lettera, fece un passo a quella volta con mossa d'ineffabile
trasporto e gridò, proprio dal fondo dell'anima:
— Ah! siete voi mio padre!
Il marchese si trasse vivamente all'indietro sulla sua seggiola, come se
avesse ricevuto un urto nella fronte e mandò un'esclamazione soffocata.
Sostenne un momento col suo lo sguardo vivo, fiammante del giovane che
palpitava innanzi a lui, poscia chinò gli occhi con un'espressione che
avrebbe potuto dirsi ripugnanza e si coprì colle mani il volto, come se
assalito da un accesso di vergogna.
— No, non son io vostro padre: susurrò con voce appena intelligibile.
Don Venanzio, mi faccia grazia, racconti Lei a questo infelice tutta la
verità.
Il _medichino_ fece un cenno al parroco, perchè indugiasse alquanto a
cominciar la sua narrazione. Giunto al momento tanto desiderato di
apprendere la verità, sentiva, per così dire, tremar l'anima ed aveva
bisogno di prepararsi per accogliere con calma il vero qualunque egli si
fosse. Si premette colla destra la fronte, coprendosi gli occhi; poi
incrociò le braccia e si recò lentamente alla finestra, dove rivolse lo
sguardo in su e stette contemplando pochi minuti secondi quella esigua
luce grigiastra che pioveva dalla tramoggia; finalmente venne presso il
sacerdote; sedette in faccia a lui, appoggiò i gomiti sulle ginocchia,
affondò il volto nelle palme delle mani e disse:
— Parli pure, Don Venanzio.
Ascoltò immobile in quella postura tutto il racconto del parroco. Non un
atto manifestò in lui le impressioni ch'e' dovette provarne; il viso,
sempre nascosto, non lasciava scorgere nulla di quanto sentisse l'anima
sua. Quando il vecchio prete ebbe finito, tutti si tacquero per un poco;
solamente si sentiva il rumore di due respirazioni affannate: quella del
marchese e quella di Gian-Luigi.
Fu quest'ultimo che ruppe finalmente il silenzio. Levò dalle mani la
faccia che era pallida, pallida, ma con nessun'altra traccia d'emozione,
e volse il capo verso il marchese, però senza levare gli occhi su di
lui.
— Or bene: disse sommesso e quasi penosamente: or bene, quali intenzioni
ha Ella a mio riguardo?
Baldissero non rispose subito; rifletteva profondamente e con visibile
amarezza; con voce bassa e stentata egli pure, disse poi:
— Ora capite voi perchè m'importi sapere se voi siete innocente?
Quercia mandò un'esclamazione; volle parlare, ma di subito se ne
trattenne; alla pallidezza successe sulle sue guancie un cupo rossore,
l'immobilità tenuta fin allora diede luogo per riazione ad un'agitazione
irrefrenabile; egli sorse e si mise ad andar su e giù con passo
concitato, lasciandosi sfuggir dalle labbra interiezioni, rotti accenti
e gridi a mala pena soffocati. La punizione crudelissima a' suoi
delitti, di cui aveva fatto cenno Don Venanzio, era piombata in tutta la
sua gravezza sull'anima ambiziosa di Gian-Luigi: quel grado a cui egli
aspirava, quell'altezza a cui aveva voluto giungere erano suo diritto,
li avrebbe potuto arrivare naturalmente ed onestamente; ed egli col suo
fatto ora se li era resi impossibili... Impossibili? No, egli non voleva
ammettere questa orrenda verità; egli non poteva rassegnarsi a questa
troppo fiera condanna. Come! Gli Orti Esperidi della ricchezza e della
potenza verrebbero ad aprirglisi ed egli sarebbe impotente ad entrarvi?
Avere dinanzi le onorificenze, la grandezza e la gloria, e precipitare
nell'ignominia!..... Doveva esserci un mezzo di salvarlo. La famiglia a
cui egli apparteneva rappresentava la potenza sociale: e questa poteva
creare a sua convenienza il giusto e l'ingiusto: la sua vita anteriore
doveva cancellarsi, non esister più, non aver mai esistito. S'era
trascinato miserabil bruco nel letame sociale: ora aveva da svegliarsi
farfalla al sole della prosperità. Chi alla splendida bellezza della
farfalla domanda conto della sua vile esistenza anteriore di verme? A
questa sua riabilitazione l'autorità monarchica, la società, la natura
medesima parevagli dovessero concorrere. Egli si sentiva rinnovato,
risorto per una meravigliosa palingenesi in un essere degno della sua
ventura: perchè gli altri non lo avrebbero voluto accettare come tale?
Il miserabile trovatello, senza legami nel mondo, poteva essere
condannato e giustiziato come un assassino, ma il nipote d'un ministro
di Stato, d'un discendente degli eroi delle crociate, d'un consigliere,
quasi d'un amico del Re, non doveva aver nulla di comune con quella
sorte ignominiosa: sognava la trasmutazione dell'Ernani di Vittor Hugo,
ieri bandito, oggi grande di Spagna.
Si fermò innanzi al marchese e ripetè con voce balzellante per èmpito
d'emozione la sua prima richiesta:
— Or bene, quali sono ora le sue intenzioni a mio riguardo?... Io sono
sangue suo; io sono sangue d'una delle più nobili prosapie del regno...
Lo sento bene in me!... L'ho sempre pensato; l'ho sempre saputo! Vedrà
zio mio che in me non è tralignata quella pianta.
(All'udirsi chiamare con quel titolo di parentela da tali labbra, il
marchese di Baldissero diede in una leggera scossa).
— Il passato che importa? Continuava il giovane. Non esiste più, non ha
mai esistito. Quella è la notte, ed ora mi si leva innanzi il giorno.
Tutto sarà sepolto nel buio: io sorgerò raggiante nella mia nuova
carriera di grandezza.... Signor marchese, glie lo giuro sulla sacra
febbre della mia ambizione: io mi sento la potenza di soggiogare il
mondo.
Don Venanzio gemette innanzi a quell'audace svelarsi d'un feroce
egoismo: il marchese mandò un sospiro.
— Ma voi, disse quest'ultimo con solenne mestizia, non avete ancora
risposto a quello che vi ho domandato. Siete voi innocente?
Il _medichino_ si trasse indietro d'un passo e si percosse coi pugni
chiusi la fronte.
— Innocente! Innocente! esclamò. Ma le dico che ciò non monta.... Mi
tragga di qua.... Gian-Luigi Quercia sarà morto: fra pochi anni sarà
perfettamente obliato, fuorchè, come una leggenda, nella memoria dei
miserabili... Maurilio di Valpetrosa, poichè quello è il mio vero nome,
comparirà essere novello sulla scena più elevata del mondo.... Non sono
che al principio della mia giovinezza.... Posso bene sottrarmi per un
lustro, a prepararmi, oscura crisalide, alla mia grandezza avvenire...
Mi mandi in Francia: andrò soldato in Algeria; mi sacrerò cavaliere al
fuoco delle battaglie: sento nelle mie vene il sangue dei prodi nostri
avi, signor marchese: cimenterò il mio nuovo nome al battesimo del
valore; tornerò coll'illustrazione della gloria, glie lo prometto.
Baldissero levò il suo viso improntato di severità e disse con accento
solenne:
— Ma se voi siete colpevole, ciò tutto non toglierà che alla nostra
famiglia abbia appartenuto un.....
Non disse la parola, ma Luigi la lesse nell'espressione inorridita dello
sguardo, nella piegatura dolorosa delle labbra. Il _medichino_ non osò
più sostenere l'incontro degli occhi del marchese.
Questi, dopo un poco, ripigliava con crescente imponenza e gravità:
— E la giustizia, a cui dovete pagare il fio? Perchè credete voi potervi
ad essa sottrarre?
— La giustizia è il ragnatelo. Debole moscerino vi sarò impigliato; mi
si aiuti a valermi delle mie ali di falco e vi passerò trammezzo.....
Il marchese scosse gravemente la testa.
— Al Re medesimo dissi non è guari che nessuna considerazione avrebbe
dovuto sottrarvi alla azione delle leggi: e quello che dissi allora
penso anche adesso.
Gian-Luigi scoppiò in queste orribili parole:
— Ella dunque lascierà suo nipote, il figliuolo di sua sorella salire il
patibolo?...
A questa cruda confessione di colpevolezza, Baldissero impallidì ancora
di più, ma stette come il Farinata di Dante nell'inferno; Don Venanzio
mandò un gemito e levò le mani congiunte al cielo.
— Sì, continuava con impeto Gian-Luigi, cui la emozione di quel
gravissimo momento aveva tolto il possesso ch'egli soleva avere della
sua volontà e della sua anima; sì, sono un miserabile, perchè ho
impegnato la lotta contro la vostra società che mi aveva scacciato dal
suo seno e me ne lasciai vincere. Ma di chi la colpa? Perchè m'avete
respinto? M'avete cacciato nel fango e mi condannate perchè ne vengo
fuori imbrattato!.... Fin dalla nascita io ho recato meco le aspirazioni
verso quel mondo a cui dovevo appartenere, e che mi fu barbaramente
precluso. Sentivo che era mio diritto il penetrarvi, e quando mi vi
affacciai conobbi che ogni sforzo sarebbe stato inutile al trovatello
per farvisi luogo, e che soli mezzi gli rimanevano da ciò l'inganno e il
delitto.... Credete voi ch'io mi vi sia deciso senza strazianti dolori e
senza lotte? Quando un bel giorno io mi trovai colle passioni, coi vizi,
colle vanità eccitati, irritati, non soddisfatti, senza più un
centesimo, in faccia ad una società che schernisce il povero ed il
debole; anche a me per prima si affacciò l'idea volgare del suicidio. La
somma lasciatami dal medico del villaggio aveva bastato appena a farmi
delibare la coppa de' piaceri mondani: la sete se n'era accresciuta e
non avevo più mezzi da accostarvi le labbra desiose. Il lavoro era mezzo
troppo lento e di troppo miseri effetti. Mi cacciai, come in una
voragine, in una casa di giuoco. Perdevo: l'oro esercitava su di me il
suo fascino infame ed irresistibile; e vedevo passarmi dinanzi le orde
sonore delle monete e sfuggirmi. Avrei dato l'anima al demonio: un
arrolatore dell'esercito del male, uno dei capi della segreta congrega
dei ribelli sociali mi lesse nel cuore, mi trasse in disparte, mi tastò
l'animo indolorito ed infierito, mi espose bruscamente in termini
grossolani la teoria delle vicende terrene che incominciava ad essere la
mia. Vi è una lotta universale nella creazione organica: tutto quello
che vive s'alimenta e si vantaggia di organismi più deboli del suo.
L'uomo sfrutta tutto il resto della creazione, appunto perchè si trova
al fastigio della medesima: col medesimo diritto l'uomo che è più forte,
più accorto, più audace può vantaggiarsi del più debole, più stupido e
più timido. Il tentatore cominciò a propormi ed a mostrarmi a giuocare
di baro. Divenni maestro nell'arte in breve, e dividemmo i guadagni. Una
sera, uscendo dal giuoco, carico appunto d'oro, venni assalito da un
assassino, che mi fece luccicare innanzi agli occhi la lama d'un
pugnale. Colla destra afferrai la mano che stringeva l'arma, colla
sinistra il collo di quell'uomo, e l'ebbi in un attimo messo a terra
presso a basire strangolato. Sopraggiunse in quella, per sua fortuna, il
mio complice, e lo riconobbe.
« — _Graffigna_, gli disse, ti sei male indirizzato; costui è dei nostri
e tu vedi che polso è il suo.
«Lasciai andare il mio assalitore che si scosse come un cane che vien
fuor dall'acqua.
« — Signore: mi disse umilmente, raccattando per terra il suo pugnale:
vedo proprio che ho sbagliato e glie ne domando mille perdoni. Ella d'or
innanzi ha la mia ammirazione e può contare sulla mia servitù.
«Que' due appartenevano ad una vasta associazione di malfattori che
stavasi appunto riordinando e cercava un capo autorevole, coraggioso,
intelligente. Non vi dirò tutte le fasi per le quali sono passato prima
di diventar io quel capo. Il male, il delitto è una macchina tremenda di
ruote e di rocchetti, i cui denti imboccano, e guai chi se ne lascia
pigliare pur per un solo lembo del vestito! La forza cieca, meccanica lo
trae, lo trae finchè tutto lo ha preso e maciullato. E poi m'ero fatto
un concetto più grandioso di quella guerra che avevo bandito agli ordini
sociali e degli effetti della medesima..... Mi allontanai per due anni
da questa città... Quando vi fui di ritorno ero il capo supremo della
_cocca_. Quell'attività, quell'intelligenza che ho impiegato nell'opera
del delitto, che cosa non avrebbero ottenuto se, rincalzate
dall'autorità di potenti aderenze, dall'influenza d'un grado, le avessi
rivolte in aiuto della società esistente?... Che cosa non potrei ancora
ottenere se mi si accetta, non ostante il mio passato, nel campo degli
onesti?
— E ciò è impossibile: interruppe severamente il marchese. Nessuno può
fare che il passato non sia. L'avete detto voi stesso testè: ogni uomo
deve portare la responsabilità de' suoi fatti. Io qui non sono per
giudicarvi: ma vi giudica la coscienza civile rappresentata dalla
giustizia umana. Avete violate le leggi della società, questa vi
bandisce dal suo seno; nulla si può mutare; quello che deve compirsi si
compia.
L'esaltazione a cui era stato in preda fin allora Gian-Luigi sparì ad un
tratto; egli si lasciò cadere sopra una seggiola, ed esclamò coprendosi
colle mani la faccia:
— E dunque mi si lascierà morire? Dunque non si vuol dare i mezzi ad
un'anima come la mia di rigenerarsi e compensare il male? E Lei,
marchese, lascierà che la mia ignominia sprizzi fino sul suo blasone?
Successe un istante di penoso silenzio, cui poscia fu Don Venanzio a
rompere.
— L'anima umana si rigenera col pentimento, il male si espia colla
punizione: disse il buon vecchio prete. Subir questa con rassegnazione,
curvandosi ai voleri di Dio, è indizio ed effetto di quello. Pentimento
ed espiazione conducono al perdono. Siamo deboli pur troppo noi uomini e
le arti dell'eterno nostro nemico sono potenti: ma dall'altra parte
immensurabile è la misericordia di Dio, e nessuno di noi può dire
dov'ella si arresti e che pure abbia limiti. Se dunque vi è la speranza,
anzi la certezza del perdono per tutti, vi è pure la necessità di subire
la pena per tutti quelli che fallirono; o sarebbe lesa la giustizia.
— Voi avete dichiarato alla società costituita una guerra, come diceste
voi medesimo: così parlò a sua volta il marchese: e rimaneste vinto. Ma
voi meglio d'ogni altro, voi di più vivido ingegno, di maggiore
istruzione del volgo, sapevate a quali rischi andavate incontro, qual
posta mettevate al giuoco, quali conseguenze affrontavate. Avete
perduto....
Il _medichino_ levò il capo e interruppe vivacemente con un fiero
sorriso:
— Bisogna pagare. Ella ha ragione.
Guardò bene in volto il vecchio gentiluomo e soggiunse, parlando
lentamente:
— E dunque che sarà di me verso la famiglia, e della famiglia verso di
me?
— Quello che vorrete voi medesimo. La famiglia non rifiuterà di
affermare pubblicamente il vero, quando voi lo esigiate, quando a voi
piaccia si gravi su di lei una parte di disdoro con nessuna utilità
vostra....
Negli occhi di Gian-Luigi corse un lampo.
— La comprendo: diss'egli vivamente; ed affondato di nuovo il volto
nelle palme delle mani, stette un poco meditando.
La cristiana santità di quel vecchio povero prete vero seguace del
Vangelo, la rigida onestà e la severa onoratezza del vecchio gentiluomo
facevano intorno al giovane un ambiente, per così dire, di tanto pura e
sana e morale influenza, che tutto quello che v'era ancora di generoso
nella traviata e sedotta di lui natura si ridestò, fu suscitato ed ebbe
in quel punto nuova e maggior forza che mai.
— Ebbene: soggiunse egli poi levando il capo e sorridendo amaramente:
che importa egli al mondo che il figliuolo della marchesa Aurora sia
ritrovato o no? che importerà a me medesimo si sappia, se ciò non avrà
da mutar per nulla la mia sorte?.... Ch'io scompaia ignoto ed ignorato,
portando meco nel sepolcro il mio segreto e l'onore soltanto d'un
miserabile plebeo che non ha nome... Hanno essi un onore quella razza di
gente?... Avrò fatto alla famiglia che mi ha rigettato ancora questo
sacrificio... Io non sono che il misero trovatello, signor marchese, si
rassicuri: e morrò come tale.
Spiegò bene i due squarci di lettera che aveva ancora tra mano; li
raccostò e li tenne innanzi agli occhi alcuni minuti quasi leggendo e
rileggendo lo scritto parecchie fiate, poi disse scuotendo mestamente il
capo:
— Ecco tutto ciò che mi rimane del padre mio; ecco tutta la mia eredità
nel mondo... Povero mio padre!... Se tu avessi vissuto che cosa avresti
fatto di me?
Baldissero che aveva versato il sangue di Valpetrosa, a queste parole
che gli ricordavano efficacemente la risponsabilità ond'era aggravato,
sentì più viva la fitta del rimorso.
Gian-Luigi accostò quei due pezzi di carta ingiallita alle labbra e ve
li premette con passione.
— Addio! Addio memoria di mio padre. Oh potessi credere che tu esisti
ancora, essere che fosti qui in terra l'autore della mia vita, e che un
giorno ti potrò vedere e conoscere!... Addio tu pure, pensiero della
madre mia; addio per sempre: voi non esistete più; tutto ha da essere
precipitato nella notte dell'oblio.
Colle mani convulse stracciò in minutissime parti quella lettera e ne
sparse al suolo i pezzetti; una lagrima, una lagrima sola colò
lentamente sulle sue guancie pallidissime che parean di marmo.
Il marchese si alzò e disse con accento commosso e molto nobilmente:
— Vi ringrazio.
Parve che volesse tendere al prigioniero la mano; ma se ne trattenne.
— Or dunque tutto è finito per me: esclamò con voce tremante quel
misero: ogni mio legame con questo mondo è sciolto...
In quel punto, per effetto d'una di quelle complesse visioni della mente
che abbracciano un mondo indefinito, passarono innanzi a lui le immagini
del suo passato sin dall'infanzia, e l'immagine di quello che avrebbero
potuto essere la sua vita e il suo avvenire.
— Oh giovinezza! soggiunse: oh mie sciupate forze di volontà e
d'ingegno!... Meglio non avessi abbandonato mai Lei, Don Venanzio, e il
villaggio e la povera vecchia Margherita..... Ma l'istinto del sangue mi
spingeva. Mi sentivo della razza dei leoni.....
Scosse le spalle con superba mossa da angelo fulminato.
— Ma il rimpiangere che giova?... Fu il destino che così volle..... No,
io non rimpiango nulla...... Sono vinto, non sono soggiogato.....
Guarderò in faccia la mia sorte fino alla fine col sogghigno che merita
questa irrisione di casi che è la vita.
S'interruppe e cambiò tono.
— Sì, v'è pure alcuna cosa che rimpiango. Alcune anime generose mi hanno
amato, ed io fui empio e scellerato per esse. Povera Ester! (e represse
un sospiro). Povera Maria!..... Povera Candida!..... Le ho odiosamente
ingannate e tradite..... Vorrei potere a ciò rimediare... e non ce n'è
mezzo nessuno.....
In quella si ricordò delle lettere della contessa di Staffarda, che
possedute, com'egli credeva ancora, dalla Zoe, erano per la misera donna
una minaccia continua.
— Ah sì, soggiunse, alcuna cosa posso pur fare in favore di una di esse.
Domandò di scrivere poche parole; e il marchese potè dargli un
fogliolino di carta ed una matita; Gian-Luigi scrisse alla Zoe l'ordine,
la preghiera di restituire alla contessa le lettere, e di non
tormentarla altrimenti. Don Venanzio accettò l'incarico di portar egli
stesso in persona alla _Leggera_ quella carta che doveva por fine agli
spasimi ed agli sgomenti d'una povera anima: e già vedemmo quali ne
fossero gli effetti.
— Ed ora: disse finalmente Gian-Luigi; prego che mi si lasci solo.
Il marchese ed il parroco partirono, quest'ultimo promettendo di tornare
a visitare il prigioniero quante più volte gli fosse concesso; e il
_medichino_ venne ricondotto nella sua segreta.
Quel che passasse nell'anima sua chi lo potrebbe descriver mai? Certo
furono spasimi che dovettero contare come parte migliore della dovuta
espiazione innanzi alla clemenza di Dio: ma il segreto di quella
tormentosa meditazione fu tra lui, tra l'anima sua e Colui che tutto
vede.
Quando i secondini entrarono, parecchie ore più tardi, a portargli il
cibo giornaliero, lo trovarono steso sul giaciglio bocconi, la faccia
premuta contro la coperta di lana ravvoltolata. All'invito che il
secondino gli fece di mangiare, non si mosse punto.
— La è malata? domandò il carceriere.
Il _medichino_ agitò la testa con un atto impaziente che indicava egli
non desiderar altro che di essere lasciato stare.
Alla visita della sera, ed ore parecchie erano trascorse, fu trovato
ancora nella medesima postura, immobile come un cadavere; e i cibi erano
intatti. Il guardiano gli si accostò alquanto sbigottito e lo toccò
sovra una spalla: Gian-Luigi sussultò come se fosse stato bruciato da un
ferro rovente, e volse verso il carceriere una faccia in cui tanta era
l'ira, e tanto insieme il tormento che pareva il sembiante di Satana
fulminato. Il secondino s'arretrò intimorito e s'avviò senz'altro per
uscire; ma quando fu all'uscio si ricordò che aveva una comunicazione da
fargli.
— Debbo avvertirla che domani cominceranno i pubblici dibattimenti del
suo processo.
Gian-Luigi si drizzò di scatto.
— Domani? domandò con emozione.
— Sì.
— Va bene.
Il guardiano uscì e il prigioniero stette ad ascoltare con una specie
d'interesse il rumore delle serrature che si chiudevano, dei paletti che
scorrevano; poi si mise a passeggiare nella sua oscura celletta su e
giù, proprio come una belva in gabbia. Comparire al pubblico
dibattimento, agli occhi curiosi di tanta gente, spettacolo miserando a
quel mondo ch'egli aveva voluto dominare e cui abborriva e disprezzava!
Gli era un primo supplizio, quello della gogna; gli era un'anticipazione
di quell'ultima ignominiosa scena che aveva da conchiudere la sua vita,
sull'infame legno del patibolo. Egli fremeva e rabbrividiva; aveva delle
fiamme e dei geli che s'avvicendavano lungo i suoi nervi, entro le sue
vene; sentiva la passione morale tradursi in dolori fisici che
cominciando dal cervello si propagavano per tutto il suo organismo.
Pensò a morire; ma come? Misurò la sua cella; non c'era spazio bastante
da prendere un aire di tanta forza da fracassarsi il capo alle pareti:
ed egli non voleva a niun conto il ridicolo d'un suicidio non riuscito,
il quale poi avrebbe ancora preclusagli la via ad altri tentativi: e nel
suicidio oramai era la sola sua speranza.
— Sosterrò anche questa prova: si disse: affronterò gli sguardi di tutta
quella canèa di curiosi, la cui onestà non è che codardia; a quelle
virtù bacate, a quelle infamie nascoste che si atteggiano a gente
onorata, farò abbassare gli occhi sotto il fuoco de' miei e li atterrirò
ancora colla mia audacia.
Al mattino volle fare un'elegante acconciatura quale d'un giovane di
garbo e di buona società che si reca a far visite di rispetto; e quando
lo si venne a prendere nella carcere per condurlo alla sala del pubblico
dibattimento, aveva la figura tranquilla e il calmo sorriso d'un uomo
sicuro di sè, che non ha rimorsi, nè timori, nè manco soggezioni.
Traversando i corridoi, i suoi occhi incontrarono ad uno svolto quelli
affondati del Sott'Ispettore Barnaba.
— Signore, disse Gian-Luigi, accostandosegli. Potrei io avere un
colloquio con voi?
Barnaba s'inchinò in segno d'assenso.
— Quando?
— Quando avrete avuta la vostra condanna di morte.
Il _medichino_ fece un superbo sorriso, mosse leggermente il capo, come
per dire «sta bene;» e passò.
CAPITOLO XXX.
Se la sala dell'udienza nella Corte d'appello (che allora aveva in
Piemonte nome di Senato) fosse zeppa di spettatori, lascio pensare ai
lettori che sanno quale morbosa curiosità sia nelle cittadinanze pei
processi criminali di siffatta specie. Quella banda di malfattori aveva
per tanto tempo incusso timore alla città intiera; la frequenza e la
gravità dei delitti commessi erano tali da far rabbrividire; la
circostanza straordinaria che il capo di quella orrenda sêtta fosse un
giovane elegante, accolto con favore nelle migliori società, accresceva
l'interesse della cosa. Dal giorno dell'arresto dei malandrini poteva
dirsi che nei crocchi cittadineschi, in tutti i convegni, nelle
conversazioni delle famiglie, non erasi parlato d'altro più fuor che di
ciò; in quel tempo di calma e di servitù, non essendoci concorso di
novità politiche a far diversione. Tutti volevano vedere le faccie
orribili di quegli assassini; e principalmente quella del loro capo, che
dicevasi, e molti di veduta conoscevano, non essere niente affatto
orribile, ma anzi bellissima. Le donne sopratutto avevano questo curioso
desiderio, il quale, in quelle creature così facilmente eccessive,
spingevasi per alcune fino all'ardore della passione. I biglietti di
ingresso alle tribune riservate erano quindi stati ricercatissimi; e
quel primo giorno in cui cominciavano i dibattimenti molti e molti
banchi erano occupati da rappresentanti del sesso gentile di tutte le
età, venute in grande eleganza d'acconciatura a cercare poco gentili
emozioni in quel dramma di sangue di processo criminale. Fra queste
spiccava, ned ella cercava pure nascondersi, la Zoe, la quale nel tempo
di attesa, prima che entrassero gli accusati a prendere il loro posto,
era il punto di mira di tutti gli sguardi e l'argomento di tutti i
discorsi. Era essa giunta delle prime — in una tribuna riservata
s'intende — epperò s'era impadronita del miglior posto che si potesse
avere di faccia e più vicino che era possibile all'ordine dei banchi
preparati pei prigionieri. Le prime signore che erano giunte dopo di
lei, avevano schivato il contatto e la vicinanza della cortigiana,
prendendo posto più in là che potessero dalla sontuosa di lei veste di
seta; ma quelle che erano sopravvenute più tardi non avevano avuto il
coraggio di andarsene piuttosto che occupare i posti che rimanevano a
fianco della cortigiana, e vi si erano sedute, ostentando però di tener
le spalle volte alla loro vicina, e di non lasciar posare mai su di lei
gli occhi che pure la sbirciavano di soppiatto con viva curiosità. La
_Leggera_, in una mossa quasi abbandonata, pareva non accorgersi di
nulla, e la sua attenzione era tutta fissa sui seggioloni dove sarebbe
venuta a sedere la Corte, sui banchi destinati ai rei. Nello
scompartimento lasciato al pubblico volgare senza privilegio di polizza
d'ingresso, fin dal primo momento in cui s'erano aperte le porte della
sala, si agitava una massa variegata di popolo cencioso, che ora ronzava
come uno sciame di tafani, ora muggiva come un maroso di burrasca, ora
rompeva in esclamazioni d'impazienza, in bestemmie contro chi urtava di
dietro per ispingersi nella sala, in motti sconci, impertinenti, tenuta
in freno dai cappelli a becchi, dalle faccie burbere e dalle baionette
dei carabinieri.
Stante il gran numero degl'inquisiti, per questi, come ho già detto,
erasi preparato un ordine di banchi, un dietro l'altro, che venivano
salendo sino alla parete della sala, in ciascuno dei quali potevano
- Parts
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- La plebe, parte IV - 28
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