La plebe, parte IV - 28

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Al settimo giorno dopo la sua partenza da Torino, Maurilio ricevette una
lettera dal marchese di Baldissero, nella quale gli si diceva: essere
tempo ch'egli ritornasse, S. M. con immensa degnazione, di cui Maurilio
avrebbe dovuto esserle riconoscente tutta la vita, non averlo
dimenticato, ma aver fatto benignamente sapere a lui, marchese, che suo
nipote sarebbe impiegato nel gabinetto particolare di S. M. medesima:
convenire ch'egli senza ritardo si recasse ai piedi dell'Augusto
personaggio ad esprimergli quella gratitudine che era più di un dovere:
per ciò si tenesse preparato a partir di colà il giorno vegnente, che la
carrozza sarebbe venuta a prenderlo al villaggio.
Maurilio lesse e rilesse quella lettera, domandandosi che cosa doveva
fare. L'idea glie ne venne un momento di rispondere al marchese,
rinunziar egli alle nuove grandezze che gli offriva la sorte, voler
fermare la sua dimora al villaggio e viverci ignorato; ma non tardò a
riconoscere che questo sarebbe stato «per viltate un gran rifiuto,» che
se il destino gli porgeva in quella guisa alcuna possibilità di fare un
po' di bene, era suo dovere non fallire all'opera, che il dar corpo ed
importanza a quei vaghi, aerei dubbi, senza fondamento di sorta, era
peggio che una follia. Annunziò adunque a Don Venanzio il suo ritorno in
città pel giorno dopo; e diffatti verso il cader della notte dell'ottavo
dì dacchè erasi di là partito, egli, nella carrozza collo stemma della
famiglia di Baldissero, rientrava sotto il portone del superbo palazzo,
dov'egli, quasi ragazzo ancora, coi panni e nelle condizioni di povero
figlio del popolo era entrato primamente di straforo per ammirare la
bellezza di Virginia, ond'era stato ammaliato.
Il maggiordomo era ad accoglierlo in alto dello scalone.
— Signore, gli disse con un rispetto che si vedeva chiaramente ispirato
dagli ordini espressi del padrone, S. E. il marchese la prega, quando
Ella siasi riposata, ristorata e rassettata, di voler passare nel
salone, dove troverà riunita tutta la famiglia.
Maurilio fece un muto segno di assentimento.
Il maggiordomo, camminandogli innanzi per quei locali, tutti già
rischiarati, lo condusse alla camera assegnatagli, che era un'altra da
quella che gli era stata data come a segretario, al primo piano ancor
essa come quella degli altri componenti della famiglia, più elegante per
mobili, per arazzi e per tappeto.
Il servo, che seguiva, depose sulla pietra di marmo d'una mensola i due
candelabri d'argento dalle candele accese che aveva tra mano; e il
maggiordomo inchinandosi innanzi al giovane gli disse:
— È pronta una refezione per Vossignoria. Desidera Ella esser subito
servita?
Maurilio che pareva aver perduto la parola mettendo piede sul limitare
di quel palazzo, fece un cenno che voleva dire, non aver egli bisogno nè
desiderio di nulla; il maggiordomo lo interpretò invece per un
assentimento anche questo e dopo un altro profondo inchino si ritirò
annunziando che colà stesso sarebbe tosto recata la refezione. Il
giovane non aveva in quel momento per la testa altro che un pensiero:
avrebbe visto fra poco tutta la famiglia, le sarebbe comparso dinanzi
egli a prendere ufficialmente il suo posto in mezzo a lei: quest'idea lo
turbava e lo spaventava. Sollevò gli occhi e incontrò la sua pallida
figura riflessa nello specchio che stava sopra alla mensola su cui il
lacchè aveva deposto i lumi, e diede in una scossa come se quella fosse
la vista inaspettata d'un ignoto che venisse a guastargli la solitudine
che desiderava: dietro la sua, vide pure la figura del valletto che lo
guardava con un'impertinente curiosità ammantata di rispetto, degna
affatto di un servo di nobil casa. Si rivolse vivamente.
— Che fate costì? domandò con tono abbastanza superbo da padrone che gli
valse di botto una maggior stima da parte del domestico.
— Aspetto gli ordini di Vossignoria, in caso volesse cambiarsi d'abiti.
Ma il nostro giovane, cresciuto fra gl'infimi, allevato in mezzo la
plebe, non aveva nè indole, nè abitudine da mantenersi in quello
sprezzoso contegno d'uomo che si ritien di razza superiore e che non
vede nel suo simile che un passivo stromento delle sue volontà; sentì
una soggezione e quasi una specie di vergogna de' fatti suoi in presenza
di quel cotale, più alto, più grosso, più forte di lui, dalle braccia
che avrebbero potuto fare tanto lavoro utile, il quale gli stava dinanzi
nella sua livrea gallonata per prestargli dei servizi che non gli erano
necessarii e di cui aveva sempre fatto senza. Chinò gli occhi con una
nuova umiltà che di colpo fece sparire tutto quel po' di stima che il
domestico aveva sentito per lui, e rispose impacciatamente:
— No.... non ho bisogno di nulla: ritiratevi pure.
Mentre il domestico apriva la porta per uscire, entrarono due altri
portando un deschetto apparecchiato, che posero poco distante dal
camino: uno di essi tirò presso al tavolino un seggiolone e disse al
giovane:
— Se Vossignoria vuole accomodarsi, eccola servita.
E i due nuovi valletti venuti stettero come due cariatidi, uno di qua,
l'altro di là del deschetto su cui fumava mandando un profumo appetitoso
una zuppiera d'argento.
Maurilio sempre immobile, sempre dritto a quel punto da cui vedeva
riflesso nello specchio in mezzo alle vacillanti fiammelle dei
candelabri, il suo pallido viso che spiccava nella penombra del fondo
della stanza; Maurilio guardava con occhio attonito il luccicare degli
argenti e dei cristalli sulla tavola dove ripercotevansi e rimbalzavano
i raggi di due altri candelabri d'argento, la candidezza della finissima
tovaglia, la forma spigliata della bottiglia di vino di Bordeaux, i
galloni delle livree e le braccia imbottite della soffice poltrona che
parevano tendersi verso di lui per invitarlo.
Dopo un silenzio di pochi minuti, il giovane capì che doveva dire o fare
qualche cosa. Fece un evidente sforzo per sciogliere la lingua che gli
pareva annodatasi; ed ebbe mestieri d'un atto di coraggio per
pronunziare le seguenti parole:
— Andate..... Desidero rimaner solo.
I domestici salutarono e partirono. Allora egli, quando ebbe visto
l'uscio richiudersi dietro le loro spalle, si mise a passeggiare su e
giù per la camera a capo chino, sostenendo colla mano destra il mento e
colla sinistra il gomito del braccio destro. Non pensava a nulla di
preciso, ma sentiva un gran disagio di sè, una strana malavoglia. Ora
che l'orizzonte della vita pareva esserglisi aperto dinanzi, egli non
iscorgeva che buio, peggio di prima, buio in sè ed intorno a sè. La sua
mente vagava, vagava in un indefinito chimerizzare, che non aveva
neppure una lontana somiglianza di forme, che niuna parola, che nemmeno
l'incerto, ondeggiante, generico linguaggio della musica varrebbe ad
esprimere.
Ma passando e ripassando egli innanzi alla tavola apparecchiata, gli
effluvii di quella succosa zuppa, che profumava l'aria della stanza,
finirono per solleticare e destare i suoi sensi: si fermò, si raccostò
al desco, cedette all'invito della poltrona, si lasciò cadere fra quelle
braccia così benignamente allargate. Quando ebbe mangiato un buon tondo
di minestra al consommé, una buona fetta di _pâté_ e bevuto un buon
bicchiere di Bordeaux, le cose apparvero sotto ai suoi occhi con aspetto
un po' diverso da quel di prima. Si fece coraggio, l'idea di affrontare
la presenza e gli sguardi della sua nuova famiglia gli fece battere il
cuore, ma non lo spaventò più: si guardò nello specchio con meno spregio
e ripugnanza di se stesso; camminò con passo più sicuro per la stanza,
si raggiustò la cravatta al collo e i panni addosso, e s'avviò
abbastanza risolutamente verso il salone.
Un domestico glie ne aprì l'uscio ed alzò la portiera: Maurilio vide
innanzi a sè, aggruppate presso il grande camino, quattro persone che
volsero verso di lui il loro volto su cui si dipingeva una curiosità in
tutti diversa: quelle quattro persone erano il marchese e sua moglie, la
loro nipote Virginia ed il loro figliuolo Ettore, uscito il giorno prima
soltanto dagli arresti di rigore in cittadella.
Ma prima di entrar testimonii a questa scena che sta per aver luogo, è
conveniente assistere ad un'altra che in quell'ora medesima succede nel
piccolo e remoto quartiere di Barnaba, l'agente segreto della polizia.
Già dal giorno prima il ferito s'era provato a scendere di letto; ma la
debolezza non gli aveva consentito che di far pochi passi per la stanza.
— Eppure _voglio_ esser guarito: aveva mormorato fra sè con fermezza
tenace; _voglio_ fra pochi giorni, fra tre, fra quattro al più, poter
uscire, poter io recarmi all'importante impresa. Lo _voglio_! Questo mio
corpo non me l'hanno avvezzo fin da piccino a piegarsi ad ogni maggiore
sforzo secondo le volontà altrui? Non ho io conservato sempre colla mia
volontà un predominio assoluto sopra di lui? Or dunque voglio esser
guarito, e lo sarò....
E ripeteva a mezza voce coi denti stretti, come per fermar meglio, dar
maggior forza alla sua risoluzione ed imprimersela più profonda nel
pensiero, la parola: _voglio!_
Quel giorno in cui Maurilio faceva ritorno a Torino, Barnaba due volte
volle calare dal suo giaciglio, vestirsi e provare a camminare. La
seconda di queste volte era appunto alla sera. Una piccola lucerna
illuminava di poca luce quella stanza; il viso del poliziotto, pallido
ed affilato, pareva una maschera di cera a quel fioco lume gialliccio;
Meo colla grossa faccia più melensa, e le chiome più scarmigliate del
solito dava il braccio al convalescente che mutava adagio adagio i
passi, appoggiato da una parte al non corrisposto amante di Maddalena,
dall'altra ad un bastone. _Macobaro_ seduto in un angolo col suo aspetto
d'arpia seguiva degli occhi que' due che gli passavano innanzi
lentamente andando e venendo.
— Sì, sì, disse Barnaba ad un tratto fermandosi in mezzo la stanza,
coll'aiuto di qualcheduno potrò uscire dopo dimani, e se non a piedi, in
carrozza, recarmi là dove occorre. Che ne dite Jacob?
— Dico che gli è possibilissimo: rispose il vecchio rigattiere che aveva
sul suo volto le mostre di una profonda preoccupazione: ma non conviene
che per esercitarsi al camminare la si stanchi di troppo, chè allora poi
sarebbe peggio.
— No, no: disse il ferito con una specie d'impazienza: so io bene come
devo fare..... Bisogna esercitarlo questo miserabile d'un nostro corpo
di nervi e di muscoli per ottenerne quello che si vuole.
E riprese il suo lento passeggiare. Arom sostenne il mento ai suoi due
pugni chiusi e si diede tutto alle sue meditazioni che parevano
tutt'altro che liete. Successe un silenzio di parecchi minuti, finchè
Barnaba andò a sedersi in faccia al vecchio ebreo, e guardatolo
attentamente un poco, gli disse poi con vibrato e quasi crudo accento:
— Voi pensate a vostra figlia, alla vostra Ester, non è vero? State
tranquillo che fra poco ne avrete piena vendetta.
Jacob sollevò un momento quei suoi occhi piccini, affondati
nell'occhiaia, che avevano il guizzo di quelli d'un serpente.
— Penso anche ad un'altra cosa: disse con voce sommessa; penso se mai
potrò riavere quelle cinquanta mila lire che ho dato al _medichino_.
Barnaba fece un atto di dispettoso disappunto.
— Le avrai, vecchio avaro, esclamò impaziente, se ci servirai a dovere.
In quella fu picchiato con mano risoluta all'uscio d'ingresso, e Meo
andò a dimandare chi fosse.
— Apri, son io: rispose la voce forte e burbera del commissario Tofi.
— Già levato! esclamò questi entrando nella camera in cui era Barnaba,
col suo passo sonante e il portamento da militare: molto bene! È
necessario affrettarsi ad agire.
— Perchè? È succeduto qualche cosa di nuovo? domandò Barnaba con molto
interesse.
— È succeduto che quel mariuolo sta per isposare una infelice di ragazza
di buona famiglia, e gli sponsali avranno luogo domani sera.
Il convalescente pregò il suo superiore gli narrasse tutti i particolari
ch'e' sapeva intorno a questa novella; e quando gli ebbe intesi colla
più seria e fissa attenzione di cui fosse capace, egli che aveva
penetrato le intenzioni del _medichino_, disse:
— Lei ha ragione, non conviene più indugiare. Quello sciagurato vuole
sposare, intascar la dote e fuggire... Di domani bisogna che sia
arrestato.
— Ciò non è tutto: riprese il Commissario che non aveva voluto neppure
sedersi e stava col suo largo cappellaccio in capo, le mani affondate
nelle gran tasche laterali del soprabito. Ci è ancora un'altra novità
più strepitosa ed importantissima. Ecco una lettera che ho ricevuto
testè dal giudice istruttore.
Trasse da una di quelle sue tasche un foglio che spiegò e porse così
aperto a Barnaba: questi lesse il seguente corto bigliettino:
«Il medico che cura il signor Nariccia mi fa avvertito adess'adesso che
quest'infelice vittima di quell'orribile assassinio, per un caso
provvidenziale, ch'egli non osava nemmeno sperare, ha riacquistato in
parte l'uso della favella. Siccome c'è timore che questo non sia che un
temporaneo e fuggitivo miglioramento, così è bene non perder tempo ad
approfittarne; ho perciò determinato di recarmi questa sera medesima a
tentare un interrogatorio dell'assassinato e la pregherei a volerci
intervenire Ella pure per recarmi il soccorso della sua pratica e della
sua intelligenza.
«L'aspetto dunque senz'altro al domicilio del signor Nariccia medesimo
alle ore otto di questa sera, che prima mi sarebbe impossibile di
recarmici, ed ho l'onore, ecc.»
— Sono le sette e tre quarti: disse il Commissario quando Barnaba ebbe
finito di leggere, e trasse dal taschino un grosso orologio d'argento
tenuto ad un occhiello del panciotto per una catena d'acciaio: ci ho
giusto il tempo di recarmivi.
Il convalescente restituì la lettera al signor Tofi, poi con qualche
sforzo, ma senza l'aiuto di nessuno, sorse in piedi e stette,
sorreggendosi alla spalliera della seggiola.
— Signor Commissario: disse con voce impressa di tanto desiderio, che
tremava come per emozione; mi conceda che io l'accompagni colà....
— Siete matto..... Potete appena camminare.
— Manderò Meo a prendere una carrozza.
— E le scale?...
— Non tenterò neppure di farle..... e forse ne sarei anche capace.....
ma per essere più sicuro e avanzar tempo Meo mi porterà.
Tofi non ci pensò che un minuto secondo.
— Bene: diss'egli colla sua solita ruvidezza: mi potete fors'anco essere
utile. Venite.
Si fece come Barnaba aveva detto, e un quarto d'ora non era passato che
il Commissario e Barnaba entravano nella camera dove giaceva Nariccia e
dove non tardava a raggiungerli il giudice istruttore.
L'usuraio era sempre immobile stecchito e pareva un cadavere
mummificato, in cui per miracolo fossero rimasti vivi gli occhi: questi
in quella faccia gialla di morto, al fondo di quelle occhiaie incavate e
d'un brutto lividore, nella loro irrequietezza avevano una pena, uno
spasimo, uno spavento che ti stringeva l'animo, che era una cosa
orribile a vedersi. Quegli occhi agitati che vivevano soli in quel corpo
morto parevano suppliziati che cercassero fuga, scampo, pietà dalla loro
tortura: pareva che le più tremende visioni passassero innanzi a quelle
pupille in cui ardeva la febbre; come certo innanzi alla mente passavano
tremendi i ricordi di un colpevole passato, le azioni d'una vita
scellerata. Le labbra erano livide, e l'inferiore contorto da una parte
penzolava dando a quel viso di pergamena una smorfia immobilitata come
quella d'una maschera, che faceva paura e ribrezzo a mirarsi. Fra quelle
labbra la lingua impacciata, grossa, pendente riusciva a balbettare a
stento alcune parole.
Barnaba, a cui la fatica d'esser venuto fin lì, benchè portato per le
scale da Meo e per la strada dalla carrozza, aveva tolta ogni forza, si
lasciò cader seduto sopra una seggiola al fondo del letto in cui giaceva
Nariccia, e quelle due faccie cadaveriche e quei quattro occhi
febbrilmente vividi in mezzo il gialliccio pallore da morto si
guardarono fisamente, curiosamente, con avida reciproca investigazione.
Erano due vittime del medesimo individuo che dovevano assembrare le
volontà in un intento comune: quello della vendetta.
Nariccia, sviato lo sguardo dal volto macilento di Barnaba, lo fece
scorrere con istupore interrogativo sopra le persone che in gruppo vide
accostarglisi e stargli dintorno; le sue labbra contorte si mossero
penosamente, la lingua penzolante si agitò e una voce gutturale,
stentata, che pareva quella d'un ventriloquo, pronunziò stentatamente
alcune parole, che non furono comprese.
— Che cosa avete detto? domandò il medico, il quale, dietro espressa
volontà del giudice istruttore, doveva assistere all'interrogatorio.
Abbiate la compiacenza di ripetere.
— Confessarmi, confessarmi: balbettò il paralitico colla medesima voce
stentata e sommessa, ma con terribile espressione d'angoscia
nell'accento: voglio confessarmi prima di morire.
Il medico, il giudice ed il Commissario s'erano curvati sopra il letto a
cogliere il debole suono della voce di quel meschino.
— Che cosa disse? domandò Barnaba il quale dal posto ov'egli si trovava
non aveva potuto udire.
— Domanda di confessarsi: rispose il medico.
— E' non fa altro dacchè ha riacquistato l'uso della parola: disse
l'infermiere che era stato posto a vegliare sul giacente: di queste
poche ore l'avrà già domandato un migliaio di volte.
— Sì, vi confesserete e potrete adempiere ai vostri doveri di cristiano:
ma prima è necessario che voi adempiate a quelli che avete verso la
giustizia umana, che noi qui rappresentiamo. Fate dunque coraggio,
raccoglietevi e preparatevi a rispondere alle nostre interrogazioni.
— Mi resterà ancora tempo abbastanza da confessarmi poi? domandò la voce
soffocata e penosa del moribondo.
— Sì, disse il medico; stia di buon animo che vi è di meglio ancora per
lei: la speranza della guarigione.
Gli occhi di Nariccia espressero un dubbio desolante in risposta a
queste confortevoli parole del medico.
Il giudice cominciò senz'altro l'interrogatorio. L'infermiere era stato
mandato nelle altre stanze; un segretario s'era seduto ad un tavolino
stato posto più presso al letto che fosse possibile, e teneva innanzi a
sè la carta su cui era preparato a scrivere le risposte; non altra luce
rischiarava l'oscurità di quella stanza, fuor quella della lampada
sormontata da una ventola opaca che stava sul tavolino dove s'accingeva
a scrivere il segretario; così alto silenzio regnava che si udiva il
rumore della respirazione affannosa del giacente, e che le parole da lui
pronunziate in risposta alle fattegli domande, quantunque dette a voce
più che sommessa, erano intese da tutti.
— Voi siete nel pieno possesso della vostra ragione? cominciò il
giudice, parlando piano ancor egli, e curvo sopra il letto.
— Sì.
— Da quando siete rientrato nella vostra cognizione?
— Da parecchi giorni.... non so bene.... quando mi vidi attorno tanta
gente....
— Vi ricordate (questa domanda fu fatta dietro suggerimento di Tofi) che
vi furono rivolte già altra fiata varie interrogazioni circa il delitto
di cui foste vittima?
— Mi ricordo.
— Eravate allora in voi come ora?
— Sì.
— E non potevate parlare?
— No.
— Dacchè siete rinvenuto, avete sempre avuto la cognizione, tuttochè
immobile e senza parola?
— Sì.
— Vi ricordate delle risposte che avete espresso allora con segni fatti
degli occhi alle domande mossevi?
— Sì.
— Quelle vostre risposte erano la verità?
— Sì.
— Sareste pronto a riconfermarle?
— Sì.
Le domande che sappiamo essergli state fatte in quell'occasione gli
furono nuovamente dirette una per una, ed egli colla voce diede la
medesima risposta che aveva dato cogli occhi.
— Avete conosciuto i vostri assassini?
— Sì.
— Di due avete annuito al nome che se ne disse: vorreste ripetere questi
nomi?
— Sono _Graffigna_ e _Stracciaferro_.
— E il terzo? Sapete il nome del terzo?
— Sì.
La respirazione del giacente si fece più affannosa e gli occhi si
turbarono.
Il medico diede il consiglio di lasciarlo un poco riposare.
Dopo cinque minuti il giudice istruttore riprese:
— Questo nome siete disposto a dircelo?
— Sì.
— Voi capite tutta l'importanza delle parole che state per pronunziare!
— Sì.
— E siete sicuro della verità di esse?
— Sicurissimo.
— Allora diteci questo nome.
— Quercia.
Barnaba che pure si aspettava quel nome, che era sicuro non altro
sarebbe uscito da quella bocca convulsa, tuttavia diede in una leggiera
scossa e mandò una soffocata esclamazione: gli altri si guardarono in
faccia e per un minuto secondo nessuno parlò; non s'udì che il rifiato
grave del giacente e lo scricchiolar della penna del segretario che
scriveva nel processo verbale incancellabilmente quel nome.
— Ma qual Quercia? susurrò poscia la voce fiacca di Barnaba; ve ne
possono essere parecchi, conviene farglielo specificare.
E Nariccia, interrogato in proposito dal giudice, diede tutte le più
precise informazioni che si desideravano.
— Signore, disse il giudice al Commissario, quando l'interrogatorio fu
finito, della giornata di domani sarà spiccato un ordine di arresto
contro quel tale, e sarà sua cura farlo eseguire.
Tofi chinò bruscamente il capo in segno affermativo.
— Sarà eseguito: diss'egli; e frattanto lo farò codiare dai miei agenti.
So che col pretesto d'un viaggio di nozze e' si è già procurato un
passaporto per l'estero; se appena un timore che si sospetti di lui gli
entra nell'animo, può partirne improvviso. Al menomo cenno ch'egli
faccia di abbandonar Torino, ordine o non ordine, lo agguantiamo.
— Signor Commissario, disse una voce tremante, quasi supplichevole,
all'orecchia di Tofi, mi conceda il favore di affidare a me l'impresa di
questa cattura... sotto la sua direzione s'intende.
Il Commissario guardò la faccia patita di Barnaba entro la quale gli
occhi ardevano più febbrilmente che mai.
— Ve ne sentirete già capace?
— Oh sì! esclamò il poliziotto. La vedrà! E sarà questa una grazia che
mi darà mezzo di rientrare nel favore dei superiori e nell'impiego.
— Va bene..... Di quello che avrete fatto e di quello che farete
informerò chi si deve.
Frattanto il giacente, stanco e spossato dallo sforzo mentale che aveva
dovuto fare per raccogliere le sue idee, da quello fisico stesso per
ispiccar la parola colla sua lingua inretita, dalla passione che glie ne
dava necessariamente all'animo il ricordare quei brutti, orribili
momenti in cui aveva visto la morte incombere sul suo capo, l'aveva
sentita piombare su di lui; Nariccia, dico, aveva chiuso gli occhi e
sarebbe sembrato affatto un cadavere se non avesse rivelato in lui un
resto di vita la respirazione tronca, affannosa e sibilante.
Quando dal silenzio fattosi intorno a lui, il misero capì che tutte
quelle persone eransi partite, egli riaprì nuovamente gli occhi e guardò
di qua e di là con una specie di terrore; dalla sua gola uscì una voce
che pareva un rantolo e le labbra gli si agitarono con penoso sforzo.
L'infermiere, che era tornato presso di lui, si curvò sul letto con
quella indifferente tranquillità che hanno per cotali spettacoli questa
gente avvezza a veder soffrire e morire.
— Eh? che cosa la dice? domandò.
— Confessarmi, confessarmi: balbettò Nariccia.
— Ah! gli è vero; ma ora non posso lasciarla sola per andare in cerca
d'un confessore: dimani mattina, appena mi si venga a sostituire, glie
ne andrò a chiamar uno; Padre Bonaventura del Carmine, che è già venuto
tante volte a prendere di sue notizie.
Il moribondo avrebbe voluto esclamare: — No, non quello; — ma le forze
glie ne mancarono affatto. Richiuse gli occhi e parve fuor dei sensi od
assopito.
L'infermiere, guardatolo un poco, disse fra sè:
— Domattina! Chi sa se avrà ancora bisogno del confessore domattina, e
non sia già precipitato a casa del diavolo. Sarebbe poco male un
pelacristiani di questa fatta.
E s'adagiò tranquillamente sopra un sofà per passare con più agio
possibile la notte. Se Nariccia fosse morto in quella notte senza
confessione, avrebbe portato seco un gran segreto.
Ora è tempo che ritorniamo nel palazzo Baldissero dove Maurilio viene
ufficialmente presentato alla nobile famiglia.


CAPITOLO XVIII.

Entrando nel gran salone splendidamente illuminato, Maurilio s'era
fermato appena fatti pochi passi sul morbido tappeto, come preso da
abbacinamento. Sul volto superbo della marchesa e del suo figliuolo
Ettore stava una scontentezza che si frenava, domata, soggiogata, direi
quasi, dalla espressa volontà del capo della famiglia alla cui autorità
essi piegavano la fronte; Virginia, ella, mostrava una sincera emozione
che la straordinaria e commovente circostanza ben era fatta per
suscitare in un'anima eletta ed amorevole come la sua. Lo strano
contegno tenuto da Maurilio con essa in quell'occasione che abbiamo
narrato, quando ella ebbe appreso dallo zio l'essere del giovane, aveva
avuto da lei la seguente spiegazione: egli conoscendo il segreto della
sua nascita era stato mosso allora a manifestarlesi, e l'emozione
dell'affetto, la timidità, il brusco e quasi sdegnoso fuggire di lei
glie lo avevano impedito. Ella si era fatta viva rampogna d'essersi
allora in quel modo diportata. Una parte di quell'affetto, di quel
trasporto dell'anima che aveva per la memoria della madre, di cui appena
era se ricordava una vaga immagine, aveva sentito rivolgersi verso colui
che ora le si additava fratello. Le parve come se qualche cosa di quella
madre tanto desiderata, rivivesse; ella che, tranne quello dello zio,
non aveva affetti vivaci e teneri intorno a sè, benedisse Iddio di
concederle a compagno, di condurle innanzi chi aveva nelle vene il
medesimo suo sangue materno. Perciò all'entrare di Maurilio fu con
sollecita premura che Virginia fece alcuni passi verso di lui ad
incontrarlo. Il marchese però la prevenne ed accostatosi egli primo al
giovane, lo prese per mano.
— Eccovi qui i vostri più prossimi congiunti dal lato materno:
diss'egli. Questa è vostra zia, la marchesa di Baldissero, questi è
vostro cugino, mio figlio Ettore, due altri miei figliuoli che sono
nell'Accademia Militare conoscerete poi, e questa è vostra sorella
Virginia.
Maurilio fece un inchino alla marchesa che si degnò appena
corrispondergli con un altezzoso cenno del capo; scambiò con Ettore
un'occhiata ed un saluto in cui c'era nulla d'affettuoso nè manco di
cortese; ma tremò da capo a piedi innanzi allo splendido sguardo della
fanciulla che si accostò a lui, tendendogli ambedue le mani.
— Mio fratello! esclamò essa con una voce piena d'emozione ed un accento
che a queste sole due parole dava la significazione di tanti sentimenti
e sensazioni.
Egli prese nelle sue larghe, grosse, volgari manaccie quelle piccole,
esili, bianche, dalla pelle finissima che Virginia gli porgeva, non osò
stringerle, ma le tenne alquanto, sempre più tremante, e invano tentando
di balbettare una parola che esprimesse il suo pensiero.
La scena fu fredda, impacciosa: la presenza della marchesa e del
marchesino versava un gelo che impediva ogni espansione. Maurilio
medesimo era troppo commosso per parlare; nel suo petto non abbastanza
soffocato ancora era quell'amore che tutta aveva dominata la sua
giovinezza, perchè egli osasse, per dir così, andare in fondo al proprio
cuore, perchè osasse aprire il varco a quei sentimenti che gli
sobbollivano con tramestìo confuso nell'anima. Virginia medesima dal
contegno di questo rinvenuto fratello, dal suo aspetto ebbe come una
specie di delusione; sentì quel suo trasporto d'affetto, quasi
risospinto, venirle a ripiombare sull'animo e ritorlo alla dolce
espansione di prima; nello sguardo profondo del giovane il quale pure
aveva qualche cosa di quello che avevano i bellissimi occhi suoi,
Virginia travide alcun che di misterioso, ond'ebbe pressochè paura e
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