La plebe, parte IV - 23

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armato altresì il cacciatore a combatterla! Primo impulso del
Commissario fu quello di far sollecitamente introdurre questo
inaspettato visitatore: ma poi stimò meglio per varie ragioni non
mostrare e non aver premura. Quercia, venendo da se stesso ad offrirsi
al combattimento, ci veniva di sicuro preparato, munito di buone difese,
avendo studiato i colpi e le mosse; conveniva di meglio all'avversario
meditare un momento anche lui sul modo di condursi. Non voleva porre
piede in fallo; le protezioni che sapeva al giovane acquistate dalle sue
attinenze con una certa sfera sociale che aveva ogni autorità ed ogni
privilegio, lo impacciavano non poco, non voleva movere un passo più in
là di quello che si dovesse, per paura di aversi a ritirar indietro, la
qual cosa sarebbe stata sua vergogna e suo danno. Ad ogni buon conto
disse alla guardia che gli aveva annunziata quella visita:
— In quanti uomini siete costì?
— Siamo sette.
— Bene: quando quel signore sia introdotto da me, quattro vengano nella
stanza vicina, pronti ad ogni cenno.... Quel signore poi lo farete
passare solamente quando avrò suonato.
Partita la guardia, il Commissario andò al forzierino che stava presso
al caminetto, lo aprì colla chiavetta che portava sotto panni appesa al
collo per un cordoncino, e ne trasse quel grosso libro legato in pelle
nera, che gli abbiam già visto consultare quando volle sapere alcun che
del pittore Vanardi. Questa volta aprì il libro al punto in cui sul
margine della pagina era impressa per rubrica la lettera Q e lesse
attentamente tutto ciò che stava scritto sotto il nome di Quercia, sul
quale si posò il suo dito lungo, grosso, nero, villoso ed unghiato. Poi
richiuse il libro, lo ripose là donde l'avea tolto, serrò accuratamente
il forziere e le mani affondate nelle lunghe tasche del suo soprabitone,
il mento quadrato sostenuto al duro cravattino, passeggiò per lo
stanzino profondamente meditabondo.
Intanto Gian-Luigi s'impazientava d'aspettare. Per quanto fosse pieno di
risoluzione e scevro di timore il suo animo, non era certo senza una
specie di apprensione ch'egli era entrato in quel luogo. Affrontava
audacemente un pericolo che aveva visto sorgergli innanzi, ma non sapeva
bene quali forme precise e quali forze potesse prendere poi questo
pericolo, dal quale fors'anco non avrebbe potuto scampar vittorioso. La
sua natura era avida di simili temerità ed era avvezza ad ottenere,
mercè appunto l'audacia, l'aiuto della fortuna; ma gli piaceva per ciò
averne di subito dalla sorte la risoluzione del problema che affrontava,
il premio dell'ardimento che dispiegava. L'indugio che pose il
Commissario a riceverlo cominciò per essergli fastidioso, poi divenne
grave e quasi insopportabile. Anche la sua superbia, anche il suo amor
proprio n'erano offesi. Pensò inoltre che una troppo umile tolleranza da
parte sua avrebbe potuto essere indizio di qualche peritarsi, di
alquanto timore, e ciò non voleva assolutamente che si credesse. Si
staccò dalla finestra, dove superbamente atteggiato, il cappello in
testa, stava guardando nei fossi del castello, e indirizzandosi al capo
delle guardie che erano in quella stanza, disse con accento imperioso di
superiore:
— Olà! E' mi par soverchio questo farmi aspettare. Crede egli il signor
Commissario che io non abbia mezzo migliore di passare il tempo che star
qui a guardare traverso questi vetri affumicati il volo dei colombi?
Andate e ditegli che se le sue occupazioni non gli permettono di
ricevermi ora, me lo faccia saper subito, ed io tornerò in momento più
opportuno.
La guardia esitò un momento; ma il tono di comando e l'aria di disprezzo
agiscono sempre con una certa forza sull'animo di quella gente, avvezza
ad essere disprezzata da chi li comanda; e Gian-Luigi era tale a cui
nessuno andava innanzi nell'imponenza dell'aspetto e nell'autorevolezza
della parola. Sotto lo sguardo imperioso del giovane elegante il
poliziotto finì per cedere e si recò dal Commissario a fare
timorosamente l'ambasciata.
Il signor Tofi cominciò per istrapazzare di santa ragione il mal
capitato, e poi soggiunse più burbero che mai:
— Dite a quel signorino che di voglia o di necessità avrà la pazienza
d'aspettare; chè se volesse partirsene, avete l'ordine, come vi do
espressamente, capite, di trattenerlo ad ogni modo.
Quercia, all'udire questa risposta, sbuffò, disse ad alta voce con tono
concitato che avrebbe mostrato al sor Commissario il modo di trattare
coi pari suoi, e fece persuasi tutti quelli che l'udivano, esser egli un
gran personaggio.
Cinque minuti dopo il campanello del Commissario suonato con mano
robusta avvisò che il visitatore poteva essere introdotto.
Quercia entrò nel gabinetto senza levarsi il cappello, l'occhio
incollerito, la mossa superba, come avrebbe potuto fare il conte San
Luca o il marchesino di Baldissero.
— Sor Commissario, diss'egli colla sua voce vibrante e l'accento fiero
d'un padrone sdegnato, la sa che non mi tocca fare anticamera nemmeno
dal Governatore, nemmeno dal signor Ministro?
Tofi alzò gli occhi sul giovane e lo saettò d'uno sguardo acuto,
incisivo, penetrante di sotto l'arco sporgente delle sue folte
sopracciglia. Luigi sentì da quell'occhiata come un urto nel cervello e
nel petto: gli fu necessario usare tutta la sua forza, tutta la
padronanza che aveva su se stesso per frenare un sussulto; ma le
sembianze non ne lasciarono scorger nulla. Conobbe di botto che aveva un
fiero lottatore di fronte; ma non si sentì impari allo scontro. Rispose
con uno sguardo più superbamente sdegnoso che mai.
Il Commissario se ne intendeva di forza d'animo e d'espressione di
fisionomia.
— Ecco una stupenda figura, pensò, tenendo fisi sul volto del giovane i
suoi occhi, che però cessarono di avere l'aggressività di prima. Questo
individuo non deve far nulla di mediocre. Se ha posto il piede nella via
della scelleratezza ci andrà — ci sarà andato — più innanzi d'ogni
altro.
Sentì una specie, non dirò di rispetto, ma di riguardo verso quella
forza di tempra che vide rivelarglisi, che indovinò ancora più. Avvezzo
a rispettare ogni superiorità sociale, riconobbe e quasi accettò quella
superiorità di volere e di pensiero che aveva dinanzi. Laonde nella sua
risposta non ci fu tutta quella insolente asprezza che altri si sarebbe
potuto aspettare. Sedeva egli alla sua scrivania, al piano della quale
appoggiava il gomito sostenendo colla mano la sua faccia pelata di color
ulivigno, che teneva rivolta verso il giovane in piedi pochi passi da
lui distante, e senza punto muoversi, disse lentamente:
— Se S. E. il governatore e S. E. il ministro non le fanno fare
anticamera, gli è perchè andrà da loro in momenti in cui non ci hanno
nulla da fare. Io, che non ne ho punto di questi momenti, non posso
trascurare il servizio del Re per far piacere a questo ed a quello. Ha
capito?
Sulla faccia di Quercia parvero lottare un sentimento d'irritazione e un
altro di cedevolezza (ed era questa in lui tutta arte sopraffine da
comico): dopo un poco la diede vinta a quest'ultimo, fece uno de' suoi
incantevoli sorrisi che significava apertamente: «Siete un originale, e
conviene prendervi come siete;» e disse con accento scherzoso:
— Ho capito benissimo.
Siccome lo sguardo acuto di Tofi si levava al cappello che il giovane
teneva ancora in testa, ed essendo in casa altrui era dovere levarselo,
Gian-Luigi se lo tolse sbadatamente; come compiendo un atto abituale,
senza darci importanza, e lo gettò sul forzierino lì presso: poi senza
aspettare l'invito di sedere che il Commissario non pareva disposto a
fargli, prese una seggiola e venne ad assettarsi ad un passo di distanza
dalla scrivania.
— Posso sapere che cosa mi vale questa sua visita? domandò allora con
accento burbero il signor Tofi che non aveva mai tolto il suo sguardo
dal giovane.
Questi rispose con quell'accento scherzosamente leggiero che pareva aver
adottato per tono della conversazione:
— La lo può sapere di sicuro, perchè son venuto apposta per dirglielo.
Raccontò la favola dell'aggressione notturna, quale l'aveva narrata al
padre di Francesco, e diede dei suoi aggressori i connotati che
corrispondevano precisamente a quelli di _Graffigna_ e _Stracciaferro_.
Tofi lo aveva ascoltato, guardandolo sempre con quella fissità che era
fatta per turbare anche un innocente; e Quercia non se n'era menomamente
lasciato turbare.
— Bene: disse il Commissario con ironia; Ella mi ha dipinto a meraviglia
due malfattori che dovettero prender parte all'assassinio dell'usuraio
Nariccia; ce ne manca soltanto uno, poichè abbiamo la certezza che a
compire quell'orrendo delitto erano in tre. Saprebbe dirmi qualche cosa
anche del terzo?
Gian-Luigi lo guardò come uomo che non comprende, e che non si cura dare
importanza agli indovinelli cui piaccia al suo interlocutore
affacciargli.
— Credo, rispose con disdegnosa leggerezza, che non sia mio còmpito, ma
il suo, quello di rintracciare questa razza di gente.
— E lo rintracceremo, e lo troveremo: disse lento e spiccatamente il
Commissario chinandosi alquanto verso Gian-Luigi e guardandolo più fiso
ancora di prima.
Quercia non ebbe la menoma contrazione dei muscoli della faccia, nè il
menomo batter di ciglia.
— Lei è medico? domandò bruscamente a un tratto il signor Tofi.
Gian-Luigi s'inchinò con una ironica ma elegante cortesia.
— Per servirla; rispose.
— Sarei curioso di sapere in quale Università ha presa la sua laurea di
medicina.
— La curiosità è una dote del suo mestiere, ma non credo che sia un
obbligo dei cittadini il soddisfarla.
— È un obbligo molte volte cui impone la giustizia. Parecchi anni sono
c'era nell'Università di Torino uno studente di medicina che aveva molta
rassomiglianza con Lei; ma frequentava più le bische, i bigliardi, i
convegni di certe donne, eccetera, che non le lezioni dei professori; e
non avvenne mai che questo cotale prendesse la laurea. Sparì un bel dì
carico di debiti, e si ha forti dubbi che poi ricomparisse con altro
nome, dandosi addirittura per medico e sfoggiando una ricchezza che
nessuno sa com'egli si fosse guadagnata — o si guadagni.
Gian-Luigi appressò la sua seggiola alla scrivania ed a questa appoggiò
il gomito con mossa piena di grazia e di eleganza; poi, battendo una
marcia sul mobile colle dita bianchissime della destra che aveva
sguantata, prendendo un tono di libera domestichezza, ma non scevro
d'una certa superiorità, domandò:
— Parli chiaro, sor Commissario. È questa una specie d'interrogatorio
che la mi dirige?
— E se lo fosse, signor dottore, che la risponderebbe?
— Risponderei la verità. Quello studente ed io siamo una persona sola.
S'io non ho la laurea di medico, non n'esercito neppure la professione,
ed è innocente inganno quello di prendere un titolo vano che l'uso suol
dare di subito a chi intraprende una di simili carriere. Lo studente di
leggi è salutato fin dal primo anno col titolo di avvocato, e lo
studente di medicina con quello di dottore. Quanto alle mie ricchezze,
dove mi se ne chiedesse l'origine, ad uno qualunque, direi che gli è un
impertinente, e saprei dargliene anche la meritata lezione; ad
un'autorità, come sarebbe Ella, quando credesse per una ragione
qualunque di suo ufficio dover entrare in questi che sono individuali
segreti, avrei buono in mano da provare la legittimità della provenienza
di tutto ciò che possedo.
— Ebbene, signor dottore o non dottore; proruppe con una specie
d'impazienza il Commissario; quell'autorità le sta dinanzi, e il momento
di dar questa prova è venuto.
Quercia si trasse indietro levando il capo e drizzando il collo in una
mossa piena di superbia.
— Si oserebbe sospettare alcuna cosa?...
Tofi lo interruppe ruvidamente.
— Noi osiamo sospettare di tutto e di tutti.
Il giovane gli gettò un'occhiata fiera di minaccia e disdegno.
— La dovrebbe pur sapere chi io mi sia e di quali attinenze mi vanti.
Badi che questa troppo spiccia maniera di procedere, se conviene coi
miserabili coi quali è solita Ella a trattare, non si affà colle persone
ammodo...
— Io sono come sono e fo come mi aggrada, purchè faccia il dover mio:
interruppe Tofi diventando sempre più ruvido. Poichè Ella stessa è
venuta a me, prima ch'io la mandassi a cercare, la si acconci a darmi in
questa conversazione quelle nozioni di fatto che mi abbisognano,
altrimenti la conversazione potrebbe prendere un nome più severo, quello
che disse Ella stessa un momento fa, e diventare un interrogatorio.
Quercia fece colla mano un cenno di superba condiscendenza
accompagnandolo con un sogghigno che significava: «vedremo chi l'avrà
vinta alla fine;» e disse con tutta freddezza:
— Bene! Interroghi pure.
Alle domande di Tofi rispose colla storiella che gli abbiamo già sentita
narrare al sor Giacomo, e promise presentare come documento lo scritto
del suo protettore, il medico del villaggio, il quale scritto già aveva
eziandio accennato al padre di Maria.
Tofi scrisse man mano le sue noterelle nel portafogli che soleva portare
nella tasca del petto, e non mostrò in modo alcuno sulla sua faccia
scura che impressione, buona o cattiva, gli facessero le parole del
giovane. Questi, finita la sua narrazione, si levò.
— Parmi che non le occorra più nulla da parte mia e che posso andarmene.
Il Commissario lo guardò un momento senza rispondere. Gian-Luigi sentì
un brivido corrergli per le vene: gli parve che dalle labbra grosse di
quella bocca squarciata dovessero uscire le tremende parole: — «Ella è
arrestata;» ma neanco di lui la fisionomia non espresse nulla
dell'interno sentimento.
— Un istante: disse con accento che pareva minaccioso la voce rauca e
burbera del Commissario.
Gian-Luigi fece correre tutt'intorno uno sguardo ratto e fugace come chi
cerca se vi è modo di scampo.
— Che la vuole ancora? domandò egli sorridendo leggermente.
— La non è venuta qui per dar querela di quell'assalto notturno, di cui
dice essere stato vittima?
— Precisamente.
— Dunque aspetti che sia scritta la sua deposizione e ch'Ella l'abbia
firmata, perchè si possa poi trasmetterla all'autorità giudiziaria.
Fece venire l'impiegato che sedeva nella camera precedente, e dettò
rapidamente il verbale della denunzia fatta da Quercia.
— Va bene così? gli domandò poi col suo tono aspro e burbero.
Gian-Luigi chinò leggermente il capo.
— Allora firmi.
Quercia prese la penna e scrisse con mano sicura, nella più bella
calligrafia di cui fosse capace, il nome ch'egli soleva portare. Poi
prese il cappello che aveva posto sul forziere e a mo' di commiato
disse:
— Per qualunque cosa che occorresse ulteriormente in proposito, Ella sa
dove mi si può trovare.
Il Commissario rispose con un accento in cui c'era dell'ironia e della
minaccia:
— Sì signore: saprò appuntino dove trovarla.
Gian-Luigi, fece un legger cenno del capo che poteva sembrare un saluto,
ed uscì da quel gabinetto, da quel locale, dal Palazzo Madama col passo
tranquillo, sicuro e superbo con cui era entrato.
Tofi gli guardò dietro alla guisa con cui il gatto guarda un topo che
gli scappa.
— Ah! se non fosse amico del conte di Staffarda e il ganzo della
contessa: disse fra sè con un sospiro di rincrescimento: non me lo
lascierei sfuggir di mano.
Quando fu al largo nella vasta Piazza Castello, in piena luce e in piena
aria libera, Gian-Luigi mandò un grosso rifiato, come uomo fatto libero
da un'oppressura, e senza pur accorgersene affrettò il passo per
allontanarsi di là. Fu sotto i portici e fece un tratto di cammino senza
saper bene dove volesse andare e che cosa fare; salutò i conoscenti con
cui s'incontrò in quell'universale ritrovo dei Torinesi, coll'aspetto e
coi modi «d'uomo, cui altra cura stringa e morda che quella di colui che
gli è davante.»
— Bisognerebbe tagliar corto e presto a siffatte velleità curiose del
sor Commissario, pensava egli. Come governarsi per ciò?... Ah! non c'è
altri che mi possa meglio aiutare di quella brava Zoe.
Volse indietro ratto i suoi passi, e, frettolosamente camminando, fu in
breve alla dimora della famosa _Leggiera_. Trovò un gran disordine nel
quartiere di quella donna, e lei medesima in una somma desolazione. Nel
salotto e nella camera da letto tutto era sottosopra, gli specchi
spezzati, le porcellane infrante, gli orologi e i candelabri dorati
fatti a pezzi e giacenti in terra, le tende e le cortine strappate,
tutti i ninnoli e le minuterie eleganti ond'erano adorne quelle stanze
sparsi a frantumi sul pavimento. In mezzo a questo tramestio, le chiome
scarmigliate, pendenti sulle spalle, contratta la faccia, le mani
serrate, come Mario sulle rovine di Cartagine, sedeva la _Leggera_.
— Che è egli avvenuto? domandò Gian-Luigi guardandosi attorno stupito.
Si direbbe che v'è stata un'invasione di barbari.
Zoe sollevò il suo volto abbuiato e volse al suo complice gli occhi, in
cui si vedeva un implacabile risentimento.
— Che cosa è avvenuto? diss'ella con labbra strette e con voce che
sibilava fra i denti. Gli è avvenuto che il _prince charmant_ è un cane,
ed anche un peggior animale. L'invasione dei barbari fu uno scoppio
della sua collera bestiale. Quello scimmiotto andò in furore e parve un
orso scatenato. Ma me l'avrà da pagare...... oh se l'avrà da pagare!
E tese verso un punto dell'orizzonte, con atto pieno di minaccia, il suo
braccio colla mano chiusa a pugno.
Gian-Luigi diede un calcio ad un coccio di preziosa porcellana che si
trovò tra' piedi.
— Ed avrà da pagare eziandio tutto questo.
La _Leggera_ fece un perfido sogghigno.
— E come! Voglio una mobilia tutto nuova e dieci volte più bella.
— Benissimo! E così il sor Principe imparerà a far le bizze. Ma come
avvenne?
— Avvenne per causa tua.
— Mia! Oh, in che modo?
Per dirla in breve, al signor Principe era stato detto, affermato e
provato che la Zoe era in istrettissime e non innocenti attinenze col
famoso dottor Quercia, e S. A. arrabbiatissima aveva voluto con modi da
prepotente ottenere che la donna gli promettesse di non ricevere più
quel cotale. La domanda e la forma con cui era espressa spiacquero
immensamente alla _Leggera_ che non era d'umor dolce nè tollerante.
Rispose in pari tono, cioè con insolenza uguale all'imperiosità
dell'altro; la discussione divenne in breve più che vivace, e il
Principe si obliò al punto da levar la mazza sopra la mantenuta; ma
essa, accampandosi fieramente in faccia a lui, le braccia serrate al
petto, l'aria imponente di risoluzione, le nari frementi, lo sguardo
acceso, gli disse con forza:
— Suvvia! Abbia l'immenso valore di percuotere una donna! Bella
principesca impresa!
Il Principe s'era allontanato da lei come un animale domato; ma in
qualche modo aveva pur bisogno di sfogare l'irrefrenabil ira che lo
rodeva. Con quella mazza che si trovava in mano si diede a percuotere di
qua e di là sui mobili, sui quadri, sugli specchi, su tutto, atterrando,
rompendo, scaldandosi nella sua opera di distruzione, menando colpi alla
cieca come un paladino gettatosi in mezzo ad uno stuolo di nemici; e
quando tutto fu infranto, fuggì, perseguitato da uno stridente scoppio
di risa della _Leggiera_.
— Diavolo! Diavolo! mormorò Quercia vivamente contrariato: questa la non
ci andava.
Disse alla Zoe com'egli fosse venuto a domandarle di ottenere per mezzo
appunto del Principe che il Commissario di Polizia non si occupasse
altrimenti dei fatti suoi, ed ambedue riconobbero che l'occasione non
era niente affatto opportuna per parlare a S. A. di Quercia, e per
chiedergliene in pro di lui un favore.
Zoe giurò e spergiurò ch'ella non avrebbe fatto pure un passo verso il
suo principesco amante, e che a costui toccava venirsene umilmente ad
implorare ed ottenere il perdono; ma si mostrò sicura in pari tempo che
ciò non avrebbe egli tardato di molto a fare. Ella non avrebbe commesso
l'imprudenza di entrare subito con S. A. in quei discorsi che Luigi
desiderava, ma prometteva che con accortezza, dopo alcuni giorni,
avrebbe saputo affrontare destramente l'argomento ed ottenere lo scopo.
Bisognava aspettare alcuni giorni, e Quercia sentiva che i fati
premevano ed era urgente il pararne i colpi. Ma come fare? Uscì di casa
la Zoe, domandandosi se il meglio non era fuggire di presente, recando
seco tutto quel bottino che poteva. Ma l'idea di fuggire gli era ostica,
voleva ancora lottare; e poi gli passò innanzi alla mente la immagine di
Maria, la cui innocente giovinezza avevagli destato un ardente,
scellerato desiderio, decise aspettare.
— Per ogni occorrenza, pensò frattanto, bisogna ch'io vada a far
imparare alla Margherita il romanzetto che ho immaginato intorno alla
mia origine. E sarà bene ch'io induca eziandio Maurilio a non
contraddirlo almeno. Bisogna adunque ch'io vada colassù... Dopo tanto
tempo!... E sarà forse l'ultima volta.
Avrebbe voluto partire di subito pel villaggio, dove sappiamo essersi
eziandio recato Maurilio in compagnia di Don Venanzio; ma ricordò che
doveva, che voleva avere quel giorno medesimo una spiegazione col conte
Langosco, e differì la sua partenza al domani.
All'ora solita, colla solita fisionomia, come se di nulla sapesse,
Quercia si presentò al palazzo Langosco. Non mostrò il menomo stupore,
quando il lacchè gli ebbe detto che il signor conte desiderava parlargli
e lo attendeva nel suo gabinetto. Fece segno lo vi si guidasse, e seguì
il domestico che fu ad annunziarlo. Entrò colà dentro la fronte alta,
l'aspetto sicuro, un grazioso sorriso sulle labbra. Il conte stava in
piedi, accigliato, severo, con un sogghigno più amaro che mai sulla sua
bocca tirata; e non tese la mano verso il nuovo venuto. L'accoglimento
era così apertamente ostile che Luigi, il quale dapprima aveva
l'intenzione di non accorgersene, capì che sarebbe stato un errore il
non mostrarne risentimento. Spense di botto l'amichevole sorriso sulle
sue labbra, diede alla sua faccia un'espressione che in alterigia era
pari affatto a quella del conte, ed incrociò bravamente i suoi sguardi
arditi coi fissi sguardi di Langosco. Pensò che meglio gli convenisse,
senz'aspettare l'assalto, cominciar egli e vivamente l'attacco.
— Eccomi qua, disse con accento d'una sicurezza quasi impertinente. Ella
vuol parlarmi. Sta bene. Spero che non sarà cosa da durar lungo tempo,
perchè in verità, per mia disgrazia, non ho che pochi minuti da
concederle.
A queste parole ed al tono con cui erano dette, il conte sentì una
subita, vivissima ira salirgli alla testa, ridrizzò alquanto il curvo
petto e lanciò dagli occhi uno sguardo di fuoco, mentre una lieve tinta
rosata gli veniva ai pomelli delle guancie macilente. La sua mano si
tese verso il cordone del campanello, e Gian-Luigi comprese che
proposito di lui era suonare pei lacchè, e farlo da loro scacciare da
quella casa senz'altro. Quercia non lo avrebbe tollerato così di piano:
mosse un passo verso il conte e fece un alto risoluto, come per
trattenere quella mano; la sua faccia aveva preso l'aspetto terribile
delle risoluzioni violente, la fronte gli era solcata da quella sua ruga
caratteristica; gli sguardi accesi di quei due uomini si scontrarono di
nuovo pieni d'odio e di minaccie. Capirono che stava per avvenire uno
scandalo e gravissimo; questo non conveniva punto a Gian-Luigi, e meno
ancora al conte. La mano di costui s'arrestò e venne a posarsi
tranquillamente sulla pietra del camino: il lieve rossore sparì dalle
sue guancie; gli occhi perdettero alquanto dell'espressione di minaccia
e di collera per prenderne una di profondo disprezzo: stettero ancora un
poco di quella guisa, guardandosi senza parlare: ma in quello scambio di
sguardi e' si dicevan più e meglio, e' si rivelavano a vicenda l'animo
ed il pensiero più che non avrebbero fatto coi discorsi.
— Non ho nessun desiderio di trattenerla lungamente; disse poi il conte
con accento che mirabilmente s'accompagnava a quella nuova espressione
del suo sguardo. In due parole mi sbrigo e la sbrigo. Voglio anzi porla
così bene in libertà che non abbia da darci mai più neppure un momento
del suo tempo prezioso.
Gian-Luigi tese innanzi la testa come fa chi non ha capito bene e vuole
afferrar meglio il suono delle parole.
— La vuol dire? domandò con un certo piglio che aveva dell'ironia e
dell'impertinente.
— Non mi capisce? disse il conte coll'accento altezzoso d'un
aristocratico inuzzolito.
— Ne accusi pure la mia intelligenza. Desidero che si mettano i punti
sugl'i.
Il conte lo guardò fiso negli occhi con intendimento malizioso.
— Ah! Ella non dovrebbe avere di tali desiderii. La mi pare in
condizioni da dover capire a mezze parole.
Quercia non battè ciglio.
— L'indovinar le sciarade è la prova d'ingegno di chi non ha spirito:
disse accostandosi vieppiù al conte ed appoggiando famigliarmente un
gomito alla pietra del camino su cui il marito di Candida aveva posta la
mano. Le dispiace che ci parliamo in buon piemontese?
Langosco, quasi per moto istintivo, si trasse in là, come per
allontanarsi dall'interlocutore.
— Non v'è ragione per cui a me abbia da dispiacere; rispose con tono più
asciutto e più superbo di prima. Le voglio significare adunque che Ella
non abbia più da mettere piede in mia casa, mai.
Luigi accolse queste parole colla massima freddezza ed indifferenza.
— Perchè? domandò egli semplicemente.
— Perchè? ripetè il conte, cui quel contegno del suo avversario parve
presso a far uscire dai gangheri. Il perchè lo chieda al gioielliere X.
Quercia non si mosse: Langosco aspettò un momentino e poi soggiunse con
voce più bassa, affondando lo sguardo negli occhi neri e profondi del
giovane:
— Lo chieda all'assassinato Nariccia.
Luigi non ebbe il più leggiero sintomo della menoma emozione. Gli occhi
di Langosco non poterono cogliere nulla nella oscurità profonda di
quegli occhi immoti in cui ficcavan lo sguardo.
— Nariccia, rispos'egli freddamente, non mi potrebbe dir nulla, poichè
ho udito che da quella bocca non uscirà parola mai più; il gioielliere
non dovrebbe sapermi dir nulla, poichè non credo che Lei abbia voluto
porre a parte di cose intime domestiche delle persone estranee.
All'impudente franchezza di quell'individuo, lo stupore del conte superò
l'indignazione: stette lì quasi a bocca aperta a guardarlo meravigliato.
Quercia continuò:
— Una rottura fra di noi, creda, signor conte, non conviene a nessuno
dei due; poco a me, assai meno a Lei. Io non son tale da lasciare che il
mondo sappia aver io ricevuto un affronto quale è quello ch'Ella vuol
farmi, ed io avermelo ingoiato con santa pazienza. Vuol Ella che fra noi
si venga ad un duello?
Il conte fece vivamente un atto che indicava con chi gli stava dinanzi
non si sarebbe battuto mai.
— Ella sa, continuava Luigi con uno speciale sorriso, che un uomo della
mia fatta ha mille mezzi per far battere con sè un gentiluomo come Lei.
Ma in uno scandalo chi ci ha da guadagnare? Ho bisogno che per una
settimana tutt'al più, le cose continuino ad andare come per lo passato.
Le propongo quindi, non un trattato di pace, ma una convenzione di
tregua. Fra una settimana io parto per l'estero; glie ne do la mia
parola; e la sarà libera per sempre dei fatti miei. Durante questo poco
di tempo Ella ignori la mia presenza in questa casa ed altrove, le
prometto che non le verrò innanzi io a ricordargliela.
Langosco ebbe un movimento di sdegnoso dispetto: gli venne più forte di
prima la tentazione di far gettar fuori dai lacchè quell'impudente.
— Se Ella, seguitava lo scellerato pesando sulle parole, si lascia
trasportare dall'impazienza, ciò che ora è segreto diventerà pascolo
delle perfide ciarle del pubblico.
Il conte non rispose, non si mosse: aveva chinato lo sguardo, incurvata
di nuovo l'esile, infiacchita persona e pareva esser egli cui la
coscienza rimordesse. Aveva capito che in quelle parole era anche una
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