La plebe, parte IV - 14

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un individuo, di cui pochi giorni prima aveva tenuto discorso, di cui da
tanto tempo desiderava sapere e non sapeva più notizia. Fece un mezzo
passo verso di lui, aprì la bocca come per interrogarlo: ma poi pel
contegno del giovane non n'ebbe il coraggio; si rimase a guardarlo con
una certa emozione che non cercava manco nascondere.
— Eccomi pronto: disse Luigi, entrando in quella col pastrano indosso ed
il cappello in testa. Andiamo.
Poi si rivolse al giovane cui il signor Defasi aveva creduto
riconoscere.
— Addio Maurilio, soggiunse tendendogli tuttedue le mani. Quanto
volentieri t'accompagnerei al villaggio... al nostro villaggio, lasciami
dire ancora!... Mi rallegro delle tue fortune e ne godo come se fossero
mie... Possa tu essere davvero felice!
E mandò un sospiro che sarebbe stato assai difficile interpretare.
All'udire il nome di Maurilio, il signor Defasi erasi riscosso: si
slanciò verso quel giovane e con accento pieno di calore esclamò:
— Ma dunque voi siete davvero Maurilio?...
Il giovane lo guardò con freddezza e il libraio si riprese:
— Ella è Maurilio Nulla?
Il nostro eroe s'inchinò leggermente e con un indefinibile sorriso in
cui c'era della fierezza ed insieme una mesta amaritudine, rispose:
— Non più Nulla; Maurilio Valpetrosa, nipote del marchese di Baldissero.
Defasi spalancò tanto d'occhi.
— Davvero!..... Ne godo..... mi rallegro..... Ma chiunque Ella si fosse,
io ho un'ammenda da fare verso di Lei, io ho delle vivissime scuse da
chiederle, e voglio ad ogni modo conquistare il suo perdono e riottenere
la sua amicizia..... Ora non ho tempo, ma la mi faccia il favore di
dirmi dove, come e quando potrei avere con Lei un colloquio, ed io mi
farò premura...
Maurilio l'interruppe.
— Sto per partire. Vo alcuni giorni al villaggio dove passai la mia
infanzia. Sono venuto appunto a manifestare le mie nuove condizioni ed a
dare l'addio a questo mio amico e compagno (ed additò Gian-Luigi). Al
mio ritorno sarò io stesso che passerò da Lei per avere quel colloquio
che preme anche a me.
Come fosse avvenuto il riconoscimento di Maurilio per parte del
marchese, vedremo fra poco: ora mi preme seguire l'infelice Andrea nella
dolorosa ricerca del cadavere di sua moglie.
Mezz'ora non era trascorsa da che era uscito di casa con Defasi ed
Andrea che Quercia aveva ottenuto tutto quello che si desiderava:
entrare nel deposito dei cadaveri al Gabinetto anatomico, ritirarne
quello di Paolina e farlo trasportare al Campo Santo.
Quando entrarono in codesto lugubre luogo che è il deposito de' morti,
gli inservienti stavano appunto prendendo dalla gran tavola di marmo uno
dei due cadaveri che c'erano per portarlo nell'anfiteatro: l'avevano
preso uno per le spalle, l'altro per i piedi e se ne andavano con quel
povero cadavere tutto nudo, Andrea gettò un urlo e si slanciò verso di
loro colle mani tese. Non avea vista la faccia di quel corpo dimagrato,
allividito, ma il cuore glie l'avea fatto riconoscere, ma ne aveva vista
la bionda capigliatura cadente. Era la sua Paolina.
— Fermatevi, disse agli inservienti Quercia che accompagnava il misero
Andrea: questo cadavere abbiamo l'autorizzazione di ritirarlo.
Ne li persuase in breve, sopratutto con una mancia. Il corpo fu rimesso
sopra il freddo marmo della gran tavola, e invece di quello, per portare
nell'anfiteatro, fu preso quell'altro che giaceva pure colà. Andrea fece
un moto, come per gittarsi addosso al cadavere della sua donna; ma la
nudità di quelle membra parvero fargliene ad un tratto ribrezzo e
vergogna: mandò intorno uno sguardo quasi selvaggio, e con atto pronto,
istantaneo, quasi violento, trattasi dalle spalle la sua carniera, la
stese su quelle povere membra livide ed irrigidite.
— Avrete freddo, disse il buon signor Defasi, e vi piglierete un
malanno.
Andrea scosse il capo senza rispondere altrimenti.
— Io corro tosto a casa, riprese Defasi, e manderò qui lenzuola e quanto
occorre.
— Volete voi rimaner qui? domandò Quercia al marito di Paolina, il quale
fece un atto energico di affermazione. Bene. Noi vi ci lascieremo. Tutto
sarà disposto intanto per la sepoltura di questa poveretta, e verso sera
la faremo trasportare al Campo Santo.
Andrea andò verso quei due suoi benefattori e prese loro le mani.
— Loro mi fanno una carità delle maggiori: disse egli con voce gutturale
che pareva uscirgli a stento dalle fauci (ed erano queste le prime
parole che pronunciava dopo che aveva narrato al signor Defasi la
crudeltà della sua avventura). Io non so e non saprò mai come
rimeritarneli; ma nasca il caso in cui abbiano bisogno di un uomo..... e
son io qua.
Gian-Luigi corrispose colla sua alla stretta di mano dell'operaio, e
guardandolo bene entro gli occhi, rispose lentamente:
— E per me può nascere questo caso. Se venissi dunque un giorno a
ricordarvi le parole che avete ora pronunziate?.....
— La mi troverà pronto a mantenerle.
— Sta bene.
Quercia e Defasi partirono. Andrea si lasciò andare sopra uno scanno che
c'era colà e tutto intirizzito dal freddo stette immobile, il capo nelle
mani, posseduto da un generale indolorimento in cui tutti erano confusi
i suoi pensieri, le sue sensazioni, il sentimento del presente, il
ricordo del passato. Non gli pareva manco di vivere, non gli sembrava
vero d'essere lui in quelle condizioni, e che a lui proprio erano
capitate tutte quelle vicende. Non guardava il corpo della sua Paolina;
non ne aveva il coraggio; era ben dessa che giaceva là immobile,
insensibile innanzi a lui? Ne temeva la vista ora ch'essa era fatta muta
per sempre, più che non ne avesse temuto mai dapprima gli amorosi
rimproveri. Come essa lo aveva amato! Ed egli pure aveva amato lei! Un
tempo lei prima di tutto al mondo. Quale un raggio di sole che per uno
squarcio di nubi venga a brillare un istante in un oscuro orizzonte,
vide ad un tratto presentarsi alla sua memoria le gioie soavi dei giorni
in cui s'erano sposati. Quanto era bella la sua Paolina! e quanto glie
la invidiavano i compagni, e quanto egli n'era fiero!... Alzò la testa
con ratta vivacità. Aveva bisogno di vederla. Sperava quasi doversela
trovare innanzi allo sguardo, qual era in quel tempo già remoto pur
troppo; una folle lusinga di mente vacillante gli faceva quasi sperare
il miracolo che Iddio glie l'avrebbe restituita nelle forme e nelle
sembianze che ora gli si erano affacciate al pensiero.
Aimè! Il corpo giaceva stecchito, stremato dai patimenti, dalle
privazioni di tanto tempo, dal male che l'aveva da ultimo tratta alla
tomba; in quel viso diventato color della cenere, smagrito, tirato,
quasi non erano più da riconoscersi i tratti della fiorente giovinetta
ch'egli aveva condotta all'altare; dalle palpebre semichiuse appariva un
occhio spento, senza colore, che nulla più ricordava della gaia, vivace
pupilla della giovane sposa. Andrea, intirizzito dal freddo, stretto il
cuore da un'emozione che mal gli lasciava circolare il sangue, sentì
invadersi come da un intorpidimento mortale; gli parve che se non si
riscuotesse egli sarebbe caduto cadavere ancor egli a' piedi di quella
tavola su cui giaceva cadavere la sua Paolina. Quelle sembianze di morta
su cui si fissavano e da cui non erano più capaci di spiccarsi i suoi
occhi smarriti, sembravano esercitare su di lui un fascino per attirarlo
nel paese delle ombre; gli pareva una voluttà il cedere a quel fascino.
Fosse egli pur morto! Sarebbe cessato ogni dolore anche per lui! Ma
allora gli sembrò che la bocca semiaperta della morta pronunziasse colle
labbra livide e sottili una parola, di cui orecchio umano non avrebbe
potuto udire il suono ma ch'egli intese col cuore: — «I figli!»
Oh! i figli suoi! Questo pensiero gli diede la forza di sottrarsi a quel
fatale intorpidimento. Sorse in piedi e si pose a passeggiare con passo
affrettato per la stanza. Quel moto violento, ridonando il calore e la
vita alle membra, pareva disperdere il turbinio di pensieri che gli
toglieva la testa. Passava e ripassava innanzi al cadavere, e ad ogni
volta vi gettava uno sguardo: ma questi sguardi via via venivano
cambiando espressione. Dapprima erano quasi paurosi, poi manifestarono
un rispetto, quasi una venerazione; da ultimo presero un'amorosa
tenerezza. Allora il pover'uomo s'accostò di nuovo al cadavere e si
fermò presso di lui.
— Paolina! Paolina! chiamò egli con voce piena d'immenso affetto: e si
curvò su quella testa abbandonata e cominciò a baciarne il fronte, e poi
gli occhi, e poi le labbra — ed allora pianse! Pianse a lungo e fu
sollevato: il dolore non si sminuì, ma si fece meno amaro, meno
disperato: gli sembrò sentire vicino a sè l'anima della sua donna, gli
pareva udire nell'aura le parole ch'ella soleva dirgli pur sempre, di
affettuoso perdono.
Perdono? Lo meritava egli? Chi l'aveva tratta dalla felice esistenza dei
primi anni a quella morte dei derelitti nell'ospedale, a quell'ultima
suprema miseria, di non aver nè anco sacro dopo morte il proprio
cadavere? Dall'altare in cui s'erano sposati a quella tavola di marmo,
qual cammino di delusioni, di stenti, di dolori, aveva percorso quella
povera donna! E tutta la colpa era di lui!
Cadde in ginocchio presso la tavola e tendendo le mani congiunte sopra
la fredda pietra, esclamò con accento di spasimo inesprimibile:
— Perdonami! Perdonami!...
Paolina fu seppellita in un angoluccio del cimitero comune: ma per cura
del signor Defasi una modesta croce ne segnò la fossa su cui potessero
venire a piangere e pregare il vedovo marito e gli orfani figli.


CAPITOLO IX.

Il marchese di Baldissero trovò il Re, che lo aveva mandato a chiamare,
molto accigliato. I fatti della sera innanzi gli erano forte
dispiaciuti, e innanzi al suo sguardo severo chinavano gli occhi
mortificati tutti i ministri che gli facevan corona. Era come un solenne
Consiglio ch'egli aveva radunato per consultare sul da farsi, ed al
quale, oltre i ministri, aveva voluto prendessero parte i più fidi e
devoti servitori della monarchia, fra cui il marchese.
In presenza d'un nuovo e tanto pericolo che subitamente era sorto per
l'edifizio politico e per l'organismo sociale, qual era l'insurrezione
della plebe, il Re volava si cercassero, si scegliessero e senz'indugio
si ponessero in pratica i mezzi più opportuni per cessare quel rischio
non solamente nel presente, ma eziandio per l'avvenire. La fantasia di
quegli uomini di Stato colà raccolti non era molto feconda nel trovar
fuori di cotali mezzi che paressero di sicuro, od anzi soltanto di
probabile effetto alla mente acuta del Re. I più non credevano si
dovesse dare a quel fatto tanta importanza, quanta glie ne metteva il
capo supremo dello Stato, nulla più che ad un accidente volgare, che ad
un turbamento momentaneo, il quale si raggiusta col mettere a segno i
tumultuanti e si passa; quasi tutti erano d'avviso che non c'era da far
altro che reprimere e severamente reprimere per impedire colla
esemplarità del grave castigo ogni simile tentativo ulteriore.
Non infastidirò le mie gentili lettrici, facendole assistere alle gravi
discussioni di quel poco fruttuoso Consiglio. Carlo Alberto ascoltò
freddamente tutte le parole che furono dette, non manifestando in nessun
modo la sua interna impressione sulla sua impassibile faccia pallida;
acconsentì tacendo alle varie proposte che furono messe innanzi dai
varii ministri: che quelli fra gli arrestati nella riotta della sera
innanzi che fossero noti come oziosi, vagabondi e proni a delinquere
fossero per misura economica, come allora si soleva dire, trasportati
nell'isola di Sardegna a dirsela colla malaria e colle palle degli
schioppi di quegl'isolani; che si dèsse una gran retata nei bassi fondi
sociali delle bettole e dei postriboli per coglierne la maggior quantità
possibile di altri fra quegl'_indiziati_ che sono esca al disordine, e
si mandassero a tener compagnia a que' primi; che si procedesse
severamente contro tutti coloro a cui poteva applicarsi condanna
criminale pei fatti della sera precedente, e il Ministro di grazia e
giustizia eccitasse il potere giudiziario a volerli colpire col
_maximum_ delle pene.
— Signori, disse finalmente il Re, levando il suo capo che teneva
reclinato sul petto, come troppo greve a portarsi. Non sarebbe per
avventura più vasta la questione di quello che noi ci figuriamo?
Nell'Inghilterra, nel Belgio e nella vicina Francia, le classi
lavoratrici si agitano e dànno seriamente da pensare agli uomini di
governo. Non sarebb'egli un accenno di quel moto che si fa strada nel
nostro paese?
I ministri e gli altri consiglieri si guardarono in faccia per sapere a
chi toccasse rispondere. Il Ministro dell'interno fece un piccol gesto
della mano per indicare ch'egli avrebbe risposto: e fatto un inchino col
capo verso il Re, così prese a parlare:
— Oserei credere, Sire, oserei anche affermare, Maestà, che nei
felicissimi Stali retti dal suo scettro non sono punto penetrate quelle
empie massime che sommuovono le plebi nei miseri paesi da V. M.
nominati. Noi abbiamo fatto buona guardia, e l'iniquo fiotto, se così
posso esprimermi, si è arrestato alla frontiera. In quelle parti là
l'artigiano, il povero, il pezzente, legge, pretende a discutere, si
crede di ragionare. Noi, grazie a Dio, siamo liberi ancora da siffatta
malsania. Non abbiamo lasciato nè lasciamo stampare o penetrare libri e
giornali perniciosi; e la nostra plebe, per fortuna, è troppo ignorante
per leggere checchesiasi.
Il Re mosse le labbra per parlare, e il ministro si tacque di botto,
rimanendo a bocca larga a dare ascolto.
— Oggi è così: disse Carlo Alberto, ma domani può essere tutto diverso.
Non ostante la buona guardia di cui Ella si vanta, quelle idee di cui si
discorre hanno pur penetrato nel nostro paese, ed io ne ho delle prove,
e n'è una lo sciopero avvenuto e poi la rivolta degli operai. Noi non
possiamo vivere tanto isolati dal resto del mondo che le passioni, le
idee, anco le pazzie del genere umano non ci tocchino e non si
partecipino eziandio da noi; le comunicazioni più rapide che si
stabiliscono, aiuteranno ancora codesta diffusione, e massime quelle vie
ferrate di cui abbiamo già adottato parecchi disegni pel nostro Stato e
della principale delle quali già è così ben avviata l'esecuzione.
Profittando d'una di quelle pause che il Re faceva frequentemente nel
suo parlare lento ed impedito, il ministro degli esteri esclamò con
qualche vivacità:
— Ed è per ciò ch'io ebbi il coraggio di oppormi quanto potei alla
costruzione di queste diaboliche strade.
Carlo Alberto volse verso quel ministro il suo sguardo semispento e fece
il suo enimmatico sorriso.
— L'esecuzione della rete ferroviaria, diss'egli, se Dio mi dà grazia di
poterla compire, la ritengo per una delle opere onde meglio sarà
illustrato il mio regno. Ai popoli si deve non solamente la sicurezza ma
la prosperità materiale eziandio; e quando un nuovo mezzo di accrescere
siffatta prosperità si presenta nel mondo ed è dalle altre nazioni
adottato, grave fallo sarebbe il lasciarne mancare il proprio paese. Per
più ragioni adunque è da credersi che anche le nostre classi inferiori
già sono, o in breve saranno corse ed agitate dalle medesime idee e
pretese da cui vediamo commosse le plebi degli altri paesi. La loro
condizione è misera, senza dubbio, e degna del massimo riguardo: le
passioni sovversive trovano nel disagio e nelle sofferenze di quelle
turbe malaugurato alimento. Non sarebbe egli dunque il caso di avvisare,
se le condizioni di questa povera gente, anche mercè la legislazione,
potessero venir mutate in meglio, se ai diritti di proprietà si potesse
fare qualche modificazione per cui più retribuito, meglio assicurato
potesse riuscire il lavoro manuale?
Tacque, e i ministri si guardarono esterrefatti, come se per la bocca
del loro sovrano avessero udito parlare lo spirito di Fourier.
Il ministro di grazia e giustizia s'inchinò e disse in tono magistrale:
— Non si può toccar più l'arca santa delle leggi senza danno evidente,
quasi direi senza una vera profanazione; V. M. ha compito il più gran
monumento legislativo che un sovrano abbia fatto mai. Il codice civile
da V. M. sancito posa su principii de' più liberali, e pone la proprietà
su solide basi, cui sarebbe il maggior pericolo del mondo il voler
mutare.
— Il popolaccio sta abbastanza bene; disse il conte Barranchi, capo
supremo della Polizia; sta bene anche troppo. Per me credo che più è
misera ed ignorante una popolazione, e meglio la si governa.
Carlo Alberto si rivolse al Riformatore degli studi, che era una specie
di ministro della pubblica istruzione:
— L'ignoranza dei popoli fu pel passato una guarentigia; non potrebbe
divenire d'or innanzi un pericolo? Poichè vi ha questa tendenza
universale all'istruirsi, non potrebbero la Chiesa e lo Stato di accordo
prendere l'iniziativa dell'istruzione popolare ed istillare così nelle
masse dei buoni principii, invece di lasciarle esposte alle seduzioni
dei novatori?
L'Arcivescovo di Torino, che era presente eziandio, e pareva
sonnecchiare tranquillamente, all'udir nominare la Chiesa arricciò il
suo naso rubicondo ed aprì i suoi occhietti vivaci.
— Sire: diss'egli, senza lasciar tempo di rispondere al Riformatore
degli studi; l'istruzione la si dia tutta, e popolare e non, in mano
della Chiesa; ed anche lo Stato se ne troverà bene. Noi faremo di tutti
dei buoni cristiani e dei sudditi fedeli.
Il Re fece un cenno grazioso col capo verso l'Arcivescovo, che poteva
significare un assentire, un ringraziamento od un semplice atto di
cortesia, e poi si levò in piedi. Tutti s'alzarono: il Consiglio era
finito.
Tolsero commiato e se ne partirono tutti; ma Carlo Alberto parlando a
Baldissero gli disse:
— Marchese si fermi.
Il marchese, che già s'inchinava presso la porta per partirsi, tornò
indietro lentamente verso il Re, il quale, secondo suo costume,
s'intromise nella strombatura della finestra che guardava nella piazza.
Baldissero stette aspettando: Carlo Alberto per un poco rimase in
silenzio. Con una mossa che gli era abituale, sulla mano del braccio
sinistro che teneva ripiegato al petto aveva appoggiato il gomito
dell'altro braccio e sosteneva alla mano destra la sua fronte vasta e
scialba come quella d'un cadavere.
— Nessuno di quegli uomini mi comprende; mormorava il Re, in modo che
parevano sfuggirgli inavvertite siffatte parole. Nessuno ha la
intelligenza delle grandi cose, niuno vede al di là dell'oggi, niuno
saprebbe indovinare le mie idee ed incarnarle.
Le sue dita si contrassero sopra la fronte, liscia come la lapide d'un
sepolcro.
— Ah! se potessi da me! soggiunse, ma così piano che non l'avrebbe pur
udito chi avesse potuto mettere il suo orecchio sulle pallide di lui
labbra. Se potessi io stesso dar forme concrete al mio pensiero,
trovarne il modo d'eseguimento ed aver la forza di porlo in atto!...
Nella sua anima successe in quell'istante fugace, ratto ma vivo, uno di
quegli scombuiamenti che la turbavano di frequente: una specie di lotta
fra la volontà e l'insufficienza dei mezzi, fra l'ardore dello spirito e
la debolezza dell'intelligenza, quando la idea si travede e non si può
afferrare, quando s'indovina, s'intuisce confusamente, in nube, il vero,
il bene, il bello, e la mente non ha forza di definirselo innanzi in
maniera efficace e precisa, così bene che dopo un poco d'inutili sforzi
la si accascia sfiduciata e stanca per cadere in balìa d'un'altra mente
fors'anche meno elevata, ma più pratica e più operosa.
Il marchese stava osservando rispettosamente il Re, due passi da lui
lontano. Carlo Alberto si riscosse e rivolse verso il suo fedele la
faccia melanconica e severa.
— La ho pregata di fermarsi, marchese, gli disse, per parlarle di quel
cotale, autore del manoscritto da Lei comunicatomi, e che, arrestato
come cospiratore, fu, dietro le raccomandazioni di Lei, per mio ordine
espresso liberato senza ritardo.
Baldissero fece una lieve mossa per accennare ch'egli era pronto a
rispondere ad ogni richiesta. Il Re sviò lo sguardo dalla faccia del
marchese e lo fissò vago ed incerto nell'orizzonte traverso i cristalli
della finestra: rimase in silenzio e parve aver subitamente volto il
pensiero a tutt'altro. Nel suo intimo frattanto meditava, se facesse
bene a parlare, se miglior consiglio non sarebbe stato il rinunziare
affatto a tutte quelle idee non ancora ben determinate, a tutti quei
disegni tuttavia in nube cui aveva desti in lui la lettura delle pagine
scritte dal trovatello.
Egli tutte le aveva attentamente lette, molte aveva rilette più volte, e
assai meditatovi sopra. Uno strano effetto sulla sua natura facilmente
esaltabile, benchè sotto apparenze contegnose e fredde, sulla sua anima
tra cavalleresca ed ascetica, inviluppata d'un altissimo orgoglio per la
dignità del grado, aveva prodotto quella lettura che rispondeva a certe
velleità di audaci pensamenti, a certe aspirazioni di novatore e di
messia che brulicavano segretamente in fondo al suo essere di sovrano,
innamorato della gloria e che vorrebbe stampare profonda e luminosa
l'orma del suo regno. Il fatalismo cattolico del suo spirito alquanto
superstizioso, per poco non lo aveva persuaso che era stato Iddio
medesimo a mandargli sott'occhi quello scritto in cui erano trattate
tante di quelle questioni sociali che preoccupavano la sua mente di re
che avrebbe voluto essere riformatore, ed alcune v'erano sciolte. Gli
parve che da quelle carte sgualcite su cui una mano febbrile aveva
scritto un tanto mondo di pensieri, uscisse come la voce del popolo
medesimo il quale avesse acquistato coscienza e sapienza de' suoi
destini e de' suoi bisogni e quindi formolasse, ad ammaestrarlo, in
linguaggio tra di poeta, tra di statista, le necessità economiche,
morali e sociali della nuova vita civile, sentite non avvertite dalla
massa comune, e i rimedi acconci alle medesime; la voce, direi, della
Sfinge, di cui egli voleva essere l'Edipo e dominarla. L'autore di
quelle pagine non era egli l'uomo che invano andava cautamente cercando
intorno a sè, e cui gli aveva mandato la Provvidenza? Pensò a quel suo
antecessore (e fu pure un glorioso principe quello!), il quale dal nulla
aveva innalzato alle prime cariche il Bogino, che fu uno dei più valenti
ministri del Piemonte. Se nelle file della plebe trovavasi un ingegno
superiore, il quale potesse rendere eminenti servigi alla monarchia e al
paese, perchè non l'avrebbe egli tratto di là e postolo in condizione da
poter compiere la sua missione? Era suo dovere il farlo; sarebbe stata
sua gloria l'averlo fatto. La conseguenza di tutti questi pensieri si fu
che egli decise informarsi meglio dell'essere di quel cotale presso il
marchese di Baldissero. Ma ora, come già accennai, le solite dubbiezze,
che al punto dell'azione assalivano sempre la sua anima esitante, lo
facevano restio e come peritoso al parlare.
Il marchese attendeva tuttavia le interrogazioni del Re. Questi ruppe
finalmente il silenzio, senza volgere gli occhi su colui che
l'ascoltava, guardando sempre con pupille vaghe nel grigio del cielo
annuvolato.
— Credono che la plebe non pensi, diss'egli, credono che ignori ancora
come un tempo. La rivoluzione francese ha inoculato il veleno nel sangue
delle generazioni di questo secolo di qualunque classe; esso serpeggia e
si diffonde. Ci vorrebbe sangue e fuoco ad estirparlo. E chi oserebbe
fare da Torquemada nel secolo XIX?... Ed ancora! Si riuscirebbe egli
forse? Le plebi pensano più che non si creda. Quel zibaldone di
temerità, di matte idee, di potenti concetti n'è una prova. Se viene un
giorno un'intelligenza superiore che mostri loro la terra promessa d'una
riforma sociale? Se acquistano un giorno la coscienza della loro forza?
Bisognerebbe fare qualche cosa per le plebi... Ma che cosa? Qual
pericolo toccare all'edifizio della società! Come prendersela, dove
incominciare, a qual punto arrestarsi? Questo è da definirsi; ed ecco
dov'è necessaria l'opera d'un ingegno superiore.
Si voltò allora verso il marchese.
— Lo scrittore di quelle pagine, domandò, Ella lo conosce, lo ha visto,
gli ha parlato?
— Sì, Maestà, rispose Baldissero, e l'ho anzi preso per mio segretario.
Il Re lo guardò con espressione di alquanto sospetto.
— Ah! gli è suo segretario?
Ma dinanzi alla nobile fisionomia del marchese ogni ombra di sospetto
s'affrettò a sparire dalla fronte di Carlo Alberto.
— Ha fatto benissimo: soggiunse vivamente: e l'aspetto di colui, la
parola, come sono?
— Ha l'aspetto d'un uomo che ha sofferto: rispose mestamente il
marchese, il quale abbassò gli occhi pensando con rimorso seco stesso di
chi fosse la colpa di quelle sofferenze. A prima vista le sue sembianze
possono tornare poco o punto piacevoli; ma la sua fisionomia non è
quella d'un indifferente. Interessa di botto e la sua fronte fa pensare.
Quando parla è in sulle prime peritoso ed impacciato; ma poscia la
lingua gli si snoda e l'eloquenza del labbro asseconda assai bene la
vivacità dell'idea.
Carlo Alberto atteggiò la bocca a quel suo indefinibile sorriso
melanconico e stentato, che pareva insieme timido e falso.
— M'è venuta una curiosità da Califfo di Bagdad. Voglio vedere
quest'uomo e discorrere con lui. Ma il Re in questo colloquio non ha da
comparire. Lo lascieremo alla porta. Vuol Ella rendermi un servizio,
marchese?
— Comandi, Maestà.
— Questa sera conduca da me il suo segretario... non qua, nella
palazzina che ho recentemente acquistata sotto il giardino. Alle nove
una persona fidata aprirà loro il cancello e li introdurrà in una camera
terrena, dov'io sarò ad aspettarli. Quel giovane non deve in alcun modo
sapere a chi dovrà parlare.
Il marchese s'inchinò in segno d'ubbidienza.
— Farò secondo gli ordini di V. M., ma le faccio osservare che sarà
molto difficile che quel cotale non riconosca l'interlocutore con cui
avrà l'alto onore di trovarsi.
— Non credo, disse il Re sorridendo, che le mie sembianze possano
essergli tanto famigliari: mi acconcerò di modo e farò che vi sia una
luce che giovino a trarlo in inganno....
S'interruppe, esitò un momentino e poi riprese con voce più bassa:
— Se però Ella crede che in ciò possa essere qualche inconveniente.....
— Oh no, s'affrettò a rispondere il marchese. Spero che quel giovane sia
degno d'ogni fiducia...
Il marchese era sul punto di svelare al Re il segreto della nascita di
Maurilio: ma Carlo Alberto pose fine al colloquio.
— Allora siamo intesi: diss'egli tendendo la mano a Baldissero. Questa
sera alle nove.
Il marchese s'inchinò colla dignità d'un gentiluomo: toccò
rispettosamente quella mano che gli veniva pôrta, e rispose:
— Alle nove senza fallo.
Carlo Alberto guardò fisamente per un poco la portiera che era ricaduta
dietro le spalle del marchese partitosi: e poi disse fra sè, curvando il
capo:
— Ho fatto bene? ho fatto male?... Al postutto son sempre in tempo di
mandare dire al marchese che non se ne fa nulla.
Il marchese nella sua carrozza, tornando al suo palazzo, era occupato da
molti e varii pensieri. Nell'apprezzamento delle cose egli subiva pure
l'influsso del suo grado, della sua qualità, della sua educazione. Non
si è impunemente nobili, nati ed allevati in corte, servitori devoti di
monarchi, senza acquistare una certa dipendenza d'animo verso chi occupa
quel supremo dei gradi sociali; anche pel vecchio, valoroso gentiluomo,
una parola del Re formava un'autorità indiscutibile. Dei talenti di
Maurilio ben aveva egli potuto persuadersi e dalla lettura di quello
scritto e dai discorsi dal giovane tenutigli; capace com'egli era
d'apprezzar giustamente il vero merito, il marchese non aveva tardato a
riconoscere la superiorità di quell'intelligenza; ma pur tuttavia, dopo
le parole intorno a quel cotale dettegli dal Re, dopo il desiderio
manifestato dal Re di avere con questo sconosciuto un colloquio,
s'accrebbe ancora in lui il concetto ammirativo che si era formato del
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