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La plebe, parte IV - 21
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disturbarlo nel colloquio ch'egli aveva con Nariccia prima un frate
gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma
uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia;
come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare,
perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva
tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli
aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero
andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a
chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati
consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il
conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.
Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose,
domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal
signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una
cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva
allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli
che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto
sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii
segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di
ciò quello affigliato alla _cocca_) si scrutasse se i diamanti portati
dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor
Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di
oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.
Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo
fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua
attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.
Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La
faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole
e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente.
D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per
guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene
il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse
una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di
Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse
presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.
Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne
quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il
marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta
bollata.
— Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un
simile personaggio?...... Entrare qui nel mio palazzo questa razza di
gente!... Mai più!.... Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.
Ci si recò sul momento.
— Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto
ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a
chiamare quel _maroufle_, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza
vostra, se non vi disaggrada.
Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte
piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza,
s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi
del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.
Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito,
duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a
larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i
suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle
stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella
impostatura del soldato senz'armi.
Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona,
giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed
aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo.
Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia,
piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di
sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora
la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto,
come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del
destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al
Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli
disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a
mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.
— Voi avete scritto questo biglietto?
Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e
rispose:
— Sì, Eccellenza.
— Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di
Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.
Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul
volto di Langosco, poi lo ricondusse sulla faccia scioccamente superba
del generale.
— Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda;
ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.
Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.
— Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci
ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.
Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.
— Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di
vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi
avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.
Il conte fece un atto d'impazienza.
Barranchi entrò in mezzo.
— Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli
uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il
campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il
signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole
che non abbiano importanza.
Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa
autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.
— Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora
liberamente e fate presto.
Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era
così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva
parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.
Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina,
s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò
secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo
soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:
— Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia,
assassinato la settimana scorsa?
Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide
guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile
fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse
guardando corrucciato la faccia del Commissario:
— Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate
osare volgere le vostre interrogazioni — voi!
Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e
fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in
fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che
pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro
lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa
al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per
difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e
soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente
coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla
rauca ruvidezza della voce:
— La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il
dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo
delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V.
si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della
verità.
— Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che
cosa ci posso entrar io in codesto?
— Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune
domande e volesse degnarsi rispondere...
Langosco interruppe con superba impazienza:
— Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia
udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.
Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte
carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal
gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva
dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa
impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi
superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando
le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito
sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso,
immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma
scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior
pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle
passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano
abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che
tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle
ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa,
che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come
punte di spilla, alcune goccioline di sudore.
Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto
silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante
del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili,
di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco
meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte,
questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva
parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile
sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi.
Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e
disse poi lentamente con voce bassa e stentata:
— Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere... Potrei limitarmi a
dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla,
assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal
verità che cercate.
Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del
Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:
— Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di
famiglia.... È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia
insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi
credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente _sa
dupe_. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i
gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio — e
li riscattai.
Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si
raddoppiavano le goccie di sudore.
Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che
non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:
— L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al
lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata
stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.
Langosco trasalì.
— Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.
S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere
finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il
generale e l'aprì.
— Venite pure, Barranchi.
Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua
stupida faccia superba.
Langosco non aspettò interrogazione veruna.
— Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di
Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le
famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi
che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.
Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di
bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi
ad un pelottone di carabinieri:
— Voi sarete una tomba dei segreti.
Tofi, congedato di questa guisa, si partì.
— Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non
voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti
presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva
conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che
appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male
d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di
certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non
gli conviene avere tanta curiosità.
Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo
colletto ricamato in argento:
— Glie l'inculcherò.
Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a
lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con
preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar
più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò
nel suo palazzo.
— La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.
E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso
l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.
La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali
improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza
mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata,
curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto
significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per
dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia
volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»
— Vedo che siete occupata: cominciò il conte, parlando francese, in
presenza della cameriera che finiva di aggiustare sul capo della
contessa le nere, abbondanti, fulgide di lei chiome: e mi rincresce
disturbarvi; ma vi è proprio necessità ch'io vi dica a quattr'occhi due
parole, e vi prego a congedare il più presto che si possa la vostra
donna.
L'aspetto del conte era affatto gentile, e sulle labbra stavagli un
sorriso che riusciva ad essere grazioso; ma entro gli occhi era un certo
cupo sbarbaglio e nella voce una vibrazione che rivelavano una qualche
profonda emozione contenuta a forza.
Candida s'affrettò a liberarsi della cameriera, e quando essa e il
marito rimasero soli nella stanza, drizzatasi in piedi ed avvoltasi nel
suo accappatoio come nell'ampio velo una statua romana, le braccia
conserte al petto, la faccia audacemente levata e gli occhi fissi sul
conte, dimandò asciuttamente:
— Che cosa dunque avete da dirmi? Sbrigatevi.
Langosco che s'era messo a passeggiar su e giù, si piantò in faccia alla
moglie, e incrociando collo sguardo di lei il suo collerico, invelenito,
viperino, disse con voce bassa ma che sibilava fra le labbra contratte:
— Quanto vi ha spillato il vostro amante, obbligandovi a mettere in
pegno le vostre gioie?
Un lieve rossore salì alle guancie della contessa. La sua prima
impressione fu lo stupore e la confusione: le sue pupille si chinarono
un istante; ma non tardò a riprendere la sua sicurezza.
— Vi fo i complimenti, signor conte, diss'ella, del nuovo dizionario
dove andate a pescare i vostri termini.
— È quello che ci conviene ad ambedue: rispose il conte con sogghigno di
fiera ironia. _J'appelle chat un chat, et Rollin un fripon_: disse quel
birbo di Voltaire. Nel caso nostro il _fripon_ sapete chi sia...
Candida fece un gesto colla mano ad imporgli silenzio.
— Basta: diss'ella con tutta l'imponenza d'una gentildonna offesa.
Ma Langosco, più animato nello sguardo, nell'aspetto e nella voce, le si
accostò ancora d'un passo e proruppe con forza:
— No, non basta, signora contessa. Que' diamanti che voi avete fatto
servire ad un uso così.... Ah! non dirò l'epiteto che si conviene per un
resto di riguardi che forse non meritate..... que' diamanti appartennero
a mia madre, e non voglio che sieno...
Essa lo interruppe.
— Ma quelle gioie, lo avete ben visto, sono tutte in poter mio....
— Non cercate di mentire: voglio sperare che non ci siate abile
tuttavia: ad ogni modo non arrivereste a darmi lo scambio perchè io so
tutto.
E qui ripetè in brevi parole quello che sapeva, senza dirle il come
avesse ciò appreso.
Candida rimase atterrata.
— Or via, qual somma ritrasse quello sciagurato da tale imprestito?
La contessa glie la disse.
— E voi?
Candida fece un gesto di denegazione pieno di verità.
— Io? Nulla.
— E le cinquanta mila lire (e ciò dicendo il conte pronunziò più
lentamente e pesando sulle parole) per riavere i diamanti furono
restituite all'usuraio?
— Sì: rispose debolmente la donna.
— Ne siete certa? insistè il marito con forza.
— Credo..... mi pare..... non può essere altrimenti.
Una scura nube passò sulla fronte di Langosco.
— Ah! esclamò, potrebbe pur anco essere altrimenti.
La contessa non comprese o non sospettò neppure il significato di
quell'esclamazione.
Langosco, memore d'una interrogazione che gli aveva fatta il Commissario
ed avendone apprezzata e meditata tutta l'importanza, la ripetè ora a
sua moglie:
— E quando vi furono essi restituiti que' diamanti? La domenica o il
lunedì?
— Il lunedì.
Un piccol fremito contrasse i muscoli della faccia del conte, e le sua
guancie impallidirono leggermente.
— Ah! fece egli: il lunedì.
Tacque un istante: guardava la donna con espressione indefinibile di
compassione insieme e di dispetto, di rampogna e di dolore: pareva che a
significare i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue paure non trovasse
parole, e non osasse neppure avventurarsi a cercarle. Candida si sentiva
afferrare da una soggezione affatto nuova, quasi da una timidezza e da
una vergogna.
Dopo un poco il conte parlò e con accento di gravità, quale non gli
aveva mai sentito la moglie.
— Forse a farvi dei rimproveri ci ho poco diritto, e nei vostri errori
ci ho la mia buona parte di torti. Alle prime osservazioni ch'io
tentassi di porvi innanzi intorno alla vostra condotta, voi potreste
rinfacciarmi il mio passato e la mia, ed invocare quel patto mezzo
tacito e mezzo espresso, per cui avete ricompra la vostra assoluta
libertà col sacrifizio delle vostre sostanze. Mi merito questa poco
bella condizione in cui mi trovo a vostro riguardo, e non cercherò più
di uscirne; è troppo tardi; quindi non una parola vi dirò delle vostre
galanterie, nulla neppure se avete anche l'assurdità di sciupare da
parte vostra i vostri capitali; ma finchè avete l'onore di portare il
nome della mia famiglia, finchè vivrò, m'incombe l'obbligo di vegliare a
che questo nome non venga compromesso e macchiato. La vostra relazione
con colui ch'io non voglio nominare, minaccia trascinarvi, minaccia
trascinare il nostro nome in funeste — dirò la parola — in infami
pubblicità. Ciò non posso tollerare, ciò dovete evitare ad ogni modo voi
stessa. Non credo per ora dovermi spiegare più chiaramente. Le cose che
dovrei dire mi brucierebbero le labbra. Ma pensateci voi medesima.
Domandatevi come e di che viva quel.... quell'individuo, e conchiudete
se possa dirsi onorevole la sorgente di quei denari che spende. Non vi
do ordini, non v'impongo sollecite determinazioni; mi prendo solamente
la libertà di rivolgervi un consiglio: sarebbe assai bene che quel
cotale cessaste addirittura di vederlo. Quanto a questo palazzo, siccome
qui sono io il padrone, e ci ho il diritto di escluderne chi voglio, do
ordine immantinente che quando si presenti gli si dica chiaro che queste
soglie non sono più fatte per lui, e se vuol saperne la ragione, gli
farò l'onore d'ammetterlo un momento alla mia presenza per dirgliela
sulla faccia io stesso.
Il conte uscì senz'aspettare risposta. Candida rimase atterrata, confusa
e perplessa. Sentiva, anche suo malgrado, una certa vergogna dei fatti
suoi: non aveva di certo capito tutto il significato delle parole del
marito, la sua mente non era andata fino a quel punto estremo a cui pure
esse direttamente miravano, ma pure sentiva che in quella sua
disgraziata passione c'era oramai più che una colpa un degradamento. E
tuttavia essa non aveva il coraggio di strapparsela dall'anima: e il
solo pensiero che potesse avvenire ciò che le aveva consigliato il
conte, di non veder più il suo amante, erale dolorosissimo. In mezzo a
questo suo turbamento sorgeva e veniva via aumentando una irritazione
collerica, un vivace risentimento contro il marito che le aveva dette
quelle parole, contro l'amante che se le meritava, contro se stessa.
Bisognava risolversi a qualche cosa. Scrisse il bigliettino che sappiamo
a Luigi, perchè si trovasse al convegno; ed all'ora posta fu con lui.
Le parole dettele dal marito ella non seppe ripetere esattamente
all'amante, ned avrebbe pur voluto; e dalla narrazione da lei fatta
risultò solamente che il conte aveva appreso l'oppignorazione fatta dei
diamanti a benefizio di Gian-Luigi, la decisa volontà nel conte medesimo
di voler impedire il rinnovamento di simili fatti, e la determinazione
da lui presa di mettere alla porta di sua casa il signor Quercia e di
dirglielo egli stesso sul muso.
Gian-Luigi stette un poco in silenzio, le mascelle contratte
morsicchiando i suoi baffetti neri che le dita quasi tremanti avevano
abbassati fra i denti, scolpita in mezzo della fronte con solco profondo
la sua ruga caratteristica.
Tutto questo era per lui molto spiacente. Non solamente il suo orgoglio
si trovava leso nel sentire che il conte lo voleva cacciare di casa sua,
ma il suo interesse eziandio che era di mantenersi in assai buona
attinenza con quella potente famiglia, come guarentigia contro certe
indiscrete curiosità.
— Di codesto, diss'egli poi, la colpa è certo al signor X e me ne farò
sentire (e qui narrò come sospettasse alcuno avesse visto i diamanti in
quel poco di momenti in cui Nariccia li aveva recati nell'altra stanza,
e questo qualcuno li aveva riconosciuti per quelli di lei, la qual cosa
non poteva fare che il gioielliere); ma frattanto, Candida, che pensi tu
di fare? abbandonarmi?
Le prese di nuovo le mani come aveva fatto poc'anzi, le accostò il suo
viso più bello che mai per un'espressione d'ardenza e d'amore, le saettò
negli occhi uno sguardo pieno di fuoco e di passione.
Candida sentì un caldo fremito soave correrle tutte le fibre; le sue
guancie arrossirono, le sue labbra si dischiusero tremanti, i suoi occhi
lampeggiarono.
— Abbandonarti? Io?... Mai!
Luigi colse con un bacio questa parola che ancora vibrava sulle
coralline labbra di lei.
— Quanto al signor conte, soggiunse egli, aggrottando di nuovo le
sopracciglia, non gli farò aspettare di molto l'occasione di dirmi ciò
che gli frulla, e stassera dopo pranzo mi recherò io stesso da lui.....
La contessa lo abbracciò con amplesso vigoroso e tenace, come chi colla
propria persona voglia difendere un suo caro da pericolo che lo minacci.
— Non vo' che ti batta con lui, esclamò ella con forza. Non voglio, non
voglio... Egli è perito nell'arte di ammazzare.
Quercia la rassicurò con un sorriso che pareva significare, quando
avvenisse una lotta, non per lui esservi da temere, e soggiunse
coll'accento con cui si calmano le paure d'un diletto bambino:
— Non pensarci neppure. Vedrai che tutto si conchiuderà più
amichevolmente che tu non creda.
Quando la contessa l'ebbe lasciato solo, Gian-Luigi stette ancora un
poco riflettendo seco stesso, poscia, determinazione che veniva
conseguenza delle sue meditazioni, uscì, e si diresse di buon passo
verso la casa dei Benda.
CAPITOLO XII.
Francesco Benda aveva passato una notte cattiva. Un gagliardo accesso di
febbre aveva spaventato non solo gli amorosi suoi congiunti, ma i medici
eziandio. Il mattino colse quella disgraziata famiglia senza che pur
uno, nè padre nè madre nè sorella dell'infermo, avesse chiuso quegli
occhi che tutti avevano rossi dal pianto, avesse riposato quelle membra
che ciascuno aveva, e non sentiva tuttavia, affrante dalla fatica e
dall'angoscia. Nè la venuta del giorno arrecò alcun sollievo al
giacente, alcun conforto di speranza a chi lo assisteva. Il ferito
passava avvicendatamente da un sopor plumbeo ad un delirio non
furibondo, nel quale, fra mille incoerenti parole che uscivano susurrate
dalle sue labbra, spiccava pronunziato con più affetto, con ardenza di
trasporto, un nome: quello di Virginia.
E questa, da parte sua (era esso un misterioso istinto, era una
meravigliosa corrispondenza delle anime nei due amanti?), Virginia da
parte sua, tutta notte era stata occupata più che non ancora mai da
un'inquietudine affannosa, che le faceva immaginare, che le faceva
indovinare più pericolose e crudeli le condizioni del ferito. Era di
poco inoltrata la mattina, quando la nobil fanciulla, senza punto lotta
cedette alle ispirazioni del suo amore ed all'impulso della sua pietà.
Scrisse una letterina a Maria, come ad antica compagna ed a nuova amica,
pregandola di volerle comunicare le notizie del fratello, e la mandò
tosto per un lacchè, a cui fu vivamente raccomandata la sollecitudine.
Maria, che in que' momenti ne' quali la lettera di Virginia le giunse,
non avrebbe voluto nè veder persona, nè ricevere biglietti di sorta,
pure ad udire il nome di chi mandava quel foglio lo prese e lesse con
premura. Il delirio del fratello aveva alla fanciulla rivelato il
segreto dell'amore di lui; e se anima pietosa di fanciulla è pur sempre
inchinevole a intenerirsi per siffatti affetti, da alcuni giorni la
buona Maria era pur troppo, in mezzo ad un nuovo turbamento del suo
cuore, più facile che mai ad esser commossa dalla vista, dalla parola,
dal pensiero di quella passione. Nelle poche righe di Virginia
laconicamente gentili, la sua dilicata percezione sentì un interesse più
caldo e più vivo di quel che non volesse apparire, avvertì la vibrazione
d'un affetto che invano cercasse nascondersi. Maria ebbe una ispirazione
da semplice ed innocente fanciulla inesperta delle cose del mondo;
sedette a tavolino e rispose alla nobile amica col biglietto seguente:
«Il povero Francesco sta male pur troppo.
«Se il giorno passasse come passò la brutta notte che è finita, non oso
nemmeno pensare a quel che ne potrebbe avvenire.
«Ho pregato tanto la Madonna, e mi pare che la dovrebbe pur farci la
grazia di salvarcelo.
«Sento una voce in cuore che mi dice esservi una persona al mondo che
potrebbe richiamarlo alla vita.
«Questa persona è Lei, cui Francesco, nel suo delirio, ha invocata tutta
la notte.
«Oh! s'Ella venisse a farci questo miracolo! Dio la benedirebbe per
tutta la vita.»
Maria, scritte rapidamente queste parole, non riflettè, piegò la carta,
la suggellò e la fece rimettere nelle mani del domestico di Virginia che
aspettava. Se avesse riflettuto alquanto non l'avrebbe mandata: se ne
pentì appena il lacchè fu partito, ma era troppo tardi e stette
aspettando con ansia l'effetto delle sue parole.
Quest'effetto fu il migliore ch'essa potesse desiderare. Abbiamo visto
come il primo impulso di Virginia nell'apprendere la disgrazia avvenuta
a Francesco, fosse stato quello di accorrere essa stessa di persona a
casa di lui; trattenuta dallo zio e da costui posta in guardia contro le
imprudenze e i trasporti della passione, mercè il racconto delle funeste
avventure di sua madre, Virginia aveva momentaneamente ceduto, ma non
gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma
uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia;
come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare,
perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva
tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli
aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero
andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a
chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati
consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il
conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.
Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose,
domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal
signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una
cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva
allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli
che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto
sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii
segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di
ciò quello affigliato alla _cocca_) si scrutasse se i diamanti portati
dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor
Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di
oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.
Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo
fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua
attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.
Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La
faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole
e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente.
D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per
guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene
il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse
una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di
Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse
presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.
Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne
quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il
marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta
bollata.
— Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un
simile personaggio?...... Entrare qui nel mio palazzo questa razza di
gente!... Mai più!.... Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.
Ci si recò sul momento.
— Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto
ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a
chiamare quel _maroufle_, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza
vostra, se non vi disaggrada.
Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte
piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza,
s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi
del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.
Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito,
duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a
larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i
suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle
stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella
impostatura del soldato senz'armi.
Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona,
giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed
aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo.
Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia,
piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di
sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora
la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto,
come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del
destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al
Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli
disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a
mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.
— Voi avete scritto questo biglietto?
Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e
rispose:
— Sì, Eccellenza.
— Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di
Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.
Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul
volto di Langosco, poi lo ricondusse sulla faccia scioccamente superba
del generale.
— Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda;
ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.
Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.
— Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci
ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.
Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.
— Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di
vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi
avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.
Il conte fece un atto d'impazienza.
Barranchi entrò in mezzo.
— Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli
uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il
campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il
signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole
che non abbiano importanza.
Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa
autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.
— Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora
liberamente e fate presto.
Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era
così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva
parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.
Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina,
s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò
secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo
soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:
— Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia,
assassinato la settimana scorsa?
Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide
guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile
fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse
guardando corrucciato la faccia del Commissario:
— Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate
osare volgere le vostre interrogazioni — voi!
Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e
fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in
fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che
pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro
lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa
al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per
difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e
soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente
coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla
rauca ruvidezza della voce:
— La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il
dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo
delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V.
si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della
verità.
— Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che
cosa ci posso entrar io in codesto?
— Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune
domande e volesse degnarsi rispondere...
Langosco interruppe con superba impazienza:
— Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia
udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.
Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte
carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal
gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva
dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa
impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi
superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando
le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito
sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso,
immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma
scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior
pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle
passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano
abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che
tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle
ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa,
che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come
punte di spilla, alcune goccioline di sudore.
Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto
silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante
del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili,
di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco
meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte,
questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva
parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile
sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi.
Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e
disse poi lentamente con voce bassa e stentata:
— Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere... Potrei limitarmi a
dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla,
assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal
verità che cercate.
Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del
Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:
— Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di
famiglia.... È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia
insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi
credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente _sa
dupe_. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i
gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio — e
li riscattai.
Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si
raddoppiavano le goccie di sudore.
Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che
non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:
— L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al
lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata
stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.
Langosco trasalì.
— Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.
S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere
finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il
generale e l'aprì.
— Venite pure, Barranchi.
Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua
stupida faccia superba.
Langosco non aspettò interrogazione veruna.
— Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di
Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le
famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi
che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.
Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di
bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi
ad un pelottone di carabinieri:
— Voi sarete una tomba dei segreti.
Tofi, congedato di questa guisa, si partì.
— Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non
voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti
presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva
conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che
appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male
d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di
certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non
gli conviene avere tanta curiosità.
Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo
colletto ricamato in argento:
— Glie l'inculcherò.
Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a
lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con
preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar
più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò
nel suo palazzo.
— La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.
E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso
l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.
La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali
improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza
mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata,
curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto
significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per
dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia
volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»
— Vedo che siete occupata: cominciò il conte, parlando francese, in
presenza della cameriera che finiva di aggiustare sul capo della
contessa le nere, abbondanti, fulgide di lei chiome: e mi rincresce
disturbarvi; ma vi è proprio necessità ch'io vi dica a quattr'occhi due
parole, e vi prego a congedare il più presto che si possa la vostra
donna.
L'aspetto del conte era affatto gentile, e sulle labbra stavagli un
sorriso che riusciva ad essere grazioso; ma entro gli occhi era un certo
cupo sbarbaglio e nella voce una vibrazione che rivelavano una qualche
profonda emozione contenuta a forza.
Candida s'affrettò a liberarsi della cameriera, e quando essa e il
marito rimasero soli nella stanza, drizzatasi in piedi ed avvoltasi nel
suo accappatoio come nell'ampio velo una statua romana, le braccia
conserte al petto, la faccia audacemente levata e gli occhi fissi sul
conte, dimandò asciuttamente:
— Che cosa dunque avete da dirmi? Sbrigatevi.
Langosco che s'era messo a passeggiar su e giù, si piantò in faccia alla
moglie, e incrociando collo sguardo di lei il suo collerico, invelenito,
viperino, disse con voce bassa ma che sibilava fra le labbra contratte:
— Quanto vi ha spillato il vostro amante, obbligandovi a mettere in
pegno le vostre gioie?
Un lieve rossore salì alle guancie della contessa. La sua prima
impressione fu lo stupore e la confusione: le sue pupille si chinarono
un istante; ma non tardò a riprendere la sua sicurezza.
— Vi fo i complimenti, signor conte, diss'ella, del nuovo dizionario
dove andate a pescare i vostri termini.
— È quello che ci conviene ad ambedue: rispose il conte con sogghigno di
fiera ironia. _J'appelle chat un chat, et Rollin un fripon_: disse quel
birbo di Voltaire. Nel caso nostro il _fripon_ sapete chi sia...
Candida fece un gesto colla mano ad imporgli silenzio.
— Basta: diss'ella con tutta l'imponenza d'una gentildonna offesa.
Ma Langosco, più animato nello sguardo, nell'aspetto e nella voce, le si
accostò ancora d'un passo e proruppe con forza:
— No, non basta, signora contessa. Que' diamanti che voi avete fatto
servire ad un uso così.... Ah! non dirò l'epiteto che si conviene per un
resto di riguardi che forse non meritate..... que' diamanti appartennero
a mia madre, e non voglio che sieno...
Essa lo interruppe.
— Ma quelle gioie, lo avete ben visto, sono tutte in poter mio....
— Non cercate di mentire: voglio sperare che non ci siate abile
tuttavia: ad ogni modo non arrivereste a darmi lo scambio perchè io so
tutto.
E qui ripetè in brevi parole quello che sapeva, senza dirle il come
avesse ciò appreso.
Candida rimase atterrata.
— Or via, qual somma ritrasse quello sciagurato da tale imprestito?
La contessa glie la disse.
— E voi?
Candida fece un gesto di denegazione pieno di verità.
— Io? Nulla.
— E le cinquanta mila lire (e ciò dicendo il conte pronunziò più
lentamente e pesando sulle parole) per riavere i diamanti furono
restituite all'usuraio?
— Sì: rispose debolmente la donna.
— Ne siete certa? insistè il marito con forza.
— Credo..... mi pare..... non può essere altrimenti.
Una scura nube passò sulla fronte di Langosco.
— Ah! esclamò, potrebbe pur anco essere altrimenti.
La contessa non comprese o non sospettò neppure il significato di
quell'esclamazione.
Langosco, memore d'una interrogazione che gli aveva fatta il Commissario
ed avendone apprezzata e meditata tutta l'importanza, la ripetè ora a
sua moglie:
— E quando vi furono essi restituiti que' diamanti? La domenica o il
lunedì?
— Il lunedì.
Un piccol fremito contrasse i muscoli della faccia del conte, e le sua
guancie impallidirono leggermente.
— Ah! fece egli: il lunedì.
Tacque un istante: guardava la donna con espressione indefinibile di
compassione insieme e di dispetto, di rampogna e di dolore: pareva che a
significare i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue paure non trovasse
parole, e non osasse neppure avventurarsi a cercarle. Candida si sentiva
afferrare da una soggezione affatto nuova, quasi da una timidezza e da
una vergogna.
Dopo un poco il conte parlò e con accento di gravità, quale non gli
aveva mai sentito la moglie.
— Forse a farvi dei rimproveri ci ho poco diritto, e nei vostri errori
ci ho la mia buona parte di torti. Alle prime osservazioni ch'io
tentassi di porvi innanzi intorno alla vostra condotta, voi potreste
rinfacciarmi il mio passato e la mia, ed invocare quel patto mezzo
tacito e mezzo espresso, per cui avete ricompra la vostra assoluta
libertà col sacrifizio delle vostre sostanze. Mi merito questa poco
bella condizione in cui mi trovo a vostro riguardo, e non cercherò più
di uscirne; è troppo tardi; quindi non una parola vi dirò delle vostre
galanterie, nulla neppure se avete anche l'assurdità di sciupare da
parte vostra i vostri capitali; ma finchè avete l'onore di portare il
nome della mia famiglia, finchè vivrò, m'incombe l'obbligo di vegliare a
che questo nome non venga compromesso e macchiato. La vostra relazione
con colui ch'io non voglio nominare, minaccia trascinarvi, minaccia
trascinare il nostro nome in funeste — dirò la parola — in infami
pubblicità. Ciò non posso tollerare, ciò dovete evitare ad ogni modo voi
stessa. Non credo per ora dovermi spiegare più chiaramente. Le cose che
dovrei dire mi brucierebbero le labbra. Ma pensateci voi medesima.
Domandatevi come e di che viva quel.... quell'individuo, e conchiudete
se possa dirsi onorevole la sorgente di quei denari che spende. Non vi
do ordini, non v'impongo sollecite determinazioni; mi prendo solamente
la libertà di rivolgervi un consiglio: sarebbe assai bene che quel
cotale cessaste addirittura di vederlo. Quanto a questo palazzo, siccome
qui sono io il padrone, e ci ho il diritto di escluderne chi voglio, do
ordine immantinente che quando si presenti gli si dica chiaro che queste
soglie non sono più fatte per lui, e se vuol saperne la ragione, gli
farò l'onore d'ammetterlo un momento alla mia presenza per dirgliela
sulla faccia io stesso.
Il conte uscì senz'aspettare risposta. Candida rimase atterrata, confusa
e perplessa. Sentiva, anche suo malgrado, una certa vergogna dei fatti
suoi: non aveva di certo capito tutto il significato delle parole del
marito, la sua mente non era andata fino a quel punto estremo a cui pure
esse direttamente miravano, ma pure sentiva che in quella sua
disgraziata passione c'era oramai più che una colpa un degradamento. E
tuttavia essa non aveva il coraggio di strapparsela dall'anima: e il
solo pensiero che potesse avvenire ciò che le aveva consigliato il
conte, di non veder più il suo amante, erale dolorosissimo. In mezzo a
questo suo turbamento sorgeva e veniva via aumentando una irritazione
collerica, un vivace risentimento contro il marito che le aveva dette
quelle parole, contro l'amante che se le meritava, contro se stessa.
Bisognava risolversi a qualche cosa. Scrisse il bigliettino che sappiamo
a Luigi, perchè si trovasse al convegno; ed all'ora posta fu con lui.
Le parole dettele dal marito ella non seppe ripetere esattamente
all'amante, ned avrebbe pur voluto; e dalla narrazione da lei fatta
risultò solamente che il conte aveva appreso l'oppignorazione fatta dei
diamanti a benefizio di Gian-Luigi, la decisa volontà nel conte medesimo
di voler impedire il rinnovamento di simili fatti, e la determinazione
da lui presa di mettere alla porta di sua casa il signor Quercia e di
dirglielo egli stesso sul muso.
Gian-Luigi stette un poco in silenzio, le mascelle contratte
morsicchiando i suoi baffetti neri che le dita quasi tremanti avevano
abbassati fra i denti, scolpita in mezzo della fronte con solco profondo
la sua ruga caratteristica.
Tutto questo era per lui molto spiacente. Non solamente il suo orgoglio
si trovava leso nel sentire che il conte lo voleva cacciare di casa sua,
ma il suo interesse eziandio che era di mantenersi in assai buona
attinenza con quella potente famiglia, come guarentigia contro certe
indiscrete curiosità.
— Di codesto, diss'egli poi, la colpa è certo al signor X e me ne farò
sentire (e qui narrò come sospettasse alcuno avesse visto i diamanti in
quel poco di momenti in cui Nariccia li aveva recati nell'altra stanza,
e questo qualcuno li aveva riconosciuti per quelli di lei, la qual cosa
non poteva fare che il gioielliere); ma frattanto, Candida, che pensi tu
di fare? abbandonarmi?
Le prese di nuovo le mani come aveva fatto poc'anzi, le accostò il suo
viso più bello che mai per un'espressione d'ardenza e d'amore, le saettò
negli occhi uno sguardo pieno di fuoco e di passione.
Candida sentì un caldo fremito soave correrle tutte le fibre; le sue
guancie arrossirono, le sue labbra si dischiusero tremanti, i suoi occhi
lampeggiarono.
— Abbandonarti? Io?... Mai!
Luigi colse con un bacio questa parola che ancora vibrava sulle
coralline labbra di lei.
— Quanto al signor conte, soggiunse egli, aggrottando di nuovo le
sopracciglia, non gli farò aspettare di molto l'occasione di dirmi ciò
che gli frulla, e stassera dopo pranzo mi recherò io stesso da lui.....
La contessa lo abbracciò con amplesso vigoroso e tenace, come chi colla
propria persona voglia difendere un suo caro da pericolo che lo minacci.
— Non vo' che ti batta con lui, esclamò ella con forza. Non voglio, non
voglio... Egli è perito nell'arte di ammazzare.
Quercia la rassicurò con un sorriso che pareva significare, quando
avvenisse una lotta, non per lui esservi da temere, e soggiunse
coll'accento con cui si calmano le paure d'un diletto bambino:
— Non pensarci neppure. Vedrai che tutto si conchiuderà più
amichevolmente che tu non creda.
Quando la contessa l'ebbe lasciato solo, Gian-Luigi stette ancora un
poco riflettendo seco stesso, poscia, determinazione che veniva
conseguenza delle sue meditazioni, uscì, e si diresse di buon passo
verso la casa dei Benda.
CAPITOLO XII.
Francesco Benda aveva passato una notte cattiva. Un gagliardo accesso di
febbre aveva spaventato non solo gli amorosi suoi congiunti, ma i medici
eziandio. Il mattino colse quella disgraziata famiglia senza che pur
uno, nè padre nè madre nè sorella dell'infermo, avesse chiuso quegli
occhi che tutti avevano rossi dal pianto, avesse riposato quelle membra
che ciascuno aveva, e non sentiva tuttavia, affrante dalla fatica e
dall'angoscia. Nè la venuta del giorno arrecò alcun sollievo al
giacente, alcun conforto di speranza a chi lo assisteva. Il ferito
passava avvicendatamente da un sopor plumbeo ad un delirio non
furibondo, nel quale, fra mille incoerenti parole che uscivano susurrate
dalle sue labbra, spiccava pronunziato con più affetto, con ardenza di
trasporto, un nome: quello di Virginia.
E questa, da parte sua (era esso un misterioso istinto, era una
meravigliosa corrispondenza delle anime nei due amanti?), Virginia da
parte sua, tutta notte era stata occupata più che non ancora mai da
un'inquietudine affannosa, che le faceva immaginare, che le faceva
indovinare più pericolose e crudeli le condizioni del ferito. Era di
poco inoltrata la mattina, quando la nobil fanciulla, senza punto lotta
cedette alle ispirazioni del suo amore ed all'impulso della sua pietà.
Scrisse una letterina a Maria, come ad antica compagna ed a nuova amica,
pregandola di volerle comunicare le notizie del fratello, e la mandò
tosto per un lacchè, a cui fu vivamente raccomandata la sollecitudine.
Maria, che in que' momenti ne' quali la lettera di Virginia le giunse,
non avrebbe voluto nè veder persona, nè ricevere biglietti di sorta,
pure ad udire il nome di chi mandava quel foglio lo prese e lesse con
premura. Il delirio del fratello aveva alla fanciulla rivelato il
segreto dell'amore di lui; e se anima pietosa di fanciulla è pur sempre
inchinevole a intenerirsi per siffatti affetti, da alcuni giorni la
buona Maria era pur troppo, in mezzo ad un nuovo turbamento del suo
cuore, più facile che mai ad esser commossa dalla vista, dalla parola,
dal pensiero di quella passione. Nelle poche righe di Virginia
laconicamente gentili, la sua dilicata percezione sentì un interesse più
caldo e più vivo di quel che non volesse apparire, avvertì la vibrazione
d'un affetto che invano cercasse nascondersi. Maria ebbe una ispirazione
da semplice ed innocente fanciulla inesperta delle cose del mondo;
sedette a tavolino e rispose alla nobile amica col biglietto seguente:
«Il povero Francesco sta male pur troppo.
«Se il giorno passasse come passò la brutta notte che è finita, non oso
nemmeno pensare a quel che ne potrebbe avvenire.
«Ho pregato tanto la Madonna, e mi pare che la dovrebbe pur farci la
grazia di salvarcelo.
«Sento una voce in cuore che mi dice esservi una persona al mondo che
potrebbe richiamarlo alla vita.
«Questa persona è Lei, cui Francesco, nel suo delirio, ha invocata tutta
la notte.
«Oh! s'Ella venisse a farci questo miracolo! Dio la benedirebbe per
tutta la vita.»
Maria, scritte rapidamente queste parole, non riflettè, piegò la carta,
la suggellò e la fece rimettere nelle mani del domestico di Virginia che
aspettava. Se avesse riflettuto alquanto non l'avrebbe mandata: se ne
pentì appena il lacchè fu partito, ma era troppo tardi e stette
aspettando con ansia l'effetto delle sue parole.
Quest'effetto fu il migliore ch'essa potesse desiderare. Abbiamo visto
come il primo impulso di Virginia nell'apprendere la disgrazia avvenuta
a Francesco, fosse stato quello di accorrere essa stessa di persona a
casa di lui; trattenuta dallo zio e da costui posta in guardia contro le
imprudenze e i trasporti della passione, mercè il racconto delle funeste
avventure di sua madre, Virginia aveva momentaneamente ceduto, ma non
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- La plebe, parte IV - 37
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- La plebe, parte IV - 39
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