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La plebe, parte IV - 02
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perdere quel tanto. Amministrata adunque la severa correzione alle
orecchie di _Gognino_, la vecchia lo prese ad un braccio, se con buona
grazia ve lo lascio pensare, e fattogli deporre la cassetta di
fiammiferi sotto il banco d'una rivendugliola sua comare, lo trasse con
sè verso la casa dove dimorava il pittore Vanardi coi suoi amici.
Salita su fino all'alto quarto piano ed entrata in quel quartiere che
ben conosciamo, la _Gattona_ ci trovò sola sora Rosina la moglie del
pittore, la miglior donna del mondo, come sappiamo, ma non delle meno
ciarliere. In breve la vecchia che cercava di Maurilio, ebbe appreso
tutte le novità che lo riguardavano; e la venuta del vecchio prete di
campagna, e l'intromettersi di quest'esso per trovare a Maurilio un
impiego, e l'avergli trovato il posto di segretario presso il marchese
di Baldissero, e l'essere già Maurilio fin da quella mattina allogato in
tal qualità da quella famiglia.
All'udire siffatta novella, la _Gattona_ parve cadesse dal quarto cielo,
tanto rimase sbalordita dalla meraviglia. Maurilio in casa dei
Baldissero! Se lo fece ripetere parecchie volte, come se la fosse cosa a
cui non potesse prestar fede così di piano; ed alla fine, levando le
scarne mani verso il cielo, esclamò con un'espressione che faceva
pensare a chi sa qual mistero la volesse adombrare:
— Oh Provvidenza! oh Provvidenza!
Sora Rosina non mancò al suo dovere di curiosa stuzzicando con varie
domande la vecchia popolana a parlare; ma la _Gattona_, cosa d'ogni
altra più meravigliosa, si rinchiuse nella discrezione d'un assoluto
silenzio, da cui fu impossibile farla uscire; anzi troncò senz'altro il
colloquio e se ne andò frettolosa dicendo che avrebbe cercato del signor
Nulla nel palazzo del marchese: ma non fu colà ch'ella diresse i suoi
passi, bensì al convento dei Gesuiti presso la chiesa del Carmine, dove
domandò di padre Bonaventura, e dove, non essendoci egli, si fermò fino
a tanto che rientrasse, cosa che non avvenne fino al cader del giorno.
Fra il frate gesuita e la pitocca venditrice d'abitini ebbe luogo un
altro segreto colloquio lungo ed animato, che si conchiuse colla
risoluzione, il frate medesimo avrebbe parlato al marchese ed avrebbe da
lui ottenuta udienza a Modestina Luponi chiamata la _Gattona_.
Ma di quel giorno fu impossibile a chicchessia vedere il marchese di
Baldissero, perchè gli avvenimenti capitati presero al vecchio
gentiluomo tutto il tempo, e quando, compito quello che credette il
debito suo, si ridusse in casa, non volle che nessuno più di estranei,
qualunque si fosse, venisse introdotto presso di lui.
Ecco intanto quel che era capitato.
Verso le quattro Ettore di Baldissero rientrava nel palazzo paterno.
Virginia, che stava ansiosamente attendendo ed a cui niuna nuova da
nessuna parte era ancora pervenuta, appena udì rientrato il cugino,
senza badare a verun'altra considerazione più, ma mossa soltanto
dall'impulso della sua ansietà, fece pregare Ettore di passare tosto da
lei. Il marchesino era troppo galante per tardare ad obbedire a un simil
cenno della sua bella cugina.
La ragazza gli venne incontro fin verso la soglia, che Ettore aveva
appena varcata; e guardandolo fiso in mezzo agli occhi come chi vuol
leggere altrui nell'animo, gli disse con tono di asseveranza come se già
sapesse tutto:
— Tu ti sei battuto quest'oggi coll'avvocato Benda.
Fra le tante cose meno degne d'un gentiluomo che Ettore di Baldissero
aveva imparate pur troppo, non c'era almanco quella di saper mentire.
Chinò il capo in segno affermativo.
Virginia continuava con aspetto pieno di coraggio, benchè fosse pallida
ed avesse alquanto affannoso il rifiato:
— Un duello quale deve aver avuto luogo fra voi non si conchiude senza
morte o ferita di alcuna delle parti. Tu sei compiutamente illeso.....
— Ti rincresce? interruppe con un sogghigno pieno di malignità il
marchesino.
La giovane parve non badar neppure alla interruzione.
— È dunque l'avvocato Benda che rimase colpito.
— Tu la ragioni meravigliosamente giusto: rispose Ettore colla medesima
ironia.
Virginia impallidì ancora di più e le sue palpebre tremarono un pochino;
fu il solo segno di debolezza che apparisse in lei.
— Morto? domandò ella con voce più sommessa.
— No.
— Ah! — Ella fece una breve pausa e mandò più grosso il respiro. — La
ferita è grave?
— Non è delle più leggiere: rispose con serietà il marchesino, che a
questo punto non ebbe il coraggio più di essere ironico nè impertinente:
ma la spero neppure delle più gravi.
Virginia tornò ad affondare i suoi occhi più brillanti che mai negli
occhi del cugino, e domandò con una franchezza che svelava in una la
forza e la nobiltà del suo amore:
— Vivrà?
— Spero di sì: rispose il marchesino.
Il colloquio fra i due cugini non aveva più ragione di continuare:
stettero un istante l'uno in faccia dell'altra, senza saper più che cosa
dirsi, finchè egli, tornando a far sentire nel suo accento quel tanto
d'ironia, ruppe il silenzio:
— Mi pare che tu non abbia più nulla da dirmi, Virginia?
Ella scosse la segno negativo la testa. Ettore si inchinò leggermente ed
uscì con aria disinvolta e quasi ilare, ma con un vivissimo dispetto in
cuore. Non gli rimaneva più dubbio alcuno sull'amore di sua cugina per
quel borghesuccio, ed egli, colla ferita che a quest'ultimo aveva
procacciata, non aveva fatto altro che renderlo più interessante.
Appena sola, Virginia chiamò a sè la sua cameriera.
— Fa di sapere, dissele, se il segretario di mio zio è rientrato; e se
sì, digli che venga a parlarmi.
La cameriera guardò stupita la padroncina.
— Va e fa come ti dico.
Aveva un aspetto di tal risoluzione e di comando, mai più visto in lei,
che la fante si mosse ad obbedire senza fare pure una di quelle
osservazioni che le erano venute in folla sulla punta della lingua.
Ettore, rientrato nelle sue stanze, trovò il domestico che gli trasmise
l'ordine del marchese di presentarsi subito innanzi a lui.
— Andiamo da mio padre: disse il giovane fra i denti con un soffocato
sospiro che manifestava la malavoglia e il disagio ispiratigli da questo
abboccamento.
E ci fu sollecito. Alle interrogazioni del padre egli rispose con
franchezza tutta la verità.
— Voi avete disobbedito in una al vostro genitore ed al vostro re; gli
disse con severissimo accento il marchese. Nè l'uno nè l'altro non vi
possono così agevolmente perdonare: mi recherò da S. M. ad intendere
quale punizione voglia infliggere alla vostra pervicacia. Voi
aspetterete in casa il mio ritorno.
Il figliuolo s'inchinò in atto di rassegnazione, e il marchese si recò
senza indugio a Corte per riferirne al re. Mezz'ora dopo egli rientrava
coll'ordine reale: Ettore di Baldissero si recasse incontanente agli
arresti in cittadella.
Ma entrando nella vasta sala dell'anticamera, il marchese s'incontrava
colla nipote che, apparecchiata per uscire, s'avviava in compagnia della
cameriera verso lo scalone. Era già scuro per le strade della città.
— Dove vai, Virginia, a quest'ora? le domandò.
Ella si confuse, arrossì, balbettò, ed insistendo lo zio nella
richiesta, rispose:
— Vado a consolare una mia amica e compagna di collegio a cui è capitata
una grande sventura.
— Chi?
Virginia si confuse e arrossì vieppiù.
— Chi? ripetè il marchese osservando attentamente la ragazza.
— Maria Benda.
— La sorella dell'avvocato?
— Sì.
— Ah! — Stette un istante guardando la nipote con fissità osservatrice,
ma non ostile, nè severa; — questa grande amicizia è nata da ben poco
tempo, che prima d'ora mai non vi fu fra voi attinenza di sorta.
Virginia chinò il capo e non disse parola. Lo zio la prese per mano con
un'autorevolezza piena di affettuoso interessamento.
— Vieni, vieni meco, Virginia, soggiunse. Conviene che ci parliamo noi
due. — Andate ai fatti vostri, voi: disse alla fante, e trasse con sè la
nipote in quel suo studiolo in cui siamo già penetrati parecchie volte.
Maurilio, più veniva accostandosi alla casa di Francesco e più sentiva
in cuor suo diminuire quel tristo sentimento d'odio che gli era sorto
verso l'amico. Anzi la riazione che avveniva nella sua natura
fondatamente buona, lo faceva a poco a poco ancora più sollecito,
ansioso e dolente del pensiero che a Benda avesse potuto accadere
disgrazia. Ciò lo mosse ad affrettare il passo così che giunse al
portone della casa, quasi correndo. Entrò egli nel casotto del portinaio
e interrogò Bastiano che stava seduto con un gran braciere in mezzo alle
gambe, fumando la sua pipa.
Apprese che Francesco non era ancora rientrato, e che in famiglia non si
aveva sospetto nessuno del pericolo del giovane. Si fermò alquanto nel
camerino del portinaio ad aspettare, poi non potendo più stare alle
mosse, uscì ed andò a scalpitare con impazienza la neve dei viali.
Avrebbe voluto camminare incontro alla novella per apprenderla più
presto, ma non sapeva da qual parte Francesco e i suoi compagni fossero
per giungere; pensava all'ansietà che, maggiore certo della sua, provava
a quel medesimo tempo Virginia, e in parte se ne arrabbiava con invida
gelosia, in parte se ne accorava come quegli che a lei avrebbe voluto
risparmiare ogni affanno.
E intanto il giorno se ne andava e in quell'annuvolato aere scendeva
assai presto il primo scuriccio della sera. Maurilio, intirizzito ornai
dalla brezza invernale che spirava gagliarda, vide finalmente una
carrozza che veniva a quella volta al trotto serrato d'un cavallo di
prezzo. Questa carrozza si fermò innanzi al portone, un giovane signore
ne discese frettoloso con aria visibilmente preoccupata ed entrò nella
casa. Maurilio indovinò che con quel signore era giunta la novella, e
dal volto del messaggiero capì che la non era lieta. Era diffatti il
conte San-Luca che veniva a preparare la famiglia alla luttuosa vista
del figliuolo ferito. Il sangue diede un rimescolo al nostro giovane;
avrebbe voluto entrare colà e domandarne, e non osò; vide il conte venir
fuori della casa, la faccia ancora più conturbata di prima, salir nel
legnetto e questo ripartire, senza ch'egli avesse la risoluzione di
spiccarsi dal luogo, di fare checchessiasi.
E di qual misura era la disgrazia che ormai non dubitava più fosse
capitata a Francesco? Stette lì ad aspettare ancora senza sapere al
giusto che cosa. Mezz'ora dopo giungeva a lento passo la carrozza che
portava il ferito. Nelle tenebre della sera, Maurilio si cacciò innanzi
di guisa da scorgere il meglio possibile, s'appiattò dietro il tronco di
un albero là dove la carrozza doveva voltare per entrar nel portone, e
mentre questa gli passava a un metro appena di distanza, gettò in essa
avidamente lo sguardo. Travide la faccia pallida di Francesco appoggiata
alla spalla di Giovanni Selva; negli occhi sbarrati del ferito che
fissavano la casa paterna, scorse l'ansia ed il dolore fisico e morale.
Maurilio non fu visto da nessuno; e' si ritrasse indietro quasi con
ispavento e con orrore di sè medesimo. L'empio desiderio che
nell'accesso del suo geloso furore aveva poco prima formolato, gli tornò
in memoria come un rimorso, e gli parve poco meno che d'esser egli
eziandio colpevole di quel sangue.
Dal suo nascondiglio vide sotto il portone, di cui Bastiano aveva
spalancato le imposte, le dolorose accoglienze cui padre, madre e
sorella facevano al povero ferito, che con riguardosa cura fu tratto
fuor di carrozza e condotto al piano superiore; vide traverso i vetri
delle finestre dell'abitazione il correre di qua e di là di lumi per
l'affaccendarsi a provvedere le cose occorrenti al misero giovane;
voleva entrare e domandarne e non osò: sperava che uno di quelli che
accompagnavano Francesco uscisse ed egli potesse da lui informarsi e
nessuno veniva. Finalmente il pensiero di Virginia, la quale stava
sempre attendendo, che in lui s'era affidata, ed alla cui fiducia non
voleva fallire, lo decise; entrò, chiese di Selva, lo ebbe a sè, apprese
come stessero le cose, e addoloratissimo prese correndo la via del
ritorno al palazzo Baldissero.
Virginia aveva giustamente mandato in cerca di lui. Maurilio le comparve
innanzi ancora tutto affannato della sua corsa.
— So che il suo amico è stato ferito, le diss'ella con una specie di
brusca vivacità che era irrequietezza dell'animo commosso e sgomento; ma
se e quanto sia pericoloso il suo stato, lo ignoro. Può Ella apprendermi
il vero?
Maurilio mestamente le ripetè quanto a lui medesimo aveva detto poc'anzi
Giovanni.
La ragazza lo ascoltò fredda, immota, si sarebbe detto quasi
indifferente. Quand'egli ebbe finito, essa fece un moto della testa che
significava insieme ringraziamento e congedo, e disse semplicemente, ma
la sua voce tremava un pochino:
— La ringrazio.
Il giovane uscì, e Virginia abbigliatasi e comandato alla fante si
abbigliasse per accompagnarla, voleva accorrere presso di Francesco a
vederlo, confortarlo, apprendere co' suoi occhi medesimi la fatal
verità.
— S'egli morisse, pensava, ed io non potessi manco più dargli un addio!
Era per uscire, come vedemmo, quando s'incontrò collo zio che ne la
impedì, conducendola seco nello studiolo.
— Aspettami qui un istante, le disse: devo dare pochi ordini e poi sono
da te.
Ebbe a sè il figliuolo, e comunicatogli la sovrana decisione, comandò
che immediatamente si recasse nella cittadella, dove già erano trasmessi
gli ordini opportuni per riceverlo. Ettore non rispose una parola:
s'inchinò e fu sollecito a recarsi in fortezza. Eravi diffatti già
aspettato, ed a lui — vedete gioco del caso! — toccò appunto quella
camera nella quale due giorni prima era stato rinchiuso come prigioniero
politico il suo rivale ed avversario Francesco Benda.
— Virginia: cominciò così a parlare alla nipote il marchese di
Baldissero, poichè fu rientrato nello studiolo, dove la ragazza stava
attendendolo. Hai tu confidenza in me? Ti pare che io la meriti intiera
e compiuta la tua fiducia?
La giovane stava dritta presso il camino e guardava fisamente la fiamma
che volteggiava sulle legna nel focolare. Anche sulle sue guancie,
precisamente come una fiamma, andava e veniva a volta a volta una vampa
di rossore, un'onda di sangue che coloriva la sua pallidezza un istante,
e spariva. Ella era levatasi dalle spalle il mantello e gettatolo
comecchessiasi sopra una seggiola, s'era tolto del paro il cappellino e
lanciatolo a quel modo. Le sue chiome abbondanti color d'oro, coi ricci
cascanti sul niveo collo chinato, splendevano alla luce della lampada
che era stata accesa sulla caminiera. Al di sopra della lampada pareva
chinarsi sopra di lei il grande crocifisso d'avorio dalle braccia tese,
e il riflesso rosato del lume dava a quel volto mite e sofferente
scolpito dall'artista un'espressione che sembrava pietà.
Alle parole dello zio, Virginia alzò il capo reclinato, e guardando con
franchezza e intenerimento insieme la bella figura del vecchio
gentiluomo, rispose con voce vibrante d'emozione:
— Oh zio! Ella è l'unica persona al mondo in cui io possa aver fiducia e
debba. E non vi ha alcuno che più la meriti di Lei.
Il marchese le pigliò una mano.
— Io ho fatto sinora tutto il mio possibile, perchè meno aspra e funesta
ti fosse la tremenda sciagura a cui ti volle condannare il Signore:
quella di non aver più nè padre, nè madre.
Virginia alzò gli occhi al soffitto, come se volesse lanciare uno
sguardo fino al cielo a cercarvi cari perduti.
— Mia madre! esclamò essa coll'affetto di chi invoca in supremo bisogno
un aiuto. Baldissero lasciò andare la mano della nipote, si passò la
propria destra sulla fronte, e continuò con accento più sordo:
— Tua madre io l'ho amata cotanto!.... Eppure!....
S'interruppe come chi ha pronunziata parola che non doveva, e s'affrettò
a riprendere:
— Ella aveva ogni fiducia in me... fin ch'io rimasi al suo fianco....
Ah! s'io non mi fossi allontanato, i miei consigli, il mio amore le
avrebbero risparmiato indicibili affanni. Or bene, Virginia, in nome di
tua madre medesima io ti prego a non voler mai tener celato a me quello
di cui ti sentiresti obbligo di rendere istrutta tua madre.
Virginia tornò a chinare la testa in aria più perplessa che confusa.
— Ed ora, continuava lo zio, mettendo nelle sue parole maggiore caldezza
d'affetto: ora se tua madre fosse qui, non avresti tu nulla da
confidarle?
La ragazza parve il sul punto di parlare; poi si rattenne; mandò
un'esclamazione e volse in là il viso arrossito.
— Tu hai dunque un segreto? seguitava il marchese coll'accento il più
paterno: e questo segreto la tua determinazione di poc'anzi abbastanza
lo rivela. Che cosa c'è di comune fra te e quel signore?
Virginia sollevò di nuovo la faccia con un'espressione piena di
coraggio: guardò fermamente lo zio e disse colla franchezza d'una
purissima coscienza e d'un nobile sentimento:
— Ci amiamo! Egli me lo svelò, io non glie lo nascosi.
— Sventurata! esclamò il marchese con accento in cui non c'era collera
ma piuttosto dolore. E che speri tu?
— Nulla.... Glie lo dissi.... Egli, forse appunto per disperazione di
ciò, volle morire.... Non debbo io prima che scenda nella tomba
consolarlo d'un addio?
Negli occhi le spuntarono due lagrime, ma la voce e l'aspetto non
manifestarono la menoma debolezza.
— Sventurata! Sventurata! ripetè lo zio. È dunque destino che anche
tu?...
S'interruppe di nuovo; parve recarsi sopra sè, e per un istante regnò in
quel salotto il più assoluto silenzio. Virginia guardava lo zio con una
specie di curiosa ansietà che le parole e i contegni di lui le
suscitavano. Dopo un poco egli soggiunse:
— Tu sai che nella vita di tua madre fu un gran dolore, ma quale esso
sia stato ignori tuttavia. Fu desiderio di quella povera donna che tu
l'apprendessi un giorno, e me lasciò giudice del momento opportuno. Oh
forse ho avuto torto a indugiare cotanto: e il racconto delle sciagure
di lei avrebbe potuto servirti d'ammaestramento! Ma così mal volentieri,
e ne intenderai il perchè, accosto quel discorso!... Ora però non debbo
più nulla tacerti. Siedi costì, Virginia, ed ascoltami. Udrai finalmente
la storia di tua madre.
Virginia mandò un gridolino di desiderio, di soddisfazione insieme e di
preghiera e di ringraziamento.
— Ah sì! esclamò giungendo le mani: ch'io l'oda finalmente!
Il marchese si raccolse, e cominciò poscia a narrare coll'accento di chi
esponendo le più dolorose vicende della sua vita, sente riaprirsi le mal
rimarginate piaghe del cuore.
Ma poichè non tutte le circostanze di quel funesto avvenimento poteva
egli e doveva raccontare alla nipote, noi esporremo da parte nostra in
termini più compiuti quel dramma, come già può essere narrato, senza
pregiudicar l'interesse dei fatti avvenire, al punto in cui si trova lo
svolgimento del nostro racconto.
CAPITOLO II.
Si era verso la fine dell'anno 1820. Che si avesse a vedere qualche
novità in Piemonte molti dicevano, parecchi speravano, pochi affatto
credevano. Carlo Alberto principe di Carignano continuava ad essere il
centro di quel movimento liberale che aveva preso proporzioni abbastanza
considerevoli nell'aristocrazia piemontese, la quale aveva sognato un
momento poter giungere a sostenere presso la monarchia sabauda e presso
il popolo subalpino quella parte moderativa e di dominatrice influenza
che da secoli è tenuta dalla nobiltà del sangue, del merito e del denaro
nell'isola inglese. S'era visto i medesimi Borboni di Francia accettare
una costituzione; perchè non l'avrebbero accettata anco i Savoia? Alcuni
spiriti aristocratici, mossi senza saperlo dalla forza impellente del
progresso, vagheggiavano la distinzione e l'autorità di una _parìa_
ereditaria nella loro famiglia colla guarentigia d'una libera tribuna.
Credevano con questo modo risuscitare sotto forme novelle contro il
trono, il feudalismo schiacciato dalla monarchia assoluta, e non
s'accorgevano che aprivano la strada ad un più forte, nuovo, invasore
potere, quello della libertà che non poteva a meno di far capo alla
sovranità popolare. Ma ciò scorgevano bensì alcuni dei più generosi e
dei più ardenti patrioti; i quali, oltre alle libertà interne miravano
ancora ad un altro sacrosanto scopo; quello dell'indipendenza della
comune patria dallo straniero.
La costituzione in Piemonte, speravano, sapevano, volevano che fosse la
guerra all'Austria; guerra che non si aveva da conchiudere se non colla
cacciata degl'imperiali al di là delle Alpi, ed ardenti giovani
ufficiali, anche di aristocratico sangue, affrettavano coi voti e
volevano affrettare coll'opera questo grandissimo fatto. Santorre
Santarosa, nobile recente, ingegno non comune, degno d'andare fra i
primi in qualunque tempo e presso qualunque popolo per cuore e per forza
di volontà; Santorre Santarosa sapeva e voleva precisamente lo scopo
necessario, legittimo, ultimo di quell'agitazione liberalesca, e
spingeva verso di esso con ogni suo potere.
Ma i più dei nobili ritornati, colla ristaurazione dei Principi, a
riprendere i loro privilegi, le loro cariche, le loro ricchezze,
l'autorità, non capivano come fra i proprii compagni di casta ci fossero
dei matti che, per una, secondo essi, poco illuminata ambizione,
cercassero di cambiare ciò che era il meglio nella migliore delle
monarchie assolute aristocratico-militari, e volessero porre a
repentaglio i vantaggi attualmente posseduti per diritti e politiche
guarentigie, di cui si poteva benissimo fare senza. Codestoro
avversavano accanitamente cotali novatori; e tra essi era de' più accesi
il vecchio marchese di Baldissero, padre di quello che abbiam conosciuto
per capo della famiglia al tempo del nostro racconto. Egli era stato uno
dei più fieri odiatori della rivoluzione di Francia, dell'impero e di
Napoleone; ed odiava ogni novità, come un fanatico inquisitore sapeva
odiare le eresie; aveva seguito il suo re in Sardegna, aveva trovato
crudelissimo quell'esilio e ne aveva accresciuto il rancore ai
_giacobini_ (sotto il qual nome egli comprendeva tutti quanti non la
pensassero esattamente come lui nella strettezza delle sue idee
cattoliche, monarchiche, assolutiste); tornato nel continente con
Vittorio Emanuele, era stato uno dei più caldi ed insistenti a dare
quello sciocco, funestissimo consiglio che fu pur troppo messo in
pratica, di ritenere come non avvenuti gli anni d'interruzione nel regno
di Casa Savoia, di cancellare con un frego tutta la storia della
dominazione repubblicana ed imperiale, e distrutta ogni innovazione,
riprendere e rifare le cose come si trovavano a quel medesimo punto in
cui il Re dovette fuggire innanzi allo spirito rivoluzionario
rappresentato dalle baionette francesi. Ogni progresso legislativo,
politico, sociale, civile fu tolto di mezzo: si volle rievocare la
società del secolo scorso morta e sotterrata: e l'ultimo _Palmaverde_
(annuario di Corte e degl'impieghi) fu preso per norma di distribuzione
delle cariche di cui si spogliarono i titolari per rivestirne gli
antichi, e se morti, i figli loro.
Codesto intrattabile ed accanitissimo nemico di ogni liberalismo odiava
più ancora degli altri quei nobili che accennavano piegare alle idee
moderne. A lui parevano codestoro come apostati e traditori; onde
immaginatevi voi quali non dovessero essere il suo dispiacere e la sua
collera, quando gli parve scorgere che suo figlio, il suo unico figlio
medesimo si intingesse di questa pece.
Era da parecchi mesi a Torino un giovane signor milanese: Maurilio
Valpetrosa. Era bello, geniale, elegante, pieno di brio e di
piacevolezza nella parola, di grazia e di avvenenza nei modi, di buon
gusto nel vestire e in ogni diportamento; ardito e destro ad ogni
esercizio corporeo, cavalcare, schermeggiare, al nuoto, alla danza, al
pallamaglio, allora di moda; generosissimo nello spendere; non inferiore
a nessuno, facilmente superiore ai più in ogni cosa onde possa comporsi
eletta educazione signorile, Venuto nella capitale del Piemonte con
autorevoli ed efficaci commendatizie era stato fin dalle prime
intromesso nella più scelta e titolata società e non aveva tardato a
diventare assiduo frequentatore di quel gruppo di giovani ufficiali,
letterati ed artisti che si raccoglievano nel palazzo Carignano intorno
al giovane principe che doveva fare ammenda del fallo al Trocadero.
L'aristocrazia torinese, difficilissima e assai cauta in quel tempo ad
ammetter ne' suoi salotti in condizioni di famigliarità e d'uguaglianza
chi fra i suoi concittadini non contasse il numero voluto dei _quarti_,
era assai più larga e benigna verso i forestieri; e quando uno venuto di
fuori avesse maniere acconcie, ricchezze all'avvenante, lo accettava
come invitato alle sue feste, e visitatore nelle sue conversazioni,
senza domandargli di più. Codesto non poteva aver tratto di conseguenza;
il forestiero sarebbe partito, recando seco la memoria della forbitezza
di quella società, che quando voleva, sapeva essere veramente squisita,
ed ecco tutto.
Maurilio Valpetrosa venne accolto di questo modo e per queste ragioni. I
denari gli colavano di mano come ad un milionario, aveva una figura da
principe di _conte de fées_, nel suo nome c'era anche un certo profumo,
direi quasi, d'aristocrazia, un titolo non disdiceva nè stonava con
quella sonora riunione di lettere d'alfabeto; s'avvezzarono a chiamarlo
di Valpetrosa, e gli uomini per mangiare le sue cene, fumare i suoi
sigari, averlo allegro compagno nelle loro pazzie, le donne per
sorridere alla maschia di lui bellezza, per lasciarsi incantare dalle
seduttrici parole dette con ispirito dalla sua voce insinuante, non gli
domandarono se potesse provare che i suoi maggiori erano stati alle
crociate.
Con costui il padre di Ettore Baldissero aveva stretto una più intima
attinenza, che quasi poteva dirsi amicizia. Si erano conosciuti
precisamente nelle sale del Palazzo Carignano, e dapprincipio e per
alcuni mesi fra di loro non fu altra attinenza che quella di persone
ammodo fra cui non v'è ragione alcuna di intrinsichezza. Ma ad un tratto
il giovane milanese si pose con tanta insistenza e con tanta gentilezza
a voler acquistare l'affetto e la confidenza del marchese di Baldissero
che impossibile resistergli. E' diventarono gli Oreste e Pilade di
quella nobile società torinese, e i maligni non tardarono a scoprire e
susurrare la causa di questo premuroso zelo d'amicizia nell'elegante e
leggiadro forestiero, quella cioè di accostarsi così vieppiù alla
signorina Aurora di Baldissero, della quale cupidamente bramasse la
beltà eccezionale e la dote vistosamente ricca.
Per quest'ultima parte si calunniava quel giovane, il quale in realtà
era una delle più generose e valenti anime d'uomo che esser possano; ma
quanto all'affetto che in lui avevano acceso la beltà, le grazie,
l'ingegno della nobile fanciulla ch'egli aveva avuto campo di conoscere
e di apprezzare in molti di quei salotti a cui era ammesso; quanto
all'amore che egli ad Aurora aveva consecrato, caldo, insuperabile,
eterno, tutto quello che diceva la gente, e parevano già cose esagerate,
era un nulla appetto al vero.
Valpetrosa amò Aurora con tutto l'impeto di quella sua natura vivace ed
ardentissima; l'amò di quell'amore che, come si esprime Dante: «a nullo
amato amar perdona,» di quell'amore così assoluto, così vasto, così
dominante che di esso non può a meno qualunque donna che assuperbirsi; e
la natura gli aveva concesso, oltre il valore dell'interno, anche quei
fisici pregi esteriori per cui cotale affetto si può a meraviglia
esprimere, eloquentemente significare e con efficacia comunicare. Egli
non aveva ancora parlato alla fanciulla che delle più indifferenti cose
onde si possa occupare il discorso di due che conversino colle stampite
delle cerimonie, e già la giovane sapeva d'essere amata con infinito
ardore, e già quel leggiadro garzone amava ancor essa, senza averlo
voluto, come spintavi da una forza superiore.
Il male si fu che di codesto ebbero ben presto ad accorgersene, come
orecchie di _Gognino_, la vecchia lo prese ad un braccio, se con buona
grazia ve lo lascio pensare, e fattogli deporre la cassetta di
fiammiferi sotto il banco d'una rivendugliola sua comare, lo trasse con
sè verso la casa dove dimorava il pittore Vanardi coi suoi amici.
Salita su fino all'alto quarto piano ed entrata in quel quartiere che
ben conosciamo, la _Gattona_ ci trovò sola sora Rosina la moglie del
pittore, la miglior donna del mondo, come sappiamo, ma non delle meno
ciarliere. In breve la vecchia che cercava di Maurilio, ebbe appreso
tutte le novità che lo riguardavano; e la venuta del vecchio prete di
campagna, e l'intromettersi di quest'esso per trovare a Maurilio un
impiego, e l'avergli trovato il posto di segretario presso il marchese
di Baldissero, e l'essere già Maurilio fin da quella mattina allogato in
tal qualità da quella famiglia.
All'udire siffatta novella, la _Gattona_ parve cadesse dal quarto cielo,
tanto rimase sbalordita dalla meraviglia. Maurilio in casa dei
Baldissero! Se lo fece ripetere parecchie volte, come se la fosse cosa a
cui non potesse prestar fede così di piano; ed alla fine, levando le
scarne mani verso il cielo, esclamò con un'espressione che faceva
pensare a chi sa qual mistero la volesse adombrare:
— Oh Provvidenza! oh Provvidenza!
Sora Rosina non mancò al suo dovere di curiosa stuzzicando con varie
domande la vecchia popolana a parlare; ma la _Gattona_, cosa d'ogni
altra più meravigliosa, si rinchiuse nella discrezione d'un assoluto
silenzio, da cui fu impossibile farla uscire; anzi troncò senz'altro il
colloquio e se ne andò frettolosa dicendo che avrebbe cercato del signor
Nulla nel palazzo del marchese: ma non fu colà ch'ella diresse i suoi
passi, bensì al convento dei Gesuiti presso la chiesa del Carmine, dove
domandò di padre Bonaventura, e dove, non essendoci egli, si fermò fino
a tanto che rientrasse, cosa che non avvenne fino al cader del giorno.
Fra il frate gesuita e la pitocca venditrice d'abitini ebbe luogo un
altro segreto colloquio lungo ed animato, che si conchiuse colla
risoluzione, il frate medesimo avrebbe parlato al marchese ed avrebbe da
lui ottenuta udienza a Modestina Luponi chiamata la _Gattona_.
Ma di quel giorno fu impossibile a chicchessia vedere il marchese di
Baldissero, perchè gli avvenimenti capitati presero al vecchio
gentiluomo tutto il tempo, e quando, compito quello che credette il
debito suo, si ridusse in casa, non volle che nessuno più di estranei,
qualunque si fosse, venisse introdotto presso di lui.
Ecco intanto quel che era capitato.
Verso le quattro Ettore di Baldissero rientrava nel palazzo paterno.
Virginia, che stava ansiosamente attendendo ed a cui niuna nuova da
nessuna parte era ancora pervenuta, appena udì rientrato il cugino,
senza badare a verun'altra considerazione più, ma mossa soltanto
dall'impulso della sua ansietà, fece pregare Ettore di passare tosto da
lei. Il marchesino era troppo galante per tardare ad obbedire a un simil
cenno della sua bella cugina.
La ragazza gli venne incontro fin verso la soglia, che Ettore aveva
appena varcata; e guardandolo fiso in mezzo agli occhi come chi vuol
leggere altrui nell'animo, gli disse con tono di asseveranza come se già
sapesse tutto:
— Tu ti sei battuto quest'oggi coll'avvocato Benda.
Fra le tante cose meno degne d'un gentiluomo che Ettore di Baldissero
aveva imparate pur troppo, non c'era almanco quella di saper mentire.
Chinò il capo in segno affermativo.
Virginia continuava con aspetto pieno di coraggio, benchè fosse pallida
ed avesse alquanto affannoso il rifiato:
— Un duello quale deve aver avuto luogo fra voi non si conchiude senza
morte o ferita di alcuna delle parti. Tu sei compiutamente illeso.....
— Ti rincresce? interruppe con un sogghigno pieno di malignità il
marchesino.
La giovane parve non badar neppure alla interruzione.
— È dunque l'avvocato Benda che rimase colpito.
— Tu la ragioni meravigliosamente giusto: rispose Ettore colla medesima
ironia.
Virginia impallidì ancora di più e le sue palpebre tremarono un pochino;
fu il solo segno di debolezza che apparisse in lei.
— Morto? domandò ella con voce più sommessa.
— No.
— Ah! — Ella fece una breve pausa e mandò più grosso il respiro. — La
ferita è grave?
— Non è delle più leggiere: rispose con serietà il marchesino, che a
questo punto non ebbe il coraggio più di essere ironico nè impertinente:
ma la spero neppure delle più gravi.
Virginia tornò ad affondare i suoi occhi più brillanti che mai negli
occhi del cugino, e domandò con una franchezza che svelava in una la
forza e la nobiltà del suo amore:
— Vivrà?
— Spero di sì: rispose il marchesino.
Il colloquio fra i due cugini non aveva più ragione di continuare:
stettero un istante l'uno in faccia dell'altra, senza saper più che cosa
dirsi, finchè egli, tornando a far sentire nel suo accento quel tanto
d'ironia, ruppe il silenzio:
— Mi pare che tu non abbia più nulla da dirmi, Virginia?
Ella scosse la segno negativo la testa. Ettore si inchinò leggermente ed
uscì con aria disinvolta e quasi ilare, ma con un vivissimo dispetto in
cuore. Non gli rimaneva più dubbio alcuno sull'amore di sua cugina per
quel borghesuccio, ed egli, colla ferita che a quest'ultimo aveva
procacciata, non aveva fatto altro che renderlo più interessante.
Appena sola, Virginia chiamò a sè la sua cameriera.
— Fa di sapere, dissele, se il segretario di mio zio è rientrato; e se
sì, digli che venga a parlarmi.
La cameriera guardò stupita la padroncina.
— Va e fa come ti dico.
Aveva un aspetto di tal risoluzione e di comando, mai più visto in lei,
che la fante si mosse ad obbedire senza fare pure una di quelle
osservazioni che le erano venute in folla sulla punta della lingua.
Ettore, rientrato nelle sue stanze, trovò il domestico che gli trasmise
l'ordine del marchese di presentarsi subito innanzi a lui.
— Andiamo da mio padre: disse il giovane fra i denti con un soffocato
sospiro che manifestava la malavoglia e il disagio ispiratigli da questo
abboccamento.
E ci fu sollecito. Alle interrogazioni del padre egli rispose con
franchezza tutta la verità.
— Voi avete disobbedito in una al vostro genitore ed al vostro re; gli
disse con severissimo accento il marchese. Nè l'uno nè l'altro non vi
possono così agevolmente perdonare: mi recherò da S. M. ad intendere
quale punizione voglia infliggere alla vostra pervicacia. Voi
aspetterete in casa il mio ritorno.
Il figliuolo s'inchinò in atto di rassegnazione, e il marchese si recò
senza indugio a Corte per riferirne al re. Mezz'ora dopo egli rientrava
coll'ordine reale: Ettore di Baldissero si recasse incontanente agli
arresti in cittadella.
Ma entrando nella vasta sala dell'anticamera, il marchese s'incontrava
colla nipote che, apparecchiata per uscire, s'avviava in compagnia della
cameriera verso lo scalone. Era già scuro per le strade della città.
— Dove vai, Virginia, a quest'ora? le domandò.
Ella si confuse, arrossì, balbettò, ed insistendo lo zio nella
richiesta, rispose:
— Vado a consolare una mia amica e compagna di collegio a cui è capitata
una grande sventura.
— Chi?
Virginia si confuse e arrossì vieppiù.
— Chi? ripetè il marchese osservando attentamente la ragazza.
— Maria Benda.
— La sorella dell'avvocato?
— Sì.
— Ah! — Stette un istante guardando la nipote con fissità osservatrice,
ma non ostile, nè severa; — questa grande amicizia è nata da ben poco
tempo, che prima d'ora mai non vi fu fra voi attinenza di sorta.
Virginia chinò il capo e non disse parola. Lo zio la prese per mano con
un'autorevolezza piena di affettuoso interessamento.
— Vieni, vieni meco, Virginia, soggiunse. Conviene che ci parliamo noi
due. — Andate ai fatti vostri, voi: disse alla fante, e trasse con sè la
nipote in quel suo studiolo in cui siamo già penetrati parecchie volte.
Maurilio, più veniva accostandosi alla casa di Francesco e più sentiva
in cuor suo diminuire quel tristo sentimento d'odio che gli era sorto
verso l'amico. Anzi la riazione che avveniva nella sua natura
fondatamente buona, lo faceva a poco a poco ancora più sollecito,
ansioso e dolente del pensiero che a Benda avesse potuto accadere
disgrazia. Ciò lo mosse ad affrettare il passo così che giunse al
portone della casa, quasi correndo. Entrò egli nel casotto del portinaio
e interrogò Bastiano che stava seduto con un gran braciere in mezzo alle
gambe, fumando la sua pipa.
Apprese che Francesco non era ancora rientrato, e che in famiglia non si
aveva sospetto nessuno del pericolo del giovane. Si fermò alquanto nel
camerino del portinaio ad aspettare, poi non potendo più stare alle
mosse, uscì ed andò a scalpitare con impazienza la neve dei viali.
Avrebbe voluto camminare incontro alla novella per apprenderla più
presto, ma non sapeva da qual parte Francesco e i suoi compagni fossero
per giungere; pensava all'ansietà che, maggiore certo della sua, provava
a quel medesimo tempo Virginia, e in parte se ne arrabbiava con invida
gelosia, in parte se ne accorava come quegli che a lei avrebbe voluto
risparmiare ogni affanno.
E intanto il giorno se ne andava e in quell'annuvolato aere scendeva
assai presto il primo scuriccio della sera. Maurilio, intirizzito ornai
dalla brezza invernale che spirava gagliarda, vide finalmente una
carrozza che veniva a quella volta al trotto serrato d'un cavallo di
prezzo. Questa carrozza si fermò innanzi al portone, un giovane signore
ne discese frettoloso con aria visibilmente preoccupata ed entrò nella
casa. Maurilio indovinò che con quel signore era giunta la novella, e
dal volto del messaggiero capì che la non era lieta. Era diffatti il
conte San-Luca che veniva a preparare la famiglia alla luttuosa vista
del figliuolo ferito. Il sangue diede un rimescolo al nostro giovane;
avrebbe voluto entrare colà e domandarne, e non osò; vide il conte venir
fuori della casa, la faccia ancora più conturbata di prima, salir nel
legnetto e questo ripartire, senza ch'egli avesse la risoluzione di
spiccarsi dal luogo, di fare checchessiasi.
E di qual misura era la disgrazia che ormai non dubitava più fosse
capitata a Francesco? Stette lì ad aspettare ancora senza sapere al
giusto che cosa. Mezz'ora dopo giungeva a lento passo la carrozza che
portava il ferito. Nelle tenebre della sera, Maurilio si cacciò innanzi
di guisa da scorgere il meglio possibile, s'appiattò dietro il tronco di
un albero là dove la carrozza doveva voltare per entrar nel portone, e
mentre questa gli passava a un metro appena di distanza, gettò in essa
avidamente lo sguardo. Travide la faccia pallida di Francesco appoggiata
alla spalla di Giovanni Selva; negli occhi sbarrati del ferito che
fissavano la casa paterna, scorse l'ansia ed il dolore fisico e morale.
Maurilio non fu visto da nessuno; e' si ritrasse indietro quasi con
ispavento e con orrore di sè medesimo. L'empio desiderio che
nell'accesso del suo geloso furore aveva poco prima formolato, gli tornò
in memoria come un rimorso, e gli parve poco meno che d'esser egli
eziandio colpevole di quel sangue.
Dal suo nascondiglio vide sotto il portone, di cui Bastiano aveva
spalancato le imposte, le dolorose accoglienze cui padre, madre e
sorella facevano al povero ferito, che con riguardosa cura fu tratto
fuor di carrozza e condotto al piano superiore; vide traverso i vetri
delle finestre dell'abitazione il correre di qua e di là di lumi per
l'affaccendarsi a provvedere le cose occorrenti al misero giovane;
voleva entrare e domandarne e non osò: sperava che uno di quelli che
accompagnavano Francesco uscisse ed egli potesse da lui informarsi e
nessuno veniva. Finalmente il pensiero di Virginia, la quale stava
sempre attendendo, che in lui s'era affidata, ed alla cui fiducia non
voleva fallire, lo decise; entrò, chiese di Selva, lo ebbe a sè, apprese
come stessero le cose, e addoloratissimo prese correndo la via del
ritorno al palazzo Baldissero.
Virginia aveva giustamente mandato in cerca di lui. Maurilio le comparve
innanzi ancora tutto affannato della sua corsa.
— So che il suo amico è stato ferito, le diss'ella con una specie di
brusca vivacità che era irrequietezza dell'animo commosso e sgomento; ma
se e quanto sia pericoloso il suo stato, lo ignoro. Può Ella apprendermi
il vero?
Maurilio mestamente le ripetè quanto a lui medesimo aveva detto poc'anzi
Giovanni.
La ragazza lo ascoltò fredda, immota, si sarebbe detto quasi
indifferente. Quand'egli ebbe finito, essa fece un moto della testa che
significava insieme ringraziamento e congedo, e disse semplicemente, ma
la sua voce tremava un pochino:
— La ringrazio.
Il giovane uscì, e Virginia abbigliatasi e comandato alla fante si
abbigliasse per accompagnarla, voleva accorrere presso di Francesco a
vederlo, confortarlo, apprendere co' suoi occhi medesimi la fatal
verità.
— S'egli morisse, pensava, ed io non potessi manco più dargli un addio!
Era per uscire, come vedemmo, quando s'incontrò collo zio che ne la
impedì, conducendola seco nello studiolo.
— Aspettami qui un istante, le disse: devo dare pochi ordini e poi sono
da te.
Ebbe a sè il figliuolo, e comunicatogli la sovrana decisione, comandò
che immediatamente si recasse nella cittadella, dove già erano trasmessi
gli ordini opportuni per riceverlo. Ettore non rispose una parola:
s'inchinò e fu sollecito a recarsi in fortezza. Eravi diffatti già
aspettato, ed a lui — vedete gioco del caso! — toccò appunto quella
camera nella quale due giorni prima era stato rinchiuso come prigioniero
politico il suo rivale ed avversario Francesco Benda.
— Virginia: cominciò così a parlare alla nipote il marchese di
Baldissero, poichè fu rientrato nello studiolo, dove la ragazza stava
attendendolo. Hai tu confidenza in me? Ti pare che io la meriti intiera
e compiuta la tua fiducia?
La giovane stava dritta presso il camino e guardava fisamente la fiamma
che volteggiava sulle legna nel focolare. Anche sulle sue guancie,
precisamente come una fiamma, andava e veniva a volta a volta una vampa
di rossore, un'onda di sangue che coloriva la sua pallidezza un istante,
e spariva. Ella era levatasi dalle spalle il mantello e gettatolo
comecchessiasi sopra una seggiola, s'era tolto del paro il cappellino e
lanciatolo a quel modo. Le sue chiome abbondanti color d'oro, coi ricci
cascanti sul niveo collo chinato, splendevano alla luce della lampada
che era stata accesa sulla caminiera. Al di sopra della lampada pareva
chinarsi sopra di lei il grande crocifisso d'avorio dalle braccia tese,
e il riflesso rosato del lume dava a quel volto mite e sofferente
scolpito dall'artista un'espressione che sembrava pietà.
Alle parole dello zio, Virginia alzò il capo reclinato, e guardando con
franchezza e intenerimento insieme la bella figura del vecchio
gentiluomo, rispose con voce vibrante d'emozione:
— Oh zio! Ella è l'unica persona al mondo in cui io possa aver fiducia e
debba. E non vi ha alcuno che più la meriti di Lei.
Il marchese le pigliò una mano.
— Io ho fatto sinora tutto il mio possibile, perchè meno aspra e funesta
ti fosse la tremenda sciagura a cui ti volle condannare il Signore:
quella di non aver più nè padre, nè madre.
Virginia alzò gli occhi al soffitto, come se volesse lanciare uno
sguardo fino al cielo a cercarvi cari perduti.
— Mia madre! esclamò essa coll'affetto di chi invoca in supremo bisogno
un aiuto. Baldissero lasciò andare la mano della nipote, si passò la
propria destra sulla fronte, e continuò con accento più sordo:
— Tua madre io l'ho amata cotanto!.... Eppure!....
S'interruppe come chi ha pronunziata parola che non doveva, e s'affrettò
a riprendere:
— Ella aveva ogni fiducia in me... fin ch'io rimasi al suo fianco....
Ah! s'io non mi fossi allontanato, i miei consigli, il mio amore le
avrebbero risparmiato indicibili affanni. Or bene, Virginia, in nome di
tua madre medesima io ti prego a non voler mai tener celato a me quello
di cui ti sentiresti obbligo di rendere istrutta tua madre.
Virginia tornò a chinare la testa in aria più perplessa che confusa.
— Ed ora, continuava lo zio, mettendo nelle sue parole maggiore caldezza
d'affetto: ora se tua madre fosse qui, non avresti tu nulla da
confidarle?
La ragazza parve il sul punto di parlare; poi si rattenne; mandò
un'esclamazione e volse in là il viso arrossito.
— Tu hai dunque un segreto? seguitava il marchese coll'accento il più
paterno: e questo segreto la tua determinazione di poc'anzi abbastanza
lo rivela. Che cosa c'è di comune fra te e quel signore?
Virginia sollevò di nuovo la faccia con un'espressione piena di
coraggio: guardò fermamente lo zio e disse colla franchezza d'una
purissima coscienza e d'un nobile sentimento:
— Ci amiamo! Egli me lo svelò, io non glie lo nascosi.
— Sventurata! esclamò il marchese con accento in cui non c'era collera
ma piuttosto dolore. E che speri tu?
— Nulla.... Glie lo dissi.... Egli, forse appunto per disperazione di
ciò, volle morire.... Non debbo io prima che scenda nella tomba
consolarlo d'un addio?
Negli occhi le spuntarono due lagrime, ma la voce e l'aspetto non
manifestarono la menoma debolezza.
— Sventurata! Sventurata! ripetè lo zio. È dunque destino che anche
tu?...
S'interruppe di nuovo; parve recarsi sopra sè, e per un istante regnò in
quel salotto il più assoluto silenzio. Virginia guardava lo zio con una
specie di curiosa ansietà che le parole e i contegni di lui le
suscitavano. Dopo un poco egli soggiunse:
— Tu sai che nella vita di tua madre fu un gran dolore, ma quale esso
sia stato ignori tuttavia. Fu desiderio di quella povera donna che tu
l'apprendessi un giorno, e me lasciò giudice del momento opportuno. Oh
forse ho avuto torto a indugiare cotanto: e il racconto delle sciagure
di lei avrebbe potuto servirti d'ammaestramento! Ma così mal volentieri,
e ne intenderai il perchè, accosto quel discorso!... Ora però non debbo
più nulla tacerti. Siedi costì, Virginia, ed ascoltami. Udrai finalmente
la storia di tua madre.
Virginia mandò un gridolino di desiderio, di soddisfazione insieme e di
preghiera e di ringraziamento.
— Ah sì! esclamò giungendo le mani: ch'io l'oda finalmente!
Il marchese si raccolse, e cominciò poscia a narrare coll'accento di chi
esponendo le più dolorose vicende della sua vita, sente riaprirsi le mal
rimarginate piaghe del cuore.
Ma poichè non tutte le circostanze di quel funesto avvenimento poteva
egli e doveva raccontare alla nipote, noi esporremo da parte nostra in
termini più compiuti quel dramma, come già può essere narrato, senza
pregiudicar l'interesse dei fatti avvenire, al punto in cui si trova lo
svolgimento del nostro racconto.
CAPITOLO II.
Si era verso la fine dell'anno 1820. Che si avesse a vedere qualche
novità in Piemonte molti dicevano, parecchi speravano, pochi affatto
credevano. Carlo Alberto principe di Carignano continuava ad essere il
centro di quel movimento liberale che aveva preso proporzioni abbastanza
considerevoli nell'aristocrazia piemontese, la quale aveva sognato un
momento poter giungere a sostenere presso la monarchia sabauda e presso
il popolo subalpino quella parte moderativa e di dominatrice influenza
che da secoli è tenuta dalla nobiltà del sangue, del merito e del denaro
nell'isola inglese. S'era visto i medesimi Borboni di Francia accettare
una costituzione; perchè non l'avrebbero accettata anco i Savoia? Alcuni
spiriti aristocratici, mossi senza saperlo dalla forza impellente del
progresso, vagheggiavano la distinzione e l'autorità di una _parìa_
ereditaria nella loro famiglia colla guarentigia d'una libera tribuna.
Credevano con questo modo risuscitare sotto forme novelle contro il
trono, il feudalismo schiacciato dalla monarchia assoluta, e non
s'accorgevano che aprivano la strada ad un più forte, nuovo, invasore
potere, quello della libertà che non poteva a meno di far capo alla
sovranità popolare. Ma ciò scorgevano bensì alcuni dei più generosi e
dei più ardenti patrioti; i quali, oltre alle libertà interne miravano
ancora ad un altro sacrosanto scopo; quello dell'indipendenza della
comune patria dallo straniero.
La costituzione in Piemonte, speravano, sapevano, volevano che fosse la
guerra all'Austria; guerra che non si aveva da conchiudere se non colla
cacciata degl'imperiali al di là delle Alpi, ed ardenti giovani
ufficiali, anche di aristocratico sangue, affrettavano coi voti e
volevano affrettare coll'opera questo grandissimo fatto. Santorre
Santarosa, nobile recente, ingegno non comune, degno d'andare fra i
primi in qualunque tempo e presso qualunque popolo per cuore e per forza
di volontà; Santorre Santarosa sapeva e voleva precisamente lo scopo
necessario, legittimo, ultimo di quell'agitazione liberalesca, e
spingeva verso di esso con ogni suo potere.
Ma i più dei nobili ritornati, colla ristaurazione dei Principi, a
riprendere i loro privilegi, le loro cariche, le loro ricchezze,
l'autorità, non capivano come fra i proprii compagni di casta ci fossero
dei matti che, per una, secondo essi, poco illuminata ambizione,
cercassero di cambiare ciò che era il meglio nella migliore delle
monarchie assolute aristocratico-militari, e volessero porre a
repentaglio i vantaggi attualmente posseduti per diritti e politiche
guarentigie, di cui si poteva benissimo fare senza. Codestoro
avversavano accanitamente cotali novatori; e tra essi era de' più accesi
il vecchio marchese di Baldissero, padre di quello che abbiam conosciuto
per capo della famiglia al tempo del nostro racconto. Egli era stato uno
dei più fieri odiatori della rivoluzione di Francia, dell'impero e di
Napoleone; ed odiava ogni novità, come un fanatico inquisitore sapeva
odiare le eresie; aveva seguito il suo re in Sardegna, aveva trovato
crudelissimo quell'esilio e ne aveva accresciuto il rancore ai
_giacobini_ (sotto il qual nome egli comprendeva tutti quanti non la
pensassero esattamente come lui nella strettezza delle sue idee
cattoliche, monarchiche, assolutiste); tornato nel continente con
Vittorio Emanuele, era stato uno dei più caldi ed insistenti a dare
quello sciocco, funestissimo consiglio che fu pur troppo messo in
pratica, di ritenere come non avvenuti gli anni d'interruzione nel regno
di Casa Savoia, di cancellare con un frego tutta la storia della
dominazione repubblicana ed imperiale, e distrutta ogni innovazione,
riprendere e rifare le cose come si trovavano a quel medesimo punto in
cui il Re dovette fuggire innanzi allo spirito rivoluzionario
rappresentato dalle baionette francesi. Ogni progresso legislativo,
politico, sociale, civile fu tolto di mezzo: si volle rievocare la
società del secolo scorso morta e sotterrata: e l'ultimo _Palmaverde_
(annuario di Corte e degl'impieghi) fu preso per norma di distribuzione
delle cariche di cui si spogliarono i titolari per rivestirne gli
antichi, e se morti, i figli loro.
Codesto intrattabile ed accanitissimo nemico di ogni liberalismo odiava
più ancora degli altri quei nobili che accennavano piegare alle idee
moderne. A lui parevano codestoro come apostati e traditori; onde
immaginatevi voi quali non dovessero essere il suo dispiacere e la sua
collera, quando gli parve scorgere che suo figlio, il suo unico figlio
medesimo si intingesse di questa pece.
Era da parecchi mesi a Torino un giovane signor milanese: Maurilio
Valpetrosa. Era bello, geniale, elegante, pieno di brio e di
piacevolezza nella parola, di grazia e di avvenenza nei modi, di buon
gusto nel vestire e in ogni diportamento; ardito e destro ad ogni
esercizio corporeo, cavalcare, schermeggiare, al nuoto, alla danza, al
pallamaglio, allora di moda; generosissimo nello spendere; non inferiore
a nessuno, facilmente superiore ai più in ogni cosa onde possa comporsi
eletta educazione signorile, Venuto nella capitale del Piemonte con
autorevoli ed efficaci commendatizie era stato fin dalle prime
intromesso nella più scelta e titolata società e non aveva tardato a
diventare assiduo frequentatore di quel gruppo di giovani ufficiali,
letterati ed artisti che si raccoglievano nel palazzo Carignano intorno
al giovane principe che doveva fare ammenda del fallo al Trocadero.
L'aristocrazia torinese, difficilissima e assai cauta in quel tempo ad
ammetter ne' suoi salotti in condizioni di famigliarità e d'uguaglianza
chi fra i suoi concittadini non contasse il numero voluto dei _quarti_,
era assai più larga e benigna verso i forestieri; e quando uno venuto di
fuori avesse maniere acconcie, ricchezze all'avvenante, lo accettava
come invitato alle sue feste, e visitatore nelle sue conversazioni,
senza domandargli di più. Codesto non poteva aver tratto di conseguenza;
il forestiero sarebbe partito, recando seco la memoria della forbitezza
di quella società, che quando voleva, sapeva essere veramente squisita,
ed ecco tutto.
Maurilio Valpetrosa venne accolto di questo modo e per queste ragioni. I
denari gli colavano di mano come ad un milionario, aveva una figura da
principe di _conte de fées_, nel suo nome c'era anche un certo profumo,
direi quasi, d'aristocrazia, un titolo non disdiceva nè stonava con
quella sonora riunione di lettere d'alfabeto; s'avvezzarono a chiamarlo
di Valpetrosa, e gli uomini per mangiare le sue cene, fumare i suoi
sigari, averlo allegro compagno nelle loro pazzie, le donne per
sorridere alla maschia di lui bellezza, per lasciarsi incantare dalle
seduttrici parole dette con ispirito dalla sua voce insinuante, non gli
domandarono se potesse provare che i suoi maggiori erano stati alle
crociate.
Con costui il padre di Ettore Baldissero aveva stretto una più intima
attinenza, che quasi poteva dirsi amicizia. Si erano conosciuti
precisamente nelle sale del Palazzo Carignano, e dapprincipio e per
alcuni mesi fra di loro non fu altra attinenza che quella di persone
ammodo fra cui non v'è ragione alcuna di intrinsichezza. Ma ad un tratto
il giovane milanese si pose con tanta insistenza e con tanta gentilezza
a voler acquistare l'affetto e la confidenza del marchese di Baldissero
che impossibile resistergli. E' diventarono gli Oreste e Pilade di
quella nobile società torinese, e i maligni non tardarono a scoprire e
susurrare la causa di questo premuroso zelo d'amicizia nell'elegante e
leggiadro forestiero, quella cioè di accostarsi così vieppiù alla
signorina Aurora di Baldissero, della quale cupidamente bramasse la
beltà eccezionale e la dote vistosamente ricca.
Per quest'ultima parte si calunniava quel giovane, il quale in realtà
era una delle più generose e valenti anime d'uomo che esser possano; ma
quanto all'affetto che in lui avevano acceso la beltà, le grazie,
l'ingegno della nobile fanciulla ch'egli aveva avuto campo di conoscere
e di apprezzare in molti di quei salotti a cui era ammesso; quanto
all'amore che egli ad Aurora aveva consecrato, caldo, insuperabile,
eterno, tutto quello che diceva la gente, e parevano già cose esagerate,
era un nulla appetto al vero.
Valpetrosa amò Aurora con tutto l'impeto di quella sua natura vivace ed
ardentissima; l'amò di quell'amore che, come si esprime Dante: «a nullo
amato amar perdona,» di quell'amore così assoluto, così vasto, così
dominante che di esso non può a meno qualunque donna che assuperbirsi; e
la natura gli aveva concesso, oltre il valore dell'interno, anche quei
fisici pregi esteriori per cui cotale affetto si può a meraviglia
esprimere, eloquentemente significare e con efficacia comunicare. Egli
non aveva ancora parlato alla fanciulla che delle più indifferenti cose
onde si possa occupare il discorso di due che conversino colle stampite
delle cerimonie, e già la giovane sapeva d'essere amata con infinito
ardore, e già quel leggiadro garzone amava ancor essa, senza averlo
voluto, come spintavi da una forza superiore.
Il male si fu che di codesto ebbero ben presto ad accorgersene, come
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- La plebe, parte IV - 39
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- La plebe, parte IV - 41
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- La plebe, parte IV - 51