La plebe, parte IV - 30

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fatti di lui dal momento che, dopo lungo intervallo, l'aveva rivisto
quella sera nella taverna di Pelone, e conchiuse che questo tale stava
per isposare la ragazza d'un'onoratissima famiglia, sorella d'un amico
suo.
Nel signor Defasi non ci fu la menoma esitazione ad esprimere colle
parole che dettava il buon senso que' consigli che gl'ispirava la
rettitudine dell'animo. Erano quali Maurilio aveva pensati e quali era
ormai risoluto di porre in atto senza fallo. Uscì di là colla
determinazione di svelare al marchese la circostanza delle lettere di
Gian-Luigi, di correre da Francesco Benda a fargli conoscere qual fosse
l'uomo che stava per isposare sua sorella.
Siccome quest'ultima bisogna premeva di più, fu la prima che imprese, e
con sollecito passo s'avviò verso lo stabilimento del fabbricante di
ferro.
Quei locali, che solevano essere così rumorosi sempre per la quotidiana
attività del lavoro, erano ora silenziosi come un cimitero. Le traccie
dell'incendio nel fabbricato in fondo al cortile davano a quella
solitudine l'aspetto della desolazione. Maurilio venne sino al portone
di cui lo sportello aperto lasciava scorgere la vista dell'interno e non
ebbe il coraggio di entrare. La timidità della sua natura l'aveva tutto
ripreso ed era il più impacciato del mondo. Come si sarebb'egli
presentato in quella casa? domandavasi: quali parole usate? con che
faccia abbordato il difficile argomento? Fece due o tre giri innanzi
alla porta: ma conveniva pur decidersi alla fine: dopo le parole del
signor Defasi, meglio ancora di prima e' vedeva in quell'atto un dovere
cui gli bisognava compiere assolutamente. Si fece forza ed entrò. La
voce burbera di Bastiano, che aveva ancora la testa fasciata ed in corpo
un umore terribile, lo venne arrestare ai primi passi colla domanda
fatta in tono feroce:
— Che la vuole? di chi cerca?
Maurilio diede in una scossa quasi di paura.
— Cerco, rispose con esitazione e quasi balbettando..., vorrei.... se ci
fosse il dottor Quercia....
Bastiano diede un'occhiata sospettosa a quel personaggio così impacciato
nelle parole. Se avesse avuto panni da povero, l'avrebbe creduto un
cercator d'elemosina e l'avrebbe rinviato senza tanti discorsi. Vistolo
riccamente vestito, il portinaio si contentò di bruscamente rispondere:
— Il dottore in questo momento non c'è.
Maurilio rimase lì stecchito, senza muoversi, senza saper più che dire,
senza consiglio.
— Ha capito? gli disse dopo un poco Bastiano alzando la sua grossa voce,
come se avesse da parlare ad un sordo: il dottore non c'è, nè so quando
sia per venire, nè qui è luogo da stare ad aspettarlo.
— Allora vorrei parlare con Francesco: disse finalmente Maurilio che
sentiva l'obbligo di non uscir più senza tutto aver tentato per compire
il suo ufficio.
— Francesco! esclamò più ruvidamente ancora il portinaio offeso di tanta
famigliarità pel suo padroncino in uno sconosciuto. Il sor avvocatino la
vuol dire?
— Sì... appunto... l'avvocato Benda.
— E' gli è a letto... La lo dovrebbe sapere, chè se n'è parlato
abbastanza per tutta Torino da empirne le orecchie di tutti... E non
riceve nessuno.
— Lo so che gli è a letto, ma ho pure inteso che sta meglio di molto, ed
è gran mestieri ch'io gli parli per cose che importano gravemente. Sono
molto suo amico io e sono certo che appena udito il mio nome mi vorrebbe
ricevere.
— Sì? domandò il bravo Bastiano di subito un po' rabbonito, ma guardando
con cera attenta e scrutativa quel cotale, per vedere se gli era un
impostore. Se la è così me lo dica a me il suo nome, ed io lo faccio
passare al sor avvocatino che deciderà quello che vuol fare.
— Sarà meglio anzi ch'io scriva due righe per chiedergliene udienza:
disse Maurilio, ed avuto dal portinaio l'occorrente vergò poche parole
che furono tosto fatte ricapitare nelle mani di Francesco.
Questi nel leggere il biglietto di Maurilio provò un senso che per poco
non era di ripugnanza e disgusto. Per quel trovatello, se Francesco
aveva partecipato ai generosi sentimenti di compassione che avevano
verso di lui i comuni amici, non aveva però mai sentita nissuna vivacità
di simpatia nè vera tenerezza d'affetto: ultimamente, quando, arrestato,
fu introdotto in presenza del Commissario, Benda, se vi ricorda, aveva
udito da quest'ultimo, come quel giovane fosse stato accusato d'un
orribile delitto e sostenuto molto tempo in carcere. Egli non aveva
punto creduto che di quel delitto Maurilio fosse veramente colpevole,
l'umana giustizia stessa aveva dovuto riconoscerlo innocente, se lo
aveva rilasciato libero; ma pure l'apprendere allora una simile
circostanza sempre ignorata, non era concorsa a sminuire quel certo
allontanamento fra il suo e l'animo del trovatello, allontanamento, il
quale, senza ch'essi lo volessero, e fors'anco se ne accorgessero, da
qualche tempo si faceva maggiore per effetto del loro istinto di rivali
in amore. Tuttavia ricevendo ora la preghiera di un colloquio per cose
importanti, e temendo potessero queste cose avere attinenza colla loro
fallita congiura politica e colla sorte dei comuni amici, non credette
poter fare altrimenti che ordinare lo s'introducesse.
Maurilio entrò più timido ed impacciato che mai. Appena dentro a quella
stanza, in presenza di quel giovane pallido e nel suo pallore più
leggiadro, lo assalse il pensiero ch'egli amava Virginia e n'era
riamato, e questo pensiero accrebbe il suo turbamento; gettò uno sguardo
sul giacente, e negli occhi di lui vide una diffidenza ed un sospetto
che lo offesero senza dargliene coraggio. Annaspò le parole per
ispiegare la ragione della sua venuta e cominciare il suo discorso e non
seppe trovar cosa che valesse.
Il suo contegno era dunque tale da ispirar poca fiducia anche in chi non
fosse mal prevenuto a suo riguardo. Il sor Giacomo, che si trovava
presso suo figlio, credendo alla sua presenza doversi attribuire la
difficoltà di parlare in Maurilio, volle partirsi; ma il giovane lo
pregò anzi rimanesse perchè le cose che aveva da dire era opportunissimo
le udisse egli pure. Allora chiamò in aiuto tutto il suo coraggio e
saltò a pie' pari in mezzo dell'argomento. Narrò dell'infanzia sua e di
Gian-Luigi: chi fossero ambedue, d'onde venissero, come allevati; disse
dei veri rapporti del suo compagno col medico che l'aveva fatto
allevare, dell'ingratitudine di lui verso la donna che lo aveva nutrito,
della misteriosa sorgente di quei denari che ora il sedicente dottore
spendeva e spandeva, delle attinenze ch'egli stesso, Maurilio, aveva
scoperto avere Gian-Luigi colla feccia della plebe, quando era entrato
per caso nella taverna di Pelone, ripetè le proposte che l'antico suo
camerata era venuto a fargliene, svelò a Francesco che quello era il
misterioso personaggio il quale, come aveva rivelato Mario Tiburzio,
nella progettata insurrezione doveva recare il soccorso della sommossa
plebea, il quale poteva perciò dirsi il promotore ed il risponsabile di
quella medesima riotta di cui essi, i Benda, erano rimasti vittime.
Padre e figlio si guardavano meravigliati, incerti, più increduli che
altro; nè sapevano ancora qual risposta dare, qual risoluzione prendere,
quando nella camera vicina venne udito il passo affrettato e deciso d'un
uomo, poi la porta s'aprì vivamente e comparve sulla soglia Luigi
Quercia medesimo, con una fiamma terribile di sdegno e di minaccia
nell'occhio nero, con un fremito di furore che ben dominava egli
tuttavia, ma che stava per prorompere.


CAPITOLO XX.

Gian-Luigi aveva, si può dire, ammaliato tutta la famiglia Benda; mercè
i falsi documenti aveva provato al padre di Maria tutto quello che aveva
voluto, mercè l'appassionato amore che aveva desto nell'animo della
fanciulla era riuscito ad aver questa efficace aiutrice al suo disegno:
sposarla e partire, aveva i congiunti indotti a consentirvi. Quella
mattina in cui Maurilio s'era risoluto a quel dilicato e difficil passo,
Quercia recavasi ad ora più presta del solito dalla sua sposa, quando
nel passare innanzi alla loggia del portiere venne da questo avvertito
che un cotale con sembianza di questo e quel modo, chiesto prima di lui,
aveva poscia ottenuto d'essere accolto dall'avvocatino, a cui affermava
aver cose importantissime da dire, mercè un biglietto scrittogli nello
stesso camerino del portinaio.
Quercia, che sospettoso era e sempre in sulle guardie già per natura, e
che tanto più era divenuto cauteloso e diffidente in quegli ultimi
giorni in cui stava giocando col suo destino l'ultima posta, temette di
subito in quel visitatore un nemico, un accusatore, un rivelatore di
verità che troppo a lui interessava rimanessero ignote. Dalle risposte
che Bastiano diede alle sue numerose, pressanti, rapide interrogazioni,
venne egli a concepire il sospetto che quello fosse Maurilio, e
l'intromettersi di costui egli non dubitava il meno del mondo non
volesse essere in suo favore. Salì affrettatamente, entrò improvviso
nella camera di Francesco dove aveva inteso essere quel cotale. Veduto
Maurilio e l'espressione della faccia di lui, veduto con un sol colpo
d'occhio il contegno dei Benda, badato al silenzio pieno d'impaccio che
successe alla sua venuta, Quercia capì che tutti i suoi sospetti avevano
ragione, che in Maurilio eragli ora sortogli innanzi un ostacolo cui
bisognava levare e tosto, a prezzo anche di schiacciarlo. Il furore che
aveva cominciato a sobbollire nella sua fiera anima impetuosa al primo
dubbio di quel pericolo, si levò potente ed efferato, ma la sua volontà
più forte d'ogni cosa riesciva a dominarlo tuttavia e, per dir così,
regolarlo. Incrociò le braccia al petto e camminò lentamente verso
Maurilio guardandolo fiso con occhio feroce, di cui la significazione
ben era chiara al giovane commosso.
— Sconsigliato, diceva, osi tu venirti a porre inciampo sul mio cammino?
Sai pure che vo' giungere alla meta che mi assegno, e chi mi si oppone
infrango.
Maurilio chinò innanzi a quelli di Gian-Luigi i suoi occhi, e dal
rispettivo contegno di que' due parve nel primo fosse il colpevole, nel
secondo l'autorevole accusatore.
— Che cosa è che succede qui? domandò poscia Gian-Luigi levando lo
sguardo dal suo compagno d'infanzia e facendolo scorrere sicuro,
investigatore, un po' stupito e quasi offeso sopra i Benda padre e
figlio. Se bado al vostro contegno, o signori, se argomento dalla
presenza e dall'imbarazzo di costui devo credere che son giunto a tempo
per udir cose che mi riguardano.
Il tono con cui egli pronunziò la parola costui accennando con un moto
disdegnoso del capo a Maurilio era così pieno di superbo disprezzo, che
Maurilio si sentì come una sferzata traverso la faccia; arrossì egli,
impallidì, levò lo sguardo col proposito di cimentarlo contro lo sguardo
di Gian-Luigi, ma non potè reggere allo scontro e riabbassò le pupille
sentendosi nell'anima un'angoscia, nel petto un affanno che era pena,
che era sgomento e che gli faceva temere fosse per assalirlo uno
svenimento.
Quercia continuava con più fierezza:
— E poichè gli è questo cotale che vien qui a parlare di me, ben posso
già indovinare fin da prima di che fatta discorsi egli ha osato tenere
ed a che scopo egli mira. Or bene, parla in mia presenza, miserabile, se
l'ardisci, e ripeti, continua e compi le calunnie che ti sei determinato
a vomitare a mio carico.
Maurilio sussultò sotto il fiero oltraggio. La soverchia offesa per
effetto di reazione gli diede un po' di coraggio: levò risoluto la
testa, un lieve rossore salì alle sue guancie macilente che s'erano
fatte color della cenere, ardì volgere e tener fisso lo sguardo sul
volto leggiadro ed ora spaventosamente feroce di Gian-Luigi, sulla cui
fronte era incavata quella ruga caratteristica, fatale contrassegno del
suo furore. Il _medichino_, egli, guardava il suo avversario con quel
modo con cui il domatore di belve guarda la tigre che accenna
rivoltarglisi, con quel modo con cui aveva fissato _Stracciaferro_,
prima di domarlo colla forza delle membra, quando l'assassino aveva
voluto resistergli. E forse Maurilio ora dallo sdegno del vivo affronto
ricevuto avrebbe attinto abbastanza coraggio per reggere a quell'urto,
se in quel momento, per sua sventura, una nuova impressione non gli
fosse stata prodotta dalla vista delle sembianze di Gian-Luigi. Benchè
animata allora da quel profondo sentimento d'odio e di furore, la beltà
scultoria delle fattezze di lui non ne veniva punto alterata, e quella
beltà nella memoria di Maurilio trovava riscontro in altri stupendi
lineamenti di viso umano visti, contemplati, vagheggiati con attenzione,
con espansività d'affetto da poco tempo, la sera precedente soltanto: i
lineamenti dipinti nel ritratto della contessa Aurora di Castelletto,
ch'egli aveva ammirato, innanzi a cui era rimasto con profonda emozione
stampandosene i tratti nell'anima perchè credeva stamparvisi i tratti
del volto della propria madre. Era innegabile, evidente a chiunque vi
ponesse attenzione, la rassomiglianza fra le sembianze di Gian-Luigi e
quelle del ritratto. Egli rassomigliava assai più alla defunta contessa
di quello che le rassomigliasse Virginia; e nella rassomiglianza alla
madre era un punto di contatto fra le sembianze della contessina e
quelle del sedicente dottore, punto di contatto che sfuggiva a chi non
paragonasse i loro volti a quel terzo termine di confronto. Maurilio non
dubitò menomamente più che gli stesse dinanzi il vero figliuolo della
sorella del marchese di Baldissero e di Maurilio Valpetrosa, e ciò lo
rese turbatissimo, più che non fosse ancora stato fino allora in quella
scena difficile e penosa.
Con qual fronte resistere egli a colui, venirsi a fare accusatore e
procurare l'infamia e il danno di colui al quale egli, innocentemente è
vero, era venuto a togliere il grado, il nome, la fortuna? In presenza
di questo strano avvenimento qual era ancora il suo dovere? Le idee gli
si abbuiavano a questo riguardo, e la commozione, la meraviglia, il
dispiacere non gli consentivano prontezza nessuna d'avviso. E lo turbava
quel rapporto di lontana somiglianza che gli appariva fra i tratti di
Gian-Luigi e quelli di Virginia; in mezzo a quei tanti sentimenti che
gli tumultuavano nell'anima, egli si sorprendeva a raccogliere tutta la
sua attenzione nell'investigare in che consistesse la parità e la
differenza fra quei due volti a così diverso titolo cotanto impressi
nella sua mente, a cercare sotto i tratti di lui quelli adorati della
fanciulla.
Ogni parola venne meno alle labbra tremanti di Maurilio, ogni voce mancò
alla sua gola serrata.
Giacomo Benda credette allora ufficio suo ricapitolare in breve quanto
il giovane era venuto sino allora esponendo. Quercia, che dominava
sempre più il suo furore, benchè questo punto non scemasse, ascoltava
con un sogghigno di fiero disprezzo, qual può avere innanzi alla più
vile calunnia l'innocenza superba e superiore ad ogni arrivo
d'oltraggio.
— Mirabile ed accorto tessuto d'infamie! esclamò egli poi con vece
fremente, che, quantunque contenuta, vibrava come il suono chiaro e
squillante d'una tromba. La calunnia vi è tanto meglio architettata che
si prende a base una parte della verità. Che io sia stato allevato al
villaggio e con costui, ve lo dissi io stesso; che la donna la quale mi
fu nutrice viva colà modestamente della vita che sempre fece e le
piacque fare, è pur vero, perchè le sorti in cui ella è nata e in cui
visse pur sempre non le piacque mutar mai per quante istanze glie ne
facessi; ma costui medesimo, che ora mi accusa, videmi, non son passati
che pochi giorni, recarmi io stesso colà a riabbracciar quella donna, a
recarle un migliaio di lire, a fare per lei tutti quegli atti che verso
una madre ad un figlio amoroso s'addicono: e sfido l'impudenza di questo
sciagurato a darmi una smentita.
Fece una pausa; Maurilio avrebbe voluto parlare, ma la lingua gli
aderiva al palato, le labbra gli parevano irrigidite, non un soffio di
voce glie ne venne alla gola.
Gian-Luigi riprendeva:
— Sì, io ho partecipato ai folli sogni della redenzione della patria di
quell'animo intemerato che è Mario Tiburzio; come voi pure, Francesco,
vi avete partecipato; sì, io offrii a quella santa causa il concorso
della plebe, perchè mi feci l'illusione che per mezzo di parecchi fra
essa che mi sono devoti per affetto di gratitudine, avrei potuto
guidarla a mio talento, ma coll'empie passioni demagogiche del
proletario io non ebbi nulla mai che fare; fui visto, è vero, da
codestui in una miserabile stamberga di bettola, vestito da popolano, e
fu ventura che arrivassi a tempo a salvare chi ora si fa mio
calunniatore, dall'ira di operai ch'egli aveva, non so come, provocata;
ma s'io m'immischio colla povera gente e talvolta vestito de' loro abiti
per non dar loro nè soggezione, nè antipatia, nè sospetto, penetro nei
luoghi dei loro ritrovi, come nelle miserabili loro abitazioni, si è
perchè ricco e disoccupato com'io sono, volli a me stesso imporre un
còmpito: quello di soccorrere i miei fratelli nella miseria, in quella
miseria che sarebbe pure stata mio destino se l'intravvento di quel mio
protettore, se il rimorso de' miei nemici non avesse poscia in parte
riparato al male che fu fatto al povero fanciullo. Io vado recando agli
infelici che soffrono di fame, di malattia, di disperazione, non poco
dell'oro della mia borsa, il contributo della mia scienza, il conforto
d'un'amica parola. Ecco il modo onde acquistai attinenza e sperai aver
acquistato influsso in quel mondo tenebroso ed agitato che sobbolle come
una minaccia sotto i piedi delle classi agiate — di noi. Quando a costui
favellai de' miei intendimenti a tal proposito, non dissi altro che
questo. Ancora una parola e finisco, sdegnoso e vergognato d'avermi
avuto a difendere da tali accuse e da tale accusatore. Questi fu sempre
mio nemico, perchè l'invidia lo rose pur sempre dei successi dovuti in
parte ad una fortuna — lo confesso — che forse è compenso datomi dalla
Provvidenza, ma in parte eziandio alla mia attività ed intelligenza.
Quelle passioni di cui egli accagiona me, fremono nel suo animo
inasprito, feroce insieme e codardo. Ora mi ha visto presso a metter la
mano sulla più cara felicità che uom possa desiderare. Ha voluto venir
cacciare frammezzo l'arte sua di malevolo. Ma di quanto io dissi sul
conto mio, di quanto vi affermai di essere, io diedi prove di documenti;
or dica egli se pur di una delle sue accuse può dare una sembianza di
prova.
Tacque come aspettando risposta: Maurilio, diventato sempre più pallido,
non parlò.
— Credereste voi dunque più che alla mia parola, più che alle mie prove,
alle semplici ciancie d'un tale individuo?
In quella l'uscio si aprì, ed entrò sollecita Maria che aveva notata la
venuta dello sposo ed accostandosi alla camera di suo fratello aveva
udito il suono alto e l'accento accalorato della voce di lui.
— Luigi, esclamò ella, che c'è?
Quercia le andò incontro e la prese per mano.
— Maria, disse con quella famigliarità cui già legittimava l'intimità
dei rapporti in cui erano: ecco un uomo che viene ad accusarmi di
sleale, di mentitore, di baro, e di nemico della vostra famiglia;
guardateci ambedue, e dite chi si ha da credere fra lui e me che mi
affermo innocente.
Nissuno sarebbe stato perplesso nella risposta, così era sicuro,
animato, trionfante l'aspetto di Gian-Luigi, tanto era smarrito,
confuso, disfatto quello di Maurilio; ed una donna può ella mai esitare
nel riconoscere l'innocenza dell'uomo che ama?
Maria si gettò al collo di Quercia.
— O mio Luigi, esclamò con passione, tu sei l'angelo mio.
Maurilio, nella dolorosa confusione in cui era la sua mente, capì pure
che tutto era detto, che la sua causa era perduta, che gli rimaneva
solamente di partirsene scornato, colla vergognosa nota d'un
calunniatore impotente. Come fece egli per torsi di là? Non avrebbe
saputo dirlo. Il vero è che si trovò fuor della casa, sul viale,
intronato, quasi barcollante, sentendosi ancora alle orecchie come suono
di sferzate, il suono delle parole di Gian-Luigi.
Quella sera medesima avevano luogo, come se nulla fosse intravvenuto,
gli sponsali di Luigi Quercia e di Maria Benda.
Era stato desiderio espresso di Quercia che nessuna festosa solennità,
nessun fasto accompagnasse la firma del contratto degli sponsali:
desiderio a cui s'affrettarono di aderire i parenti della sposa e la
sposa medesima, siccome quello che stava pure nell'animo loro, e veniva
consigliato dalle circostanze medesime in cui si trovavano, le
conseguenze cioè del tumulto degli operai e l'infermità di Francesco.
Nella camera di quest'ultimo la sera avevano luogo gli sponsali e, fuori
de' più prossimi congiunti di cui non poteva evitarsi la presenza, una
mezza dozzina di persone, non vi assisteva alcun invitato.
Lo sposo, Luigi Quercia, qualificatosi per dottore in medicina e in
chirurgia, aveva recato seco e presentato all'atto delle promesse la
somma di cento mila lire in biglietti di banco francesi che dichiarava
voler costituire in aumento dotale alla sua dilettissima sposa e
lasciava al suo futuro suocero perchè, celebrato il matrimonio,
investisse in altrettante cedole del debito pubblico piemontese (allora
in grandissimo pregio) nominativamente intestate alla sposa medesima:
questa, Maria Benda, portava in dote al marito ottanta mila lire in oro
ch'egli ritirava all'atto medesimo. Le due somme, i biglietti di banco a
fasci di dieci da lire 50 ciascuno, e i napoleoni d'oro a torricelle di
venticinque ognuna, stavano sopra la tavola a cui sedeva il notaio che
rogava il contratto, fra due massicci candelabri d'argento.
Vario era il contegno dei diversi personaggi che partecipavano a quella
scena; Maria, essa, posseduta da un'intima letizia che non si
scompagnava dall'agitazione, passava da un caro pallor delle guancie ad
un rossore più caro ancora, i suoi occhi si tenevano più volentieri
chinati a terra, ma talvolta però si levavano verso il suo sposo e
lampeggiavano d'una viva luce soave; egli, lo sposo, aveva l'orgoglio
temperato e l'allegria di buon gusto d'un trionfatore modesto; in ogni
sua mossa, come in ogni parola appariva l'uomo di squisito sentire, di
carattere delicato e di perfetta educazione; solamente chi avesse
conosciuto a fondo la variabilità d'espressioni di quella fisionomia
così soggetta alla volontà, avrebbe potuto notare una lieve mostra come
d'inquietudine, nella vivacità di certi sguardi, quasi un'impazienza che
quelle formalità durassero cotanto, un desiderio che tutto fosse finito
al più presto. La madre di Maria, come tutte le madri in simili
circostanze, era dominata da una commozione cui mal poteva frenare, e
spesso le si riempivano di lagrime gli occhi che teneva rivolti con
immenso affetto sulla figliuola. Il sor Giacomo aveva nell'animo qualche
cosa ancor egli che non lo lasciava del tutto contento. Aveva
liberamente e lietamente acconsentito a quel maritaggio con tanta
ardenza desiderato dalla figliuola, che doveva procurarne la felicità, e
cui credeva sotto ogni rispetto convenevole; sedotto ancor egli dalle
brillanti qualità dello sposo, persuaso per prova di fatto della
generosità dell'animo di lui, gratissimo verso di esso per quanto aveva
fatto in pro della famiglia, aveva pur sentito nascergli in cuore per
quel giovane una simpatia che già era quasi un affetto, e tuttavia a
questo momento, fosse inesplicabile istinto, fosse inavvertito effetto
delle accuse udite da Maurilio, non credute ma che, ciò nulla meno, come
quasi sempre d'ogni accusa suole accadere, avessero lasciata traccia, il
vero era che egli sentiva una specie d'agitazione, una mala voglia che
non si sapeva spiegare. Francesco, debole ancora, propenso per indole e
per la propria condizione a desiderare ed allietarsi nel veder
soddisfatto un reciproco amore, non provava che una affettuosa tenerezza
per la gioia della sorella.
Il notaio leggeva lentamente, con quel tono di voce e quell'accento
speciale di questi pubblici ufficiali che tutti conoscono, le clausole
del contratto. Gli sposi il domattina dovevano celebrare il matrimonio
alla parrocchia e partire immediatamente alla volta della Francia.
La lettura era finita: si procedette alle firme. Vi appose prima la sua,
non senza un legger tremito, Maria; poscia lo sposo. Nel passare la
penna alla suocera, Quercia drizzò l'orecchio e, senza che alcun altro
nulla udisse ed a questo suo atto badasse, stette intentissimo ad
ascoltare. Il finissimo suo senso dell'udito era stato percosso da un
lontano susurrio, da un penetrar di gente sotto il portone, da uno
scambio di parole. Egli, a buona ragione sospettoso di tutto, si
ritrasse indietro con moto naturalissimo e s'accostò lentamente alla
finestra. Maria, che non aveva occhi, che non aveva anima, che non aveva
vita che per lui, gli venne presso; egli, vivamente preoccupato com'era,
tutte le sue facoltà concentrate, per dir così, nell'intentività
dell'udito, ebbe pure l'arte e la forza di sorriderle e di prenderla per
mano.
— Cara, le disse traendola verso la finestra come volendo isolarsi con
lei dal resto delle persone presenti: cara, tu sei mia finalmente, e il
primo sacro vincolo ci ha avvinti di quella dolce catena che deve
tenerci uniti per tutta la vita.
Ella non sapeva che dire, non poteva parlare, tremava in tutte le fibre
d'un tremito soave; lo guardava e sorrideva.
Gian-Luigi aprì le imposte di legno della finestra e guardò fuori
traverso le invetrate. Quella finestra s'apriva dalla parte del cortile
in una delle due ale che si stendevano verso la fabbrica incendiata. Il
tempo s'era rimesso al bello e batteva la luna. Sulla neve del cortile
Quercia vide stendersi l'ombra di parecchi uomini.
— Che siano dessi? pensò; mi sembrano in pochi, tre o quattro tutt'al
più: ne avrei facilmente ragione.
Misurò l'altezza del ripiano a cui si trovava.
— In caso di bisogno, soggiunse, sono capace di far salti anche maggiori
di questo.
Tastò nelle saccoccie dove teneva due pistole corte e ne accarezzò il
calcio colla destra che si era sguantata per firmare, e frattanto
sorrideva sempre alla fanciulla innamorata.
Ma le sue orecchie non l'avevano ingannato; un rumore di passi e di voci
venne diffatti accostandosi vieppiù fino a che giunse nella camera che
precedeva, dove parve risolversi in un contrasto. L'ultima delle persone
presenti aveva appunto allora finito di sottoscrivere; chè tutti,
secondo l'uso, avevano voluto apporre a quell'atto la loro firma;
Giacomo Benda, stupito come gli altri di questo incidente, si tolse di
mezzo alle congratulazioni ed ai complimenti dei congiunti, ed andò
verso la porta dicendo:
— Vo a vedere che cos'è questo rumore.
Gian-Luigi parlava sempre con Maria nella strombatura della finestra, e
frattanto aveva pian piano alzato il palettino di sotto e fatto girare
il gancio di sopra che tenevano chiuse le invetrate; Maria non
s'accorgeva di nulla di quanto avveniva intorno a lei, non vedeva nulla
fuori delle pupille nere del suo sposo che seguitavano ad affisarla con
una fiamma che le sembrava di vivo amore.
Mentre il sor Giacomo stava per metter mano alla gruccia della serratura
dell'uscio, questo si aprì spinto dal di fuori, ed apparve Bastiano
tutto conturbato.
— Che cos'è? gli chiese quasi severamente il padrone.
Il gigantesco portinaio chinò la sua alta persona verso l'orecchio di
sor Giacomo e gli disse con un certo piglio d'ansietà, di disgusto e di
timore:
— V'è un cotale che vuole ad ogni costo entrare.....
— Gli è matto: interruppe parlando forte il signor Benda. Entrare! Qui,
a quest'ora? Perchè? E che pretende?
Tutti gl'invitati, la cui curiosità era solleticata ed in cui era nata
un'inesplicabile aspettazione, si avvicinarono al padron di casa e
fecero gruppo dietro di lui.
Bastiano, parlando sempre più sommesso rispose:
— Non è un matto; gli è un agente di polizia, con una mano d'arcieri.
Queste parole furono pronunciate pianissimo, ma pure, tanto era il
silenzio che s'era fatto, che furono udite da un capo all'altro della
stanza; da tutti, fuorchè da Maria. Il sor Giacomo aggrottò le
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