La plebe, parte IV - 35
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mova e nessuno fiati. Dobbiamo frugare scrupolosamente cose e persone.
Credo che ad alcuno non verrà in mente la pazzia d'una resistenza.
La donna con un sobbalzo si drizzò del busto sui cuscini ricamati del
suo letto.
— Cose e _persone_ avete detto? Domandò ella con inesprimibile accento
di fiero disdegno:
— Sì: disse freddamente Barnaba: e per togliervi più presto a questa
seccatura e lasciarvi tosto libera e tranquilla comincieremo da voi.
Fece alcuni passi verso il letto della cortigiana, ma più incerta che
mai era la sua andatura e le mani gli tremavano.
Le pupille di Zoe mandarono fiamme: con un moto rapido e violento si
torse della persona verso il comodino, ne aprì il cassetto e toltone uno
stile damaschinato, di bella fattura, lo impugnò risolutamente colla
piccola destra nervosa. L'avreste detta una Lucrezia romana.
— Guai chi mi tocca! gridò essa fremendo.
Il poliziotto ebbe sulle pallide labbra un sogghigno indefinibile
d'ironia insieme e di compassione e di profonda mestizia.
— Tanto sforzo di coraggio starebbe bene, diss'egli, se si volesse
attentare alla vostra virtù, ma questo non è ora il caso. Dovreste
sapere che contro la forza non vale la ribellione dello sdegno. Se
voi... od altri per voi... tentò un giorno salvare la vostra innocenza
dalla brutalità d'un prepotente, che valse?
Queste parole che le ricordavano un tristo episodio della sua prima
adolescenza, quasi della sua infanzia infamemente corrotta da uno
scellerato, sovraccolsero potentemente e stranamente la donna. Quella
disgraziata ventura ella non aveva raccontata mai; il miserabile che
l'aveva fatta sua vittima era morto; il suo compagno di stenti che era
stato testimonio inorridito ed impotente era scomparso. Come poteva
sapere alcuna cosa di quel dramma quest'ignoto? E sapeva egli veramente,
od era il caso soltanto che gli aveva posto in bocca quelle parole che
sembravano fare allusione alla sventurata vicenda? Non ebbe campo per
allora a meditare su codesto, perchè l'agente di Polizia, assumendo un
tono imperioso e solenne continuava:
— E noi siamo la legge, signora, noi siamo l'autorità, ed a noi non si
resiste.
Si volse agli _arcieri_ che dietro di lui s'erano inoltrati nella
stanza.
— Disarmate quella donna: comandò.
In un attimo due uomini furono allato della Zoe, le ebbero afferrate le
braccia e toltole di pugno il ferro. Allora ella vide avanzarsi su di
lei e starle sopra la faccia terrea di Barnaba; allora sentì sulla sua
persona il contatto di due mani che parevano frementi. Trasalì, come
corse le vene da un brivido di ribrezzo, mandò un gridolino di rabbia
repressa, slanciò uno sguardo di ferocia impotente su quel volto
pallido, macilento, incavato, che incombeva sul suo. I loro sguardi
s'urtarono come due saette che s'incontrino per aria volando, parve se
ne sprigionassero scintille. Nessuno dei due cedette e si abbassò
innanzi all'altro; ma nelle pupille di quell'uomo che le parvero in
fondo alle occhiaie come belve appiattate in fondo ad una caverna, Zoe
travide un fuoco profondo, cupo, terribile, credette travedere un
pauroso mistero.
— Chi è quest'uomo? domandò a sè stessa. Che vuol egli da me? Perchè mi
pare che costui debba entrare nella mia vita?
La perquisizione, come già sappiamo, non ebbe risultamento di sorta. Zoe
arrestata venne il giorno dopo messa nuovamente in libertà. Verso sera
di quel giorno medesimo, ella riceveva da mano ignota un bigliettino
scritto col lapis che riconobbe tosto di pugno del _medichino_.
Esso non conteneva che queste poche righe:
«Sono nelle carceri senatorie. Confido in te. Oro e protezioni ci vuole.
Verrà a tempo opportuno un uomo a mettersi teco in rapporto. Per ora
agisci con prudenza. Quell'uomo che ci ha spiato, che mi ha arrestato,
Barnaba, ha qualche ragione personale contro me o contro te. Cerca
d'accostarlo, studialo, tenta di sedurlo. Non mi pare impossibile.»
Erano due giorni che la Zoe non poteva scacciare di mente il pensiero di
quell'uomo cui anche Luigi veniva ora a ricordarle. Per quanto avesse
frugato e rifrugato nelle sue memorie, non aveva trovato nulla che le
rammentasse aver avuta con lui relazione.
— Lo cercherò; si disse; voglio penetrare questo mistero.
Come il _medichino_ fosse riuscito a far pervenire quel biglietto alla
_Leggera_, vedremo di poi. Ora torniamo indietro d'alquanto e rechiamoci
al letto di morte dell'usuraio Nariccia.
CAPITOLO XXIV.
La mattina del giorno che successe all'interrogatorio di Nariccia, Padre
Bonaventura, chiamatovi dall'infermiere, accorreva al letto dell'usuraio
moribondo. Questi, che avrebbe desiderato un altro per confessore, esitò
un momento fra la ripugnanza che allora gl'ispirava il suo antico
complice e lo spavento di morire senz'assoluzione, portando seco nella
tomba il fatale segreto del suo orribil peccato. Lo spavento la vinse, e
sentendo in se stesso che non gli rimaneva tempo abbastanza, nè vigoria
d'animo e di volontà da mandar via il gesuita ed aspettare la venuta
d'un altro confessore, si rassegnò a far manifesta la brutta storia del
suo passato in una confessione che fu lunga, penosa, interrotta da
debolezze e da spasimi, fatta con voce soffocata, il più spesso appena
se intelligibile, a coglier la quale il frate doveva star curvo sopra il
letto e tener l'orecchio proprio sulla bocca del giacente.
Trascurando tutto il resto che non ha rapporto colla nostra storia,
diremo ciò che da siffatta confessione il gesuita apprendeva riguardo al
figliuolo di Maurilio Valpetrosa e di Aurora di Baldissero.
Nariccia, incaricatosi, come sappiamo, di fare scomparire quel bambino,
erasi partito solo dalla casa in cui dolorava la povera madre, recando
seco il neonato. Di molte cose, e scellerate tutte, pensava egli, strada
facendo, e ne conchiudeva che a lui avrebbe giovato forse che quel
bambino fosse perduto di guisa che altri non arrivasse a rintracciarlo
mai più, ma egli pur lo potesse tuttavia, quando di ciò glie ne nascesse
convenienza. Per prima cosa, a questo fine, pensò togliergli d'intorno i
contrassegni di riconoscimento che gli aveva posti la Modestina e che da
costei e da Padre Bonaventura erano conosciuti; e quei contrassegni
ritenerli presso di sè. Così nè la donna, nè il frate non avrebbero più
avuto nessun bandolo da servirsene essi stessi o da dare altrui per
venire in chiaro di ciò che fosse diventato il bambino. Egli poi avrebbe
messogli un altro contrassegno particolare, per mezzo del quale potesse
all'uopo ricuperare l'abbandonato fanciullo e sarebbe stato egli solo
padrone del suo segreto.
Con siffatti pensamenti pel capo, e già risolutosi a porre in atto
questo proposito, egli era giunto alla frontiera di Lombardia, cioè al
Ticino, s'era liberato con una mancia dalle seccature degli agenti
austriaci mezzo addormentati, e penetrava sul ponte, a capo il quale i
doganieri e carabinieri piemontesi dovevano fermarlo per dar conto di sè
e delle sue robe. Aveva viaggiato di notte, e rompeva appena l'alba.
Tutto era deserto e silenzioso sulla riva piemontese, e la sola cosa che
ci fosse di vivo era il lumicino della lanterna attaccata al casotto dei
doganieri, che però era presso a spegnersi. Nariccia arrestò il cavallo
a mezzo il ponte, guardò ben bene se anima viva lo potesse vedere e
sentire, e rassicurato compiutamente, scese dal legno, prese il bambino,
e pian piano, in punta di piedi, venne a deporlo per terra a capo del
ponte dalla parte del territorio piemontese. Come contrassegno egli,
trascelta fra le lettere di Valpetrosa che aveva nel suo portafogli
quella che meno contenesse parole onde si potesse avere indizio della
provenienza, l'aveva stracciata per lo lungo e una delle due metà del
foglio insinuato in mezzo alle fasce del bambino.
Quando ebbe deposto per terra il poveretto, Nariccia tornò dello stesso
modo al suo legno e facendo chioccar la frusta se ne venne di trotto
verso la uscita del ponte, dove un agente della dogana ed uno della
pubblica sicurezza, levatisi al rumore e mezzo sonnacchiosi, lo
fermarono al solito per le solite formalità. Mentre Nariccia, senza
scendere neppure dal carrozzino, esibiva il suo passaporto e mostrava
che nella piccola valigia che era suo solo bagaglio, non v'era oggetto
alcuno che dovesse pagar dazio d'entrata, ecco un vagito di bambino
suonare lì presso.
Il viaggiatore si sporse in fuori del suo legno, e il carabiniere e il
doganiere si volsero verso il luogo da cui quel lamento era venuto.
Videro il fagottino per terra: il doganiere lo prese ed esclamò:
— Tò: qualche scellerato che abbandonò qui questa piccola creatura.
Il carabiniere guardò con sospetto il viaggiatore; ma questi aveva
un'aria così innocente e meravigliata; l'avevano veduto giungere pur
allora e non scendere nemmeno: come dubitare di lui?
— E che cosa ne facciamo di questo bel regalo? domandò il doganiere, il
quale per ventura era trovatello anche lui, aveva un cuore eccellente, e
s'intenerì di botto alla vista di quel poveretto.
— Lo prenda Lei, disse il carabiniere a Nariccia, lo reca seco sino a
Novara, e là lo mette all'ospizio.
— Io no certo: rispose Nariccia. Non vo' compromettermi. D'altronde può
essere che alcuno venga ancora qui da voi altri a farne ricerca.
Partì di buon trotto, lasciando il bambino fra le mani di quella gente.
— In un caso, si disse, potrò sempre sapere che cosa costoro ne avranno
fatto.
Naturalmente, dopo ciò, Nariccia non si diede più il menomo pensiero di
quel fanciullo; ma un anno e mezzo dopo cominciò a credere che
l'occasione di rifarlo vivo era presso a presentarsi con grande suo
giovamento. Se vi ricorda, Aurora aveva sempre in fondo al cuore la
speranza che suo figlio non fosse morto, di questa sua speranza aveva
parlato col fratello quando, tornato egli di Spagna, era successo fra
loro la riconciliazione, e il fratello, la cui anima generosa era
lacerata dal rimorso pel tanto male che aveva fatto ad Aurora, aveva
accettato, qual mezzo di compensarnela e di riparare, la missione di
tentare, se fosse possibile, il ricupero del bambino.
Nariccia, al quale, come abbiam visto, il marchese erasi rivolto, aveva
subito capito di quali guadagni potesse essergli sorgente il
rinvenimento del figliuolo di Valpetrosa, quando il marchese padre fosse
per mancare ai vivi, cosa che pareva non dover tardare di molto, tanto
era egli già male avviato di salute. Incominciò egli adunque le sue
ricerche per potere quando che si fosse metter la mano sul bambino; ed
apprese, recandosi egli stesso sui luoghi, che il doganiere il quale
trovavasi di servizio quella tal mattina del tal giorno, ed aveva
raccattato il trovatello, non aveva voluto metterlo all'ospizio di
Novara, ma recatolo con sè, lo stesso giorno in cui gli era stato dato
un congedo, l'aveva allogato presso qualche famiglia di villici, non si
sapeva quale, nè dove. Nariccia volle sapere dove fosse questo doganiere
per andarlo interrogare ed apprendere da lui medesimo la intera verità;
ma gli fu risposto che questo era impossibile, perchè mandato poco dopo
sul Lago Maggiore verso la frontiera svizzera, in uno scontro avutovi
coi contrabbandieri, era stato colto da una palla di schioppo nella
testa e mandato all'altro mondo col suo segreto.
L'antico intendente dei Baldissero non si perse d'animo per tutto
questo. Se il vero bambino era impossibile trovarlo, ben se ne poteva
avere un altro da sostituirgli; e non erano presso di lui quei
contrassegni che dovevano farlo riconoscere come figliuolo d'Aurora? Ad
affrettare in lui la maturazione e l'esecuzione di quest'empio disegno
venne il marchese padre, il quale esigette che in quindici giorni il
bambino della sua figliuola fosse dato in poter suo. Nariccia ebbe a sè
_Graffigna_, che ben conosceva capace di qualunque cosa, e gli commise
lo provvedesse d'un bambino maschio, andandolo a prendere così lontano e
con tali precauzioni che mai più non potesse venire scoperto qual fosse,
donde venisse, come preso. _Graffigna_ comunicò la cosa al suo fido
amico e complice Michele Luponi, fratello di Modestina e marito di
Eugenia, il quale allora già erasi fatto noto nella cronaca criminosa
col soprannome di _Stracciaferro_.
Lo scellerato _Graffigna_, il quale sapeva come la moglie di Michele
fosse madre di un bambino e vivesse a Milano donde non voleva venir via
più per non ricongiungersi col marito, propose a quest'esso senz'altro
di andare ad impadronirsi di suo figlio e presentarnelo all'usuraio.
Michele riluttò assai, ma l'influsso che già aveva preso su di lui
l'omiciattolo più tristo del demonio, qualche ubbriacatura accortamente
saputagli dare dal suo compagno, la seduzione della promessa di una
buona somma, finirono per deciderlo. Quello che avvenisse udimmo narrato
da Maurilio medesimo a Giovanni Selva, quando gli ripeteva i delirii e
le visioni che il rimorso cagionava a _Stracciaferro_, lui presente nel
carcere.
Questo bambino così acquistato, coll'uccisione della povera madre, il
figliuolo di Michele e di Eugenia, veniva consegnato al marchese padre,
il quale lo faceva spietatamente abbandonare in mezzo alla strada.
Terminando la sua confessione Nariccia additava al frate dove fosse
custodita la metà della lettera di Valpetrosa, di cui s'era servito per
dare un segno di riconoscimento al vero figliuolo della marchesina
Aurora e dove fossero tutte le carte che riguardavano le sue attinenze
con Valpetrosa, e il gesuita se ne impadroniva. Data l'assoluzione al
moribondo, Padre Bonaventura l'abbandonava a morir solo senza altri
conforti, e correva in tutta fretta al palazzo di Baldissero.
Dello strano fatto che il moribondo gli rivelava, Padre Bonaventura fu
più lieto ancora che stupito. Il falso Maurilio, ch'egli aveva tentato
trarre nelle sue reti, erasi ad ogni sua seduzione sottratto, e avea
mostrato, nel suo liberalismo, l'animo d'un nemico a quella parte a cui
il gesuita apparteneva, a quei principii in servizio dei quali l'ordine
monastico, e non degli ultimi in esso il Bonaventura, mettevano tutta la
loro accortezza e l'influsso. Se nel giovane cui si trattava di
restituire il grado e il posto nella nobile famiglia, il frate avesse
trovato un possibile affiliato della congrega, un acconcio stromento,
avrebbe anche potuto avvenire che egli tenesse per sè il suo segreto, e
di questo anzi facesse un legame più forte e più stretto per avvincere
all'interesse del partito e far più obbediente e sottomesso quel
giovane: ma Bonaventura, conoscitore degli uomini e sollecito
apprezzatore dei caratteri di coloro in cui s'incontrava, aveva
subitamente riconosciuto che dal nostro Maurilio non avrebbe mai potuto
nulla ottenere a suo pro, e quindi che ogni tentativo eziandio di
tenerlo soggetto colla minaccia di farlo respingere da quel luogo a cui
era appena arrivato, sarebbe stato inefficace. Non c'era nulla di meglio
adunque che svelar tutto al marchese e ricacciare il falsamente creduto
figliuolo d'Aurora in quell'abbiezione e in quell'oscurità da cui si era
andati ora a levarlo.
Il marchese di Baldissero, udita la narrazione del gesuita, rimase il
più attonito, perplesso ed amareggiato uomo del mondo. Che cosa doveva
egli fare? Abbandonare di nuovo alla miseria quel giovane a cui aveva
aperti, come a suo sangue, il cuore e la casa, non voleva di certo; ma
conservarlo in quella condizione di congiunto non doveva, nè gli
piaceva. Decise esporre tutta la verità al giovane medesimo e lasciarlo
giudice lui medesimo della condotta da tenersi reciprocamente: ad ogni
modo egli non avrebbe abbandonato più l'infelice ai rigori della sorte.
Maurilio rientrava al palazzo Baldissero, l'anima sconvolta. In casa
Benda aveva avuto luogo quella scena che abbiamo narrato, in cui
Gian-Luigi lo aveva cotanto avvilito. Quando il domestico gli disse che
il marchese desiderava parlargli, Maurilio fu sul punto di rispondere
che non poteva recarsi da lui, che stava male, che aveva assoluto
bisogno di solitudine e di silenzio. Ma non osò: obbedì sollecito alla
chiamata, e camminando lentamente verso lo studio del marchese,
domandava a se stesso se doveva o no esporre allo zio di Virginia tutti
i suoi dubbi e le ragioni dei medesimi. Non ebbe mestieri di decidersi
in questa tenzone del suo spirito: il caso colla forza dei fatti decise
per lui. Il marchese sapeva più di quanto egli era riuscito a scoprire,
e ripetendogli le confidenze di Padre Bonaventura, gli poneva innanzi la
certezza di quel ch'egli aveva argomentato dovesse essere. Non egli era
il figliuolo smarrito di Aurora, e questi, se fosse da trovarsi mai,
cosa che al marchese pareva impossibile, era da conoscersi per la metà
del foglio stracciato in cui era scritta la lettera di Valpetrosa.
Il nostro giovane protagonista, a questa comunicazione, chinò il capo e
parve non avesse capito, o fosse indifferente, tanto era priva
d'espressione la sua immobilità e tranquillo il suo pallido volto. Ma
dentro di lui c'era un tumulto che nessuna parola potrebbe dipingere.
Stette un momento in silenzio, poi domandò al marchese gli mostrasse
quella metà di lettera che era rimasta presso Nariccia. Il marchese glie
la porse. Appena vi ebbe posti sopra gli occhi, Maurilio la riconobbe
tosto pel carattere, per la carta, per la forma, per la lunghezza, come
il complemento di quella che aveva in suo potere Gian-Luigi. Tuttavia la
esaminò attentamente. Le parole che si leggevano in quel foglio di carta
ingiallita erano le seguenti:
«La carrozza sia pronta-
cata. Prendete ogni precau-
«Da Milano vi farò conoscere-
m'informerete di ciò che avverrà-
Se fossi inseguito mi difenderò.-
te, ripeto quello che vi ho già-
fino a nuova mia ulteriore deci-
Maurilio lesse e rilesse queste linee interrotte. Egli che aveva visto
più volte lo squarcio del foglio posseduto dal suo compagno d'infanzia e
che ultimamente, una settimana innanzi aveva rivedutolo e rilettolo,
l'aveva in quel punto così presente alla memoria che se tuttedue le
parti della lettera gli fossero state poste raccostate dinnanzi non
avrebbe potuto farne più precisa lettura di quello che faceva la sua
mente, completando le presenti colle parole che mancavano.
Era un bigliettino che il seduttore d'Aurora aveva scritto a Nariccia
per dargli le ultime istruzioni e gli ultimi ordini riguardo alla sua
fuga con Aurora, per cui l'intendente della famiglia Baldissero compro a
denari s'era impegnato a procurare i mezzi; ed intero questo corto
biglietto diceva così:
«La carrozza sia pronta all'ora che v'ho già indicata. Prendete
ogni precauzione perchè nulla trapeli.
«Da Milano vi farò conoscere il mio indirizzo, e voi tosto
m'informerete di ciò che avverrà qui dopo la nostra partenza. Se
fossi inseguito mi difenderò. Quanto alle somme depositate,
ripeto quello che vi ho già scritto: rimangano presso di voi
fino a nuova mia ulteriore decisione.»
Il giovane, che seguiteremo a chiamar Maurilio, perchè nessuno fin
allora poteva conoscergli altro nome, restituì al marchese quel pezzo di
carta, e disse con placida amarezza:
— Il mio non sarà stato che un sogno... un sogno che ha durato ben
poco..... ma che sarebbe anche meglio non avesse neppur cominciato.....
Il colpo non mi giunge inatteso... Chi son io dunque? Nessuno e sempre
nessuno: preso nelle tenebre, vivrò nelle tenebre, e non saprò mai
mettere un nome a quella individualità a cui debbo il tristo dono della
vita.
Il marchese, che credette scorgere in queste parole l'accento d'una
profonda desolazione, lo interruppe con amorevolezza.
— Non perdete ogni speranza. Nariccia, a quanto mi ripetè Padre
Bonaventura, incaricò dell'empia commissione due scellerati, di uno dei
quali forse c'è ancora possibile aver notizie da poterlo rintracciare;
egli è appunto il fratello di quella sciagurata che fu cameriera della
mia infelice sorella, e per mezzo di lei se ne potrà probabilmente saper
qualche cosa. Il suo nome è Michele Luponi e venne sopranominato
_Stracciaferro_.
Innanzi agli occhi di Maurilio passò come un lampo di color sanguigno,
il suo cervello sentì come la puntura di un ferro arroventato.
— L'altro di quei scellerati che derubarono il bambino chiamavasi
_Graffigna_? domandò vivamente il giovane.
— Sì.
Egli sapeva oramai l'esser suo. L'azzardo gli aveva squadernata dinanzi
la pagina del suo destino. Si rivide nell'orrido aere fetente della
carcere dove aveva udito l'orribile racconto di _Stracciaferro_; rivide
la faccia bestiale di quell'uomo ubriaco tormentata dai graffi del
rimorso; riudì le orribili parole di _Graffigna_ che tutto lo avean
fatto raccapricciare; riudì sulle labbra di _Stracciaferro_ il grido
ch'egli confessava riudire nelle sue notti, il grido della donna
assassinata che domandava le si rendesse il suo sangue, riudì il grido
supremo di toro ferito con cui l'assassino aveva conchiuso quella
spaventosa narrazione: «quel bambino era mio figlio!» e sentì insieme
assalirgli le intime sedi della vita un gelo di morte ed una vampa di
fuoco. Quella donna assassinata era sua madre; il bambino derubatole era
egli stesso; suo padre era un galeotto, ladro ed omicida!
Il delirio e la follia gli si slanciarono al capo insieme coll'èmpito
del sangue: sentì che a stento poteva tenere il freno della ragione al
suo intelletto scombuiato.
— Orrore ed infamia! esclamò egli coll'aspetto d'un dissensato che è
assalito dal parosismo della follia. Infamia ed orrore!... Ecco la mia
ricchezza; ecco la mia parte di bene sulla terra.
Ruppe in una risata ad udirsi penosissima, e si slanciò fuori dello
studio.
— Maurilio! Maurilio! gridò il marchese con voce in cui si temperavano
il rimprovero, il comando autorevole ed un affettuoso interesse; ma il
giovane non l'udì, e corse via, come Caino dopo l'orrendo suo delitto.
Il marchese fu d'un balzo al cordone del campanello e gli diede una
violenta tirata.
L'infelice figliuolo di _Stracciaferro_, correndo incontrò nella sala
precedente il gabinetto onde fuggiva, la contessina Virginia, che veniva
appunto in cerca di lui, e non tanto per desiderio di rivedere il
rinvenuto fratello, quanto per avere da esso novelle di altra persona a
lei cara.
— Mio fratello! disse la fanciulla colla melodia soave della sua voce
argentina.
Il fuggente si fermò sui due piedi e spaventò la donzella per
l'alterazione profonda delle sembianze con cui le si accostò.
— Fratello! Fratello! esclamò egli con un sogghigno indescrivibile sulle
labbra agitate da un tremore convulso. Io non sono vostro fratello, no,
non lo sono.
Incontrò collo sguardo de' suoi occhi turbati quello limpido e
dolcissimo delle serene papille di lei.
— Ah! quegli occhi! soggiunse. Sono gli occhi di vostra madre.... La
mia, servendo la vostra, glie li ha rubati per darli a me, che portava
nel suo seno.
S'interruppe mandando un grido rauco da selvaggio.
— Nella nostra famiglia si ruba! gridò quindi con disperata energia,
percotendosi coi due pugni chiusi la fronte.
Virginia impietosita, commossa, gli si appressò vieppiù e gli pose sopra
un braccio la sua destra dilicata e gentile.
— Calmatevi, Maurilio; gli disse mitemente.
Il giovane non lasciò che altrimenti continuasse. Vide innanzi a sè
quella tanta bellezza illuminata da un divino raggio di pietà; sentì sul
suo braccio il tocco di quella mano come una ineffabil carezza. Il suo
delirio dimenticò tutto il resto per non esser più che un delirio
d'amore.
— Non sono tuo fratello: diss'egli: dunque posso amarti, angelo del mio
cuore... Ho sangue di plebe. Che importa? Mi sento tanta grandezza de
esser primo fra gli uomini. Son figlio d'assassino. Che monta? L'energia
delittuosa dell'eredità paterna sarà in me l'energia delle grandi
cose... T'amo da tanto tempo con amor furibondo.
L'afferrò colle sue grosse mani: ella si dibattè spaventata mandando un
grido. In quel punto dall'una delle porte di quella sala entrava il
domestico chiamato dalla scampanellata del marchese, e questi si
presentava sulla soglia del suo studio, chiamato dal grido di Virginia.
Maurilio, alla vista dei sopraggiunti, abbandonò la ragazza, gettò un
urlo e riprese la sua fuga disperata.
— Tenete dietro al signor Maurilio; comandò il marchese, presso cui
Virginia era venuta a rifugiarsi tutto sgomenta: vegliate su di lui e
frattanto qualcuno corra subito per un medico.
Maurilio era corso nella sua camera e ne aveva chiuso a chiave l'uscio,
entrandovi, prima che il domestico giungesse a quella soglia. Al battere
nella porta, alle parole del servitore egli non rispose nemmeno; tanto
che il domestico, stancatosi dopo replicati tentativi, venne dal padrone
a dirgli quel ch'era avvenuto e riceverne nuovi ordini.
— Andate pel medico, frattanto; e quando e' sia giunto, penseremo al da
farsi.
Il giovane, disperato, s'era buttato traverso il letto colla faccia
affondata nelle coltri ed aveva prorotto in penosissimi singhiozzi.
— Figlio d'un assassino, ripeteva, figlio d'un assassino. E mia madre
una serva!.. E l'amo tanto Virginia!... E nel mio capo c'è
l'intelligenza d'un uomo superiore!... Sono nato dal fango sociale:
nelle mie vene corre il germe fatale del delitto: lo sento alla ferocia
d'un istinto che mi si fa gigante nel petto.... È un retaggio fatale....
Si trasmette come la tisi, il rachitismo e la pazzia.... La pazzia, la
sento che viene.... Oh sia la benvenuta!... Mia madre fu assassinata da
mio padre.... Mio padre assassino.... Ed io che cosa sarò?...
Una vertiginosa fantasmagoria di strane immagini orribili, spaventose,
in mezzo ad una nebbia color di sangue, gl'invase il cervello. Vide in
un tramestio orrendo assassini e vittime, suppliziati e carnefici, antri
di prigione e ferri di catene, e dominante su tutto la schifosa ombra
dello stromento del supremo supplizio. Si levò irte le chiome, smarriti
gli occhi, sconvolte le sembianze, contratti i muscoli, tutti in un
tremito i nervi. Gli spettri della pazzia e dell'infamia gli danzavano
innanzi. Tutti gli oggetti vedeva di color rosso affuocato; sentiva con
dolore inesprimibile battergli forte i polsi nella testa. Si recò
barcollando come un ebbro, le mani tese innanzi al par d'un cieco, al
lavamano, e immerse a più riprese la faccia e la testa nel catino pieno
d'acqua fredda; ciò non gli bastava: prese una tovaglia, la inzuppò
nell'acqua e se ne cinse la fronte che gli ardeva. Tutto ciò fece con
atti macchinali, senza aver coscienza di sè. Ne provò alcun giovamento.
L'orribile ridda che gli movevano nel cervello le immagini provocate dal
delirio si calmò; le visioni spaventose si dileguarono in quella nebbia
dello spirito che da rossa color sangue si sfumava in un color rosato
con dei guizzi più vivi che parevano baleni. Guardò intorno a sè, come
attonito, smemorato, e si riconobbe. Trovò nella sua mente, dritto, per
così dire, in mezzo al rovinio di quelle visioni della febbre, un
pensiero:
— Non ho detto al marchese chi e dov'era il suo vero nipote; e convien
bene ch'e' lo sappia.
Si strappò dalla fronte la servietta fumante onde s'era cinto le tempia
e si slanciò verso la porta. Ma ecco tosto la mano adunca della pazzia
acciuffarlo di nuovo. La febbre cerebrale, che sempre incombeva,
minaccia immanente sugli organi sovreccitati della sua intelligenza, gli
piombò addosso come falco sulla preda. Stralunò gli occhi, rise
orribilmente, battè l'aria colle braccia come fa delle ali uccello
ferito che non può più levarsi a volo, mandò un grido soffocato, un
gemito, un rantolo; e cadde lungo e disteso sul pavimento.
Al sopraggiungere del medico fu aperta di forza la porta, il giovane fu
raccolto di terra e posto a letto, e il male fu sollecitamente ed
energicamente combattuto coi salassi, colle mignatte, colle ventose.
— Temo che nulla non possa più salvarlo: disse al terzo giorno il medico
al marchese che mostrava molto interesse per quell'infelice.
Egli non era ancora tornato neppure un momento in cognizione di sè, e ad
ogni parosismo di quella febbre cui nulla ancora aveva potuto vincere,
Credo che ad alcuno non verrà in mente la pazzia d'una resistenza.
La donna con un sobbalzo si drizzò del busto sui cuscini ricamati del
suo letto.
— Cose e _persone_ avete detto? Domandò ella con inesprimibile accento
di fiero disdegno:
— Sì: disse freddamente Barnaba: e per togliervi più presto a questa
seccatura e lasciarvi tosto libera e tranquilla comincieremo da voi.
Fece alcuni passi verso il letto della cortigiana, ma più incerta che
mai era la sua andatura e le mani gli tremavano.
Le pupille di Zoe mandarono fiamme: con un moto rapido e violento si
torse della persona verso il comodino, ne aprì il cassetto e toltone uno
stile damaschinato, di bella fattura, lo impugnò risolutamente colla
piccola destra nervosa. L'avreste detta una Lucrezia romana.
— Guai chi mi tocca! gridò essa fremendo.
Il poliziotto ebbe sulle pallide labbra un sogghigno indefinibile
d'ironia insieme e di compassione e di profonda mestizia.
— Tanto sforzo di coraggio starebbe bene, diss'egli, se si volesse
attentare alla vostra virtù, ma questo non è ora il caso. Dovreste
sapere che contro la forza non vale la ribellione dello sdegno. Se
voi... od altri per voi... tentò un giorno salvare la vostra innocenza
dalla brutalità d'un prepotente, che valse?
Queste parole che le ricordavano un tristo episodio della sua prima
adolescenza, quasi della sua infanzia infamemente corrotta da uno
scellerato, sovraccolsero potentemente e stranamente la donna. Quella
disgraziata ventura ella non aveva raccontata mai; il miserabile che
l'aveva fatta sua vittima era morto; il suo compagno di stenti che era
stato testimonio inorridito ed impotente era scomparso. Come poteva
sapere alcuna cosa di quel dramma quest'ignoto? E sapeva egli veramente,
od era il caso soltanto che gli aveva posto in bocca quelle parole che
sembravano fare allusione alla sventurata vicenda? Non ebbe campo per
allora a meditare su codesto, perchè l'agente di Polizia, assumendo un
tono imperioso e solenne continuava:
— E noi siamo la legge, signora, noi siamo l'autorità, ed a noi non si
resiste.
Si volse agli _arcieri_ che dietro di lui s'erano inoltrati nella
stanza.
— Disarmate quella donna: comandò.
In un attimo due uomini furono allato della Zoe, le ebbero afferrate le
braccia e toltole di pugno il ferro. Allora ella vide avanzarsi su di
lei e starle sopra la faccia terrea di Barnaba; allora sentì sulla sua
persona il contatto di due mani che parevano frementi. Trasalì, come
corse le vene da un brivido di ribrezzo, mandò un gridolino di rabbia
repressa, slanciò uno sguardo di ferocia impotente su quel volto
pallido, macilento, incavato, che incombeva sul suo. I loro sguardi
s'urtarono come due saette che s'incontrino per aria volando, parve se
ne sprigionassero scintille. Nessuno dei due cedette e si abbassò
innanzi all'altro; ma nelle pupille di quell'uomo che le parvero in
fondo alle occhiaie come belve appiattate in fondo ad una caverna, Zoe
travide un fuoco profondo, cupo, terribile, credette travedere un
pauroso mistero.
— Chi è quest'uomo? domandò a sè stessa. Che vuol egli da me? Perchè mi
pare che costui debba entrare nella mia vita?
La perquisizione, come già sappiamo, non ebbe risultamento di sorta. Zoe
arrestata venne il giorno dopo messa nuovamente in libertà. Verso sera
di quel giorno medesimo, ella riceveva da mano ignota un bigliettino
scritto col lapis che riconobbe tosto di pugno del _medichino_.
Esso non conteneva che queste poche righe:
«Sono nelle carceri senatorie. Confido in te. Oro e protezioni ci vuole.
Verrà a tempo opportuno un uomo a mettersi teco in rapporto. Per ora
agisci con prudenza. Quell'uomo che ci ha spiato, che mi ha arrestato,
Barnaba, ha qualche ragione personale contro me o contro te. Cerca
d'accostarlo, studialo, tenta di sedurlo. Non mi pare impossibile.»
Erano due giorni che la Zoe non poteva scacciare di mente il pensiero di
quell'uomo cui anche Luigi veniva ora a ricordarle. Per quanto avesse
frugato e rifrugato nelle sue memorie, non aveva trovato nulla che le
rammentasse aver avuta con lui relazione.
— Lo cercherò; si disse; voglio penetrare questo mistero.
Come il _medichino_ fosse riuscito a far pervenire quel biglietto alla
_Leggera_, vedremo di poi. Ora torniamo indietro d'alquanto e rechiamoci
al letto di morte dell'usuraio Nariccia.
CAPITOLO XXIV.
La mattina del giorno che successe all'interrogatorio di Nariccia, Padre
Bonaventura, chiamatovi dall'infermiere, accorreva al letto dell'usuraio
moribondo. Questi, che avrebbe desiderato un altro per confessore, esitò
un momento fra la ripugnanza che allora gl'ispirava il suo antico
complice e lo spavento di morire senz'assoluzione, portando seco nella
tomba il fatale segreto del suo orribil peccato. Lo spavento la vinse, e
sentendo in se stesso che non gli rimaneva tempo abbastanza, nè vigoria
d'animo e di volontà da mandar via il gesuita ed aspettare la venuta
d'un altro confessore, si rassegnò a far manifesta la brutta storia del
suo passato in una confessione che fu lunga, penosa, interrotta da
debolezze e da spasimi, fatta con voce soffocata, il più spesso appena
se intelligibile, a coglier la quale il frate doveva star curvo sopra il
letto e tener l'orecchio proprio sulla bocca del giacente.
Trascurando tutto il resto che non ha rapporto colla nostra storia,
diremo ciò che da siffatta confessione il gesuita apprendeva riguardo al
figliuolo di Maurilio Valpetrosa e di Aurora di Baldissero.
Nariccia, incaricatosi, come sappiamo, di fare scomparire quel bambino,
erasi partito solo dalla casa in cui dolorava la povera madre, recando
seco il neonato. Di molte cose, e scellerate tutte, pensava egli, strada
facendo, e ne conchiudeva che a lui avrebbe giovato forse che quel
bambino fosse perduto di guisa che altri non arrivasse a rintracciarlo
mai più, ma egli pur lo potesse tuttavia, quando di ciò glie ne nascesse
convenienza. Per prima cosa, a questo fine, pensò togliergli d'intorno i
contrassegni di riconoscimento che gli aveva posti la Modestina e che da
costei e da Padre Bonaventura erano conosciuti; e quei contrassegni
ritenerli presso di sè. Così nè la donna, nè il frate non avrebbero più
avuto nessun bandolo da servirsene essi stessi o da dare altrui per
venire in chiaro di ciò che fosse diventato il bambino. Egli poi avrebbe
messogli un altro contrassegno particolare, per mezzo del quale potesse
all'uopo ricuperare l'abbandonato fanciullo e sarebbe stato egli solo
padrone del suo segreto.
Con siffatti pensamenti pel capo, e già risolutosi a porre in atto
questo proposito, egli era giunto alla frontiera di Lombardia, cioè al
Ticino, s'era liberato con una mancia dalle seccature degli agenti
austriaci mezzo addormentati, e penetrava sul ponte, a capo il quale i
doganieri e carabinieri piemontesi dovevano fermarlo per dar conto di sè
e delle sue robe. Aveva viaggiato di notte, e rompeva appena l'alba.
Tutto era deserto e silenzioso sulla riva piemontese, e la sola cosa che
ci fosse di vivo era il lumicino della lanterna attaccata al casotto dei
doganieri, che però era presso a spegnersi. Nariccia arrestò il cavallo
a mezzo il ponte, guardò ben bene se anima viva lo potesse vedere e
sentire, e rassicurato compiutamente, scese dal legno, prese il bambino,
e pian piano, in punta di piedi, venne a deporlo per terra a capo del
ponte dalla parte del territorio piemontese. Come contrassegno egli,
trascelta fra le lettere di Valpetrosa che aveva nel suo portafogli
quella che meno contenesse parole onde si potesse avere indizio della
provenienza, l'aveva stracciata per lo lungo e una delle due metà del
foglio insinuato in mezzo alle fasce del bambino.
Quando ebbe deposto per terra il poveretto, Nariccia tornò dello stesso
modo al suo legno e facendo chioccar la frusta se ne venne di trotto
verso la uscita del ponte, dove un agente della dogana ed uno della
pubblica sicurezza, levatisi al rumore e mezzo sonnacchiosi, lo
fermarono al solito per le solite formalità. Mentre Nariccia, senza
scendere neppure dal carrozzino, esibiva il suo passaporto e mostrava
che nella piccola valigia che era suo solo bagaglio, non v'era oggetto
alcuno che dovesse pagar dazio d'entrata, ecco un vagito di bambino
suonare lì presso.
Il viaggiatore si sporse in fuori del suo legno, e il carabiniere e il
doganiere si volsero verso il luogo da cui quel lamento era venuto.
Videro il fagottino per terra: il doganiere lo prese ed esclamò:
— Tò: qualche scellerato che abbandonò qui questa piccola creatura.
Il carabiniere guardò con sospetto il viaggiatore; ma questi aveva
un'aria così innocente e meravigliata; l'avevano veduto giungere pur
allora e non scendere nemmeno: come dubitare di lui?
— E che cosa ne facciamo di questo bel regalo? domandò il doganiere, il
quale per ventura era trovatello anche lui, aveva un cuore eccellente, e
s'intenerì di botto alla vista di quel poveretto.
— Lo prenda Lei, disse il carabiniere a Nariccia, lo reca seco sino a
Novara, e là lo mette all'ospizio.
— Io no certo: rispose Nariccia. Non vo' compromettermi. D'altronde può
essere che alcuno venga ancora qui da voi altri a farne ricerca.
Partì di buon trotto, lasciando il bambino fra le mani di quella gente.
— In un caso, si disse, potrò sempre sapere che cosa costoro ne avranno
fatto.
Naturalmente, dopo ciò, Nariccia non si diede più il menomo pensiero di
quel fanciullo; ma un anno e mezzo dopo cominciò a credere che
l'occasione di rifarlo vivo era presso a presentarsi con grande suo
giovamento. Se vi ricorda, Aurora aveva sempre in fondo al cuore la
speranza che suo figlio non fosse morto, di questa sua speranza aveva
parlato col fratello quando, tornato egli di Spagna, era successo fra
loro la riconciliazione, e il fratello, la cui anima generosa era
lacerata dal rimorso pel tanto male che aveva fatto ad Aurora, aveva
accettato, qual mezzo di compensarnela e di riparare, la missione di
tentare, se fosse possibile, il ricupero del bambino.
Nariccia, al quale, come abbiam visto, il marchese erasi rivolto, aveva
subito capito di quali guadagni potesse essergli sorgente il
rinvenimento del figliuolo di Valpetrosa, quando il marchese padre fosse
per mancare ai vivi, cosa che pareva non dover tardare di molto, tanto
era egli già male avviato di salute. Incominciò egli adunque le sue
ricerche per potere quando che si fosse metter la mano sul bambino; ed
apprese, recandosi egli stesso sui luoghi, che il doganiere il quale
trovavasi di servizio quella tal mattina del tal giorno, ed aveva
raccattato il trovatello, non aveva voluto metterlo all'ospizio di
Novara, ma recatolo con sè, lo stesso giorno in cui gli era stato dato
un congedo, l'aveva allogato presso qualche famiglia di villici, non si
sapeva quale, nè dove. Nariccia volle sapere dove fosse questo doganiere
per andarlo interrogare ed apprendere da lui medesimo la intera verità;
ma gli fu risposto che questo era impossibile, perchè mandato poco dopo
sul Lago Maggiore verso la frontiera svizzera, in uno scontro avutovi
coi contrabbandieri, era stato colto da una palla di schioppo nella
testa e mandato all'altro mondo col suo segreto.
L'antico intendente dei Baldissero non si perse d'animo per tutto
questo. Se il vero bambino era impossibile trovarlo, ben se ne poteva
avere un altro da sostituirgli; e non erano presso di lui quei
contrassegni che dovevano farlo riconoscere come figliuolo d'Aurora? Ad
affrettare in lui la maturazione e l'esecuzione di quest'empio disegno
venne il marchese padre, il quale esigette che in quindici giorni il
bambino della sua figliuola fosse dato in poter suo. Nariccia ebbe a sè
_Graffigna_, che ben conosceva capace di qualunque cosa, e gli commise
lo provvedesse d'un bambino maschio, andandolo a prendere così lontano e
con tali precauzioni che mai più non potesse venire scoperto qual fosse,
donde venisse, come preso. _Graffigna_ comunicò la cosa al suo fido
amico e complice Michele Luponi, fratello di Modestina e marito di
Eugenia, il quale allora già erasi fatto noto nella cronaca criminosa
col soprannome di _Stracciaferro_.
Lo scellerato _Graffigna_, il quale sapeva come la moglie di Michele
fosse madre di un bambino e vivesse a Milano donde non voleva venir via
più per non ricongiungersi col marito, propose a quest'esso senz'altro
di andare ad impadronirsi di suo figlio e presentarnelo all'usuraio.
Michele riluttò assai, ma l'influsso che già aveva preso su di lui
l'omiciattolo più tristo del demonio, qualche ubbriacatura accortamente
saputagli dare dal suo compagno, la seduzione della promessa di una
buona somma, finirono per deciderlo. Quello che avvenisse udimmo narrato
da Maurilio medesimo a Giovanni Selva, quando gli ripeteva i delirii e
le visioni che il rimorso cagionava a _Stracciaferro_, lui presente nel
carcere.
Questo bambino così acquistato, coll'uccisione della povera madre, il
figliuolo di Michele e di Eugenia, veniva consegnato al marchese padre,
il quale lo faceva spietatamente abbandonare in mezzo alla strada.
Terminando la sua confessione Nariccia additava al frate dove fosse
custodita la metà della lettera di Valpetrosa, di cui s'era servito per
dare un segno di riconoscimento al vero figliuolo della marchesina
Aurora e dove fossero tutte le carte che riguardavano le sue attinenze
con Valpetrosa, e il gesuita se ne impadroniva. Data l'assoluzione al
moribondo, Padre Bonaventura l'abbandonava a morir solo senza altri
conforti, e correva in tutta fretta al palazzo di Baldissero.
Dello strano fatto che il moribondo gli rivelava, Padre Bonaventura fu
più lieto ancora che stupito. Il falso Maurilio, ch'egli aveva tentato
trarre nelle sue reti, erasi ad ogni sua seduzione sottratto, e avea
mostrato, nel suo liberalismo, l'animo d'un nemico a quella parte a cui
il gesuita apparteneva, a quei principii in servizio dei quali l'ordine
monastico, e non degli ultimi in esso il Bonaventura, mettevano tutta la
loro accortezza e l'influsso. Se nel giovane cui si trattava di
restituire il grado e il posto nella nobile famiglia, il frate avesse
trovato un possibile affiliato della congrega, un acconcio stromento,
avrebbe anche potuto avvenire che egli tenesse per sè il suo segreto, e
di questo anzi facesse un legame più forte e più stretto per avvincere
all'interesse del partito e far più obbediente e sottomesso quel
giovane: ma Bonaventura, conoscitore degli uomini e sollecito
apprezzatore dei caratteri di coloro in cui s'incontrava, aveva
subitamente riconosciuto che dal nostro Maurilio non avrebbe mai potuto
nulla ottenere a suo pro, e quindi che ogni tentativo eziandio di
tenerlo soggetto colla minaccia di farlo respingere da quel luogo a cui
era appena arrivato, sarebbe stato inefficace. Non c'era nulla di meglio
adunque che svelar tutto al marchese e ricacciare il falsamente creduto
figliuolo d'Aurora in quell'abbiezione e in quell'oscurità da cui si era
andati ora a levarlo.
Il marchese di Baldissero, udita la narrazione del gesuita, rimase il
più attonito, perplesso ed amareggiato uomo del mondo. Che cosa doveva
egli fare? Abbandonare di nuovo alla miseria quel giovane a cui aveva
aperti, come a suo sangue, il cuore e la casa, non voleva di certo; ma
conservarlo in quella condizione di congiunto non doveva, nè gli
piaceva. Decise esporre tutta la verità al giovane medesimo e lasciarlo
giudice lui medesimo della condotta da tenersi reciprocamente: ad ogni
modo egli non avrebbe abbandonato più l'infelice ai rigori della sorte.
Maurilio rientrava al palazzo Baldissero, l'anima sconvolta. In casa
Benda aveva avuto luogo quella scena che abbiamo narrato, in cui
Gian-Luigi lo aveva cotanto avvilito. Quando il domestico gli disse che
il marchese desiderava parlargli, Maurilio fu sul punto di rispondere
che non poteva recarsi da lui, che stava male, che aveva assoluto
bisogno di solitudine e di silenzio. Ma non osò: obbedì sollecito alla
chiamata, e camminando lentamente verso lo studio del marchese,
domandava a se stesso se doveva o no esporre allo zio di Virginia tutti
i suoi dubbi e le ragioni dei medesimi. Non ebbe mestieri di decidersi
in questa tenzone del suo spirito: il caso colla forza dei fatti decise
per lui. Il marchese sapeva più di quanto egli era riuscito a scoprire,
e ripetendogli le confidenze di Padre Bonaventura, gli poneva innanzi la
certezza di quel ch'egli aveva argomentato dovesse essere. Non egli era
il figliuolo smarrito di Aurora, e questi, se fosse da trovarsi mai,
cosa che al marchese pareva impossibile, era da conoscersi per la metà
del foglio stracciato in cui era scritta la lettera di Valpetrosa.
Il nostro giovane protagonista, a questa comunicazione, chinò il capo e
parve non avesse capito, o fosse indifferente, tanto era priva
d'espressione la sua immobilità e tranquillo il suo pallido volto. Ma
dentro di lui c'era un tumulto che nessuna parola potrebbe dipingere.
Stette un momento in silenzio, poi domandò al marchese gli mostrasse
quella metà di lettera che era rimasta presso Nariccia. Il marchese glie
la porse. Appena vi ebbe posti sopra gli occhi, Maurilio la riconobbe
tosto pel carattere, per la carta, per la forma, per la lunghezza, come
il complemento di quella che aveva in suo potere Gian-Luigi. Tuttavia la
esaminò attentamente. Le parole che si leggevano in quel foglio di carta
ingiallita erano le seguenti:
«La carrozza sia pronta-
cata. Prendete ogni precau-
«Da Milano vi farò conoscere-
m'informerete di ciò che avverrà-
Se fossi inseguito mi difenderò.-
te, ripeto quello che vi ho già-
fino a nuova mia ulteriore deci-
Maurilio lesse e rilesse queste linee interrotte. Egli che aveva visto
più volte lo squarcio del foglio posseduto dal suo compagno d'infanzia e
che ultimamente, una settimana innanzi aveva rivedutolo e rilettolo,
l'aveva in quel punto così presente alla memoria che se tuttedue le
parti della lettera gli fossero state poste raccostate dinnanzi non
avrebbe potuto farne più precisa lettura di quello che faceva la sua
mente, completando le presenti colle parole che mancavano.
Era un bigliettino che il seduttore d'Aurora aveva scritto a Nariccia
per dargli le ultime istruzioni e gli ultimi ordini riguardo alla sua
fuga con Aurora, per cui l'intendente della famiglia Baldissero compro a
denari s'era impegnato a procurare i mezzi; ed intero questo corto
biglietto diceva così:
«La carrozza sia pronta all'ora che v'ho già indicata. Prendete
ogni precauzione perchè nulla trapeli.
«Da Milano vi farò conoscere il mio indirizzo, e voi tosto
m'informerete di ciò che avverrà qui dopo la nostra partenza. Se
fossi inseguito mi difenderò. Quanto alle somme depositate,
ripeto quello che vi ho già scritto: rimangano presso di voi
fino a nuova mia ulteriore decisione.»
Il giovane, che seguiteremo a chiamar Maurilio, perchè nessuno fin
allora poteva conoscergli altro nome, restituì al marchese quel pezzo di
carta, e disse con placida amarezza:
— Il mio non sarà stato che un sogno... un sogno che ha durato ben
poco..... ma che sarebbe anche meglio non avesse neppur cominciato.....
Il colpo non mi giunge inatteso... Chi son io dunque? Nessuno e sempre
nessuno: preso nelle tenebre, vivrò nelle tenebre, e non saprò mai
mettere un nome a quella individualità a cui debbo il tristo dono della
vita.
Il marchese, che credette scorgere in queste parole l'accento d'una
profonda desolazione, lo interruppe con amorevolezza.
— Non perdete ogni speranza. Nariccia, a quanto mi ripetè Padre
Bonaventura, incaricò dell'empia commissione due scellerati, di uno dei
quali forse c'è ancora possibile aver notizie da poterlo rintracciare;
egli è appunto il fratello di quella sciagurata che fu cameriera della
mia infelice sorella, e per mezzo di lei se ne potrà probabilmente saper
qualche cosa. Il suo nome è Michele Luponi e venne sopranominato
_Stracciaferro_.
Innanzi agli occhi di Maurilio passò come un lampo di color sanguigno,
il suo cervello sentì come la puntura di un ferro arroventato.
— L'altro di quei scellerati che derubarono il bambino chiamavasi
_Graffigna_? domandò vivamente il giovane.
— Sì.
Egli sapeva oramai l'esser suo. L'azzardo gli aveva squadernata dinanzi
la pagina del suo destino. Si rivide nell'orrido aere fetente della
carcere dove aveva udito l'orribile racconto di _Stracciaferro_; rivide
la faccia bestiale di quell'uomo ubriaco tormentata dai graffi del
rimorso; riudì le orribili parole di _Graffigna_ che tutto lo avean
fatto raccapricciare; riudì sulle labbra di _Stracciaferro_ il grido
ch'egli confessava riudire nelle sue notti, il grido della donna
assassinata che domandava le si rendesse il suo sangue, riudì il grido
supremo di toro ferito con cui l'assassino aveva conchiuso quella
spaventosa narrazione: «quel bambino era mio figlio!» e sentì insieme
assalirgli le intime sedi della vita un gelo di morte ed una vampa di
fuoco. Quella donna assassinata era sua madre; il bambino derubatole era
egli stesso; suo padre era un galeotto, ladro ed omicida!
Il delirio e la follia gli si slanciarono al capo insieme coll'èmpito
del sangue: sentì che a stento poteva tenere il freno della ragione al
suo intelletto scombuiato.
— Orrore ed infamia! esclamò egli coll'aspetto d'un dissensato che è
assalito dal parosismo della follia. Infamia ed orrore!... Ecco la mia
ricchezza; ecco la mia parte di bene sulla terra.
Ruppe in una risata ad udirsi penosissima, e si slanciò fuori dello
studio.
— Maurilio! Maurilio! gridò il marchese con voce in cui si temperavano
il rimprovero, il comando autorevole ed un affettuoso interesse; ma il
giovane non l'udì, e corse via, come Caino dopo l'orrendo suo delitto.
Il marchese fu d'un balzo al cordone del campanello e gli diede una
violenta tirata.
L'infelice figliuolo di _Stracciaferro_, correndo incontrò nella sala
precedente il gabinetto onde fuggiva, la contessina Virginia, che veniva
appunto in cerca di lui, e non tanto per desiderio di rivedere il
rinvenuto fratello, quanto per avere da esso novelle di altra persona a
lei cara.
— Mio fratello! disse la fanciulla colla melodia soave della sua voce
argentina.
Il fuggente si fermò sui due piedi e spaventò la donzella per
l'alterazione profonda delle sembianze con cui le si accostò.
— Fratello! Fratello! esclamò egli con un sogghigno indescrivibile sulle
labbra agitate da un tremore convulso. Io non sono vostro fratello, no,
non lo sono.
Incontrò collo sguardo de' suoi occhi turbati quello limpido e
dolcissimo delle serene papille di lei.
— Ah! quegli occhi! soggiunse. Sono gli occhi di vostra madre.... La
mia, servendo la vostra, glie li ha rubati per darli a me, che portava
nel suo seno.
S'interruppe mandando un grido rauco da selvaggio.
— Nella nostra famiglia si ruba! gridò quindi con disperata energia,
percotendosi coi due pugni chiusi la fronte.
Virginia impietosita, commossa, gli si appressò vieppiù e gli pose sopra
un braccio la sua destra dilicata e gentile.
— Calmatevi, Maurilio; gli disse mitemente.
Il giovane non lasciò che altrimenti continuasse. Vide innanzi a sè
quella tanta bellezza illuminata da un divino raggio di pietà; sentì sul
suo braccio il tocco di quella mano come una ineffabil carezza. Il suo
delirio dimenticò tutto il resto per non esser più che un delirio
d'amore.
— Non sono tuo fratello: diss'egli: dunque posso amarti, angelo del mio
cuore... Ho sangue di plebe. Che importa? Mi sento tanta grandezza de
esser primo fra gli uomini. Son figlio d'assassino. Che monta? L'energia
delittuosa dell'eredità paterna sarà in me l'energia delle grandi
cose... T'amo da tanto tempo con amor furibondo.
L'afferrò colle sue grosse mani: ella si dibattè spaventata mandando un
grido. In quel punto dall'una delle porte di quella sala entrava il
domestico chiamato dalla scampanellata del marchese, e questi si
presentava sulla soglia del suo studio, chiamato dal grido di Virginia.
Maurilio, alla vista dei sopraggiunti, abbandonò la ragazza, gettò un
urlo e riprese la sua fuga disperata.
— Tenete dietro al signor Maurilio; comandò il marchese, presso cui
Virginia era venuta a rifugiarsi tutto sgomenta: vegliate su di lui e
frattanto qualcuno corra subito per un medico.
Maurilio era corso nella sua camera e ne aveva chiuso a chiave l'uscio,
entrandovi, prima che il domestico giungesse a quella soglia. Al battere
nella porta, alle parole del servitore egli non rispose nemmeno; tanto
che il domestico, stancatosi dopo replicati tentativi, venne dal padrone
a dirgli quel ch'era avvenuto e riceverne nuovi ordini.
— Andate pel medico, frattanto; e quando e' sia giunto, penseremo al da
farsi.
Il giovane, disperato, s'era buttato traverso il letto colla faccia
affondata nelle coltri ed aveva prorotto in penosissimi singhiozzi.
— Figlio d'un assassino, ripeteva, figlio d'un assassino. E mia madre
una serva!.. E l'amo tanto Virginia!... E nel mio capo c'è
l'intelligenza d'un uomo superiore!... Sono nato dal fango sociale:
nelle mie vene corre il germe fatale del delitto: lo sento alla ferocia
d'un istinto che mi si fa gigante nel petto.... È un retaggio fatale....
Si trasmette come la tisi, il rachitismo e la pazzia.... La pazzia, la
sento che viene.... Oh sia la benvenuta!... Mia madre fu assassinata da
mio padre.... Mio padre assassino.... Ed io che cosa sarò?...
Una vertiginosa fantasmagoria di strane immagini orribili, spaventose,
in mezzo ad una nebbia color di sangue, gl'invase il cervello. Vide in
un tramestio orrendo assassini e vittime, suppliziati e carnefici, antri
di prigione e ferri di catene, e dominante su tutto la schifosa ombra
dello stromento del supremo supplizio. Si levò irte le chiome, smarriti
gli occhi, sconvolte le sembianze, contratti i muscoli, tutti in un
tremito i nervi. Gli spettri della pazzia e dell'infamia gli danzavano
innanzi. Tutti gli oggetti vedeva di color rosso affuocato; sentiva con
dolore inesprimibile battergli forte i polsi nella testa. Si recò
barcollando come un ebbro, le mani tese innanzi al par d'un cieco, al
lavamano, e immerse a più riprese la faccia e la testa nel catino pieno
d'acqua fredda; ciò non gli bastava: prese una tovaglia, la inzuppò
nell'acqua e se ne cinse la fronte che gli ardeva. Tutto ciò fece con
atti macchinali, senza aver coscienza di sè. Ne provò alcun giovamento.
L'orribile ridda che gli movevano nel cervello le immagini provocate dal
delirio si calmò; le visioni spaventose si dileguarono in quella nebbia
dello spirito che da rossa color sangue si sfumava in un color rosato
con dei guizzi più vivi che parevano baleni. Guardò intorno a sè, come
attonito, smemorato, e si riconobbe. Trovò nella sua mente, dritto, per
così dire, in mezzo al rovinio di quelle visioni della febbre, un
pensiero:
— Non ho detto al marchese chi e dov'era il suo vero nipote; e convien
bene ch'e' lo sappia.
Si strappò dalla fronte la servietta fumante onde s'era cinto le tempia
e si slanciò verso la porta. Ma ecco tosto la mano adunca della pazzia
acciuffarlo di nuovo. La febbre cerebrale, che sempre incombeva,
minaccia immanente sugli organi sovreccitati della sua intelligenza, gli
piombò addosso come falco sulla preda. Stralunò gli occhi, rise
orribilmente, battè l'aria colle braccia come fa delle ali uccello
ferito che non può più levarsi a volo, mandò un grido soffocato, un
gemito, un rantolo; e cadde lungo e disteso sul pavimento.
Al sopraggiungere del medico fu aperta di forza la porta, il giovane fu
raccolto di terra e posto a letto, e il male fu sollecitamente ed
energicamente combattuto coi salassi, colle mignatte, colle ventose.
— Temo che nulla non possa più salvarlo: disse al terzo giorno il medico
al marchese che mostrava molto interesse per quell'infelice.
Egli non era ancora tornato neppure un momento in cognizione di sè, e ad
ogni parosismo di quella febbre cui nulla ancora aveva potuto vincere,
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