La plebe, parte IV - 25

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— Ella è un santo.... l'ho sempre saputo.... Io la ringrazio; ma mi
sembra pure che le messe dette apposta devono piacere di più colassù e
farci più favorevoli quelli di cui domandiamo la protezione e l'offerta
di qualche cosa....
Il parroco interruppe con più impazienza di prima:
— Eh! voi misurate i Celesti alla nostra povera misura umana. Credete
ch'e' sieno come i potenti della terra, che si rendono propizii coi
regali?
Se fossero stati soli, il parroco e la vecchia contadina, forse il primo
non avrebbe parlato con tanta vivacità; ma in presenza dell'incredulo
Maurilio (che tale era il giovane nel concetto del buon sacerdote)
questi provò una certa irritazione, che non seppe dominare, nel vedere
una sua parrocchiana dare una così patente prova di erroneo concetto nel
suo sentimento religioso.
La vecchia, meravigliata e un po' intimorita del tono con cui le parlava
il parroco, in lui affatto nuovo, disse umilmente:
— La scusi... Credevo far bene... Ma Lei la sa più lunga di me... E se
Lei dice di no, è segno che gli è no... E io sono pronta a far tutto a
suo senno.
— Bene, bene: riprese il parroco tornando di subito al suo bonario
sorriso ed al suo benigno accento. L'intenzione è quella che dà il
carattere ad ogni atto; e la vostra intenzione è la migliore del mondo,
lo so. Ma credete a me, e spendete quei denari a sollievo de' vostri
bisogni... Ora andate, e Dio vi mandi una buona notte.
La vecchia si levò di fretta.
— Oh! la sarà buona di sicuro: disse. La si figuri se dopo una novella
simile!... Già non potrò dormire: ma che importa? Sono la più felice
donna del mondo... La buona notte anche a loro... ed a Lei, sor
Prevosto, tutte le benedizioni di Dio!...
Uscì. Don Venanzio e Maurilio la seguitarono collo sguardo. Quando
rimasero soli i due uomini, successe un silenzio, i loro pensieri
giravano intorno ad una grave quistione; ma l'uno e l'altro pareva che
si peritassero ad affrontarla. Fu Don Venanzio il primo che francamente
l'abbordò. Immaginava egli le ragioni e gli argomenti che la incredulità
di Maurilio dovesse agitare seco stesso contro la religione di cui egli
era ministro, suscitati da quell'occasione in cui la donnicciuola
ignorante aveva manifestato la natura della sua fede: e parvegli che non
andare incontro egli stesso a quelle obiezioni e distrurle, non isfidare
la disputa, fosse una specie di viltà, fosse un mancare al proprio
dovere. Levò arditamente la sua bella fronte canuta, come un valente
guerriero che si prepara a combattere, e disse al giovane che gli sedava
muto e pensoso dinanzi:
— Quella donna ha seco una forza... Per questa potè reggere ai travagli
della sua vita infelice; per essa resiste ora ai mali della vecchiaia e
della miseria. Ha la fede! È una fede da semplice, da ignorante,
offuscata, se vuoi, da nebbie superstiziose; ma è pure una fede — ed è
la vera.
Maurilio volse lentamente la sua grossa testa verso il parroco; lo
guardò con una indicibile espressione di calma riflessiva, di
convinzione profonda, di fermezza di proposito, e rispose colla sua voce
affranta e posata:
— Anch'io ho una fede!... E nelle linee principali, generalissime,
s'assomiglia, s'accosta, è forse anco la medesima di quella della povera
Margherita; ma nel suo complesso, nel modo di formularsi
all'intelligenza, di estrinsecarsi ed attuarsi, è diversissima. Ma Ella
afferma che quella della donna ignorante è la vera; e quindi la mia,
quella di chi la pensa come me, dev'essere falsa. Qui sta il punto.....
Fu interrotto dalla fantesca che recando in tavola una terrina fumante,
disse:
— Eccoli serviti.
— Bene: esclamò Maurilio sorridendo; cominciamo per cenare, e dopo, se
la vuole, discuteremo.
Don Venanzio fece un atto di acquiescenza sorridendo del pari, ed
ambedue si accostarono al desco. Il parroco stette un momento in piedi
colla sua berretta in mano, pronunziando a mezza voce il _Benedicite_.
Maurilio rimase dritto ancor egli con aria di rispetto, ma non disserrò
le labbra: finita la preghiera, sedettero, spiegarono le serviette che
sentivano un buon odore di bucato, e si posero allegramente a mangiare.


CAPITOLO XV.

Quando ebbero finito, e la tavola fu sparecchiata, i nostri due amici,
le gomita appoggiate sul tappeto, l'uno in faccia dell'altro, avviarono
animosamente la discussione che aveano lasciata in sospeso.
Non ripeterò che sommariamente le cose che furono dette dall'una parte e
dall'altra, e risparmierei affatto questa noia al lettore, se non
credessi opportuno far conoscere anche da questo lato lo spirito del mio
protagonista, il quale rappresenta meglio che altri le audacie e le
ispirazioni del pensiero moderno; epperciò con alquanto maggior
estensione, benchè in sunto, riferirò le ragioni da lui addotte nella
disputa.
Don Venanzio si appigliò senza ritardo alla, secondo lui, indiscutibile
autorità della rivelazione e della ininterrotta tradizione. La Chiesa
cattolica ebbe direttamente da Dio la cognizione della verità e la
capacità e la facoltà di diffonderla, spiegarla, affermarla. La mente
umana è troppo debole per affrontare colle sole sue forze la terribilità
del quesito religioso, di cui pure è necessario uno scioglimento al
bisogno intimo che Iddio medesimo ha voluto porre nella natura
dell'uomo. Senza un appoggio solido e potente la nostra ragione si
smarrisce nella ricerca di questo vero che è di tanto superiore alla sua
sfera d'azione, alla sua efficacia. La rivelazione è venuta a porgere
questo punto di appoggio, a dare il caposaldo alle aspirazioni religiose
dell'anima. Della verità della rivelazione poi non è da dubitarsi,
perchè la tradizione medesima, la incontestabile autorità dei testi
sacri la stabiliscono, anche sotto il rispetto storico, in modo
definitivo, ed è empio proposito e più empio attentato il volerla
rivocare in dubbio soltanto. Vi sono in quel complesso di credenze che
costituisce la fede a cui Don Venanzio apparteneva, alcune cose che
l'infausto e diabolico orgoglio della povera ragione umana, aiutata e
spinta dall'arte e dall'influsso dell'eterno nemico, vuol trovare
assurde, impossibili ed anche puerili. Ma vi è pure una quistione
principale e, come si suol dire, pregiudiziale, che tronca affatto e
rimove del tutto ogni simile obiezione. Come volere la ragione nostra
giudice della possibilità di cose che di tanto stanno al di là del
debole arrivo delle sue forze? Anzi tutto quello che può servire di buon
argomento nel campo della sua azione, cessa di aver effetto e si
converte in argomento a contrario per la ragione umana, quando la vuol
recare i suoi metodi logici e le sue deduzioni là dove ella non ci ha
più nulla da vedere, perchè non vi basta la cortezza della sua vista. In
questo senso fu detto il motto sublime: _Credo quia absurdum!_ E ad ogni
modo con che fronte, con che speranza di vittoria può la ragione umana
cimentarsi colla rivelazione? Questa è la parola diretta di Dio: quando
ella ha suonato chi non vede che si ha l'elemento supremo della verità?
E per promessa di Dio medesimo, non è una continua rivelazione la parola
della Chiesa legittimamente costituita, pronunziata da' suoi legittimi
rappresentanti? Una delle prove più perspicue della verità di quella
fede che egli professava, secondo il buon prete, era la dolcezza, la
tranquillità che ne sente chi in essa acquieta l'anima sua; era il gran
conforto che glie ne viene, anche nei maggiori travagli a chi,
appoggiato alla medesima, s'erge al Cielo sull'ali della preghiera:
speciali grazie e ricompense queste che Iddio concede appunto ai veri
credenti.
Maurilio la prese da quest'ultimo argomento, ritorcendolo di questa
guisa:
— Ma allora perchè tanti e tanti, allevati appuntino nella più stretta e
rigorosa ortodossia, sentono ad un tratto levarsi nell'animo loro le più
crude incertezze, i più ansiosi dubbi su quelle credenze, contro alcuna
delle quali protesta la loro ragione venuta a maturanza? E costoro son
quelli d'ordinario cui più volle favorire la Provvidenza di forza
d'intelletto. Perchè i tormenti di questi dubbi che sono quasi il
risvegliarsi della ragione? perchè questo ribellarsi e ripugnare
dell'intelligenza sviluppatasi contro le credenze insinuate fin dalla
prima età nell'animo nostro, così da essersi fatte per tutti come cosa
sacra da non isfiorarsi neppure coll'audacia dello spirito d'esame? Se
quella è la verità assoluta od anche solo quale è acconcia al nostro
intelletto, questo in tutti, e tanto più in quelli che l'hanno maggiore,
dovrebbe aderirvi tenacemente pago e soddisfatto. L'acquiescenza poi dei
credenti alle cose insegnate come verità indiscutibili, e la pace e la
beatitudine che l'anima loro ne risente, non sono un privilegio dei
fedeli della sua Chiesa; lo si ritrovano presso tutti quelli che hanno
una forte e profonda credenza radicata nell'animo, sieno essi
protestanti, giudei, maomettani, anche idolatri. È questo un effetto
mirabile certo, ma non esclusivo d'una sola religione; è effetto della
fede in genere, della sostanza di questo attributo dell'uomo, la facoltà
di credere nel mondo sovrumano, non della forma in cui questo attributo
si esplica e manifesta.
«Sì, caro padre mio, anche in ciò si ha da distinguere la sostanza e la
forma, e da tenerne conto. Quella è immutabile, e consta in realtà di
poche verità generali, cui la forma poi interpreta, spiega, applica od
offusca a seconda. Quella eterna come il vero assoluto, sta al di sopra,
all'infuori d'ogni azione dell'umano intelletto, delle circostanze di
condizioni morali e civili in cui l'umanità si trovi; questa, la forma,
come cosa puramente umana che ella è, partecipa della sorte di tutte le
cose umane, si viene scambiando, migliorando, purificando, elevandosi a
sempre più perfetto grado, a misura appunto che lo spirito umano si
migliora, si perfeziona, vede ingrandirsi innanzi a sè il campo del vero
ed acquista forza e capacità maggiore a contemplarlo. Questa forma è
adunque, più d'ogni altra cosa ancora, l'espressione del grado di
coltura, di sapere, di civiltà a cui gli uomini sono arrivati, e
riflette eziandio i caratteri delle nazioni e delle razze. Gli è per ciò
che il mondo moderno è cristiano, che i selvaggi sono idolatri, che i
latini sono cattolici.
«Quindi si fa che non è solo un errore, ma è cosa empia quella che tutte
le religioni positive commettono, di confondere la forma variabile e la
sostanza eterna, di voler dare alla prima le qualità e l'autorità della
seconda, d'imputar così alla religiosa essenza le colpe e gli errori
degli uomini che di quella si profittano. Da ciò avviene eziandio che in
certi momenti la forma invecchiata non si adatta più convenientemente
allo stato presente degli spiriti; e la sostanza medesima della fede,
per non essere intaccata essa stessa, per non correr rischio di perire
nel naufragio della forma diventata insufficiente e ripugnante alla
ragione progredita, lavora ella medesima a distrurla. Allora si accusano
di empietà e d'incredulità coloro che rifuggono da certi dogmi e da un
culto che non soddisfano più la loro coscienza religiosa divenuta più
delicata e più illuminata, e i quali, fors'anco inconsciamente, lavorano
a preparare la modificazione della forma in una fase novella.
«La sua Chiesa medesima, Don Venanzio, benchè riluttante ad ogni
cambiamento, benchè acremente tenace d'ogni sua parte, non segue ella
questa legge naturale e necessaria dell'umano progresso? Quanto non si è
ella venuta modificando nel corso dei secoli? Quanto non ha ella
cambiato insegnamento, disciplina e i dogmi perfino? Dalla Chiesa
primitiva alla presente, chi le paragonasse, quale immenso divario!
Senza volerlo, senza confessarlo, ha pur dovuto camminare coi secoli.
«Ma la ragione umana che ha sempre camminato più di lei, l'ha lasciata
indietro di molto, ed ora, mentr'essa non solo vuole immobilitarsi, ma
anzi regredire, la ragione invece ha preso slancio maggiore e più ardita
foga verso il vero. Di qua il quasi necessario divorzio e
l'irrimediabile contrasto fra l'una e l'altra.
«La ragione voi la negate; la volete, se non altro, sottomessa ad
un'autorità indiscutibile di cui non si hanno da esaminare il valore e
le prove. Contro la coscienza della ragione moderna voi urtate pel
metodo, per la dottrina, per la morale e pel culto; non proponete,
imponete, insegnate il sopranaturale e lo sostenete col mistero
appoggiato al miracolo, spiegate l'incomprensibile coll'inammessibile;
ordinate per morale un'obbedienza interessata agli ordini d'una volontà
estrinseca; ponete negli atti esteriori del culto, in certi mezzi
meccanici, in simboli, in operazioni materiali la condizione della vita
religiosa delle anime.
«Il vostro insegnamento dottrinale si fonda in gran parte sopra un
concetto dell'Universo, del principio dell'Universo, di un rapporto fra
questo e quello, cui la scienza ha dimostrato erronei...
— Ma la rivelazione: interruppe Don Venanzio.
— La rivelazione cui voi affermate sempre ma di cui non date prove che
possa la severa critica disaminare, ma cui non volete sottoposta a
questa disamina; la rivelazione da questo lato affermerebbe come vere,
cose che una certezza positiva ha dimostrate assolutamente false. La
scienza ha distrutto i miracoli, e la ragione, più robusta, ripugna ai
misteri. Il mondo è pieno di fatti inesplicati, fors'anco per noi
inesplicabili, ma non di fatti essenzialmente inintelligibili: volendo
fondarvi sull'assurdo e sull'impossibile non potete trovare un punto
d'appoggio saldo e valevole: il vostro edificio traballa al primo urto
del dubbio. Perciò siete costretti a proibire addirittura il pensiero. I
misteri che voi m'imponete, sono soltanto superiori alla ragione senza
contraddirla, oppure la contraddicono? Sono essi assolutamente
inintelligibili? Ma ciò che è inintelligibile non è: ciò che la nostra
intelligenza non può apprendere non è fatto per noi. Quello a cui
contraddice la ragione, dono di Dio, non può essere del pari; a meno che
la ragione ci sia data per vedere il falso. Empietà questa maggiore
d'ogni eresia.
«La vostra morale ci comanda non di fare il bene, ma di obbedire ad una
allegata volontà superiore manifestataci per certi intermediari: voi
mettete fuori di noi il nostro salvamento. La giustizia per voi è quel
che vuole l'Ente supremo quale voi ce lo presentate: ma invece la
giustizia è per se stessa.....
— Disgraziato: interruppe qui il buon vecchio, sgomento, afflitto,
disperato, direi quasi, di udire una tal filza di parole che per lui
erano tutte empietà. Oh come hai tu imparato tante orrende dottrine?
Come hai tu fatto ad aprir l'animo a questi diabolici sofismi? E tu
dicevi di aver pure una fede! Ma no; non è punto vero: tu sei un ateo.
— No: esclamò Maurilio con forza, levando la fronte. Credo e credo
fermamente: veggo nell'opera il creatore, sento Dio nell'universo. Glie
lo dissi e lo ripeto: Ho una fede ancor io.
— Ma quale?
— Mi ascolti.
Si raccolse un momento, e poi riprese il discorso.
— Ho detto che la forma estrinseca del sentimento religioso si scambia a
seconda collo scambiarsi del grado intellettuale a cui è giunto lo
spirito dell'uomo. Ecco le varie e principali fasi per cui ella passa e
deve passare.
«A tutta prima l'uomo, rozzo affatto e selvaggio, adora la natura. Ha
già fatto un passo immenso dallo stato assolutamente primitivo a quello
in cui si crea una religione qualsiasi, per quanto grossolana e puerile
ella sia, e nella storia dell'umanità chi sa quante sequele di secoli
dovettero passare, innanzi a che si giungesse a questo primissimo grado
dello sviluppo religioso dell'anima umana. Ma pure allora l'uomo è
tuttavia incapace di elevarsi al concetto della natura universale: egli
non rimane colpito che dagli oggetti che gli son prossimi e non va al di
là dei limiti del suo ristretto orizzonte. Gli oggetti del suo culto per
ciò si fanno quelli di cui si serve, che gli sono utili, che ama, di cui
ha timore: un albero, un masso, una montagna, un fiume, una belva, un
animale qualunque. La speranza ed il timore ispirano sopratutto il suo
culto grossolano. Siamo in pieno feticismo.
«Nel secondo grado l'uomo levandosi col pensiero al di sopra dei bisogni
e dei ristretti limiti della sua vita giornaliera, onora certi oggetti
maggiori, più belli, più brillanti: la luna, il sole, gli astri, la
vôlta celeste in cui si movono. Questi oggetti gli sembrano contenere un
grado di perfezione superiore a quanto trovasi sulla terra. È il
sabeismo; e l'intelligenza umana in esso possiede già una vaga nozione
dell'universo.
«Più tardi quest'intelligenza, progredita d'alquanto, giunge a concepire
sotto gli oggetti che mostra la natura, le forze che l'animano, che si
agitano nel seno della medesima natura, che danno ad ogni cosa il
movimento e la vita. Dietro gli elementi indovina le leggi alle quali
essi obbediscono e ne fa delle potenze dotate d'una esistenza personale
e indipendente; è costituito il politeismo. Poco a poco arriva in
seguito a comprendere l'ordine morale e lo fa entrare a sua volta nel
concetto delle sue divinità, attribuendo loro tutte le qualità che trova
nell'uomo stesso e tutte le perfezioni di cui può concepire l'idea. Di
questa guisa il politeismo già si trasforma e veste un carattere
filosofico. La religione comincia a passare dal tempio alla scuola; si
fa a studiare i problemi della nostra natura, del nostro fine, del
nostro destino. L'umanità è pronta per una religione metafisica, che è
il quarto grado del suo sviluppo.
«Questa religione metafisica, lascia in disparte la natura, non cura più
il mondo fisico, fissa i suoi sguardi sull'essere divino medesimo,
studia i suoi attributi e li vuole determinare e definire nel dogma. Ma
nel dogma s'incatena la ragione; si cristallizza, per dir così, il
progresso mentale dei tempi precedenti e si vuole immobilitare lo
svolgimento dell'umano pensiero. È la servitù: l'uomo è dichiarato
incompetente a nulla cambiare a simboli comunicati direttamente dal
cielo. A guardia di codesti simboli si pone un sacerdozio gerarchico che
per sua natura ed istituto e necessità logica delle premesse dovrà
sempre più isolarsi dal laicato. Questa casta si perpetuerà man mano con
delle reclute che si formerà ella medesima: costituirà un'associazione
potente con interessi proprii, stranieri e talvolta contrari a quelli
degli altri uomini; lavorerà tenacemente nel proposito di vantaggiar
sempre se medesima, senza tener conto dei voti e dei bisogni della
società cui vorrà anzi tutto dominare, e in conseguenza impedirà ogni
progresso, respingerà ogni innovazione, timorosa sempre la sua potenza
non ne venga a scapitare.
«La sua divinità, qual essa la presenterà all'uomo, sarà inaccessibile
all'intelligenza terrena; sarà tale da doversi ignorare dalla ragione
quali disegni abbia essa sugli uomini e ciò che da essi esiga. Quindi
per servirla a dovere, questa divinità, converrà affidarsi del tutto
alla casta che si propone e s'impone intermediaria fra essa e l'uomo,
che si spaccia sola interprete della volontà divina, ed accettare senza
esame i suoi decreti. La casta sacerdotale diventerà così l'arbitra
assoluta del pensiero umano. Mercè quella oscurità impenetrabile in cui
avvolgeranno il loro Dio invisibile, essa comanderà sacrifici ed
offerte, spaventerà gli animi e le immaginazioni, fulminerà coll'anatema
i suoi avversari, punirà i nemici colla maledizione tradotta anche nei
supplizi materiali.
«Ma questa è schiavitù, e l'anima umana e l'intelligenza umana non
possono durare a lungo in questo stato di violenza il quale le
condurrebbe addirittura alla distruzione. Per quanto si faccia, la
ragione comincia a protestare. Invano si moltiplicano le persecuzioni,
il grido della libertà del pensiero scoppia qua e là. L'umanità, stanca,
che si sente sminuita nella sua parte più essenziale, vuole rigettare la
cappa di piombo che l'opprime. Anche presso coloro che non avventurano
di cimentare le credenze autoritativamente loro imposte alla corte della
ragione, la materialità degli atti esteriori perde il suo significato;
il pensiero che si adombrava nei simboli se n'è staccato perchè questi
non valevano più ad esprimerlo e rimangono come vuote spoglie prive di
corpo e d'anima. La coscienza si risveglia: opinioni indipendenti,
pensieri di libertà s'infiltrano da ogni parte e corrodono le basi
dell'edificio da cui il vero spirito divino si viene man mano ritirando:
un giorno sopraggiunge, in cui le pareti crollano da ogni parte e rimane
su quelle rovine la coscienza dell'uomo levata e potente nella sua
libertà. Si è arrivati allora al grado più perfetto dell'evoluzione
religiosa che mente d'uomo possa ora concepire: il regno della libera
coscienza.
«Allora la fede non è più l'accettazione dell'assurdo, che è
un'abdicazione ingenerosa della propria ragione, ma diventa il
_rationabile obsequium_ di San Paolo; allora si verifica la parola del
Cristo, che si deve adorare Iddio in ispirito e verità; allora sarà
compiuto il ciclo della contrastata missione del Nazzareno, e l'uomo
sarà posto senza intermediario in relazione coll'Eterno, e sarà, secondo
la promessa di Cristo, in comunicazione col Padre di tutti.
«L'umanità trovasi sparsa su per la via del progresso, in tutti questi
gradi della manifestazione religiosa, dai selvaggi che sono ancora nelle
tenebre del feticismo (e forse ve ne ha tuttavia di quelli in cui il
sentimento religioso non è neppure nato) ai più avanzati delle classi
colte presso le nazioni incivilite, i quali già hanno posto il piede su
quell'ultimo gradino della libera coscienza.
«Io mi vanto d'essere fra costoro.
«Credo all'infinito, credo all'assoluto, credo all'eterno, credo alla
intelligenza regolatrice delle forze del creato, credo ad una evoluzione
del destino umano che non si compie nella breve vita su questo
miserabile globo, credo alla giustizia ed alla responsabilità d'ogni
libero volere; ma credo a ciò, perchè la mia ragione me ne persuade, non
perchè altri voglia impormene la fede con un'autorità che non vuole dar
le prove di sè stessa, o con una violenza morale o materiale. E non
penso che sieno empii, maledetti, da condannarsi, da disprezzarsi, da
infamarsi coloro a cui la ragione persuase altre credenze....»
Maurilio avrebbe continuato chi sa per quanto tempo ancora; Don Venanzio
avrebbe ribattuto, chè già mulinava nella testa una filza d'argomenti ed
una dozzina di citazioni da confondere il miscredente, e la disputa si
sarebbe protratta chi sa fin quando, se la fantesca, per quell'interesse
che aveva al padrone, con quella un po' brusca ma affettuosa
domestichezza che le davano i tanti anni passati in quella casa ed in
compagnia del vecchio parroco, non fosse venuta ad interrompere.
— Scusino, ella disse, ma per questa sera m'è avviso che s'è abbastanza
taroccato. Oh non sanno che ora è? Presto la mezzanotte. E dunque gli è
gran tempo di andare a dormire, Lei, sor Prevosto, sopratutto che la
mattina vuol sempre alzarsi al canto del gallo ed aver detta la sua
brava messa prima che sia giorno chiaro.
I due disputatori si guardarono sorridendo. Don Venanzio s'alzò primo e
tese la mano al suo giovane avversario che ne aveva imitato l'esempio.
— Neppur io, disse, non odio, non disprezzo quelli che la pensano
diverso da quel che vuole la Santa Madre Chiesa.... ma li compiango. Un
giorno o l'altro — io seguito sempre a sperarlo e prego tanto per ciò! —
un giorno verrà che anche tu ti accosterai e riparerai al più sicuro
porto della nostra fede e rimpiangerai allora le eresie e peggio che ora
ti stanno in mente.
Maurilio non rispose che col sorriso: e tutti due andarono a dormire.
Il nostro protagonista non dormì molto, ma passò quiete più che non si
pensasse le poche ore della notte nella modesta cameretta della
canonica. Le memorie del suo passato, evocate più vive dal trovarsi in
quel luogo, s'intrecciavano colle condizioni del suo presente ad
occupare in un lavoro di meditazione e di fantasticheria la sua mente:
ma ora quell'amarezza, quel tormento che i suoi pensieri avevano prima,
erano sminuiti. Perfino la immagine di Virginia, persino il ricordo che
la era sua sorella, affacciandoglisi alla fantasia, gli parevano in quel
punto meno dolorosi, gli eccitavano men crudo turbamento: ma egli però
si affrettava a scacciarli, e riparava sollecito l'animo nelle memorie
della età della fanciullezza.
Secondo quanto aveva detto la fante, il gallo aveva appena fatto
risuonare per la prima volta il suo canto mattiniero, che Maurilio udì,
da un lieve e riguardoso muoversi per la casa, che il parroco era già
alzato. Si levò sollecito ancor egli, e sceso a tentoni nel tinello, chè
l'oscurità era compiuta ancora, trovò Don Venanzio che, un candelotto in
mano, stava per passare nella chiesa a dire la sua messa. Dopo i
reciproci saluti uscirono ambidue, ma il parroco per l'andito che
metteva nella sacristia, Maurilio per la porta che aprivasi sulla
piazzetta.
Era notte chiusa a dispetto del canto del gallo; non una riga d'albore
nel cielo nuvoloso; la campanella della chiesa dava i rintocchi della
messa che stava per essere detta, in mezzo ad un alto silenzio degli
uomini e della natura. Solamente qualche raro lumicino vedevasi spuntare
dietro alcune invetrate di finestre: alcuni passi s'udivano venir per la
piazzetta, ammortiti dalla neve che copriva il suolo, alcune voci che
bisbigliavano sommesse, come paurose di rompere quel silenzio; e la
brezza fredda del mattino, di quando in quando metteva un leggier sibilo
alle cantonate delle case ed un fruscìo secco nei rami nudi dell'olmo
che stava in metà della piazza.
I passi e le voci che s'udivano erano di donnicciuole che accorrevano
alla messa del parroco; avvolte il capo, il collo e le spalle di fazzòli
e vestimenta messe a bardosso, per difendersi dall'aria ghiaccia di
quell'ora, le mani nascoste sotto a' panni, alcune col veggio in mano
dove avevan messe le poche ceneri calde rimaste dal fuoco della sera,
trottinavano a piccoli passi affrettati, ad una ad una, a due, a piccoli
gruppi, poi scorgendosi nell'ombra, s'aspettavano l'una l'altra alla
porta della chiesa ed entravano insieme bisbigliando. La schiera fu
presto compiuta; e non era che di dieci o dodici. Una delle prime era
passata, e Maurilio l'aveva tosto riconosciuta, la povera Margherita. Di
certo la buona donna non aveva dormito neppur essa quella notte, e
veniva a quell'ora mattutina a ringraziare il Signore di quella gioia
che le aveva mandata, di quella maggiore che le aveva promessa.
— Oh sublime cosa è la preghiera: disse Maurilio, quando ebbe visto
entrate in chiesa quelle donne. Ancor io ho bisogno di pregare. Andrò a
pregare in faccia alla natura, nel vero tempio del Dio vivente.
E s'avviò verso quel luogo solitario, dove fanciullo soleva condurre al
pascolo le vaccherelle di Menico.
Tutta la campagna era coperta di neve, e questo strato bianco, uniforme,
che faceva scomparire allo sguardo le lievi protuberanze e depressioni
del terreno, aiutato dalle ombre ancora fitte della notte, toglieva ai
varii luoghi che si succedevano il loro particolare carattere ordinario,
tutti confondendoli in una monotona rassomiglianza. Appena se facevano
varietà alcuna fra questa e quella parte, fra questo e quel campo, fra
l'una e l'altra landa i gruppi o le file degli alberi che piegavano
sotto il peso della neve i loro rami assecchiti e parevano contorcere
sotto quella gravezza i loro tronchi bassi e bernoccoluti.
Ma il nostro giovane pur tuttavia riconosceva ad uno ad uno que' luoghi,
quelle variazioni di terreno, tanto gli era impressa ogni cosa nella
memoria, e più ancora, direi, nel cuore. Avrebbe potuto riconoscere un
per uno ogni albero se tanta luce vi fosse stata, da discernere
pienamente gli oggetti; avrebbe potuto dire: qui ne manca uno che vi
sorgeva negli antichi tempi, questo crebbe dacchè io non son più venuto
qua. Salì lentamente il lene declivio della collina, su cui si
stendevano le aride brughiere che erano i pascoli comunali. Sedici e più
anni prima egli faceva due volte al giorno quel cammino i piedi scalzi,
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