La plebe, parte IV - 19
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obbligatoria l'istruzione affidandola ai Comuni; e compagna a questa la
legge che desse la più ampia libertà ai Comuni medesimi ed alle
Provincie. La legge quindi che permettesse le associazioni; e per ultimo
una politica costituzione rappresentativa.
— E se il popolo abusasse di tutte queste cose? domandò il Re fissando
sempre il suo sguardo sul volto del giovane.
— Ne abuserà di certo: rispose questi francamente: finchè dall'abuso
abbia appunto imparato il modo di servirsene a dovere. Si tenga un uomo
per anni ed anni legato sopra una seggiola senza lasciarlo muovere, e
poi lo si liberi: è certo che nei primi passi che farà camminando, egli
traballerà....
— Gli sarà dunque mestieri d'un sostegno.
— Sostegno al popolo saranno l'autorità della legge e l'azione del
governo che colle nostre abitudini sarà per molto tempo fin troppa.
Carlo Alberto sviò gli occhi da quelli di Maurilio, chinò la fronte
nell'ombra e si tacque. Rimasero ambidue per alcuni minuti in silenzio:
poscia il giovane si appoggiò con audace famigliarità alla tavola ed
abbassando alquanto la voce, riprese a parlare.
— E di questa guisa si redimerebbe eziandio da ogni influsso straniero
l'Italia.
Il Re si scosse leggermente, sollevò un istante le palpebre, ma tornò ad
abbassarle senza far motto.
— Simili riforme, continuava Maurilio, compite da V. M. nei proprii
Stati, richiederebbero di necessità le uguali nelle altre regioni
italiane. Per quanto si faccia a tenerle divise, le parti della Penisola
sono oramai, più che materialmente, moralmente unite da un comune
concetto che è un comune bisogno. Un progresso in una italica provincia
si ripercote in tutte le altre, crea la necessità d'imitarlo in tutti i
governi. V. M. facendo del Piemonte un modello di Stato libero e colto
alla moderna, trarrà a forza con sè, dietro sè, tutti i Principi e i
popoli d'Italia. E allora l'Italia avrà una forza reale e superiore ad
opporre all'Austria.
A questo nome Carlo Alberto fece un moto come se volesse interrompere;
ma quel moto lasciò a metà e permise il giovane continuasse.
— Non è coll'armi, almeno per ora, e se un miracoloso caso non
intravviene, che l'Italia possa mai combattere il suo eterno nemico:
bisogna vincerlo colla civiltà. Più delle baionette valgono in questa
lotta le idee, e bisogna colla istruzione spargere e fecondare le
migliori e più sane idee nel popolo italiano, affine di prepararlo e
guidarlo ad una supremazia morale ed intellettuale, la quale si
convertirà necessariamente anche in politica ed economica. Conviene che
non c'illudiamo sulla vera condizione delle cose. Una nazione non
soggiace ad un'altra, se non perchè questa seconda val più della prima
intellettualmente e moralmente: e ciò sopratutto nell'evo moderno. Una
volta era la sola forza materiale che dava il primato; ora la forza
materiale non ha valore se non si rincalza con quella del sapere. Noi
Italiani abbiamo il coraggio di dircela questa verità, soggiaciamo a
dominio straniero, perchè la razza germanica, un governo rappresentante
della quale ci tiene soggetti, è più innanzi di noi nella via del
progresso, nell'istruzione, nel lavoro, nel sentimento del dovere, nella
moralità. Facciamo di passarle innanzi noi, prepariamo delle generazioni
più colte ed oneste, ed avremo procacciata, se non la nostra, la
redenzione dei nostri figliuoli. Sarà forse necessaria anche allora una
lotta materiale; ma avvenendo questa quando la gara nella coltura sia
già vinta, sarà più facile e più sicura la vittoria.
Carlo Alberto rialzò il capo e fece vedere quel suo misterioso sorriso.
— Le sue sono idee generose, ma quanto sieno attuabili conoscerà fra
qualche anno, allorchè l'età abbia di meglio maturata la sua mente. Ella
è molto giovane, e del quesito così complesso non abbraccia tutte le
parti, e della libertà e de' suoi effetti ha concetto non esatto e cui
smentiscono le storie. La consiglio a riflettere e studiare, e valersi
dei lumi e della molta esperienza di colui che la sua fortuna le volle
dare per zio, l'egregio marchese di Baldissero, nostro fedele e
benemerito ministro.
Maurilio avrebbe avuto mille cose da rispondere ancora: il suo concetto
della libertà avrebbe voluto spiegare e confermare coll'esempio degli
Stati Uniti d'America; ma l'accento del Re mostrava che il colloquio
doveva finire; si alzò e stette in piedi presso la tavola in mossa
rispettosa di attesa. Carlo Alberto prese lo scartafaccio del giovane
che gli stava innanzi e glie lo porse.
— Eccole il suo scritto. Lo rinchiuda nel suo scrigno ed aspetti a
leggerlo fra cinque o sei anni. Vedrà allora che ben diversi giudizi
porterà sulle cose e sugli uomini.
Fece un cenno di capo che era un congedo; e Maurilio, preso con mano
sollecita il suo quaderno, s'inchinò ed uscì, il capo confuso e il passo
barcollante. Nella camera vicina ritrovò il marchese che lo attendeva.
S'avviarono senza dirsi una parola, salirono nella carrozza che stava
sul viale, e furono ricondotti al palazzo. Maurilio si teneva il viso
nelle mani e respirava con alito affannoso. Il marchese ad un punto
discretamente volle mettere il discorso sul colloquio avuto col Re.
— Non so, non so più nulla: rispose con impeto il giovane. Credo che
nella mia mente s'è dileguata per un'istante la nebbia. Ora è tornata
più cupa ed opaca di prima.
Il Re aveva seguìto col suo sguardo il giovane liberale che partivasi da
lui. Ne' suoi occhi c'era un interessamento benevolo. Quando fu solo,
s'alzò e si mise a passeggiare lentamente, con passo che pareva quasi
guardingo, sul tappeto della camera.
— Gioventù, gioventù! mormorava egli fra se stesso. Credono poter da un
giorno all'altro cambiar faccia al mondo. Quelle riforme sarebbero la
negazione del Governo: sarebbero il suicidio della monarchia.
Riforme!... E l'Austria me ne lascierebbe compire?... Ha ragione.
Bisogna rendersi superiori d'animo e di mente ai Tedeschi: ed è appunto
quello che Vienna non permetterà mai.
S'accostò al camino, posò il gomito alla tavola di marmo e chinando la
sua alta persona, guardò il fuoco, come se in quella fiamma ed in quelle
braci gli apparissero chi sa quali visioni.
E strane visioni gli si spiegavano veramente dinanzi. Vide campi biondi
per messi abbondanti, e lieti villici lavorare allegramente cantando;
vide officine piene del gaio tumulto del lavoro, e magazzini riboccanti
di merci, e battelli a vapore sul mare, e treni di ferrovie per terra
spargere in ogni dove prodotti e ricchezza; vide città e villaggi
puliti, ordinati, tranquilli, e scuole piene di giovani e di bambini, e
chiese piene di fedeli; vide un popolo, onesto, laborioso, agiato e in
mezzo un uomo dalle sembianze modeste passare con un sorriso paterno,
accompagnato dalle benedizioni di tutti: ed una voce gli pronunziava
all'orecchio le seguenti parole: «la gloria di Washington.»
Poi un'altra visione succedeva. Erano campi di guerra in cui dominava la
strage. Tutto un popolo che sorgeva infiammato da patrio fervore ed
accorreva in armi sotto una bandiera in cui splendeva una bianca croce,
quella di Savoia; schiere di prodi che si precipitavano impetuosi contro
le fitte falangi, contro i baluardi del nemico oppressore; una pioggia
di palle, una tempesta di fuoco, un orribile avvolgimento di morte, e in
mezzo a questo turbinio spaventoso un uomo più alto di tutti, a capo di
tutti, che, la spada imbrandita, il coraggio negli sguardi, si slanciava
dove più forte il pericolo a strappar la vittoria; e un lungo,
sonorissimo plauso d'esercito e di popoli, e un'eco imperitura nelle
pagine degli annali umani.
— O l'una o l'altra di queste glorie; si disse con un'interna
concitazione cui non nascondeva compiutamente la freddezza abituale
delle sue sembianze.
Alla sua fantasia di re guerriero, discendente da principi guerrieri,
sorrideva maggiormente la gloria del guerriero. Un altro pensiero venne
a farlo sorridere a quel suo modo misterioso. Oh vedere umiliata dalla
sconfitta l'Austria, che lui aveva umiliato coll'oltraggio ed umiliava
tuttavia col sospetto!
— O l'una o l'altra di tali glorie, ripetè; e perchè non tuttedue?
Sollevò il capo. Nell'alto specchio vide la sua pallida fronte e la sua
scarna faccia, che sembravano, nell'ombra mandata dalla ventola, la
faccia e la fronte d'uno spettro. Si trasse per moto istintivo indietro
d'un passo, vide ad un tratto tutti gli orrori della guerra: morti e
morenti, e saccheggi ed incendi e rovine. Si passò la mano sulla fronte,
deviò lo sguardo dallo specchio e disse curvando il capo:
— Sia quello che vuole il nostro Signore Iddio!
CAPITOLO XI.
Una strana notte fu quella che passò Maurilio. Non dormì e non fu
sveglio; non ebbe sogni e le più matte immagini di chimere danzarono
nella sua turbata fantasia. Il povero villaggio in cui era stato
allevato e le sontuosità cittadine, il fienile in cui bambino aveva
tremato del freddo e la camera in cui aveva parlato al Re, la modesta
pulita stanzina in cui gli faceva scuola il parroco e lo studio severo
del marchese, Menico e la Giovanna, Nariccia e il signor Defasi, Don
Venanzio e il marchese, Francesco Benda e gli altri amici suoi, e Carlo
Alberto, e il Commissario di Polizia, e _Stracciaferro_ e _Graffigna_
suoi antichi compagni di carcere passavano e ripassavano innanzi alla
sua mente in una confusione di scene senza senso e senza nesso che
s'avvicendavano, sparivano, tornavano, si interrompevano, si
ripigliavano con un tormentoso brulichio del cervello.
In quel disordine predominavano, affacciandosi di quando in quando, due
figure: una quella della splendida bellezza di Virginia che gettava su
quel caosse il raggio d'un suo sorriso provocatore; l'altra quella di
Gian-Luigi che appariva tratto tratto con un aspetto mefistofelico a far
suonare in quel tumulto un ghigno di scherno. Virginia, nè pure il più
pazzamente audace de' suoi sogni avuti fino allora non glie l'aveva
mostrata mai di quella guisa. La gli veniva dinanzi disciolte le chiome
d'oro, sparse sull'eburneo seno trasparente fra il velo di seta che le
facevano quegli abbandonati capelli; la si chinava verso di lui dal
piedistallo di nubi rosate sopra cui s'ergeva oltre la comune altezza
dei mortali: gli lanciava nel volto, negli occhi, nel cervello, nel
cuore un sorriso d'indefinibile procacia, un sorriso di seduttrice, un
sorriso di donna tocca dal dito impuro d'Asmodeo, ed una voce vibrante
come un acuto stromento metallico gli diceva: «Amami, amami, fammi tua.»
E la vaga forma gli protendeva le braccia e coll'influsso del suo
sguardo non umano lo attraeva a sè così che a lui pareva esser levato
nell'aria, ed accostarsi, accostarsi la sua bocca desiosa a quella bocca
di sì desiato riso: ma quando già erano per toccarsi le labbra frementi,
quando già si fondevano l'una nell'altra le fiamme dei vividi sguardi,
ecco una voce di rampogna tremenda gridargli all'orecchio: «Empio! è tua
sorella.» Ed egli ricadeva di botto con dolorosa scossa sul suo letto,
come un Titano fulminato dalla soglia dell'Olimpo alle rupi della terra;
e tutto gli si scombuiava dinanzi, e perdeva ogni coscienza di pensiero
per non conservar più che un senso indefinito, vago, ma profondo,
d'inenarrabile dolore.
Poi nella notte tenebrosa della sua mente ricominciavano da capo a
disegnarsi incertamente delle forme che via via, man mano prendevano più
corpo e venivano a sfilargli dinanzi in una processione che gli
rappresentava frammisti, intralciati i fatti del suo passato, le vicende
mirabili del presente, e le possibili avventure del futuro. Allora
veniva poco a poco architettandosi un romanzo impossibile di successi
della sua vita ambiziosamente lieti; gli si veniva disegnando dinanzi un
quadro di grandi e nobili venture delle quali egli era il benemerito
eroe, finchè di dietro in quella tela dava del capo e la sfondava
apparendo con uno scroscio di cachinno una figura ironica e beffarda,
quella di Gian-Luigi, che gli gridava con accento fra la collera, la
compassione e il disprezzo:
— Imbecille! Non t'accorgi tu che tutto questo è un sogno? Tu saresti un
discendente di nobile prosapia, ed io sempre un miserabile bastardo
d'ignoti genitori? Eh via! È impossibile. Metti l'animo in pace, e torna
a nasconderti nella tua nullità.
L'alba tardiva della giornata invernale rompeva le tenebre della notte,
e la mente di Maurilio, stanca di questa sequela di febbrili visioni,
era caduta in un torpore che non era riposo, ma che era pure una
sospensione da quello strano e doloroso travaglio. Giacque inerte per
alcun tempo, senza più idee, senza propositi, senza pensieri. Pur due
immagini vegliavano ancora, per così dire, benchè non avvertite, in
fondo a quella nebbia dell'intelligenza; e quando il giovane aprì gli
occhi alla luce del giorno, che s'era fatto pieno, e tornò nella precisa
cognizione di sè, le trovò ambedue chiare e spiccate, ma ora nell'essere
loro naturale presentarglisi come due doveri da compiere. Bisognava
fuggire Virginia, almeno per alcun tempo, finchè la forza della volontà
fortemente impiegata avesse sostituito l'affetto fraterno a quella ora
scellerata passione d'amore; conveniva apprendere al suo compagno
d'infanzia e di sorte la ventura del suo destino. Ad ottenere il primo
scopo già aveva deciso partire quella stessa mattina con Don Venanzio, e
presane licenza dallo zio; per la seconda cosa da farsi determinò andare
senza indugio a narrare ogni cosa a Gian-Luigi.
Questi riposava ancora nel suo letto sontuoso nella camera elegantissima
del suo ricco quartiere. Maurilio insistette presso il servitore così
che ottenne il suo nome fosse annunziato tuttavia al padrone, il quale
diede ordine il mattiniero visitatore fosse tosto introdotto.
Marullo aprì le imposte della finestra, fece passare il giovane e si
ritirò.
Gian-Luigi si sollevò alquanto della persona in mezzo al candore delle
sue finissime lenzuola, puntando il gomito sui cuscini, e collo sguardo
curioso più che colla parola interrogò il compagno.
— Tu a quest'ora? disse. C'è egli qualche cosa di nuovo?
Maurilio, senza parlare, fece col capo un grave cenno di sì.
— Oh, oh! esclamò Quercia, balzando sul letto, il tuo viso mi annunzia
che non le sono bazzecole. Da coricato non sono capace d'ascoltar cose
gravi. Aspetta un momento che salto giù e in un attimo sono preparato a
darti udienza. Siedi costì presso al fuoco e prendi un sigaro, se ti
piace fumare.
Il visitatore rifiutò con atto cortese, s'accostò al camino e volgendo
al fuoco le spalle stette in piedi ad aspettare, mentre il suo sguardo
esaminava non senza curiosità le signorili suppellettili di quella
stanza. Il letto era incortinato di seta, di velluto finissimo eran
ricoperte le seggiole, di Persia era il tappeto sul pavimento, di legno
d'India erano i mobili intarsiati con belli ornamenti ed adorni di fregi
di metallo indorato: l'orologio a pendolo era un amorino d'oro che
faceva all'altalena sopra un cespuglio di rose smaltate: sopra la pietra
di marmo del comodino stavano due pistole di bella fattura
ricchissimamente adorne d'argento niellato.
Gian-Luigi che si aggiustava il goletto della camicia innanzi all'alta
spera fino a terra dell'armadio d'un bel lavoro di scorniciature e
d'intaglio, vide entro lo specchio lo sguardo che Maurilio posò e tenne
fermo su quell'armi. Si volse indietro e gli disse:
— Ah ah! tu guardi que' gingilli eh? Prendili in mano ed esaminali, se
ti piace questa fatta lavori. E' sono un certo arnese che diventano
ormai indispensabili, chi vuol pararsi contro ogni pericolo.
— È vero: rispose sbadatamente Maurilio che poco metteva attenzione a
questi discorsi indifferenti; e l'assassinio di quel povero Nariccia è
cosa da mettere in apprensione qualunque.
Quercia si volse subitamente in là, e non parlò più. In pochi minuti
però ebbe finito di vestirsi, e serrandosi ai lombi i cordoni di seta
d'una veste da camera di lana finissima foderata di raso celeste, venne
a sedersi presso il fuoco in una poltrona a sdraio.
— Eccomi a te, disse allora. Siedi o sta ritto, come ti piace, e
parla... Ma forse ch'io indovino la cagione della tua venuta. Tu hai
pensato di meglio alle parole ch'io ti dissi pochi giorni sono, e sei
venuto a modificare la risposta che allora tu mi hai data.
Maurilio scosse lentamente la testa.
— No: rispose. Sono venuto ad apprenderti una grande e strana fortuna
che mi tocca: sì grande e sì strana che non posso crederci ancora.
Si chinò verso il suo uditore e colle più brevi parole che gli fu
possibile, concitatamente gli raccontò tutto quello che gli era
avvenuto.
Gian-Luigi, al primo annunzio di quel fatto, aveva mandato
un'esclamazione e dato un trabalzo. Poi la sua faccia aveva presa
un'aria d'incredulità che assai si accostava a quella beffa ironica, cui
nelle fantasie della sua notte Maurilio aveva visto all'immagine di lui;
quindi, mentre l'espositore più e più veniva narrando ed adducendo le
prove e certificando l'avvenuto riconoscimento, quell'espressione s'era
scambiata a poco a poco in un'altra ancora meno benevola e niente
soddisfatta. Lo sguardo nero di Gian-Luigi stava fisso con niquitosa
intentività sulla faccia del parlatore: v'erano lampi d'odio e
d'invidia, vi appariva una voglia intensa e sterminata che tutto ciò non
fosse vero: ad un punto quello sguardo divenne quello con cui un
derubato perseguita e rampogna il rapitore del suo bene: esso pareva
voler dire: «Sciagurato! quello era mio destino, quella avrebbe dovuta
essere mia ventura, e tu me l'hai rapita.»
Vedevasi che i suoi sentimenti erano sì forti che egli non pensava
nemmeno più a nasconderli. Maurilio se ne sentì una pena, un'amarezza,
quasi uno spavento entrargli nell'anima. Finì precipitosamente il suo
discorso, quasi impacciato, quasi vergognoso di sè, e chinò gli occhi
poco meno che un reo dopo aver confessato la sua colpa. Gian-Luigi anche
lui aveva chinato gli occhi; era divenuto pallido e ombre indefinibili
venivano e andavano sulla sua bella fronte. A un tratto, senza pure una
parola, s'alzò, incrociò le braccia al petto e fece due o tre giri per
la stanza a capo chino. Poscia si fermò improvviso; allentò il nodo
delle braccia e le lasciò cadere lungo la persona, sollevò la testa e si
riscosse come per farsi cadere di dosso il peso d'un uggioso pensiero;
illuminò la sua leggiadra faccia d'uno dei più graziosi suoi sorrisi.
Venne presso a Maurilio e con mossa cordialissima gli tese la destra.
— La tua felice ventura, diss'egli, lo confesso, per primo ha trovato in
me un invidioso. Tutti abbiamo più o meno un demone interno che alla
felicità del nostro fratello si adonta perchè la non è toccata a noi. A
te dunque l'effettuazione delle più care speranze... a me nulla. Io non
mi potrò dunque trar mai dall'ignobile condizione di trovatello che
nascondo come una vergogna. Non verrà la fortuna ad aprirmi a due
battenti la porta del mondo legale, nè varrà mai la mia attività e la
mia ambizione a sfondarle con prepotente successo..... Condannato a
perire, peggio che nell'oscurità, nell'ignominia.
Maurilio protestò con un'esclamazione contro la verità di queste ultime
desolate parole; Luigi atteggiò le labbra ad un misterioso, amarissimo
sorriso.
— Sarà così: riprese. Sii tu almeno felice! Tu hai cervello e polsi da
stare in mezzo ai leoni; poichè la sorte vi ti caccia, sappiti farvi il
tuo luogo e la tua parte.
Si passò la destra, che aveva tolta più fredda che un pezzo di marmo da
quella di Maurilio, sulla fronte come per iscacciarne l'ultima ombra di
turbamento e di mestizia.
— Che pensi tu di fare?
— Non so: rispose con voce appena da udirsi Maurilio, la cui mente
pareva ad un tratto sviata a tutt'altri pensieri.
— Non sai? esclamò Gian-Luigi. Ecco sempre i soliti giuochi di quel
demone dell'azzardo! I suoi favori cascano su quelli che sono
impreparati a riceverli... Ah! se io fossi a luogo tuo!...
S'interruppe e tornò a fare alcuni giri per la stanza; poi venne in
faccia a Maurilio che stava sempre in piedi presso il camino e gli pose
le due mani sulle spalle.
— Ho sperato anch'io potere un dì rivendicare come miei un nome ed una
famiglia... Pochi giorni sono mi venne in mano quasi un bandolo della
matassa.....
— Come! in che modo? chiese con interesse Maurilio richiamato dagli atti
del compagno a fare attenzione alle parole di lui.
Ma un ratto annuvolamento ebbe luogo sul volto di Quercia.
— Eh! appena colto il bandolo mi si è strappato di mano.... Oh chi
potesse trovar modo d'andare a chiamare il suo segreto ad un
cadavere!...
Maurilio che conosceva l'esistenza dello squarcio di lettera stato
trovato su Gian-Luigi quando raccolto nella ruota degli esposti, gli
domandò se quella fugace speranza si era annodata a quel pezzo di carta.
— Sì, rispose Quercia: ma non ti posso dire di più.
— Lasciami ancora vedere quel foglio: disse Maurilio come per una subita
ispirazione.
Gian-Luigi esitò un momento, e poi andò ad uno stipo dicendo:
— Sì, vo' mostrartelo.
Gian-Luigi non trasse fuor dello stipo un solo fogliolino, ma due: e
tornando presso Maurilio cominciò a porgergliene uno. Era quello
trovatogli nelle fascie: la metà d'una lettera di poche righe stracciata
per lo lungo. Le parole che vi si leggevano non presentavano senso
veruno, nè contenevano alcun nome od altra indicazione che valesse a far
congetturare in modo anche lontano d'onde e da chi provenisse quello
scritto: si vedeva che appositamente era stato scelto quel biglietto
indifferentissimo perchè chi lo avesse in mano di quanti non ne
conoscessero la calligrafia, non potesse ricavarne il menomo indizio di
chi avesse potuto esserne l'autore. Però parecchi squarci di frase
avevano colpito Gian-Luigi, ora che aveva riletto e riesaminato le cento
volte quel pezzo di carta dopo che gli era capitato in mano quell'altra
letterina della medesima scrittura che trovavasi nello scrigno di
Nariccia. Capivasi che quel bigliettino lacerato era stato scritto per
dar commissioni frettolose e concise a qualcheduno; ed a quelle parole
che prima non avevano significato, tenendo presente quell'altro
bigliettino, se ne poteva ora facilmente attribuir uno.
Nella carta lacerata che era la metà di destra del fogliolino si
leggeva:
-all'ora che v'ho già indi-
-zione perchè nulla trapeli
-il mio indirizzo e voi tosto
-qui dopo la nostra partenza.
-Quanto alle somme deposita-
-scritto, rimangano presso di voi
-cisione.
Nel biglietto trovato appo Nariccia, leggevasi:
«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più
indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per
ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi
prego di ritenerle alle medesime condizioni: chè per l'avvenire poi...»
E qui era interrotto, perchè la fiamma aveva divorato il resto.
Era evidente una correlazione fra quei due biglietti, e il cenno di
somme depositate presso colui al quale erano scritti e l'uno e l'altro,
indicava che erano indirizzati alla medesima persona. Ora questa persona
non poteva essere altri, a senno di Gian-Luigi, che Nariccia, presso il
quale la seconda di tali lettere era stata ritrovata. Nariccia adunque
era in grado di sapere il segreto della nascita di quel bambino al
quale, esponendolo, era stata posta come contrassegno di riconoscimento
la lettera stracciata: ed egli stesso, Gian-Luigi, quel labbro che
poteva rivelargli il suo destino aveva reso mutolo per sempre;
imperocchè, informatosi per vie indirette, ma con molta premura, dello
stato della sua vittima, l'assassino aveva appreso che perduta aveva con
ogni movibilità la facoltà di parlare, e che il medico aveva dichiarato
impossibile potesse riacquistarla durante que' pochi giorni che
sarebbero rimasti da vivere all'assassinato. Il _medichino_ trovavasi
quindi in una strana condizione. Suo interesse immediato era che
l'usuraio morisse mutolo e presto: ma il pensare che seco egli portasse
il mistero del suo essere eragli pure tormentoso pensiero. Oh! s'egli
avesse potuto entrare solo in quella camera dove il vecchio giaceva,
richiamarlo un istante alla pienezza delle sue facoltà, strappargli il
suo segreto, le prove che forse egli ne aveva, e poi ripiombarlo
nell'ombre della morte in cui s'affondava a poco a poco!...
Maurilio esaminò attentamente quel foglio lacero che più volte aveva già
visto ancor egli e lo confrontò con quel secondo che Gian-Luigi gli
porse eziandio di poi, ed egli pure ne conchiuse ciò che già aveva
conchiuso Gian-Luigi medesimo: che quelle due scritture erano state
vergate dalla stessa mano e che le erano indirizzate alla medesima
persona.
— Io dunque non mi sbaglio? domandò Gian-Luigi, che desiderava
ardentemente vedere le sue indicazioni confermate da un osservatore
indifferente alla questione, e non facile perciò ad essere illuso dal
desiderio: questi scritti sono d'un medesimo autore, ed hanno relazione
alla medesima bisogna...
— Certo che sì.... Dove hai tu preso questa seconda lettera?
Quercia tolse vivamente di mano al compagno l'uno e l'altro foglio e
rispose asciuttamente:
— Questo non te lo posso dire.... È una trovata che ad ogni modo mi ha
da essere inutile.... Si socchiuse un momento l'uscio del mistero, e poi
mi fu serrato sul muso inesorabilmente e spietatamente per sempre.
Andò a riporre i due fogli nello stipo, che chiuse accuratamente, e
tornò presso Maurilio.
— Tu dunque abiti ora come casa tua il palazzo dei Baldissero?
Accompagnò queste parole con un sospiro, che, se non era d'invidia, era
l'espressione d'un intenso desiderio.
Maurilio rispose con un altro sospiro, che era quasi un soffocato gemito
di dolore.
— Non ancora... Parto oggi stesso pel nostro villaggio con Don Venanzio,
e starò colà non so quanto, forse pochi giorni, forse mesi.
Gian-Luigi guardò Maurilio negli occhi di una strana maniera, come se
volesse penetrargli nell'anima.
— Sei un essere originale tu!... Che vuoi andare a fare colaggiù?...
Mentre ti si apre a larghi battenti la porta del palazzo incantato dove
t'aspettano gli splendori della vita, tu scappi a rintanarti nello
squallido tugurio che non ti ricorda se non privazioni, stenti e
miseria. Tu hai conservato amore a quello sciagurato paese in cui vivono
più sciagurati esseri in sciaguratissime condizioni! È un mistero
psicologico che non arrivo a spiegarmi. Per me quella terra, quelle
miserabili casipole, quelle desolate campagne non rappresentano che una
somma di rabbie, di vergogne, d'affanni. Odio tutto questo, come odio le
mie condizioni.
Pose di nuovo una mano sulla spalla del suo compagno.
— Ma tu hai pure un'ambizione che cova sotto quel tuo vasto cranio
bernoccoluto... Quale? Avrai tu penetrato nell'intimo della mia anima,
senza che io abbia potuto leggere pur una parola nel libro chiuso della
tua? Che cerchi tu nella vita? Che pensi? Che tenti? Ora che la sorte
mette a tua disposizione mezzi efficaci e potenti, che opera ti vuoi tu
imporre, a qual fine usarli, verso qual meta intendi camminare?
Maurilio si sottrasse al tocco della mano di Gian-Luigi, se ne discostò
di alcuni passi ed affondando nelle sue manaccie grossolane la sua testa
dalle irte chiome, esclamò con una specie di sgomento:
— Non so..... non so nulla di me..... Sono ore tremende queste mie, in
cui mi affanno a cercar me stesso... e non mi trovo.
In questa il colloquio dei due giovani fu interrotto dall'arrivo, come
già abbiam visto, del signor Defasi e di Andrea, e pochi minuti dopo
Gian-Luigi, acconsentendo alla preghiera fattagli dai due nuovi venuti,
usciva con loro per tentar di ricuperare il cadavere di Paolina, mentre
Maurilio rientrava nel palazzo Baldissero, donde poco dopo, senza aver
rivisto altri che il marchese, partivasi con Don Venanzio alla volta del
villaggio. Andremo a raggiungervelo fra poco: per ora teniam dietro, se
legge che desse la più ampia libertà ai Comuni medesimi ed alle
Provincie. La legge quindi che permettesse le associazioni; e per ultimo
una politica costituzione rappresentativa.
— E se il popolo abusasse di tutte queste cose? domandò il Re fissando
sempre il suo sguardo sul volto del giovane.
— Ne abuserà di certo: rispose questi francamente: finchè dall'abuso
abbia appunto imparato il modo di servirsene a dovere. Si tenga un uomo
per anni ed anni legato sopra una seggiola senza lasciarlo muovere, e
poi lo si liberi: è certo che nei primi passi che farà camminando, egli
traballerà....
— Gli sarà dunque mestieri d'un sostegno.
— Sostegno al popolo saranno l'autorità della legge e l'azione del
governo che colle nostre abitudini sarà per molto tempo fin troppa.
Carlo Alberto sviò gli occhi da quelli di Maurilio, chinò la fronte
nell'ombra e si tacque. Rimasero ambidue per alcuni minuti in silenzio:
poscia il giovane si appoggiò con audace famigliarità alla tavola ed
abbassando alquanto la voce, riprese a parlare.
— E di questa guisa si redimerebbe eziandio da ogni influsso straniero
l'Italia.
Il Re si scosse leggermente, sollevò un istante le palpebre, ma tornò ad
abbassarle senza far motto.
— Simili riforme, continuava Maurilio, compite da V. M. nei proprii
Stati, richiederebbero di necessità le uguali nelle altre regioni
italiane. Per quanto si faccia a tenerle divise, le parti della Penisola
sono oramai, più che materialmente, moralmente unite da un comune
concetto che è un comune bisogno. Un progresso in una italica provincia
si ripercote in tutte le altre, crea la necessità d'imitarlo in tutti i
governi. V. M. facendo del Piemonte un modello di Stato libero e colto
alla moderna, trarrà a forza con sè, dietro sè, tutti i Principi e i
popoli d'Italia. E allora l'Italia avrà una forza reale e superiore ad
opporre all'Austria.
A questo nome Carlo Alberto fece un moto come se volesse interrompere;
ma quel moto lasciò a metà e permise il giovane continuasse.
— Non è coll'armi, almeno per ora, e se un miracoloso caso non
intravviene, che l'Italia possa mai combattere il suo eterno nemico:
bisogna vincerlo colla civiltà. Più delle baionette valgono in questa
lotta le idee, e bisogna colla istruzione spargere e fecondare le
migliori e più sane idee nel popolo italiano, affine di prepararlo e
guidarlo ad una supremazia morale ed intellettuale, la quale si
convertirà necessariamente anche in politica ed economica. Conviene che
non c'illudiamo sulla vera condizione delle cose. Una nazione non
soggiace ad un'altra, se non perchè questa seconda val più della prima
intellettualmente e moralmente: e ciò sopratutto nell'evo moderno. Una
volta era la sola forza materiale che dava il primato; ora la forza
materiale non ha valore se non si rincalza con quella del sapere. Noi
Italiani abbiamo il coraggio di dircela questa verità, soggiaciamo a
dominio straniero, perchè la razza germanica, un governo rappresentante
della quale ci tiene soggetti, è più innanzi di noi nella via del
progresso, nell'istruzione, nel lavoro, nel sentimento del dovere, nella
moralità. Facciamo di passarle innanzi noi, prepariamo delle generazioni
più colte ed oneste, ed avremo procacciata, se non la nostra, la
redenzione dei nostri figliuoli. Sarà forse necessaria anche allora una
lotta materiale; ma avvenendo questa quando la gara nella coltura sia
già vinta, sarà più facile e più sicura la vittoria.
Carlo Alberto rialzò il capo e fece vedere quel suo misterioso sorriso.
— Le sue sono idee generose, ma quanto sieno attuabili conoscerà fra
qualche anno, allorchè l'età abbia di meglio maturata la sua mente. Ella
è molto giovane, e del quesito così complesso non abbraccia tutte le
parti, e della libertà e de' suoi effetti ha concetto non esatto e cui
smentiscono le storie. La consiglio a riflettere e studiare, e valersi
dei lumi e della molta esperienza di colui che la sua fortuna le volle
dare per zio, l'egregio marchese di Baldissero, nostro fedele e
benemerito ministro.
Maurilio avrebbe avuto mille cose da rispondere ancora: il suo concetto
della libertà avrebbe voluto spiegare e confermare coll'esempio degli
Stati Uniti d'America; ma l'accento del Re mostrava che il colloquio
doveva finire; si alzò e stette in piedi presso la tavola in mossa
rispettosa di attesa. Carlo Alberto prese lo scartafaccio del giovane
che gli stava innanzi e glie lo porse.
— Eccole il suo scritto. Lo rinchiuda nel suo scrigno ed aspetti a
leggerlo fra cinque o sei anni. Vedrà allora che ben diversi giudizi
porterà sulle cose e sugli uomini.
Fece un cenno di capo che era un congedo; e Maurilio, preso con mano
sollecita il suo quaderno, s'inchinò ed uscì, il capo confuso e il passo
barcollante. Nella camera vicina ritrovò il marchese che lo attendeva.
S'avviarono senza dirsi una parola, salirono nella carrozza che stava
sul viale, e furono ricondotti al palazzo. Maurilio si teneva il viso
nelle mani e respirava con alito affannoso. Il marchese ad un punto
discretamente volle mettere il discorso sul colloquio avuto col Re.
— Non so, non so più nulla: rispose con impeto il giovane. Credo che
nella mia mente s'è dileguata per un'istante la nebbia. Ora è tornata
più cupa ed opaca di prima.
Il Re aveva seguìto col suo sguardo il giovane liberale che partivasi da
lui. Ne' suoi occhi c'era un interessamento benevolo. Quando fu solo,
s'alzò e si mise a passeggiare lentamente, con passo che pareva quasi
guardingo, sul tappeto della camera.
— Gioventù, gioventù! mormorava egli fra se stesso. Credono poter da un
giorno all'altro cambiar faccia al mondo. Quelle riforme sarebbero la
negazione del Governo: sarebbero il suicidio della monarchia.
Riforme!... E l'Austria me ne lascierebbe compire?... Ha ragione.
Bisogna rendersi superiori d'animo e di mente ai Tedeschi: ed è appunto
quello che Vienna non permetterà mai.
S'accostò al camino, posò il gomito alla tavola di marmo e chinando la
sua alta persona, guardò il fuoco, come se in quella fiamma ed in quelle
braci gli apparissero chi sa quali visioni.
E strane visioni gli si spiegavano veramente dinanzi. Vide campi biondi
per messi abbondanti, e lieti villici lavorare allegramente cantando;
vide officine piene del gaio tumulto del lavoro, e magazzini riboccanti
di merci, e battelli a vapore sul mare, e treni di ferrovie per terra
spargere in ogni dove prodotti e ricchezza; vide città e villaggi
puliti, ordinati, tranquilli, e scuole piene di giovani e di bambini, e
chiese piene di fedeli; vide un popolo, onesto, laborioso, agiato e in
mezzo un uomo dalle sembianze modeste passare con un sorriso paterno,
accompagnato dalle benedizioni di tutti: ed una voce gli pronunziava
all'orecchio le seguenti parole: «la gloria di Washington.»
Poi un'altra visione succedeva. Erano campi di guerra in cui dominava la
strage. Tutto un popolo che sorgeva infiammato da patrio fervore ed
accorreva in armi sotto una bandiera in cui splendeva una bianca croce,
quella di Savoia; schiere di prodi che si precipitavano impetuosi contro
le fitte falangi, contro i baluardi del nemico oppressore; una pioggia
di palle, una tempesta di fuoco, un orribile avvolgimento di morte, e in
mezzo a questo turbinio spaventoso un uomo più alto di tutti, a capo di
tutti, che, la spada imbrandita, il coraggio negli sguardi, si slanciava
dove più forte il pericolo a strappar la vittoria; e un lungo,
sonorissimo plauso d'esercito e di popoli, e un'eco imperitura nelle
pagine degli annali umani.
— O l'una o l'altra di queste glorie; si disse con un'interna
concitazione cui non nascondeva compiutamente la freddezza abituale
delle sue sembianze.
Alla sua fantasia di re guerriero, discendente da principi guerrieri,
sorrideva maggiormente la gloria del guerriero. Un altro pensiero venne
a farlo sorridere a quel suo modo misterioso. Oh vedere umiliata dalla
sconfitta l'Austria, che lui aveva umiliato coll'oltraggio ed umiliava
tuttavia col sospetto!
— O l'una o l'altra di tali glorie, ripetè; e perchè non tuttedue?
Sollevò il capo. Nell'alto specchio vide la sua pallida fronte e la sua
scarna faccia, che sembravano, nell'ombra mandata dalla ventola, la
faccia e la fronte d'uno spettro. Si trasse per moto istintivo indietro
d'un passo, vide ad un tratto tutti gli orrori della guerra: morti e
morenti, e saccheggi ed incendi e rovine. Si passò la mano sulla fronte,
deviò lo sguardo dallo specchio e disse curvando il capo:
— Sia quello che vuole il nostro Signore Iddio!
CAPITOLO XI.
Una strana notte fu quella che passò Maurilio. Non dormì e non fu
sveglio; non ebbe sogni e le più matte immagini di chimere danzarono
nella sua turbata fantasia. Il povero villaggio in cui era stato
allevato e le sontuosità cittadine, il fienile in cui bambino aveva
tremato del freddo e la camera in cui aveva parlato al Re, la modesta
pulita stanzina in cui gli faceva scuola il parroco e lo studio severo
del marchese, Menico e la Giovanna, Nariccia e il signor Defasi, Don
Venanzio e il marchese, Francesco Benda e gli altri amici suoi, e Carlo
Alberto, e il Commissario di Polizia, e _Stracciaferro_ e _Graffigna_
suoi antichi compagni di carcere passavano e ripassavano innanzi alla
sua mente in una confusione di scene senza senso e senza nesso che
s'avvicendavano, sparivano, tornavano, si interrompevano, si
ripigliavano con un tormentoso brulichio del cervello.
In quel disordine predominavano, affacciandosi di quando in quando, due
figure: una quella della splendida bellezza di Virginia che gettava su
quel caosse il raggio d'un suo sorriso provocatore; l'altra quella di
Gian-Luigi che appariva tratto tratto con un aspetto mefistofelico a far
suonare in quel tumulto un ghigno di scherno. Virginia, nè pure il più
pazzamente audace de' suoi sogni avuti fino allora non glie l'aveva
mostrata mai di quella guisa. La gli veniva dinanzi disciolte le chiome
d'oro, sparse sull'eburneo seno trasparente fra il velo di seta che le
facevano quegli abbandonati capelli; la si chinava verso di lui dal
piedistallo di nubi rosate sopra cui s'ergeva oltre la comune altezza
dei mortali: gli lanciava nel volto, negli occhi, nel cervello, nel
cuore un sorriso d'indefinibile procacia, un sorriso di seduttrice, un
sorriso di donna tocca dal dito impuro d'Asmodeo, ed una voce vibrante
come un acuto stromento metallico gli diceva: «Amami, amami, fammi tua.»
E la vaga forma gli protendeva le braccia e coll'influsso del suo
sguardo non umano lo attraeva a sè così che a lui pareva esser levato
nell'aria, ed accostarsi, accostarsi la sua bocca desiosa a quella bocca
di sì desiato riso: ma quando già erano per toccarsi le labbra frementi,
quando già si fondevano l'una nell'altra le fiamme dei vividi sguardi,
ecco una voce di rampogna tremenda gridargli all'orecchio: «Empio! è tua
sorella.» Ed egli ricadeva di botto con dolorosa scossa sul suo letto,
come un Titano fulminato dalla soglia dell'Olimpo alle rupi della terra;
e tutto gli si scombuiava dinanzi, e perdeva ogni coscienza di pensiero
per non conservar più che un senso indefinito, vago, ma profondo,
d'inenarrabile dolore.
Poi nella notte tenebrosa della sua mente ricominciavano da capo a
disegnarsi incertamente delle forme che via via, man mano prendevano più
corpo e venivano a sfilargli dinanzi in una processione che gli
rappresentava frammisti, intralciati i fatti del suo passato, le vicende
mirabili del presente, e le possibili avventure del futuro. Allora
veniva poco a poco architettandosi un romanzo impossibile di successi
della sua vita ambiziosamente lieti; gli si veniva disegnando dinanzi un
quadro di grandi e nobili venture delle quali egli era il benemerito
eroe, finchè di dietro in quella tela dava del capo e la sfondava
apparendo con uno scroscio di cachinno una figura ironica e beffarda,
quella di Gian-Luigi, che gli gridava con accento fra la collera, la
compassione e il disprezzo:
— Imbecille! Non t'accorgi tu che tutto questo è un sogno? Tu saresti un
discendente di nobile prosapia, ed io sempre un miserabile bastardo
d'ignoti genitori? Eh via! È impossibile. Metti l'animo in pace, e torna
a nasconderti nella tua nullità.
L'alba tardiva della giornata invernale rompeva le tenebre della notte,
e la mente di Maurilio, stanca di questa sequela di febbrili visioni,
era caduta in un torpore che non era riposo, ma che era pure una
sospensione da quello strano e doloroso travaglio. Giacque inerte per
alcun tempo, senza più idee, senza propositi, senza pensieri. Pur due
immagini vegliavano ancora, per così dire, benchè non avvertite, in
fondo a quella nebbia dell'intelligenza; e quando il giovane aprì gli
occhi alla luce del giorno, che s'era fatto pieno, e tornò nella precisa
cognizione di sè, le trovò ambedue chiare e spiccate, ma ora nell'essere
loro naturale presentarglisi come due doveri da compiere. Bisognava
fuggire Virginia, almeno per alcun tempo, finchè la forza della volontà
fortemente impiegata avesse sostituito l'affetto fraterno a quella ora
scellerata passione d'amore; conveniva apprendere al suo compagno
d'infanzia e di sorte la ventura del suo destino. Ad ottenere il primo
scopo già aveva deciso partire quella stessa mattina con Don Venanzio, e
presane licenza dallo zio; per la seconda cosa da farsi determinò andare
senza indugio a narrare ogni cosa a Gian-Luigi.
Questi riposava ancora nel suo letto sontuoso nella camera elegantissima
del suo ricco quartiere. Maurilio insistette presso il servitore così
che ottenne il suo nome fosse annunziato tuttavia al padrone, il quale
diede ordine il mattiniero visitatore fosse tosto introdotto.
Marullo aprì le imposte della finestra, fece passare il giovane e si
ritirò.
Gian-Luigi si sollevò alquanto della persona in mezzo al candore delle
sue finissime lenzuola, puntando il gomito sui cuscini, e collo sguardo
curioso più che colla parola interrogò il compagno.
— Tu a quest'ora? disse. C'è egli qualche cosa di nuovo?
Maurilio, senza parlare, fece col capo un grave cenno di sì.
— Oh, oh! esclamò Quercia, balzando sul letto, il tuo viso mi annunzia
che non le sono bazzecole. Da coricato non sono capace d'ascoltar cose
gravi. Aspetta un momento che salto giù e in un attimo sono preparato a
darti udienza. Siedi costì presso al fuoco e prendi un sigaro, se ti
piace fumare.
Il visitatore rifiutò con atto cortese, s'accostò al camino e volgendo
al fuoco le spalle stette in piedi ad aspettare, mentre il suo sguardo
esaminava non senza curiosità le signorili suppellettili di quella
stanza. Il letto era incortinato di seta, di velluto finissimo eran
ricoperte le seggiole, di Persia era il tappeto sul pavimento, di legno
d'India erano i mobili intarsiati con belli ornamenti ed adorni di fregi
di metallo indorato: l'orologio a pendolo era un amorino d'oro che
faceva all'altalena sopra un cespuglio di rose smaltate: sopra la pietra
di marmo del comodino stavano due pistole di bella fattura
ricchissimamente adorne d'argento niellato.
Gian-Luigi che si aggiustava il goletto della camicia innanzi all'alta
spera fino a terra dell'armadio d'un bel lavoro di scorniciature e
d'intaglio, vide entro lo specchio lo sguardo che Maurilio posò e tenne
fermo su quell'armi. Si volse indietro e gli disse:
— Ah ah! tu guardi que' gingilli eh? Prendili in mano ed esaminali, se
ti piace questa fatta lavori. E' sono un certo arnese che diventano
ormai indispensabili, chi vuol pararsi contro ogni pericolo.
— È vero: rispose sbadatamente Maurilio che poco metteva attenzione a
questi discorsi indifferenti; e l'assassinio di quel povero Nariccia è
cosa da mettere in apprensione qualunque.
Quercia si volse subitamente in là, e non parlò più. In pochi minuti
però ebbe finito di vestirsi, e serrandosi ai lombi i cordoni di seta
d'una veste da camera di lana finissima foderata di raso celeste, venne
a sedersi presso il fuoco in una poltrona a sdraio.
— Eccomi a te, disse allora. Siedi o sta ritto, come ti piace, e
parla... Ma forse ch'io indovino la cagione della tua venuta. Tu hai
pensato di meglio alle parole ch'io ti dissi pochi giorni sono, e sei
venuto a modificare la risposta che allora tu mi hai data.
Maurilio scosse lentamente la testa.
— No: rispose. Sono venuto ad apprenderti una grande e strana fortuna
che mi tocca: sì grande e sì strana che non posso crederci ancora.
Si chinò verso il suo uditore e colle più brevi parole che gli fu
possibile, concitatamente gli raccontò tutto quello che gli era
avvenuto.
Gian-Luigi, al primo annunzio di quel fatto, aveva mandato
un'esclamazione e dato un trabalzo. Poi la sua faccia aveva presa
un'aria d'incredulità che assai si accostava a quella beffa ironica, cui
nelle fantasie della sua notte Maurilio aveva visto all'immagine di lui;
quindi, mentre l'espositore più e più veniva narrando ed adducendo le
prove e certificando l'avvenuto riconoscimento, quell'espressione s'era
scambiata a poco a poco in un'altra ancora meno benevola e niente
soddisfatta. Lo sguardo nero di Gian-Luigi stava fisso con niquitosa
intentività sulla faccia del parlatore: v'erano lampi d'odio e
d'invidia, vi appariva una voglia intensa e sterminata che tutto ciò non
fosse vero: ad un punto quello sguardo divenne quello con cui un
derubato perseguita e rampogna il rapitore del suo bene: esso pareva
voler dire: «Sciagurato! quello era mio destino, quella avrebbe dovuta
essere mia ventura, e tu me l'hai rapita.»
Vedevasi che i suoi sentimenti erano sì forti che egli non pensava
nemmeno più a nasconderli. Maurilio se ne sentì una pena, un'amarezza,
quasi uno spavento entrargli nell'anima. Finì precipitosamente il suo
discorso, quasi impacciato, quasi vergognoso di sè, e chinò gli occhi
poco meno che un reo dopo aver confessato la sua colpa. Gian-Luigi anche
lui aveva chinato gli occhi; era divenuto pallido e ombre indefinibili
venivano e andavano sulla sua bella fronte. A un tratto, senza pure una
parola, s'alzò, incrociò le braccia al petto e fece due o tre giri per
la stanza a capo chino. Poscia si fermò improvviso; allentò il nodo
delle braccia e le lasciò cadere lungo la persona, sollevò la testa e si
riscosse come per farsi cadere di dosso il peso d'un uggioso pensiero;
illuminò la sua leggiadra faccia d'uno dei più graziosi suoi sorrisi.
Venne presso a Maurilio e con mossa cordialissima gli tese la destra.
— La tua felice ventura, diss'egli, lo confesso, per primo ha trovato in
me un invidioso. Tutti abbiamo più o meno un demone interno che alla
felicità del nostro fratello si adonta perchè la non è toccata a noi. A
te dunque l'effettuazione delle più care speranze... a me nulla. Io non
mi potrò dunque trar mai dall'ignobile condizione di trovatello che
nascondo come una vergogna. Non verrà la fortuna ad aprirmi a due
battenti la porta del mondo legale, nè varrà mai la mia attività e la
mia ambizione a sfondarle con prepotente successo..... Condannato a
perire, peggio che nell'oscurità, nell'ignominia.
Maurilio protestò con un'esclamazione contro la verità di queste ultime
desolate parole; Luigi atteggiò le labbra ad un misterioso, amarissimo
sorriso.
— Sarà così: riprese. Sii tu almeno felice! Tu hai cervello e polsi da
stare in mezzo ai leoni; poichè la sorte vi ti caccia, sappiti farvi il
tuo luogo e la tua parte.
Si passò la destra, che aveva tolta più fredda che un pezzo di marmo da
quella di Maurilio, sulla fronte come per iscacciarne l'ultima ombra di
turbamento e di mestizia.
— Che pensi tu di fare?
— Non so: rispose con voce appena da udirsi Maurilio, la cui mente
pareva ad un tratto sviata a tutt'altri pensieri.
— Non sai? esclamò Gian-Luigi. Ecco sempre i soliti giuochi di quel
demone dell'azzardo! I suoi favori cascano su quelli che sono
impreparati a riceverli... Ah! se io fossi a luogo tuo!...
S'interruppe e tornò a fare alcuni giri per la stanza; poi venne in
faccia a Maurilio che stava sempre in piedi presso il camino e gli pose
le due mani sulle spalle.
— Ho sperato anch'io potere un dì rivendicare come miei un nome ed una
famiglia... Pochi giorni sono mi venne in mano quasi un bandolo della
matassa.....
— Come! in che modo? chiese con interesse Maurilio richiamato dagli atti
del compagno a fare attenzione alle parole di lui.
Ma un ratto annuvolamento ebbe luogo sul volto di Quercia.
— Eh! appena colto il bandolo mi si è strappato di mano.... Oh chi
potesse trovar modo d'andare a chiamare il suo segreto ad un
cadavere!...
Maurilio che conosceva l'esistenza dello squarcio di lettera stato
trovato su Gian-Luigi quando raccolto nella ruota degli esposti, gli
domandò se quella fugace speranza si era annodata a quel pezzo di carta.
— Sì, rispose Quercia: ma non ti posso dire di più.
— Lasciami ancora vedere quel foglio: disse Maurilio come per una subita
ispirazione.
Gian-Luigi esitò un momento, e poi andò ad uno stipo dicendo:
— Sì, vo' mostrartelo.
Gian-Luigi non trasse fuor dello stipo un solo fogliolino, ma due: e
tornando presso Maurilio cominciò a porgergliene uno. Era quello
trovatogli nelle fascie: la metà d'una lettera di poche righe stracciata
per lo lungo. Le parole che vi si leggevano non presentavano senso
veruno, nè contenevano alcun nome od altra indicazione che valesse a far
congetturare in modo anche lontano d'onde e da chi provenisse quello
scritto: si vedeva che appositamente era stato scelto quel biglietto
indifferentissimo perchè chi lo avesse in mano di quanti non ne
conoscessero la calligrafia, non potesse ricavarne il menomo indizio di
chi avesse potuto esserne l'autore. Però parecchi squarci di frase
avevano colpito Gian-Luigi, ora che aveva riletto e riesaminato le cento
volte quel pezzo di carta dopo che gli era capitato in mano quell'altra
letterina della medesima scrittura che trovavasi nello scrigno di
Nariccia. Capivasi che quel bigliettino lacerato era stato scritto per
dar commissioni frettolose e concise a qualcheduno; ed a quelle parole
che prima non avevano significato, tenendo presente quell'altro
bigliettino, se ne poteva ora facilmente attribuir uno.
Nella carta lacerata che era la metà di destra del fogliolino si
leggeva:
-all'ora che v'ho già indi-
-zione perchè nulla trapeli
-il mio indirizzo e voi tosto
-qui dopo la nostra partenza.
-Quanto alle somme deposita-
-scritto, rimangano presso di voi
-cisione.
Nel biglietto trovato appo Nariccia, leggevasi:
«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più
indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per
ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi
prego di ritenerle alle medesime condizioni: chè per l'avvenire poi...»
E qui era interrotto, perchè la fiamma aveva divorato il resto.
Era evidente una correlazione fra quei due biglietti, e il cenno di
somme depositate presso colui al quale erano scritti e l'uno e l'altro,
indicava che erano indirizzati alla medesima persona. Ora questa persona
non poteva essere altri, a senno di Gian-Luigi, che Nariccia, presso il
quale la seconda di tali lettere era stata ritrovata. Nariccia adunque
era in grado di sapere il segreto della nascita di quel bambino al
quale, esponendolo, era stata posta come contrassegno di riconoscimento
la lettera stracciata: ed egli stesso, Gian-Luigi, quel labbro che
poteva rivelargli il suo destino aveva reso mutolo per sempre;
imperocchè, informatosi per vie indirette, ma con molta premura, dello
stato della sua vittima, l'assassino aveva appreso che perduta aveva con
ogni movibilità la facoltà di parlare, e che il medico aveva dichiarato
impossibile potesse riacquistarla durante que' pochi giorni che
sarebbero rimasti da vivere all'assassinato. Il _medichino_ trovavasi
quindi in una strana condizione. Suo interesse immediato era che
l'usuraio morisse mutolo e presto: ma il pensare che seco egli portasse
il mistero del suo essere eragli pure tormentoso pensiero. Oh! s'egli
avesse potuto entrare solo in quella camera dove il vecchio giaceva,
richiamarlo un istante alla pienezza delle sue facoltà, strappargli il
suo segreto, le prove che forse egli ne aveva, e poi ripiombarlo
nell'ombre della morte in cui s'affondava a poco a poco!...
Maurilio esaminò attentamente quel foglio lacero che più volte aveva già
visto ancor egli e lo confrontò con quel secondo che Gian-Luigi gli
porse eziandio di poi, ed egli pure ne conchiuse ciò che già aveva
conchiuso Gian-Luigi medesimo: che quelle due scritture erano state
vergate dalla stessa mano e che le erano indirizzate alla medesima
persona.
— Io dunque non mi sbaglio? domandò Gian-Luigi, che desiderava
ardentemente vedere le sue indicazioni confermate da un osservatore
indifferente alla questione, e non facile perciò ad essere illuso dal
desiderio: questi scritti sono d'un medesimo autore, ed hanno relazione
alla medesima bisogna...
— Certo che sì.... Dove hai tu preso questa seconda lettera?
Quercia tolse vivamente di mano al compagno l'uno e l'altro foglio e
rispose asciuttamente:
— Questo non te lo posso dire.... È una trovata che ad ogni modo mi ha
da essere inutile.... Si socchiuse un momento l'uscio del mistero, e poi
mi fu serrato sul muso inesorabilmente e spietatamente per sempre.
Andò a riporre i due fogli nello stipo, che chiuse accuratamente, e
tornò presso Maurilio.
— Tu dunque abiti ora come casa tua il palazzo dei Baldissero?
Accompagnò queste parole con un sospiro, che, se non era d'invidia, era
l'espressione d'un intenso desiderio.
Maurilio rispose con un altro sospiro, che era quasi un soffocato gemito
di dolore.
— Non ancora... Parto oggi stesso pel nostro villaggio con Don Venanzio,
e starò colà non so quanto, forse pochi giorni, forse mesi.
Gian-Luigi guardò Maurilio negli occhi di una strana maniera, come se
volesse penetrargli nell'anima.
— Sei un essere originale tu!... Che vuoi andare a fare colaggiù?...
Mentre ti si apre a larghi battenti la porta del palazzo incantato dove
t'aspettano gli splendori della vita, tu scappi a rintanarti nello
squallido tugurio che non ti ricorda se non privazioni, stenti e
miseria. Tu hai conservato amore a quello sciagurato paese in cui vivono
più sciagurati esseri in sciaguratissime condizioni! È un mistero
psicologico che non arrivo a spiegarmi. Per me quella terra, quelle
miserabili casipole, quelle desolate campagne non rappresentano che una
somma di rabbie, di vergogne, d'affanni. Odio tutto questo, come odio le
mie condizioni.
Pose di nuovo una mano sulla spalla del suo compagno.
— Ma tu hai pure un'ambizione che cova sotto quel tuo vasto cranio
bernoccoluto... Quale? Avrai tu penetrato nell'intimo della mia anima,
senza che io abbia potuto leggere pur una parola nel libro chiuso della
tua? Che cerchi tu nella vita? Che pensi? Che tenti? Ora che la sorte
mette a tua disposizione mezzi efficaci e potenti, che opera ti vuoi tu
imporre, a qual fine usarli, verso qual meta intendi camminare?
Maurilio si sottrasse al tocco della mano di Gian-Luigi, se ne discostò
di alcuni passi ed affondando nelle sue manaccie grossolane la sua testa
dalle irte chiome, esclamò con una specie di sgomento:
— Non so..... non so nulla di me..... Sono ore tremende queste mie, in
cui mi affanno a cercar me stesso... e non mi trovo.
In questa il colloquio dei due giovani fu interrotto dall'arrivo, come
già abbiam visto, del signor Defasi e di Andrea, e pochi minuti dopo
Gian-Luigi, acconsentendo alla preghiera fattagli dai due nuovi venuti,
usciva con loro per tentar di ricuperare il cadavere di Paolina, mentre
Maurilio rientrava nel palazzo Baldissero, donde poco dopo, senza aver
rivisto altri che il marchese, partivasi con Don Venanzio alla volta del
villaggio. Andremo a raggiungervelo fra poco: per ora teniam dietro, se
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