La plebe, parte IV - 26
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una verga tra mano, cacciandosi innanzi le magre vaccherelle di Menico,
macilento egli più ancora delle bestie che aveva in custodia, obbligato
a star colà in ozio delle ore, sicuro di trovare, al suo ritorno
all'abituro, poco e povero cibo, molti rimbrotti e spietate percosse.
Colà, ancora affatto fanciullo, la sua mente era stata assalita dal
misterioso quesito degli umani destini, colà aveva sentito parlargli
all'anima la gran voce della natura, aveva sentito parlargli allo
spirito la voce dei morti. Aveva provato una specie di maravigliosa
iniziazione, per cui la sua vita aveva scorto il nesso che la
congiungeva alla vita dell'Universo, s'era cacciato, e non s'era
smarrito, nel vortice dell'esistenza universale, aveva avvertiti i
vincoli divini che uniscono le manifestazioni della vita su per tutta la
scala degli esseri in tutto il creato, e formatosene entro la mente un
primo concetto: aveva meditato, imparato, cominciato ad aver coscienza
del dolore, dell'intelletto e insieme della volontà. Quella brulla
costiera gli era cara oltre modo. La rivide alla poca, incerta luce del
crepuscolo che cominciava appena, con una commozione di tenerezza da non
dirsi; ebbe nel cuore i palpiti che desta il prossimo, aspettato
rivedere, dopo lungo tempo, d'una persona che si ama.
Giunse a quel punto preciso in cui soleva sostare da fanciullo, quando
l'alba appena disegnava al lembo estremo dell'orizzonte, fra la cresta
delle montagne e le nubi del cielo, una riga bianchiccia. Le sue gambe
affondavano nella neve fin sopra il nodello; un vento freddo gli faceva
svolazzare le falde degli abiti; non un grido d'augello, non una voce
umana, non un rumore d'esser vivo; regnava un silenzio di morte. Gli
ontani, spogli di frondi, inchinavano i loro rami carichi di neve sopra
il rigagnolo muto ancor esso, perchè rapprese dal ghiaccio erano le sue
onde. La brezzolina gelata che soffiava ad intervalli, ora era un
sibilo, ora era un gemito. Quel cantuccio della terra, pur così vicino
ad abitazioni umane, pareva in quel momento ignorare la esistenza
dell'uomo.
Maurilio si fermò là dove soleva sdraiarsi, là dove ragazzo settenne
aveva sentito la prima volta passar ne' suoi capelli l'alito del
fantasma, scorrer nelle vene il fremito solenne che desta l'apparizione
de' morti. Aveva in petto un gran desiderio, una viva aspirazione e
insieme una potente e quasi direi commossa fiducia. Era venuto per
pregare; ma l'intimo anelito gli diceva che la preghiera poteva essere
mezzo valevole di evocazione a quello spirito che da tanto tempo non era
più venuto ad aleggiargli innanzi apprensibile da' suoi sensi umani. Il
dramma della sua vita era giunto ad una fase suprema; e quest'essere
oltreterreno che lo aveva scorto nell'aspro cammino fin'allora percorso,
confortandolo, ispirandolo, ammonendolo, poteva esso mancare di venirgli
a dire la sua parola? Non aveva egli anche ora e forse più di prima,
bisogno d'aiuto, di conforto, di consolazione? Là dove primamente eragli
apparito ed avevagli favellato, doveva la sovrumana creatura apparirgli
ora e favellargli. La voce vaga e inafferrabile dell'immensa natura
doveva condensarsi e farsi concreta nello spiro, che gli parlava
all'anima, di quel benigno fantasima. Egli lo credeva, egli lo voleva:
egli venne colà a bella posta e stette aspettando.
Volse la faccia verso quel punto del cielo in cui la riga sottile della
luce crepuscolare fra la terra e la vôlta nubilosa dell'orizzonte
cominciava da bianca a farsi rancia, e pregò.
— Ente supremo ed infinito, Intelligenza assoluta ed eterna, Causa
ultima e prima, Anima dell'Universo, a te s'innalza questa creatura
finita, a te si volge questa misera intelligenza in sì angusti limiti
ristretta, verso te aspira quest'essere contingente, ma che ha pure nel
suo intimo una particella dell'eterno, te anela comprendere quest'anima
schiava d'una bassa materia, ma che pure è membro di quella grande
schiera fraterna d'intelligenze che dal primo manifestarsi della vita
sale per tutti i mondi sino all'inconcepibile altezza dell'assoluto, ove
tu siedi.
«O natura! Nudrice comune; culla e tomba indefinita della vita terrena;
fieramente avversa all'uomo, e colle tue crudeltà fatalmente benigna al
suo sviluppo; problema immenso alla mente umana che sempre sei sciolto e
sempre rimani; mistero cui la scienza persegue e svela, e sempre ti
sottraggi dietro nuovi veli, ritraendoti man mano nel campo
dell'infinito; natura che mi afferri e mi tieni, ma non mi possiedi; tu,
benchè immensa, non sei l'ambito in cui deve rimaner rinserrato il
pensiero, lo spirito, il destino dell'uomo. Tu non sei la madre, tu non
sei che l'alimentatrice temporanea di questo spirito che passa traverso
a te. Tu non sei causa, nè un complesso di cause; tu sei effetto e
complesso di effetti; tu sei un intermediario; per chi ti sa cogliere e
dominare tu sei uno sgabello per salire a Dio.
«Iside splendida e superba, le tue braccia potenti m'accolgano, ma non
mi soffochino; è la tua vita che si agita in me, circoscritta in questo
corpo morituro; ma questo non è tutto l'io che in me pensa e vuole;
quando tu decreterai la distruzione di questo corpo che tu mi hai dato,
non assorbirai eziandio nel serbatoio eterno della materia questa parte
immortale che può sola concepire l'eternità a cui appartiene. Non
velarmi tu coll'ebbrezza della tua beltà lo spirito che oltre te siede e
te stessa governa, non offuscarmi collo spettacolo della fatalità delle
tue leggi il concetto della libertà del volere, della giustizia, della
verità della potenza creativa. Io non posso tutta abbracciarti e
comprenderti, o natura, colla forza del mio pensiero; ma pur sento che
questo mio pensiero si spinge oltre te, che oltrepassa i limiti del tuo
regno, tuttochè immenso; sento che il mio pensiero è chiamato
ineffabilmente da altezze ineffabili, sento che si sprofonda negli
abissi dell'infinito.
«Dio! Dio! Dio! Noi aneliamo ardentemente verso Te, perchè l'uomo ha
bisogno della verità, e Tu sei la verità! A Te per una innumera sequela
di secoli, per tratto di tempo incalcolabile, là dove cessa il tempo,
traverso innumere esistenze, noi verremo accostandosi, senza
raggiungerti mai, ma conquistando a volta a volta, mano a mano una parte
maggiore di vero. Oh! l'anima mia ha fretta di gettarmi in questo pelago
dove splende la tua luce. È un ardore di desiderio che non ha riscontro
in nulla di terreno. Dio, chiamami sollecito al mio destino ulteriore:
Natura, affrettati a riprender possesso di questi elementi che mi
costituiscono un corpo. Ho io ancora una ragione di vivere qui entro
questa creta sciagurata? Non ho pagato a sufficienza il mio tributo di
prove e di dolori? Fammi passare, Eterno Iddio, per le ombre del
sepolcro, onde gli occhi dello spirito si possano riaprire alla maggior
luce della vita avvenire.»
Si scoperse la fronte e la espose al soffio del vento gelato che gemeva
sommessamente fra i rami degli alberi. Sentiva il sangue salito al capo
tintinnargli nelle orecchie e produrgli suoni inapprensibili, che
parevano parole d'un misterioso linguaggio.
— Morire, morire, mormorava egli, voglio morire per vivere!
Ad un tratto si riscosse; aveva sentito sulla fronte un soffio diverso
da quello del vento: provò per tutte le fibre un fremito soave, come
quello che vi desta il giungere improvviso della più diletta persona.
L'alito che era passato sulle sue chiome pareva lo sfiorar leggiero d'un
bacio. Il cuore gli si mise a palpitare, come in attesa d'un grave
avvenimento. Tutte queste cose aveva egli già provate altre volte, e da
lungo tempo ora non aveva sentite più: le gli annunziavano il
presentarsi dell'apparizione; era come il tocco dello spirito
oltreterreno che gli significava: «Son qua.» Quest'apparizione era egli
venuto colà con immenso desiderio e con viva speranza avvenisse. Ora ne
fu certo. Levò la testa e gli occhi, e guardò.
La cappa nuvolosa del cielo s'era abbassata ancor più sulle montagne e
toglieva ogni adito al libero passaggio del chiarore crepuscolare:
traverso a quelle nubi di un grigio plumbeo si stacciava, per così dire,
un po' di luce che riusciva livida e sfumava i contorni degli oggetti in
una strana incertezza di disegno: a pochi passi lontano tutto si
confondeva in un buio che pareva quello del vuoto.
Maurilio vide, palpitando, una nebbia, un vapore comparire, coagularsi,
direi, in mezzo ai tronchi degli ontani, prender forma e sembianza di
donna avvolta in bianco paludamento, ma una forma aerea e diafana, e da
questa forma, da quest'ombra, raggiare il benigno sguardo, il mesto
sorriso che già conosceva. Il diletto fantasima evocato gli stava pur
finalmente dinanzi. Il giovane fece un passo verso lo spirito, come per
afferrarlo, per giungerlo colle sue mani tremanti, ma si fermò tosto,
non osando più, mancandogliene le forze; cadde in ginocchio sulla neve e
tese verso quell'essere non umano le braccia.
— Sei tu, sei pur tu ancora una volta, alla fine! mormorò egli. Che tu
sii benedetta! Io ho tanto, tanto bisogno di te.
Tacque ansioso, aspettando. La benignità di quel sembiante lampeggiò più
viva; e Maurilio udì nella sua anima, nel suo cervello, nell'intimo
dell'esser suo la voce melodiosa, d'una melodia inesprimibile, di cui
nulla in terra può dar paragone, che gli parlava soave.
— Tu vuoi morire! Credi tu che l'anima tua sia già di tanto matura nella
crisalide terrena, da potere spiegar l'ali, farfalla, nel regno degli
spiriti? Non sai che ogni giorno di terreno dolore che passa, la prepara
a più eletta sorte, la fa degna di maggior grado nell'avvenire? No,
infelice, no, le tue prove non sono finite. Apparecchiati a sostenere le
nuove che ti aspettano, con quella forza che ti servì per le passate.
Macerato dalla sventura, tu giungerai alla soglia della vita umana, più
disposto alla vita superiore che t'attende.
«Non maledire il dolor che ti percuote! Nulla è senza ragione nel
creato; e la volontà divina non è il capriccio dell'arbitrio. «Il vaso —
ricordalo — non ha diritto di dire al vasellaio: perchè mi hai tu fatto
e perchè in questa piuttosto che in quella forma, a questo meglio che a
quell'uso[2]?» Ma la ragione il vasellaio ce l'ebbe. Un giorno verrà
forse — per gli spiriti che hanno vissuto quaggiù dove tu vivi — in cui
potranno alcun poco penetrare dei misteri di Dio. Ciò potrà avvenire
anche di te, e capirai la tua sorte e benedirai il flagello onde fosti
colpito. Abbi intanto fin d'ora l'istintiva coscienza che non inutili
sono le tue pene, e soffri longanime.
[2] Parole di San Paolo.
«Soffri ed ama: soffri e perdona: soffri e confida nel dì futuro!»
La voce che pareva parlare non all'orecchio, ma direttamente nell'animo,
si tacque, e tutto l'essere di Maurilio vibrò ancora per un poco di quel
suono, come le corde dell'arpa vibrano tuttavia quando la mano ha
cessato appena di scuoterle. E il concetto e le parole che lo vestivano
erano appunto nel cervello di lui come l'armonia suscitata sulle corde
da una mano estranea: il suono è dello stromento, ma la melode è ad esso
estrinseca. A Maurilio quelle cose non erano state dette con voce di
suono: parevagli, per così esprimermi, che un altro le avesse pensate
nel suo pensiero.
— Soffrire! soffrire! gemette il giovane, inginocchiato sempre nella
neve. Ma non ho io sofferto abbastanza? Non ho io il diritto di
esclamare che s'allontani da me pur finalmente il calice delle amarezze?
Oh! mi si strappi almeno dal petto questo amore fatale che ancora mi
strugge e che la crudeltà del destino vuole empiamente mostruoso. Ah! tu
non sai, spirito benedetto, quanto questo amore mi tormenti e mi
affatichi col suo tormento! Quella immagine io non posso scacciare dal
mio pensiero, e col mite affetto d'un fratello non posso pensarla! Mi
squarcerei a brani a brani il cuore per tormi questa indomita passione.
Debbo io fuggire la mia famiglia ora che la Provvidenza mi ha ad essa
ricondotto? Mi fu ella mostrata la tenerezza dei domestici affetti e
concessami la possibilità di goderne, solo perchè una maledizione
venisse a piantarsi fra loro e me e rigettarmene lontano? Dovrò io
esecrare il momento in cui ripresi il possesso del nome e delle
condizioni che mi spettano?
Maurilio guardava il fantasima, e gli occhi non umani del fantasima
guardavano lui. Da questi occhi partì una fiamma, un raggio, una
scintilla, un qualche cosa d'inesprimibile che penetrò e si confisse nel
cervello del giovane, e gli suscitò di colpo un'idea che mai non gli si
era nemmeno adombrata. Era un dubbio strano che prese forma in una
domanda.
— Poichè, continuò egli, quello è bene il mio nome, quella è ben la mia
famiglia? Non è egli vero?
Stette aspettando ansiosamente la risposta. Il fantasima non la diede:
ma una indicibile espressione di mestizia insieme e di pietà apparve
sulle sue sembianze. Maurilio con infinita supplicazione protese le mani
verso lo spirito.
— Qual è questo mistero che mi si annunzia? che il mio pensiero intuisce
nel lampo de' sguardi tuoi?... tu sai la verità di certo... Oh dimmi
tutto il vero, qualunque sia...
Si tacque di nuovo in attesa d'una parola, di un cenno. L'aerea forma di
donna lo guardava sempre più mesta e più pietosa; ma non parlò, non
mosse. Il cuore a Maurilio batteva, batteva.
— Sono io figliuolo di Maurilio Valpetrosa? domandò egli con un'ansia
piena d'angoscia. Sono io figliuolo della contessa Aurora?
La neve in quella si mise a cadere; il vento si ridestò più vivo e
faceva turbinare le bianche falde intorno ai rami degli alberi. Il
bianco fantasima si confuse col bianco della neve fioccante. Parve che
quel turbinio avvolgesse, assorbisse, sciogliesse quel vapore condensato
in forma di persona; il sorriso del labbro e dello sguardo si fece più
lieve, si dileguò, sparì in mezzo alla danza dei fiocchi nevosi per
l'aria; ma a Maurilio che guardava intento con pupille fise, parve che
nel punto di dileguarsi quella apparizione scuotesse in segno negativo
il capo, e quella voce non umana che gli aveva parlato nell'anima, gli
susurrasse, ma fievolmente come un'eco lontana, lontana:
— No! no! no!
Il giovane sorse con impeto.
— No?... gridò egli. Io non sono dunque il fratello di Virginia?
Il primo pensiero che gli si presentava era quello dell'amor suo e gli
faceva accogliere quasi con gioia l'ispiratogli sospetto.
— Ma dunque io posso amarla? continuava con trasporto inesprimibile. Oh
parlami! Dimmelo ancora e più chiaramente... Rispondi, rispondi in nome
di Dio! È mia sorella Virginia?
Si avanzò d'un passo verso quel luogo dove gli era apparsa l'ombra.
Tutto era svanito e non si trovò in faccia che il cader lento e
turbinante della neve aggirata dalla brezza.
Sentì una gran confusione nel suo spirito. Aveva egli visto bene in quel
dileguarsi del fantasima? Era davvero un segno negativo quello che gli
era stato fatto ed una parola negativa quella che aveva creduto udir
pronunziata. E se anche ciò fosse, doveva egli credere fosse quella la
verità? E se tutto questo non fosse che illusione? Che fare? Come
sincerarsi della realtà delle cose? Se lo spirito aveva dettogli
veramente così, e certo non aveva mentito, vorrebb'egli usurpare un
posto che non gli toccava, mentre colui che ci aveva diritto viveva chi
sa dove, e chi sa come?
Discese lentamente al villaggio. Camminava assorto, il capo chino, le
braccia incrociate al petto, non vedendo nessuno, non sentendo nulla,
fuori affatto del mondo circostante. Ad un punto sentì una voce che lo
chiamava per nome. Gli pareva di conoscer quella voce, ma il suo spirito
era così lontano ancora dal mondo presente, che non seppe dirsi di chi
fosse; non le badò e continuò il suo cammino; un passo affrettato gli
corse dietro e lo raggiunse; una mano si posò sulla sua spalla e la voce
che già lo aveva chiamato gli disse:
— Eh Maurilio! sei tu sordo?
Egli si riscosse in sussulto; si volse e si vide dinanzi Gian-Luigi.
La vista del suo compagno d'infanzia fu a Maurilio in quel momento poco
piacevole, quasi molesta. Forse perchè veniva a sturbarlo da' suoi
pensieri; forse perchè l'irrequietezza dell'anima e l'irritazione dello
spirito confuso inasprivano ogni ricevuta impressione.
— Tu qui! esclamò egli con voce ed accento di burbera impazienza. Che
vieni tu a farci?
Quercia lo guardò stupito e parve nel suo occhio nero fosse per
lampeggiare il risentimento: ma di colpo si atteggiò alla più serena
ilarità la mobile espressione della sua bella faccia; ed egli ruppe in
una franca risata.
— Affè mia che non lo so io stesso. Avevo detto di venirci come prima
avrei potuto, e _promissio boni viri_.... con quel che segue. Mi sono
detto: poichè ho da mantenerla questa promessa, il meglio è che me ne
sbrighi il più presto. Siccome son io che meno gli avvenimenti della mia
vita, e non gli avvenimenti che menano me, mi sono procurato un giorno
di libertà e son volato... coi cavalli dell'_omnibus_. Sissignore son
venuto prosaicamente in quell'orribile baracca rompitrice di ossa umane,
per non sciupare il mio bravo cavallo; ed eccomi qua pronto a cogliere
sulla mia faccia i baci e le lagrime di tenerezza della povera
Margherita... E sei tu che mi facevi rimprovero del non venirci, il
quale ora hai da domandarmi con quell'aria di superiore corrucciato che
cosa son qui per fare?
Maurilio evidentemente non prestava attenzione alle parole del compagno
e non aveva capito nulla. Gian-Luigi con atto di amichevole
domestichezza volle passare il braccio in quello di lui, ma egli si
riscosse a quel tocco e ritrasse in là la persona guardando l'amico con
sì torbida cera che Quercia si fermò su due piedi.
— Orsù, diss'egli con accento e con isguardo superbamente risentiti; che
novelle son queste? che ti frulla pel capo, e con chi pensi tu ora di
aver da trattare? I fumi del tuo nuovo stato ti sono eglino già saliti
così stupidamente alla testa da metterti — e verso di me! — in una
stolida superbia?... Senti tu già il gorgoglio del sangue patrizio
ignorato pur ieri?
Maurilio parve allora destarsi da un sogno penoso.
— Io superbia? esclamò. Sangue patrizio, io?
Gli sembrò vedere ancora, in mezzo al bianchiccio della neve cadente, la
leggera forma del fantasma scuotere il capo in segno di negazione.
— No, no..... Non ho superbia, non ho sangue patrizio.... Sono plebeo,
tutto plebeo, non altro che plebeo.
Gian-Luigi lo guardò attentamente con occhio acuto, penetrativo,
profondo; subodorò un segreto.
— Perchè parli tu così? diss'egli lentamente. È il tuo animo che senti
fallire alla nuova condizione, o questa che ti fallisce?
Maurilio fu sul punto di narrar tutto; ma guardando il suo compagno gli
vide nel volto e nella pupilla soprattutto una intentività quasi maligna
che respinse in lui la fiduciosa espansione; crollò il capo, fece un
atto colla mano per significare: gli è nulla; e si tacque.
Camminarono alquanto in silenzio l'uno accosto all'altro per la via
deserta del villaggio; quando apparve loro dinanzi la modesta facciata
della chiesa in fondo alla piazza, il _medichino_ domandò bruscamente:
— Dove sei tu avviato?
— Rientro in casa di Don Venanzio.
— Ed io vo dalla Margherita. Annunzia la mia visita al parroco; fra
dieci minuti sarò a salutarlo e domandargli un boccon d'asciolvere.
Maurilio, colla mente ancora preoccupata, disse sbadatamente:
— Se ti accompagnassi dalla Margherita....
— No: interruppe con vivacità Gian-Luigi: queste scene di
riabbracciamenti non vogliono testimonii.
— Hai ragione. A rivederci dunque fra poco nella _canonica_.
— A rivederci.
Si separarono. In breve Gian-Luigi fu alla porta del tugurio, dove, ad
un'estremità del villaggio, abitava la povera donna che gli aveva fatto
da madre. Picchiò a quel povero uscio di assi tarlati e poco ben
connessi, senza che la menoma emozione gli turbasse il regolare battito
de' polsi. Un passo lento e trascinantesi si udì accostarsi nell'interno
della capanna; l'imposta fu aperta e si presentò sulla soglia la persona
ricurva della vecchia Margherita, il capo avvolto nel suo grossolano
fazzoletto, la sua conocchia piantata al fianco nel legaccio del
grembiule e il fuso tra mano. La si aspettava così poco di trovarsi
innanzi il suo figliuolo adottivo in quel momento che guardò
meravigliata quel signore elegantemente vestito che era venuto a
picchiare il suo uscio e non riconobbe in esso colui che da tanti anni
non aveva più riveduto ed aveva desiderato rivedere pur sempre.
Però, senza sapersene dire essa stessa una ragione, la sua voce fiacca e
velata tremava più dell'ordinario quando gli chiese con parole confuse
che parevano un balbettìo che cosa volesse, di chi cercasse.
— Ah! voi non mi riconoscete più, mamma Margherita? Disse il giovane con
un piacevole e schietto sorriso.
La vecchia lasciò cadersi il fuso e strapparsi il filo, alzò le scarne
mani abbronzate, all'altezza della testa, e battè palma a palma,
gettando un grido cui la soverchia intensità dell'emozione soffocò a
mezzo.
— Sei tu! Sei il mio Giannino! esclamò: oh Santa Vergine dei dolori!...
E quelle mani secche, inaridite, color di rame, tremanti per gli anni e
pel tanto turbamento di quell'istante, allungò verso il giovane per
istringerlo al collo, per afferrare quel capo diletto e tirarselo a sè a
baciarlo ed abbracciarlo e stringerlo ai miserabili panni che le
coprivano quel seno che lo aveva alimentato. Ma Gian-Luigi — fu egli un
istintivo impulso di vergogna che lo spingesse a sottrarre la vista di
quell'amplesso della pezzente agli sguardi di chi poteva passare per la
strada, fu il pensiero amorevole di levar via più presto dall'aria
ghiaccia che soffiava sul villaggio il debil corpo della vecchia? —
Gian-Luigi afferrò quelle braccia che si stendevano con tanto amore
verso di lui e per esse trasse indietro la donna finchè ambedue furono
entrati nel tugurio e la porta potè richiudersi dietro di loro.
— Ed ora, diss'egli poi ripigliando quel suo leggiadro sorriso, mamma
Margherita, abbracciatemi pure.
La donna lo guardava con occhi che per miracolo avevano ritrovata una
parte dell'antica vivacità della loro giovinezza. Quel sorriso del suo
Giannino, com'ella, per antica abitudine, lo chiamava pur sempre, le
illuminava lo squallido suo abituro come un raggio di sole primaverile
entratovi ad un tratto a dispetto della stagione e della neve. La voce
di lui suonavale come la più gradita melodia del mondo.
— Sei tu! sei tu! sei il mio Giannino! Oh Santa Vergine dei dolori!
ripetè essa come se la non sapesse trovare altre parole; e gettategli le
braccia al collo lo baciò e lo ribaciò sopra una guancia e poi
sull'altra, e poi sulla fronte, e poi sulle labbra, e finì per rompere
in un pianto dirotto con forti singhiozzi.
L'impressione del tristo giovane non fu di tenerezza. Le malvagie
passioni troppo avevangli guasto il cuore e smussata la sensibilità,
perchè egli comprendesse la profonda e santa emozione di quella povera
vecchia, la partecipasse e vi si compiacesse. In quell'amplesso, a
contatto di quelle vesti fruste e rappezzate, di quelle membra magre e
sfiacchite, sentì come un odore disgustoso di miseria e d'angustie; gli
parve quasi che il bisogno e l'abbiezione e la vergognosa umiltà di quel
miserabile ceto plebeo da cui egli aveva tanto fatto per uscire,
incarnati nella persona di quella squallida vecchia, gli gettassero le
braccia al collo per riprenderlo in loro possesso, per trarlo a
precipitar di nuovo nell'oscuro abisso. Si sciolse dall'abbraccio e
disse non senza qualche impazienza:
— Via, via; non piangete così. Affè che non ci vedo nulla da piangere!
Margherita si asciugò in fretta le lagrime.
— Hai ragione..... Non so nemmeno io perchè piango..... dovrei essere
così allegra..... Lo sono, sai..... Vorrei farti tanta festa e non
so.....
Non vi starò a ripetere tutte le parole di quella povera donna, che
avrebbe voluto poter cambiare in un tratto la sua capanna in una reggia
con ogni abbondanza di ben di Dio per accogliere degnamente il suo
diletto figliuolo. Non vi dirò i suoi ringraziamenti per l'invio delle
mille lire, le proteste ch'ella fece quando udì che Gian-Luigi di quella
stessa giornata sarebbe ripartito, e le preghiere per farnelo fermare
almeno un giorno ancora. Il giovane che tutti questi discorsi tollerava
con appena velata impazienza, li troncò per farsi egli a dire quello che
più gl'importava e che era stato la vera cagione della sua venuta.
— Date retta, Margherita, cominciò egli mettendole una mano sulla spalla
e guardandola ben fiso affine di richiamare alle sue parole tutta
l'attenzione di lei: se un gran pericolo mi pendesse sul capo e voi
poteste stornarlo, non è vero che lo fareste?
La vecchia strinse le mani in atto di quasi offesa meraviglia.
— Dio buono! Santa Vergine dei dolori! E me lo puoi domandare?... Farei
ogni possibil cosa... darei questa grama di vita... e più ancora... per
venirti in aiuto... Ma pur troppo, che potrò io mai fare per te, io,
povera vecchia?...
— Voi potrete assai. Un pericolo può minacciarmi da un momento
all'altro; e voi, non con fatti, ma con sole parole, potete concorrere a
salvarmene.
— Parla, parla. Che debbo fare? che debbo dire?
— Voi potreste essere chiamata da qualche autorità a dare informazioni
del mio passato, a narrare la storia della mia infanzia: così disse
Gian-Luigi con voce bassa e pronunzia spiccata, parlando lentamente e
tenendo sempre una mano sulla spalla a Margherita e gli occhi entro gli
occhi perchè le cose ch'ei diceva le si imprimessero ben bene.
La vecchia non moveva un dito, non batteva palpebra: aveva concentrata
tutta la sua vitalità negli occhi che fissavano il giovane e nelle
orecchie che assorbivano avidamente le parole di lui; ad ogni motto
quasi ch'egli pronunziava la faceva un leggier cenno del capo, come per
dire: «ho capito, questo non mi scappa più.»
— In tal caso, continuava il _medichino_, voi ripeterete parola per
parola ciò che ora verrò dicendovi.
Espose in quel modo lento e con quel tono spiccato la favola della sua
sorte che aveva narrata al signor Giacomo Benda ed al commissario Tofi;
appena la ebbe finita, la ricominciò da capo e tornò a dirla tutta
perchè di subito la si fermasse con tutti i suoi particolari nella
memoria di Margherita; e poi come ricapitolando soggiunse:
— Voi dunque affermerete che fu il dottore il quale vi mandò all'ospizio
a prendere non un trovatello qualunque, ma uno particolarmente
designato, quello cioè a cui per contrassegno, nell'esporlo era stata
messa tra le fascie la metà d'una lettera lacerata per lo lungo, nella
quale si leggevano le tali e tali parole, voi direte che fino dai
primissimi tempi, il dottore medesimo, benchè di nascosto così che
nessuno potesse accorgersene, pigliava interesse di me e veniva di
quando in quando segretissimamente a visitarmi; aggiungerete ch'egli vi
pagava eziandio in segreto, e che dalle sue parole avevate potuto capire
che agiva dietro mandato di qualche lontana persona; e infine — e qui
non avrete più che da dire la verità — che più tardi egli mi prese seco
e fu lui a farmi studiare, e quando morì mi lasciò una parte della sua
eredità.
Margherita aveva sempre ascoltato a bocca ed occhi larghi, immobile come
una statua.
— Avete capito? le domandò il giovane.
Ella accennò di sì.
— Sareste capace di ripetermi questa storiella? Su via, provatevici.
La vecchia ripetè dal principio alla fine, senza sbagliare d'un punto.
— Benissimo! Ma converrà che la riteniate ben bene a memoria, e che ogni
qualvolta possa occorrere, voi siate in grado di dirla come adesso,
senza imbrogliarvi e confondervi.
— Me la ripeterò fra me stessa, mattina e sera, tutti i giorni.
— Brava! E se vi domanderanno come avvenne che il medico pagandovi
secondo quello che dite, voi siate pur sempre rimasta nella miseria,
risponderete che spendevate ogni vostro danaro a giuocare in segreto al
lotto.
Margherita espresse per la prima volta un po' di scontentezza.
— Ah! questa è una ben grossa bugia.
macilento egli più ancora delle bestie che aveva in custodia, obbligato
a star colà in ozio delle ore, sicuro di trovare, al suo ritorno
all'abituro, poco e povero cibo, molti rimbrotti e spietate percosse.
Colà, ancora affatto fanciullo, la sua mente era stata assalita dal
misterioso quesito degli umani destini, colà aveva sentito parlargli
all'anima la gran voce della natura, aveva sentito parlargli allo
spirito la voce dei morti. Aveva provato una specie di maravigliosa
iniziazione, per cui la sua vita aveva scorto il nesso che la
congiungeva alla vita dell'Universo, s'era cacciato, e non s'era
smarrito, nel vortice dell'esistenza universale, aveva avvertiti i
vincoli divini che uniscono le manifestazioni della vita su per tutta la
scala degli esseri in tutto il creato, e formatosene entro la mente un
primo concetto: aveva meditato, imparato, cominciato ad aver coscienza
del dolore, dell'intelletto e insieme della volontà. Quella brulla
costiera gli era cara oltre modo. La rivide alla poca, incerta luce del
crepuscolo che cominciava appena, con una commozione di tenerezza da non
dirsi; ebbe nel cuore i palpiti che desta il prossimo, aspettato
rivedere, dopo lungo tempo, d'una persona che si ama.
Giunse a quel punto preciso in cui soleva sostare da fanciullo, quando
l'alba appena disegnava al lembo estremo dell'orizzonte, fra la cresta
delle montagne e le nubi del cielo, una riga bianchiccia. Le sue gambe
affondavano nella neve fin sopra il nodello; un vento freddo gli faceva
svolazzare le falde degli abiti; non un grido d'augello, non una voce
umana, non un rumore d'esser vivo; regnava un silenzio di morte. Gli
ontani, spogli di frondi, inchinavano i loro rami carichi di neve sopra
il rigagnolo muto ancor esso, perchè rapprese dal ghiaccio erano le sue
onde. La brezzolina gelata che soffiava ad intervalli, ora era un
sibilo, ora era un gemito. Quel cantuccio della terra, pur così vicino
ad abitazioni umane, pareva in quel momento ignorare la esistenza
dell'uomo.
Maurilio si fermò là dove soleva sdraiarsi, là dove ragazzo settenne
aveva sentito la prima volta passar ne' suoi capelli l'alito del
fantasma, scorrer nelle vene il fremito solenne che desta l'apparizione
de' morti. Aveva in petto un gran desiderio, una viva aspirazione e
insieme una potente e quasi direi commossa fiducia. Era venuto per
pregare; ma l'intimo anelito gli diceva che la preghiera poteva essere
mezzo valevole di evocazione a quello spirito che da tanto tempo non era
più venuto ad aleggiargli innanzi apprensibile da' suoi sensi umani. Il
dramma della sua vita era giunto ad una fase suprema; e quest'essere
oltreterreno che lo aveva scorto nell'aspro cammino fin'allora percorso,
confortandolo, ispirandolo, ammonendolo, poteva esso mancare di venirgli
a dire la sua parola? Non aveva egli anche ora e forse più di prima,
bisogno d'aiuto, di conforto, di consolazione? Là dove primamente eragli
apparito ed avevagli favellato, doveva la sovrumana creatura apparirgli
ora e favellargli. La voce vaga e inafferrabile dell'immensa natura
doveva condensarsi e farsi concreta nello spiro, che gli parlava
all'anima, di quel benigno fantasima. Egli lo credeva, egli lo voleva:
egli venne colà a bella posta e stette aspettando.
Volse la faccia verso quel punto del cielo in cui la riga sottile della
luce crepuscolare fra la terra e la vôlta nubilosa dell'orizzonte
cominciava da bianca a farsi rancia, e pregò.
— Ente supremo ed infinito, Intelligenza assoluta ed eterna, Causa
ultima e prima, Anima dell'Universo, a te s'innalza questa creatura
finita, a te si volge questa misera intelligenza in sì angusti limiti
ristretta, verso te aspira quest'essere contingente, ma che ha pure nel
suo intimo una particella dell'eterno, te anela comprendere quest'anima
schiava d'una bassa materia, ma che pure è membro di quella grande
schiera fraterna d'intelligenze che dal primo manifestarsi della vita
sale per tutti i mondi sino all'inconcepibile altezza dell'assoluto, ove
tu siedi.
«O natura! Nudrice comune; culla e tomba indefinita della vita terrena;
fieramente avversa all'uomo, e colle tue crudeltà fatalmente benigna al
suo sviluppo; problema immenso alla mente umana che sempre sei sciolto e
sempre rimani; mistero cui la scienza persegue e svela, e sempre ti
sottraggi dietro nuovi veli, ritraendoti man mano nel campo
dell'infinito; natura che mi afferri e mi tieni, ma non mi possiedi; tu,
benchè immensa, non sei l'ambito in cui deve rimaner rinserrato il
pensiero, lo spirito, il destino dell'uomo. Tu non sei la madre, tu non
sei che l'alimentatrice temporanea di questo spirito che passa traverso
a te. Tu non sei causa, nè un complesso di cause; tu sei effetto e
complesso di effetti; tu sei un intermediario; per chi ti sa cogliere e
dominare tu sei uno sgabello per salire a Dio.
«Iside splendida e superba, le tue braccia potenti m'accolgano, ma non
mi soffochino; è la tua vita che si agita in me, circoscritta in questo
corpo morituro; ma questo non è tutto l'io che in me pensa e vuole;
quando tu decreterai la distruzione di questo corpo che tu mi hai dato,
non assorbirai eziandio nel serbatoio eterno della materia questa parte
immortale che può sola concepire l'eternità a cui appartiene. Non
velarmi tu coll'ebbrezza della tua beltà lo spirito che oltre te siede e
te stessa governa, non offuscarmi collo spettacolo della fatalità delle
tue leggi il concetto della libertà del volere, della giustizia, della
verità della potenza creativa. Io non posso tutta abbracciarti e
comprenderti, o natura, colla forza del mio pensiero; ma pur sento che
questo mio pensiero si spinge oltre te, che oltrepassa i limiti del tuo
regno, tuttochè immenso; sento che il mio pensiero è chiamato
ineffabilmente da altezze ineffabili, sento che si sprofonda negli
abissi dell'infinito.
«Dio! Dio! Dio! Noi aneliamo ardentemente verso Te, perchè l'uomo ha
bisogno della verità, e Tu sei la verità! A Te per una innumera sequela
di secoli, per tratto di tempo incalcolabile, là dove cessa il tempo,
traverso innumere esistenze, noi verremo accostandosi, senza
raggiungerti mai, ma conquistando a volta a volta, mano a mano una parte
maggiore di vero. Oh! l'anima mia ha fretta di gettarmi in questo pelago
dove splende la tua luce. È un ardore di desiderio che non ha riscontro
in nulla di terreno. Dio, chiamami sollecito al mio destino ulteriore:
Natura, affrettati a riprender possesso di questi elementi che mi
costituiscono un corpo. Ho io ancora una ragione di vivere qui entro
questa creta sciagurata? Non ho pagato a sufficienza il mio tributo di
prove e di dolori? Fammi passare, Eterno Iddio, per le ombre del
sepolcro, onde gli occhi dello spirito si possano riaprire alla maggior
luce della vita avvenire.»
Si scoperse la fronte e la espose al soffio del vento gelato che gemeva
sommessamente fra i rami degli alberi. Sentiva il sangue salito al capo
tintinnargli nelle orecchie e produrgli suoni inapprensibili, che
parevano parole d'un misterioso linguaggio.
— Morire, morire, mormorava egli, voglio morire per vivere!
Ad un tratto si riscosse; aveva sentito sulla fronte un soffio diverso
da quello del vento: provò per tutte le fibre un fremito soave, come
quello che vi desta il giungere improvviso della più diletta persona.
L'alito che era passato sulle sue chiome pareva lo sfiorar leggiero d'un
bacio. Il cuore gli si mise a palpitare, come in attesa d'un grave
avvenimento. Tutte queste cose aveva egli già provate altre volte, e da
lungo tempo ora non aveva sentite più: le gli annunziavano il
presentarsi dell'apparizione; era come il tocco dello spirito
oltreterreno che gli significava: «Son qua.» Quest'apparizione era egli
venuto colà con immenso desiderio e con viva speranza avvenisse. Ora ne
fu certo. Levò la testa e gli occhi, e guardò.
La cappa nuvolosa del cielo s'era abbassata ancor più sulle montagne e
toglieva ogni adito al libero passaggio del chiarore crepuscolare:
traverso a quelle nubi di un grigio plumbeo si stacciava, per così dire,
un po' di luce che riusciva livida e sfumava i contorni degli oggetti in
una strana incertezza di disegno: a pochi passi lontano tutto si
confondeva in un buio che pareva quello del vuoto.
Maurilio vide, palpitando, una nebbia, un vapore comparire, coagularsi,
direi, in mezzo ai tronchi degli ontani, prender forma e sembianza di
donna avvolta in bianco paludamento, ma una forma aerea e diafana, e da
questa forma, da quest'ombra, raggiare il benigno sguardo, il mesto
sorriso che già conosceva. Il diletto fantasima evocato gli stava pur
finalmente dinanzi. Il giovane fece un passo verso lo spirito, come per
afferrarlo, per giungerlo colle sue mani tremanti, ma si fermò tosto,
non osando più, mancandogliene le forze; cadde in ginocchio sulla neve e
tese verso quell'essere non umano le braccia.
— Sei tu, sei pur tu ancora una volta, alla fine! mormorò egli. Che tu
sii benedetta! Io ho tanto, tanto bisogno di te.
Tacque ansioso, aspettando. La benignità di quel sembiante lampeggiò più
viva; e Maurilio udì nella sua anima, nel suo cervello, nell'intimo
dell'esser suo la voce melodiosa, d'una melodia inesprimibile, di cui
nulla in terra può dar paragone, che gli parlava soave.
— Tu vuoi morire! Credi tu che l'anima tua sia già di tanto matura nella
crisalide terrena, da potere spiegar l'ali, farfalla, nel regno degli
spiriti? Non sai che ogni giorno di terreno dolore che passa, la prepara
a più eletta sorte, la fa degna di maggior grado nell'avvenire? No,
infelice, no, le tue prove non sono finite. Apparecchiati a sostenere le
nuove che ti aspettano, con quella forza che ti servì per le passate.
Macerato dalla sventura, tu giungerai alla soglia della vita umana, più
disposto alla vita superiore che t'attende.
«Non maledire il dolor che ti percuote! Nulla è senza ragione nel
creato; e la volontà divina non è il capriccio dell'arbitrio. «Il vaso —
ricordalo — non ha diritto di dire al vasellaio: perchè mi hai tu fatto
e perchè in questa piuttosto che in quella forma, a questo meglio che a
quell'uso[2]?» Ma la ragione il vasellaio ce l'ebbe. Un giorno verrà
forse — per gli spiriti che hanno vissuto quaggiù dove tu vivi — in cui
potranno alcun poco penetrare dei misteri di Dio. Ciò potrà avvenire
anche di te, e capirai la tua sorte e benedirai il flagello onde fosti
colpito. Abbi intanto fin d'ora l'istintiva coscienza che non inutili
sono le tue pene, e soffri longanime.
[2] Parole di San Paolo.
«Soffri ed ama: soffri e perdona: soffri e confida nel dì futuro!»
La voce che pareva parlare non all'orecchio, ma direttamente nell'animo,
si tacque, e tutto l'essere di Maurilio vibrò ancora per un poco di quel
suono, come le corde dell'arpa vibrano tuttavia quando la mano ha
cessato appena di scuoterle. E il concetto e le parole che lo vestivano
erano appunto nel cervello di lui come l'armonia suscitata sulle corde
da una mano estranea: il suono è dello stromento, ma la melode è ad esso
estrinseca. A Maurilio quelle cose non erano state dette con voce di
suono: parevagli, per così esprimermi, che un altro le avesse pensate
nel suo pensiero.
— Soffrire! soffrire! gemette il giovane, inginocchiato sempre nella
neve. Ma non ho io sofferto abbastanza? Non ho io il diritto di
esclamare che s'allontani da me pur finalmente il calice delle amarezze?
Oh! mi si strappi almeno dal petto questo amore fatale che ancora mi
strugge e che la crudeltà del destino vuole empiamente mostruoso. Ah! tu
non sai, spirito benedetto, quanto questo amore mi tormenti e mi
affatichi col suo tormento! Quella immagine io non posso scacciare dal
mio pensiero, e col mite affetto d'un fratello non posso pensarla! Mi
squarcerei a brani a brani il cuore per tormi questa indomita passione.
Debbo io fuggire la mia famiglia ora che la Provvidenza mi ha ad essa
ricondotto? Mi fu ella mostrata la tenerezza dei domestici affetti e
concessami la possibilità di goderne, solo perchè una maledizione
venisse a piantarsi fra loro e me e rigettarmene lontano? Dovrò io
esecrare il momento in cui ripresi il possesso del nome e delle
condizioni che mi spettano?
Maurilio guardava il fantasima, e gli occhi non umani del fantasima
guardavano lui. Da questi occhi partì una fiamma, un raggio, una
scintilla, un qualche cosa d'inesprimibile che penetrò e si confisse nel
cervello del giovane, e gli suscitò di colpo un'idea che mai non gli si
era nemmeno adombrata. Era un dubbio strano che prese forma in una
domanda.
— Poichè, continuò egli, quello è bene il mio nome, quella è ben la mia
famiglia? Non è egli vero?
Stette aspettando ansiosamente la risposta. Il fantasima non la diede:
ma una indicibile espressione di mestizia insieme e di pietà apparve
sulle sue sembianze. Maurilio con infinita supplicazione protese le mani
verso lo spirito.
— Qual è questo mistero che mi si annunzia? che il mio pensiero intuisce
nel lampo de' sguardi tuoi?... tu sai la verità di certo... Oh dimmi
tutto il vero, qualunque sia...
Si tacque di nuovo in attesa d'una parola, di un cenno. L'aerea forma di
donna lo guardava sempre più mesta e più pietosa; ma non parlò, non
mosse. Il cuore a Maurilio batteva, batteva.
— Sono io figliuolo di Maurilio Valpetrosa? domandò egli con un'ansia
piena d'angoscia. Sono io figliuolo della contessa Aurora?
La neve in quella si mise a cadere; il vento si ridestò più vivo e
faceva turbinare le bianche falde intorno ai rami degli alberi. Il
bianco fantasima si confuse col bianco della neve fioccante. Parve che
quel turbinio avvolgesse, assorbisse, sciogliesse quel vapore condensato
in forma di persona; il sorriso del labbro e dello sguardo si fece più
lieve, si dileguò, sparì in mezzo alla danza dei fiocchi nevosi per
l'aria; ma a Maurilio che guardava intento con pupille fise, parve che
nel punto di dileguarsi quella apparizione scuotesse in segno negativo
il capo, e quella voce non umana che gli aveva parlato nell'anima, gli
susurrasse, ma fievolmente come un'eco lontana, lontana:
— No! no! no!
Il giovane sorse con impeto.
— No?... gridò egli. Io non sono dunque il fratello di Virginia?
Il primo pensiero che gli si presentava era quello dell'amor suo e gli
faceva accogliere quasi con gioia l'ispiratogli sospetto.
— Ma dunque io posso amarla? continuava con trasporto inesprimibile. Oh
parlami! Dimmelo ancora e più chiaramente... Rispondi, rispondi in nome
di Dio! È mia sorella Virginia?
Si avanzò d'un passo verso quel luogo dove gli era apparsa l'ombra.
Tutto era svanito e non si trovò in faccia che il cader lento e
turbinante della neve aggirata dalla brezza.
Sentì una gran confusione nel suo spirito. Aveva egli visto bene in quel
dileguarsi del fantasima? Era davvero un segno negativo quello che gli
era stato fatto ed una parola negativa quella che aveva creduto udir
pronunziata. E se anche ciò fosse, doveva egli credere fosse quella la
verità? E se tutto questo non fosse che illusione? Che fare? Come
sincerarsi della realtà delle cose? Se lo spirito aveva dettogli
veramente così, e certo non aveva mentito, vorrebb'egli usurpare un
posto che non gli toccava, mentre colui che ci aveva diritto viveva chi
sa dove, e chi sa come?
Discese lentamente al villaggio. Camminava assorto, il capo chino, le
braccia incrociate al petto, non vedendo nessuno, non sentendo nulla,
fuori affatto del mondo circostante. Ad un punto sentì una voce che lo
chiamava per nome. Gli pareva di conoscer quella voce, ma il suo spirito
era così lontano ancora dal mondo presente, che non seppe dirsi di chi
fosse; non le badò e continuò il suo cammino; un passo affrettato gli
corse dietro e lo raggiunse; una mano si posò sulla sua spalla e la voce
che già lo aveva chiamato gli disse:
— Eh Maurilio! sei tu sordo?
Egli si riscosse in sussulto; si volse e si vide dinanzi Gian-Luigi.
La vista del suo compagno d'infanzia fu a Maurilio in quel momento poco
piacevole, quasi molesta. Forse perchè veniva a sturbarlo da' suoi
pensieri; forse perchè l'irrequietezza dell'anima e l'irritazione dello
spirito confuso inasprivano ogni ricevuta impressione.
— Tu qui! esclamò egli con voce ed accento di burbera impazienza. Che
vieni tu a farci?
Quercia lo guardò stupito e parve nel suo occhio nero fosse per
lampeggiare il risentimento: ma di colpo si atteggiò alla più serena
ilarità la mobile espressione della sua bella faccia; ed egli ruppe in
una franca risata.
— Affè mia che non lo so io stesso. Avevo detto di venirci come prima
avrei potuto, e _promissio boni viri_.... con quel che segue. Mi sono
detto: poichè ho da mantenerla questa promessa, il meglio è che me ne
sbrighi il più presto. Siccome son io che meno gli avvenimenti della mia
vita, e non gli avvenimenti che menano me, mi sono procurato un giorno
di libertà e son volato... coi cavalli dell'_omnibus_. Sissignore son
venuto prosaicamente in quell'orribile baracca rompitrice di ossa umane,
per non sciupare il mio bravo cavallo; ed eccomi qua pronto a cogliere
sulla mia faccia i baci e le lagrime di tenerezza della povera
Margherita... E sei tu che mi facevi rimprovero del non venirci, il
quale ora hai da domandarmi con quell'aria di superiore corrucciato che
cosa son qui per fare?
Maurilio evidentemente non prestava attenzione alle parole del compagno
e non aveva capito nulla. Gian-Luigi con atto di amichevole
domestichezza volle passare il braccio in quello di lui, ma egli si
riscosse a quel tocco e ritrasse in là la persona guardando l'amico con
sì torbida cera che Quercia si fermò su due piedi.
— Orsù, diss'egli con accento e con isguardo superbamente risentiti; che
novelle son queste? che ti frulla pel capo, e con chi pensi tu ora di
aver da trattare? I fumi del tuo nuovo stato ti sono eglino già saliti
così stupidamente alla testa da metterti — e verso di me! — in una
stolida superbia?... Senti tu già il gorgoglio del sangue patrizio
ignorato pur ieri?
Maurilio parve allora destarsi da un sogno penoso.
— Io superbia? esclamò. Sangue patrizio, io?
Gli sembrò vedere ancora, in mezzo al bianchiccio della neve cadente, la
leggera forma del fantasma scuotere il capo in segno di negazione.
— No, no..... Non ho superbia, non ho sangue patrizio.... Sono plebeo,
tutto plebeo, non altro che plebeo.
Gian-Luigi lo guardò attentamente con occhio acuto, penetrativo,
profondo; subodorò un segreto.
— Perchè parli tu così? diss'egli lentamente. È il tuo animo che senti
fallire alla nuova condizione, o questa che ti fallisce?
Maurilio fu sul punto di narrar tutto; ma guardando il suo compagno gli
vide nel volto e nella pupilla soprattutto una intentività quasi maligna
che respinse in lui la fiduciosa espansione; crollò il capo, fece un
atto colla mano per significare: gli è nulla; e si tacque.
Camminarono alquanto in silenzio l'uno accosto all'altro per la via
deserta del villaggio; quando apparve loro dinanzi la modesta facciata
della chiesa in fondo alla piazza, il _medichino_ domandò bruscamente:
— Dove sei tu avviato?
— Rientro in casa di Don Venanzio.
— Ed io vo dalla Margherita. Annunzia la mia visita al parroco; fra
dieci minuti sarò a salutarlo e domandargli un boccon d'asciolvere.
Maurilio, colla mente ancora preoccupata, disse sbadatamente:
— Se ti accompagnassi dalla Margherita....
— No: interruppe con vivacità Gian-Luigi: queste scene di
riabbracciamenti non vogliono testimonii.
— Hai ragione. A rivederci dunque fra poco nella _canonica_.
— A rivederci.
Si separarono. In breve Gian-Luigi fu alla porta del tugurio, dove, ad
un'estremità del villaggio, abitava la povera donna che gli aveva fatto
da madre. Picchiò a quel povero uscio di assi tarlati e poco ben
connessi, senza che la menoma emozione gli turbasse il regolare battito
de' polsi. Un passo lento e trascinantesi si udì accostarsi nell'interno
della capanna; l'imposta fu aperta e si presentò sulla soglia la persona
ricurva della vecchia Margherita, il capo avvolto nel suo grossolano
fazzoletto, la sua conocchia piantata al fianco nel legaccio del
grembiule e il fuso tra mano. La si aspettava così poco di trovarsi
innanzi il suo figliuolo adottivo in quel momento che guardò
meravigliata quel signore elegantemente vestito che era venuto a
picchiare il suo uscio e non riconobbe in esso colui che da tanti anni
non aveva più riveduto ed aveva desiderato rivedere pur sempre.
Però, senza sapersene dire essa stessa una ragione, la sua voce fiacca e
velata tremava più dell'ordinario quando gli chiese con parole confuse
che parevano un balbettìo che cosa volesse, di chi cercasse.
— Ah! voi non mi riconoscete più, mamma Margherita? Disse il giovane con
un piacevole e schietto sorriso.
La vecchia lasciò cadersi il fuso e strapparsi il filo, alzò le scarne
mani abbronzate, all'altezza della testa, e battè palma a palma,
gettando un grido cui la soverchia intensità dell'emozione soffocò a
mezzo.
— Sei tu! Sei il mio Giannino! esclamò: oh Santa Vergine dei dolori!...
E quelle mani secche, inaridite, color di rame, tremanti per gli anni e
pel tanto turbamento di quell'istante, allungò verso il giovane per
istringerlo al collo, per afferrare quel capo diletto e tirarselo a sè a
baciarlo ed abbracciarlo e stringerlo ai miserabili panni che le
coprivano quel seno che lo aveva alimentato. Ma Gian-Luigi — fu egli un
istintivo impulso di vergogna che lo spingesse a sottrarre la vista di
quell'amplesso della pezzente agli sguardi di chi poteva passare per la
strada, fu il pensiero amorevole di levar via più presto dall'aria
ghiaccia che soffiava sul villaggio il debil corpo della vecchia? —
Gian-Luigi afferrò quelle braccia che si stendevano con tanto amore
verso di lui e per esse trasse indietro la donna finchè ambedue furono
entrati nel tugurio e la porta potè richiudersi dietro di loro.
— Ed ora, diss'egli poi ripigliando quel suo leggiadro sorriso, mamma
Margherita, abbracciatemi pure.
La donna lo guardava con occhi che per miracolo avevano ritrovata una
parte dell'antica vivacità della loro giovinezza. Quel sorriso del suo
Giannino, com'ella, per antica abitudine, lo chiamava pur sempre, le
illuminava lo squallido suo abituro come un raggio di sole primaverile
entratovi ad un tratto a dispetto della stagione e della neve. La voce
di lui suonavale come la più gradita melodia del mondo.
— Sei tu! sei tu! sei il mio Giannino! Oh Santa Vergine dei dolori!
ripetè essa come se la non sapesse trovare altre parole; e gettategli le
braccia al collo lo baciò e lo ribaciò sopra una guancia e poi
sull'altra, e poi sulla fronte, e poi sulle labbra, e finì per rompere
in un pianto dirotto con forti singhiozzi.
L'impressione del tristo giovane non fu di tenerezza. Le malvagie
passioni troppo avevangli guasto il cuore e smussata la sensibilità,
perchè egli comprendesse la profonda e santa emozione di quella povera
vecchia, la partecipasse e vi si compiacesse. In quell'amplesso, a
contatto di quelle vesti fruste e rappezzate, di quelle membra magre e
sfiacchite, sentì come un odore disgustoso di miseria e d'angustie; gli
parve quasi che il bisogno e l'abbiezione e la vergognosa umiltà di quel
miserabile ceto plebeo da cui egli aveva tanto fatto per uscire,
incarnati nella persona di quella squallida vecchia, gli gettassero le
braccia al collo per riprenderlo in loro possesso, per trarlo a
precipitar di nuovo nell'oscuro abisso. Si sciolse dall'abbraccio e
disse non senza qualche impazienza:
— Via, via; non piangete così. Affè che non ci vedo nulla da piangere!
Margherita si asciugò in fretta le lagrime.
— Hai ragione..... Non so nemmeno io perchè piango..... dovrei essere
così allegra..... Lo sono, sai..... Vorrei farti tanta festa e non
so.....
Non vi starò a ripetere tutte le parole di quella povera donna, che
avrebbe voluto poter cambiare in un tratto la sua capanna in una reggia
con ogni abbondanza di ben di Dio per accogliere degnamente il suo
diletto figliuolo. Non vi dirò i suoi ringraziamenti per l'invio delle
mille lire, le proteste ch'ella fece quando udì che Gian-Luigi di quella
stessa giornata sarebbe ripartito, e le preghiere per farnelo fermare
almeno un giorno ancora. Il giovane che tutti questi discorsi tollerava
con appena velata impazienza, li troncò per farsi egli a dire quello che
più gl'importava e che era stato la vera cagione della sua venuta.
— Date retta, Margherita, cominciò egli mettendole una mano sulla spalla
e guardandola ben fiso affine di richiamare alle sue parole tutta
l'attenzione di lei: se un gran pericolo mi pendesse sul capo e voi
poteste stornarlo, non è vero che lo fareste?
La vecchia strinse le mani in atto di quasi offesa meraviglia.
— Dio buono! Santa Vergine dei dolori! E me lo puoi domandare?... Farei
ogni possibil cosa... darei questa grama di vita... e più ancora... per
venirti in aiuto... Ma pur troppo, che potrò io mai fare per te, io,
povera vecchia?...
— Voi potrete assai. Un pericolo può minacciarmi da un momento
all'altro; e voi, non con fatti, ma con sole parole, potete concorrere a
salvarmene.
— Parla, parla. Che debbo fare? che debbo dire?
— Voi potreste essere chiamata da qualche autorità a dare informazioni
del mio passato, a narrare la storia della mia infanzia: così disse
Gian-Luigi con voce bassa e pronunzia spiccata, parlando lentamente e
tenendo sempre una mano sulla spalla a Margherita e gli occhi entro gli
occhi perchè le cose ch'ei diceva le si imprimessero ben bene.
La vecchia non moveva un dito, non batteva palpebra: aveva concentrata
tutta la sua vitalità negli occhi che fissavano il giovane e nelle
orecchie che assorbivano avidamente le parole di lui; ad ogni motto
quasi ch'egli pronunziava la faceva un leggier cenno del capo, come per
dire: «ho capito, questo non mi scappa più.»
— In tal caso, continuava il _medichino_, voi ripeterete parola per
parola ciò che ora verrò dicendovi.
Espose in quel modo lento e con quel tono spiccato la favola della sua
sorte che aveva narrata al signor Giacomo Benda ed al commissario Tofi;
appena la ebbe finita, la ricominciò da capo e tornò a dirla tutta
perchè di subito la si fermasse con tutti i suoi particolari nella
memoria di Margherita; e poi come ricapitolando soggiunse:
— Voi dunque affermerete che fu il dottore il quale vi mandò all'ospizio
a prendere non un trovatello qualunque, ma uno particolarmente
designato, quello cioè a cui per contrassegno, nell'esporlo era stata
messa tra le fascie la metà d'una lettera lacerata per lo lungo, nella
quale si leggevano le tali e tali parole, voi direte che fino dai
primissimi tempi, il dottore medesimo, benchè di nascosto così che
nessuno potesse accorgersene, pigliava interesse di me e veniva di
quando in quando segretissimamente a visitarmi; aggiungerete ch'egli vi
pagava eziandio in segreto, e che dalle sue parole avevate potuto capire
che agiva dietro mandato di qualche lontana persona; e infine — e qui
non avrete più che da dire la verità — che più tardi egli mi prese seco
e fu lui a farmi studiare, e quando morì mi lasciò una parte della sua
eredità.
Margherita aveva sempre ascoltato a bocca ed occhi larghi, immobile come
una statua.
— Avete capito? le domandò il giovane.
Ella accennò di sì.
— Sareste capace di ripetermi questa storiella? Su via, provatevici.
La vecchia ripetè dal principio alla fine, senza sbagliare d'un punto.
— Benissimo! Ma converrà che la riteniate ben bene a memoria, e che ogni
qualvolta possa occorrere, voi siate in grado di dirla come adesso,
senza imbrogliarvi e confondervi.
— Me la ripeterò fra me stessa, mattina e sera, tutti i giorni.
— Brava! E se vi domanderanno come avvenne che il medico pagandovi
secondo quello che dite, voi siate pur sempre rimasta nella miseria,
risponderete che spendevate ogni vostro danaro a giuocare in segreto al
lotto.
Margherita espresse per la prima volta un po' di scontentezza.
— Ah! questa è una ben grossa bugia.
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