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La plebe, parte IV - 21

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  disturbarlo nel colloquio ch'egli aveva con Nariccia prima un frate
  gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma
  uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia;
  come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare,
  perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva
  tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli
  aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero
  andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a
  chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati
  consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il
  conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.
  Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose,
  domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal
  signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una
  cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva
  allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli
  che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto
  sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii
  segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di
  ciò quello affigliato alla _cocca_) si scrutasse se i diamanti portati
  dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor
  Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di
  oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.
  Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo
  fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua
  attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.
  Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La
  faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole
  e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente.
  D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per
  guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene
  il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse
  una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di
  Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse
  presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.
  Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne
  quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il
  marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta
  bollata.
  — Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un
  simile personaggio?...... Entrare qui nel mio palazzo questa razza di
  gente!... Mai più!.... Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.
  Ci si recò sul momento.
  — Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto
  ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a
  chiamare quel _maroufle_, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza
  vostra, se non vi disaggrada.
  Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte
  piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza,
  s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi
  del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.
  Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito,
  duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a
  larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i
  suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle
  stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella
  impostatura del soldato senz'armi.
  Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona,
  giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed
  aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo.
  Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia,
  piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di
  sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora
  la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto,
  come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del
  destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al
  Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli
  disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a
  mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.
  — Voi avete scritto questo biglietto?
  Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e
  rispose:
  — Sì, Eccellenza.
  — Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di
  Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.
  Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul
  volto di Langosco, poi lo ricondusse sulla faccia scioccamente superba
  del generale.
  — Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda;
  ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.
  Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.
  — Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci
  ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.
  Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.
  — Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di
  vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi
  avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.
  Il conte fece un atto d'impazienza.
  Barranchi entrò in mezzo.
  — Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli
  uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il
  campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il
  signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole
  che non abbiano importanza.
  Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa
  autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.
  — Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora
  liberamente e fate presto.
  Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era
  così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva
  parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.
  Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina,
  s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò
  secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo
  soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:
  — Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia,
  assassinato la settimana scorsa?
  Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide
  guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile
  fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse
  guardando corrucciato la faccia del Commissario:
  — Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate
  osare volgere le vostre interrogazioni — voi!
  Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e
  fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in
  fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che
  pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro
  lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa
  al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per
  difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e
  soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente
  coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla
  rauca ruvidezza della voce:
  — La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il
  dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo
  delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V.
  si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della
  verità.
  — Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che
  cosa ci posso entrar io in codesto?
  — Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune
  domande e volesse degnarsi rispondere...
  Langosco interruppe con superba impazienza:
  — Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia
  udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.
  Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte
  carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal
  gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva
  dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa
  impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi
  superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando
  le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito
  sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso,
  immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma
  scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior
  pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle
  passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano
  abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che
  tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle
  ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa,
  che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come
  punte di spilla, alcune goccioline di sudore.
  Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto
  silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante
  del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili,
  di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco
  meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte,
  questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva
  parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile
  sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi.
  Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e
  disse poi lentamente con voce bassa e stentata:
  — Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere... Potrei limitarmi a
  dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla,
  assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal
  verità che cercate.
  Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del
  Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:
  — Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di
  famiglia.... È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia
  insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi
  credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente _sa
  dupe_. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i
  gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio — e
  li riscattai.
  Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si
  raddoppiavano le goccie di sudore.
  Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che
  non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:
  — L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al
  lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata
  stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.
  Langosco trasalì.
  — Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.
  S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere
  finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il
  generale e l'aprì.
  — Venite pure, Barranchi.
  Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua
  stupida faccia superba.
  Langosco non aspettò interrogazione veruna.
  — Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di
  Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le
  famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi
  che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.
  Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di
  bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi
  ad un pelottone di carabinieri:
  — Voi sarete una tomba dei segreti.
  Tofi, congedato di questa guisa, si partì.
  — Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non
  voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti
  presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva
  conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che
  appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male
  d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di
  certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non
  gli conviene avere tanta curiosità.
  Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo
  colletto ricamato in argento:
  — Glie l'inculcherò.
  Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a
  lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con
  preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar
  più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò
  nel suo palazzo.
  — La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.
  E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso
  l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.
  La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali
  improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza
  mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata,
  curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto
  significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per
  dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia
  volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»
  — Vedo che siete occupata: cominciò il conte, parlando francese, in
  presenza della cameriera che finiva di aggiustare sul capo della
  contessa le nere, abbondanti, fulgide di lei chiome: e mi rincresce
  disturbarvi; ma vi è proprio necessità ch'io vi dica a quattr'occhi due
  parole, e vi prego a congedare il più presto che si possa la vostra
  donna.
  L'aspetto del conte era affatto gentile, e sulle labbra stavagli un
  sorriso che riusciva ad essere grazioso; ma entro gli occhi era un certo
  cupo sbarbaglio e nella voce una vibrazione che rivelavano una qualche
  profonda emozione contenuta a forza.
  Candida s'affrettò a liberarsi della cameriera, e quando essa e il
  marito rimasero soli nella stanza, drizzatasi in piedi ed avvoltasi nel
  suo accappatoio come nell'ampio velo una statua romana, le braccia
  conserte al petto, la faccia audacemente levata e gli occhi fissi sul
  conte, dimandò asciuttamente:
  — Che cosa dunque avete da dirmi? Sbrigatevi.
  Langosco che s'era messo a passeggiar su e giù, si piantò in faccia alla
  moglie, e incrociando collo sguardo di lei il suo collerico, invelenito,
  viperino, disse con voce bassa ma che sibilava fra le labbra contratte:
  — Quanto vi ha spillato il vostro amante, obbligandovi a mettere in
  pegno le vostre gioie?
  Un lieve rossore salì alle guancie della contessa. La sua prima
  impressione fu lo stupore e la confusione: le sue pupille si chinarono
  un istante; ma non tardò a riprendere la sua sicurezza.
  — Vi fo i complimenti, signor conte, diss'ella, del nuovo dizionario
  dove andate a pescare i vostri termini.
  — È quello che ci conviene ad ambedue: rispose il conte con sogghigno di
  fiera ironia. _J'appelle chat un chat, et Rollin un fripon_: disse quel
  birbo di Voltaire. Nel caso nostro il _fripon_ sapete chi sia...
  Candida fece un gesto colla mano ad imporgli silenzio.
  — Basta: diss'ella con tutta l'imponenza d'una gentildonna offesa.
  Ma Langosco, più animato nello sguardo, nell'aspetto e nella voce, le si
  accostò ancora d'un passo e proruppe con forza:
  — No, non basta, signora contessa. Que' diamanti che voi avete fatto
  servire ad un uso così.... Ah! non dirò l'epiteto che si conviene per un
  resto di riguardi che forse non meritate..... que' diamanti appartennero
  a mia madre, e non voglio che sieno...
  Essa lo interruppe.
  — Ma quelle gioie, lo avete ben visto, sono tutte in poter mio....
  — Non cercate di mentire: voglio sperare che non ci siate abile
  tuttavia: ad ogni modo non arrivereste a darmi lo scambio perchè io so
  tutto.
  E qui ripetè in brevi parole quello che sapeva, senza dirle il come
  avesse ciò appreso.
  Candida rimase atterrata.
  — Or via, qual somma ritrasse quello sciagurato da tale imprestito?
  La contessa glie la disse.
  — E voi?
  Candida fece un gesto di denegazione pieno di verità.
  — Io? Nulla.
  — E le cinquanta mila lire (e ciò dicendo il conte pronunziò più
  lentamente e pesando sulle parole) per riavere i diamanti furono
  restituite all'usuraio?
  — Sì: rispose debolmente la donna.
  — Ne siete certa? insistè il marito con forza.
  — Credo..... mi pare..... non può essere altrimenti.
  Una scura nube passò sulla fronte di Langosco.
  — Ah! esclamò, potrebbe pur anco essere altrimenti.
  La contessa non comprese o non sospettò neppure il significato di
  quell'esclamazione.
  Langosco, memore d'una interrogazione che gli aveva fatta il Commissario
  ed avendone apprezzata e meditata tutta l'importanza, la ripetè ora a
  sua moglie:
  — E quando vi furono essi restituiti que' diamanti? La domenica o il
  lunedì?
  — Il lunedì.
  Un piccol fremito contrasse i muscoli della faccia del conte, e le sua
  guancie impallidirono leggermente.
  — Ah! fece egli: il lunedì.
  Tacque un istante: guardava la donna con espressione indefinibile di
  compassione insieme e di dispetto, di rampogna e di dolore: pareva che a
  significare i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue paure non trovasse
  parole, e non osasse neppure avventurarsi a cercarle. Candida si sentiva
  afferrare da una soggezione affatto nuova, quasi da una timidezza e da
  una vergogna.
  Dopo un poco il conte parlò e con accento di gravità, quale non gli
  aveva mai sentito la moglie.
  — Forse a farvi dei rimproveri ci ho poco diritto, e nei vostri errori
  ci ho la mia buona parte di torti. Alle prime osservazioni ch'io
  tentassi di porvi innanzi intorno alla vostra condotta, voi potreste
  rinfacciarmi il mio passato e la mia, ed invocare quel patto mezzo
  tacito e mezzo espresso, per cui avete ricompra la vostra assoluta
  libertà col sacrifizio delle vostre sostanze. Mi merito questa poco
  bella condizione in cui mi trovo a vostro riguardo, e non cercherò più
  di uscirne; è troppo tardi; quindi non una parola vi dirò delle vostre
  galanterie, nulla neppure se avete anche l'assurdità di sciupare da
  parte vostra i vostri capitali; ma finchè avete l'onore di portare il
  nome della mia famiglia, finchè vivrò, m'incombe l'obbligo di vegliare a
  che questo nome non venga compromesso e macchiato. La vostra relazione
  con colui ch'io non voglio nominare, minaccia trascinarvi, minaccia
  trascinare il nostro nome in funeste — dirò la parola — in infami
  pubblicità. Ciò non posso tollerare, ciò dovete evitare ad ogni modo voi
  stessa. Non credo per ora dovermi spiegare più chiaramente. Le cose che
  dovrei dire mi brucierebbero le labbra. Ma pensateci voi medesima.
  Domandatevi come e di che viva quel.... quell'individuo, e conchiudete
  se possa dirsi onorevole la sorgente di quei denari che spende. Non vi
  do ordini, non v'impongo sollecite determinazioni; mi prendo solamente
  la libertà di rivolgervi un consiglio: sarebbe assai bene che quel
  cotale cessaste addirittura di vederlo. Quanto a questo palazzo, siccome
  qui sono io il padrone, e ci ho il diritto di escluderne chi voglio, do
  ordine immantinente che quando si presenti gli si dica chiaro che queste
  soglie non sono più fatte per lui, e se vuol saperne la ragione, gli
  farò l'onore d'ammetterlo un momento alla mia presenza per dirgliela
  sulla faccia io stesso.
  Il conte uscì senz'aspettare risposta. Candida rimase atterrata, confusa
  e perplessa. Sentiva, anche suo malgrado, una certa vergogna dei fatti
  suoi: non aveva di certo capito tutto il significato delle parole del
  marito, la sua mente non era andata fino a quel punto estremo a cui pure
  esse direttamente miravano, ma pure sentiva che in quella sua
  disgraziata passione c'era oramai più che una colpa un degradamento. E
  tuttavia essa non aveva il coraggio di strapparsela dall'anima: e il
  solo pensiero che potesse avvenire ciò che le aveva consigliato il
  conte, di non veder più il suo amante, erale dolorosissimo. In mezzo a
  questo suo turbamento sorgeva e veniva via aumentando una irritazione
  collerica, un vivace risentimento contro il marito che le aveva dette
  quelle parole, contro l'amante che se le meritava, contro se stessa.
  Bisognava risolversi a qualche cosa. Scrisse il bigliettino che sappiamo
  a Luigi, perchè si trovasse al convegno; ed all'ora posta fu con lui.
  Le parole dettele dal marito ella non seppe ripetere esattamente
  all'amante, ned avrebbe pur voluto; e dalla narrazione da lei fatta
  risultò solamente che il conte aveva appreso l'oppignorazione fatta dei
  diamanti a benefizio di Gian-Luigi, la decisa volontà nel conte medesimo
  di voler impedire il rinnovamento di simili fatti, e la determinazione
  da lui presa di mettere alla porta di sua casa il signor Quercia e di
  dirglielo egli stesso sul muso.
  Gian-Luigi stette un poco in silenzio, le mascelle contratte
  morsicchiando i suoi baffetti neri che le dita quasi tremanti avevano
  abbassati fra i denti, scolpita in mezzo della fronte con solco profondo
  la sua ruga caratteristica.
  Tutto questo era per lui molto spiacente. Non solamente il suo orgoglio
  si trovava leso nel sentire che il conte lo voleva cacciare di casa sua,
  ma il suo interesse eziandio che era di mantenersi in assai buona
  attinenza con quella potente famiglia, come guarentigia contro certe
  indiscrete curiosità.
  — Di codesto, diss'egli poi, la colpa è certo al signor X e me ne farò
  sentire (e qui narrò come sospettasse alcuno avesse visto i diamanti in
  quel poco di momenti in cui Nariccia li aveva recati nell'altra stanza,
  e questo qualcuno li aveva riconosciuti per quelli di lei, la qual cosa
  non poteva fare che il gioielliere); ma frattanto, Candida, che pensi tu
  di fare? abbandonarmi?
  Le prese di nuovo le mani come aveva fatto poc'anzi, le accostò il suo
  viso più bello che mai per un'espressione d'ardenza e d'amore, le saettò
  negli occhi uno sguardo pieno di fuoco e di passione.
  Candida sentì un caldo fremito soave correrle tutte le fibre; le sue
  guancie arrossirono, le sue labbra si dischiusero tremanti, i suoi occhi
  lampeggiarono.
  — Abbandonarti? Io?... Mai!
  Luigi colse con un bacio questa parola che ancora vibrava sulle
  coralline labbra di lei.
  — Quanto al signor conte, soggiunse egli, aggrottando di nuovo le
  sopracciglia, non gli farò aspettare di molto l'occasione di dirmi ciò
  che gli frulla, e stassera dopo pranzo mi recherò io stesso da lui.....
  La contessa lo abbracciò con amplesso vigoroso e tenace, come chi colla
  propria persona voglia difendere un suo caro da pericolo che lo minacci.
  — Non vo' che ti batta con lui, esclamò ella con forza. Non voglio, non
  voglio... Egli è perito nell'arte di ammazzare.
  Quercia la rassicurò con un sorriso che pareva significare, quando
  avvenisse una lotta, non per lui esservi da temere, e soggiunse
  coll'accento con cui si calmano le paure d'un diletto bambino:
  — Non pensarci neppure. Vedrai che tutto si conchiuderà più
  amichevolmente che tu non creda.
  Quando la contessa l'ebbe lasciato solo, Gian-Luigi stette ancora un
  poco riflettendo seco stesso, poscia, determinazione che veniva
  conseguenza delle sue meditazioni, uscì, e si diresse di buon passo
  verso la casa dei Benda.
  
  
  CAPITOLO XII.
  
  Francesco Benda aveva passato una notte cattiva. Un gagliardo accesso di
  febbre aveva spaventato non solo gli amorosi suoi congiunti, ma i medici
  eziandio. Il mattino colse quella disgraziata famiglia senza che pur
  uno, nè padre nè madre nè sorella dell'infermo, avesse chiuso quegli
  occhi che tutti avevano rossi dal pianto, avesse riposato quelle membra
  che ciascuno aveva, e non sentiva tuttavia, affrante dalla fatica e
  dall'angoscia. Nè la venuta del giorno arrecò alcun sollievo al
  giacente, alcun conforto di speranza a chi lo assisteva. Il ferito
  passava avvicendatamente da un sopor plumbeo ad un delirio non
  furibondo, nel quale, fra mille incoerenti parole che uscivano susurrate
  dalle sue labbra, spiccava pronunziato con più affetto, con ardenza di
  trasporto, un nome: quello di Virginia.
  E questa, da parte sua (era esso un misterioso istinto, era una
  meravigliosa corrispondenza delle anime nei due amanti?), Virginia da
  parte sua, tutta notte era stata occupata più che non ancora mai da
  un'inquietudine affannosa, che le faceva immaginare, che le faceva
  indovinare più pericolose e crudeli le condizioni del ferito. Era di
  poco inoltrata la mattina, quando la nobil fanciulla, senza punto lotta
  cedette alle ispirazioni del suo amore ed all'impulso della sua pietà.
  Scrisse una letterina a Maria, come ad antica compagna ed a nuova amica,
  pregandola di volerle comunicare le notizie del fratello, e la mandò
  tosto per un lacchè, a cui fu vivamente raccomandata la sollecitudine.
  Maria, che in que' momenti ne' quali la lettera di Virginia le giunse,
  non avrebbe voluto nè veder persona, nè ricevere biglietti di sorta,
  pure ad udire il nome di chi mandava quel foglio lo prese e lesse con
  premura. Il delirio del fratello aveva alla fanciulla rivelato il
  segreto dell'amore di lui; e se anima pietosa di fanciulla è pur sempre
  inchinevole a intenerirsi per siffatti affetti, da alcuni giorni la
  buona Maria era pur troppo, in mezzo ad un nuovo turbamento del suo
  cuore, più facile che mai ad esser commossa dalla vista, dalla parola,
  dal pensiero di quella passione. Nelle poche righe di Virginia
  laconicamente gentili, la sua dilicata percezione sentì un interesse più
  caldo e più vivo di quel che non volesse apparire, avvertì la vibrazione
  d'un affetto che invano cercasse nascondersi. Maria ebbe una ispirazione
  da semplice ed innocente fanciulla inesperta delle cose del mondo;
  sedette a tavolino e rispose alla nobile amica col biglietto seguente:
  «Il povero Francesco sta male pur troppo.
  «Se il giorno passasse come passò la brutta notte che è finita, non oso
  nemmeno pensare a quel che ne potrebbe avvenire.
  «Ho pregato tanto la Madonna, e mi pare che la dovrebbe pur farci la
  grazia di salvarcelo.
  «Sento una voce in cuore che mi dice esservi una persona al mondo che
  potrebbe richiamarlo alla vita.
  «Questa persona è Lei, cui Francesco, nel suo delirio, ha invocata tutta
  la notte.
  «Oh! s'Ella venisse a farci questo miracolo! Dio la benedirebbe per
  tutta la vita.»
  Maria, scritte rapidamente queste parole, non riflettè, piegò la carta,
  la suggellò e la fece rimettere nelle mani del domestico di Virginia che
  aspettava. Se avesse riflettuto alquanto non l'avrebbe mandata: se ne
  pentì appena il lacchè fu partito, ma era troppo tardi e stette
  aspettando con ansia l'effetto delle sue parole.
  Quest'effetto fu il migliore ch'essa potesse desiderare. Abbiamo visto
  come il primo impulso di Virginia nell'apprendere la disgrazia avvenuta
  a Francesco, fosse stato quello di accorrere essa stessa di persona a
  casa di lui; trattenuta dallo zio e da costui posta in guardia contro le
  imprudenze e i trasporti della passione, mercè il racconto delle funeste
  avventure di sua madre, Virginia aveva momentaneamente ceduto, ma non
  
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