La plebe, parte III - 39
l'ombra d'una colpa, che le cose dovevano andare di quella guisa, e che
le erano appunto avvenute non ostante ogni suo sforzo per impedirle: ma
egli si sarebbe pienamente e tosto assicurato e risparmiatasi la fatica
di comporre nella sua mente quell'arringa, quando avesse potuto leggere
nell'interno del medichino che questi quella notte medesima aveva
bisogno di lui.
La conferenza fra il _medichino_ e i suoi complici fu piena di glaciale
riserbo. Non un rimprovero, non un'osservazione neppure uscì dalle
labbra del capo supremo. Si verificò l'ammontare delle somme derubate da
Graffigna e da Stracciaferro e se ne stabilì la divisione in parti
acconcie, secondo il grado ed il merito, fra i varii membri
dell'associazione che avevano preso parte al fatto: quindi Gian-Luigi
disse asciuttamente:
— Per ora non abbiamo nulla più da dirci. Separiamoci.
E come tutti si mossero per partire, egli soggiunse con un tono quasi di
comando:
— Voi Graffigna e Stracciaferro fermatevi.
I due interpellati ristettero.
— Ci siamo alla ripassata: pensò Graffigna che si tenne pronto a
sfoderare il suo discorsetto di difesa; ma non ebbe alcun bisogno di
esso, perchè fu di tutt'altro argomento che il loro capo li trattenne a
voce bassa, concitata, quasi fremente. E questo argomento dovette
riuscire moltissimo aggradevole a Graffigna, perchè i suoi occhietti,
che sembravano forati col succhiello, si diedero a brillare d'una fiamma
allegra e vivacissima.
— Ah finalmente! esclamò egli battendo insieme le palme delle mani,
quando il _medichino_ ebbe posto termine al suo dire: questo sì che mi
va!
— La va anche a me! bofonchiò Stracciaferro colla sua voce rauca,
rotando intorno uno sguardo feroce.
Tosto dopo uscirono tutti tre, e l'uno mantenendo una certa distanza
dall'altro, volsero i passi verso una comune direzione — che era quella
della casa di Nariccia.
CAPITOLO XXX.
Erano le due circa dopo la mezzanotte. Torino dormiva immersa nel più
alto silenzio e la strada stretta e tortuosa in cui sorgeva la casa di
Nariccia era d'ogni altra più deserta, più scura, più abbandonata, più
taciturna. Tre uomini s'arrestarono alla porta da via della casa
nominata: il più piccolo e sottile di corpo fra essi trasse fuor di
tasca una chiave bene inoliata ed aprì senza il menomo rumore l'uscio
pesante che chiudeva quella porta; poi chetamente entrarono nell'andito
i tre individui, primo uno di spigliata corporatura, alto di persona, di
portamento elegante e quasi direi autorevole, secondo un omaccione di
forme colossali, pesante nell'andatura, dalle sembianze e dai panni
della più abbietta plebe, ultimo l'omiciattolo che pareva avere ne'
piedi scarpe di feltro, tanto era senza rumore il suo passo guardingo.
Quest'omiciattolo perchè la serratura dell'uscio non venisse chiusa,
fece entrare a forza un picciol cuneo di legno nell'apertura per cui
scattava la stanghetta a molla, poi rabbattè pianamente l'imposta sullo
stipite. Inoltratisi di pochi passi nell'andito, il medesimo piccol uomo
trasse di sotto ai panni una lanterna di quelle chiamate occhio di bove,
la cui luce però poteva accecarsi mercè il giro d'una lastra che serviva
a coprire il vetro, l'accese e passò innanzi a rischiarare i passi dei
suoi compagni.
— Un momento: disse con voce sorda l'uomo dalle sembianze signorili.
Gli altri due si fermarono. Colui che aveva parlato trasse fuori una
maschera di seta nera e se la pose sulla faccia; la qual cosa vedendo,
quel piccolo dal corpo sottile disse a mezza voce, quasi parlando a sè
stesso:
— Eh! ancorchè vedano le nostre bellezze quei due che stanno qui su, non
avranno più tanta salute domani da andare a dire altrui chi fu a far
loro visita stanotte.
Ed un orribile sogghigno sulle sue labbra tirate completò l'orribile
significato di quelle sue parole. L'uomo che s'era messo la maschera non
disse verbo. Ah! ben lo sapeva ancor egli che gl'infelici, ai cui occhi
egli stava per comparire come uno spettro in quell'ora tremenda, non
avrebbero di poi sciolto la lingua mai più; ma pure, in questa, come in
altre simili orribili imprese, a cui aveva già preso parte pur troppo,
egli non voleva che le sue vittime potessero vedere il suo volto, quasi
sperasse con ciò che, non riconoscendolo, non potessero accusarlo al
Giudice Eterno, innanzi a cui stavano per comparire. Quand'ebbe
assicurato ben bene alle sue orecchie i cordoni della maschera, che
lasciava scoperta soltanto la fronte — una pallida fronte solcata in
mezzo da una ruga profonda, — quell'uomo fece silenziosamente cenno ai
compagni proseguissero il cammino. L'omiciattolo entrò innanzi facendo
lume col raggio della cieca lanterna rivolta a terra; salirono col passo
guardingo e sospeso sino al secondo piano e s'arrestarono innanzi
all'uscio chiovato di ferro del quartiere abitato dall'usuraio Nariccia.
Colà quel medesimo della lanterna trasse dalle tasche un piccol mazzo di
chiavi nuove, il cui ferro lucente rimandò con vivo riflesso il raggio
che l'uomo fece cadere sopra loro dall'occhio di bue per sceglierne due
fra esse: queste così trascelte mise egli nelle toppe di quell'uscio
pesante, e col meno rumore che fosse possibile aprì una dopo l'altra le
due serrature chiuse a doppia mandata. Il battente allora chetamente
sospinto cedette alla mano; ma non s'aprì di più della larghezza di
quattro dita; chè un altro ostacolo lo trattenne: era una forte catena
di ferro passata traverso l'uscio e tenuta fra due ganci infissi nelle
imposte.
L'omiciattolo mandò fra i denti una bestemmia, a cui fece eco un'altra
peggiore vomitata dall'omaccione; quello dalla maschera nera si avanzò.
— A codesto non avevi pensato tu: diss'egli a voce sommessa con tono di
rampogna, e il piccolo a cui era rivolta la parola rispose:
— Signor no; ma non monta... Non è quest'io che sia preso mai alla
sprovveduta.
E tratta sollecitamente di tasca una finissima lima, si pose a segare
con essa uno degli anelli di quella catena con tanta abilità quanta può
dare una consumata perizia. In dieci minuti l'anello era rotto e l'uscio
spalancato. I tre individui s'intromisero in quel quartiere come tre
ombre. Questa volta l'uomo dalla maschera entrò l'ultimo, e chiuse
dietro di sè con attenzione il battente dell'uscio.
Nariccia, dopo quell'ultima volta che Gian-Luigi l'aveva visto,
recandogli in pegno i diamanti della contessa di Staffarda, avea sentito
accrescersi il suo malessere, e poco o punto giovamento glie ne avea
recato il farmaco di cui il _medichino_ gli aveva scritto la ricetta. In
quel giorno che era da poche ore finito, egli era stato più male che
mai: aveva avuto delle vertigini, delle soffocazioni, dei granchi alle
braccia ed alle gambe, una debolezza di corpo ed una confusione di
mente, come non aveva provato mai. Postosi in letto di buon'ora, non
aveva fatto che girarsi agitato di qua e di là fra le coltri fino
passata mezzanotte, ed erasi finalmente addormentato da poco di un sonno
pesante, irrequieto, tormentato, pieno di brutti sogni, affannato
dall'incubo che lo faceva gemicolare dormendo. La sua vecchia fante,
Dorotea, aveva offertogli di andare per un medico, di fargli
dell'infusione di camomilla, di passar dallo speziale e richiederlo di
qualche farmaco che gli potesse giovare; ma Nariccia non aveva voluto
nulla, e le aveva comandato di lasciarlo tranquillo; la donna era andata
a coricarsi e non aveva tardato ad addormirsi della grossa.
L'usuraio dormiva adunque, ma come se una parte dell'anima sua stesse
vegliando per avvertirlo quando qualche pericolo s'avvicinasse a
minacciarlo, l'anello della catena che sbarrava l'uscio d'entrata era
appena infrantosi, ch'egli si svegliò in sussulto, nè più nè meno che se
una mano estranea lo avesse riscosso, e si levò a sedere sul letto,
tendendo ansiosamente le orecchie. Non udì nulla, ma pure il suo istinto
avvertiva la presenza d'un nemico. Fece a rassicurarsi da se stesso: le
sue buone serrature erano ben chiuse, ed erano tali che grimaldello
nessuno valeva ad aprirle, la grossa catena di ferro passata traverso i
battenti dell'uscio, questo in complesso così forte che ad abbatterlo
sarebbe stata necessaria una catapulta. Eppure la sua inquietudine non
cessava. A forza di stare coll'animo sospeso e l'orecchio tirato, gli
parve d'udire un fruscio nel corridoio che menava alla sua stanza;
afferrò con mano sollecita un mazzo di fiammiferi che aveva sul tavolino
da notte e ne soffregò uno per accendere il lume. Forse non era che un
topo; forse non era che uno di quei lievi rumori di cui non si può
conoscer la causa, che si sentono la notte nei luoghi abitati,
scricchiolar di legno nei mobili, o un soffio d'aria traverso una
fessura, od uno staccarsi della tappezzeria dalla parete; ma ad ogni
modo voleva vederci chiaro.
— Sacr.....! aveva detto l'omiciattolo che colla lanterna in mano
precedeva i compagni nel corridoio, camminando con piede leggerissimo e
cauteloso; quel birbone indemoniato di Nariccia, mio buon amico, è già
sveglio... Converrà far presto a stringergli il gorgozzule, od egli si
mette a gracchiare da far saltar fuori tutti i casigliani.
Acceso il lume, Nariccia tornò a sentire più spiccato e preciso il
rumore. Non era più un'illusione questa volta, nè poteva avervi dubbio
di sorta: era un passo; il pavimento del corridoio cedeva sotto il piede
pesante dell'omaccione dalle forme erculee.
L'avaro spaventato gettò le gambe giù della sponda del letto per
levarsi, e intanto con quanto ne aveva in gola si mise a gridare:
— Dorotea! Dorotea!... C'è i ladri... Chiamate aiuto... Accorr'uomo!
Accorr'uomo!
L'uscio della stanza si aprì rapidamente, l'omiciattolo guizzò dentro, e
d'un balzo, prima che Nariccia avesse tempo a porre i piedi per terra,
gli fu sopra e lo serrò alla gola. L'avaro lo aveva riconosciuto.
— Graffigna! aveva esclamato: ah misericordia!...
Non aveva potuto soggiungere altro, perchè la mano dell'assassino,
prendendolo alla strozza, non gli lasciava più varco nemmanco al
respiro. Gli occhi spaventati dell'avaro che si empivano di sangue
avevano visto entrare tacitamente, quasi con una cupa solennità, dietro
l'omiciattolo, il colosso dalle forme pesanti e il personaggio dalla
maschera nera; la disperazione, la stessa immensità del grandissimo
terrore diede alle membra di Nariccia una forza straordinaria, quale non
avrebbe pensato neppur egli di avere; liberò il suo collo dalla stretta
della mano assassina, e facendosi a sua volta offensore, piantò le
unghie nella faccia da animal rosicchiante del piccol uomo che lo aveva
assalito. Questi per difendersi dovette lasciar cadere a terra la
lanterna cieca che teneva ancora tra mano; dovette indietrare così che
urtando in una seggiola la mandò a gambe in aria sullo spazzo, mentre
Nariccia riacquistato l'uso della voce, se ne serviva gridando forte
quanto più poteva:
— Dorotea! Dorotea!... Aiuto!... Ai ladri! Agli assassini!...
L'uomo mascherato che, avvolto in un mantello, s'era fermo in sul
limitare, guardando traverso i buchi della larva con occhi che parevan
di fuoco, veri tizzoni d'inferno, s'avanzò d'un passo, e disse con voce
secca e tono di comando:
— Troppo rumore; bisogna finirla.
L'usuraio si riscosse tutto a quella voce.
— Che! esclamò egli: siete voi?.... Gli è Lei?... Ah la riconosco alla
voce, dottore.... Lei non lascierà che si faccia male ad un povero
vecchio.... e suo amico.
— Brigante d'un ladro: bofonchiava con voce di falsetto l'omiciattolo
alle prese con Nariccia, soffiando forte nella fatica di quella lotta
che non avrebbe mai più creduto avrebbe trovato sì aspra: tu riconosci
troppo la gente, e capirai che codesto ci secca al non pisoltra.
L'omaccione moveva in aiuto del suo compagno, quando si precipitava
nella stanza la vecchia Dorotea. Svegliata dalle grida del padrone e dal
rumore della lotta, in quel primo istante di confusione che succede a
chi si desta improvviso, ella non sceglieva il miglior partito che le si
presentasse, quale sarebbe stato di aprir la finestra e gridare per
aiuto, ma sbalordita, senza rendersi pur conto esattamente di ciò che
succedesse, corse dove la si chiamava, incappando nelle mani
dell'omaccione, il quale senza punto esitazioni nè indugi, afferratala
con violenza, la ridusse per sempre al silenzio.
Ma mentre così compivasi la trista sorte della povera Dorotea,
l'omiciattolo continuando nel conflitto con Nariccia, non riusciva,
malgrado ogni suo sforzo, a vincerlo, nè a farlo tacere: egli si volse
quindi al personaggio dalla maschera, dicendogli:
— La mi venga a prestare un colpo di mano... questo corbaccio
impossibile azzittirlo.
L'individuo mascherato ebbe un momento d'esitazione; la sua mossa anzi
espresse la più viva delle ripugnanze, ma la superò tosto e s'avvicinò
con passo frettoloso ai due lottanti.
— Per carità: diceva l'usuraio colla voce arrangolata; mi lascino la
vita... Dottore, per amor di Dio, la vita... No... non l'ho
riconosciuta... non ho riconosciuto nessuno... Non dirò nulla... Lo
giuro sull'anima mia... Mi dicano quello che vogliono... Darò loro
tutto... tutto darò loro... ma mi lascino la vita...
La maschera nera stava sopra ai due che lottavano. Quell'uomo trasse giù
la falda del mantello che aveva gettata sopra una spalla, e fece così
libero alle mosse il suo braccio destro; il mantello aveva affibbiato
dinanzi sotto il risvolto del colletto. Di mezzo alle pieghe del panno
cadente uscì ratta una mano in cui brillava qualche cosa di lucente; e
il misero Nariccia vide sul suo capo un raggio della luce rossigna della
candela ch'egli aveva accesa, riflettersi sopra una lama di pugnale. Con
uno sforzo supremo rigettò l'omiciattolo che più accanitamente gli si
stringeva addosso, la destra protese con violenza contro il nuovo
aggressore ed afferrò dove poteva; un'angoscia d'agonia gli spremeva da
tutte le membra un sudore gelato. Il colpo s'abbassò; ma il misero
assassinato non n'era ancora côlto, che questo colpo erasi fatto
inutile; gli occhi in cui parevasi travasato il sangue torsero
convulsamente le pupille, le guancie, divenute d'un rosso cupo, quasi
violaceo, si contrassero orribilmente, la bocca piegò tutta a sinistra
con una smorfia orribile a vedersi; un suono gutturale uscì da quelle
labbra annerite, e Nariccia, come una massa di piombo, precipitò lungo e
disteso all'indietro, trascinandosi seco l'omicciatolo di nuovo a lui
avvinghiatosi, lacerando e portando seco nella mano stretta come una
morsa d'acciaio il bavero del mantello che aveva afferrato all'uomo
dalla maschera. Il colpo di pugnale misurato al capo, sviato per questa
guisa, cadeva nell'attaccatura del collo alle spalle producendovi
soltanto una ferita poco profonda; ma ciò che non aveva potuto fare la
lama omicida, l'aveva fatto quel colpo apoplettico, cui Quercia aveva
riconosciuto pochi giorni prima minacciare l'esistenza dell'avaro.
L'uomo dalla maschera si curvò sul caduto; ne esaminò un istante i
lineamenti convulsi e disse con accento in cui avreste notato una tinta
di soddisfazione:
— Non siamo noi che l'abbiamo ucciso questo uomo; è l'apoplessia.
Ripulì nella camicia stessa di Nariccia il suo pugnale dal sangue
ond'era lordo, e lo ripose; poi tentò svellere dalla destra di lui quel
pezzo del bavero del mantello ch'egli aveva strappato; ma la mano
dell'usuraio era così irrigidita che gli fu impossibile venirne a capo.
— La non crede vossignoria: disse con voce insinuante, in tono di
falsetto l'omiciattolo: che sarebbe assai bene per maggior precauzione
dargli a questo povero Nariccia, miserabile carcame d'un avaro, qualche
trivellatina da assicurarci compiutamente? Questa razza di birboni ha la
vita così invitiata alle ossa!...
L'individuo mascherato fece un atto di ribrezzo.
— Eh via, diss'egli: non sono i leoni, sono le jene che incrudeliscono
contro i cadaveri.
Si diresse all'omaccione:
— Guarda di aprir la mano di quel morto e togliergliene quello squarcio
di panno... E noi frattanto affrettiamoci al forziere.
Seguìto dall'omiciattolo si recò sollecito nella stanza che serviva di
studio all'usuraio: in un attimo fu aperta la cancellata entro cui stava
la cassa di ferro; e contro le complicate serrature di questa si
cimentarono le chiavi fatte da Andrea. Le servirono a meraviglia; e
pochi minuti bastarono perchè lo adoperarsi dell'omiciattolo, che
mostrava in codesto un'abilità straordinaria, facesse capo al più
favorevole successo. Lo sportello fasciato di ferro venne aperto, e in
quella sopraggiungeva l'omaccione al quale troppo premeva di accorrere
coi compagni ad impadronirsi del bottino.
E questo bottino era veramente tale da far mandare un'esclamazione di
meraviglia, di contentezza, di trasporto ai tre assassini. Enorme era il
valore che loro si offrì agli sguardi in monete, in ori ed argenti
lavorati, in gemme e diamanti. Gli occhi degli scellerati brillarono di
ardentissima cupidigia; e i due che portavano gli abiti della più
abbietta classe sociale, tesero con rapida mossa le mani che tremavano
verso quel tesoro; ma quello dalla maschera li trattenne con una fiera
voce di comando, li trasse in là con una violenta spinta.
— Fermi! gridò: le mani a casa. Tutto questo non è guadagno nostro, è
guadagno comune della associazione. Conteremo a quanto ammonta il
denaro, quanti sieno gli oggetti di valore, e di tutto renderemo conto
ai nostri compagni.
I due seguaci fecero una smorfia di rassegnazione poco volontaria.
— Una sola eccezione devo fare, riprese colui che aveva tutto il
contegno di capo: ed è per quelle buste di gioielli di marocchino rosso
con suvvi una cifra ed una corona impresse in oro. Esse non figureranno
nel conto, perchè ho l'obbligo assoluto di restituirle io stesso a chi
appartengono; e non ci voglio mancare.
Gli altri due si guardarono di sottecchi. Un comune pensiero
manifestavano i loro occhi e le loro faccie: e si compresero
vicendevolmente a meraviglia. Se il capo si prendeva così subito una
tanta parte di bottino esclusivamente per sè, oh perchè non avrebbero
dovuto essi stessi prelevare a loro vantaggio alcuna cosa in
proporzione? Anche l'uomo mascherato li comprese; li guardò in un certo
modo e ripetè seccamente:
— Codesto _lo voglio_; e del fatto mio darò ragione al consiglio.
Nessuno dei due osò ribatter parola.
Il forziere fu vuotato con una regolarità ed un'accuratezza senza pari;
il capo pres'egli stesso e subito le buste di gioielli che aveva, come
udimmo, designate; fatto così all'ingrosso il conto, la preda saliva
intorno alle ottocento mila lire. Avevano aperto tutti i cassetti,
scassinato tutti i ripostigli, rifrugato in ogni cantuccio. In uno dei
più segreti di quegli scompartimenti avevano trovato parecchi fasci di
carte legati da cordoncini; erano la maggior parte lettere di cui alcune
parevano antiche assai dal giallognolo della carta e dallo sbiadito
dell'inchiostro. Non v'era nulla in codesto che dovesse interessare gli
assassini; eppure il capo di essi sentì una strana, inesplicabile
curiosità di sfogliare e scorrere quell'ammasso di scritture. Prese
all'azzardo uno di quei fasci e senza scioglierne il legaccio, diede una
sguardata alle carte: erano contratti in cui Nariccia non aveva mai la
parte del deluso, obbligazioni di poveretti sgozzati dalle esigenze
dell'usuraio, carte di pegno e va dicendo. Se il tempo e il luogo
fossero stati opportuni, quell'uomo avrebbe forse fatto un simile esame
di tutti gli altri fasci; ma i suoi complici, a cui pareva ora che quel
terreno scottasse i piedi, lo pressavano di finirla e partirsi: egli
capì che avevano ragione, pensò un momento di prender seco e portar via
quelle cartacce per esaminarle poi a suo bell'agio, ma sorrise a questo
strano capriccio, e come per levarsene la tentazione rinchiuse l'uscio
del forziere con una certa vivacità. Un fogliolino sottile che forse
erasi staccato da uno di quei fasci maneggiati, sollevato dall'aria
mossa dallo sportello, volò via e andò a cadere per terra non molto
lontano; l'omiciattolo lo raccolse, e quasi sbadatamente se lo pose in
tasca.
Uscirono con precauzione i tre assassini da quella casa in cui avevano
consumato l'orrendo delitto, richiusero pianamente le porte dietro di
sè, e nessuno fu ad udirli, nè ad avvertire in alcun modo la loro
presenza. Erano circa le tre dopo la mezzanotte, e le strade erano
deserte e silenziose come quando erano venuti.
Camminarono solleciti verso la bottega del _Baciccia_, la quale, previi
certi segni di riconoscimento, si aprì loro, e donde passarono senza
indugio in _Cafarnao_. Non avevano scambiato più una parola. Il
_medichino_ aprì il suo gabinetto, e colà in luogo apposito furono
deposti i denari e i gioielli derubati. Gian-Luigi si tolse il mantello,
ed allora si accorse di nuovo dello strappo fatto al bavero, di cui non
aveva più avuto campo a ricordarsi.
— Quel pezzo di panno, domandò egli, l'hai tu levato dalle branche del
morto, Stracciaferro?
— No: rispose questi. Quell'indemoniato lo teneva così stretto nel pugno
che manco una morsa di ferro non fa peggio.
— Sciagurato: proruppe con isdegno il _medichino_. Dovevi piuttosto
tagliare quella mano che lasciare al fisco un tale appiglio
d'indagini.... Meriteresti che ti rimandassi colà, te solo, per non
perdonarti più che quando tu mi portassi quel giusto squarcio.
— Se la lo vuole: disse Stracciaferro rassegnato; io ci vado, ma c'è
troppo pericolo di farmi pigliare.
Il _medichino_ stette un momento in silenzio come riflettendo: quel
mantello, per azzardo, non era manco suo, e chi mai avrebbe potuto
riconoscere che esso apparteneva a Francesco Benda, e che nella casa di
costui egli l'aveva preso quella sera? Egli non poteva pur sospettare
che al di sotto del bavero, in quel pezzo precisamente che era rimasto
in mano dell'assassinato, c'era un contrassegno speciale, le lettere F.
B. trapunte.
Mentre stava così pensieroso, Gian-Luigi, per moto quasi inconscio
d'abitudine, tolse da una custodia apposita un sigaro e se lo pose fra
le labbra: poi si diede a cercare un fiammifero, e Graffigna, zelante e
premuroso di rendersi accetto e mostrare la sua deferenza al superiore,
trasse sollecito di tasca un pezzo di carta, lo rotolò così un poco fra
le mani e lo accese alla lanterna per presentarlo al _medichino_, ma
questi aveva già dato fuoco al suo sigaro e fece un cenno col capo a
significare che più non gli occorreva la fiamma di quella carta.
Graffigna la spense, e da uomo accurato, qual esso era, pose il
fogliolino rotolato e bruciato ad un capo sull'orlo della scrivania.
L'occhio di Gian-Luigi cadde per caso sulle parole che v'erano scritte,
le quali si trovavano nella parte esteriore del foglio spiegazzato, e su
cui il raggio della vicina lanterna cadeva illuminandole distintamente.
Quella scrittura gli fece un vivo e straordinario effetto; prese il
foglio, lo rispiegò e rispianò, guardò ben bene, ed esclamò con un
interesse, una specie di turbamento affatto nuovo:
— Dond'è venuto questo pezzo di carta?
Graffigna gli narrò come fosse volato via dal forziere di Nariccia ed
egli lo avesse raccolto.
— Da Nariccia! Esclamò il _medichino_ con un'espressione indefinibile: e
il suo volto impallidì mentre gli occhi balenarono in istrana maniera.
Si percotè la fronte: guardava quei caratteri come si guarda un enimma,
da cui uom sa che dipende il proprio destino; le sue labbra, quasi
forzate da una spinta superiore alla sua volontà balbettavano:
— La è la medesima scrittura... Sì per Dio, la è quella!
Stracciaferro, che aspettava un'ultima parola per decidere sul da farsi,
interruppe quella meditazione accompagnata da tanto turbamento:
— Ebbene, diss'egli, che cosa debbo fare?
— Lasciatemi: rispose il _medichino_ col tono di un uomo che nulla
desidera più che liberarsi d'ogni compagnia. Ho gravi cose per la mente.
Mi occorre d'esser solo.
Graffigna prese pei panni Stracciaferro, e tirandonelo, gli fece segno
non insistesse dell'altro e lo seguisse. Gian-Luigi chiuse alle loro
spalle l'uscio del gabinetto: poi corse in fretta ad aprire un suo
riposto stipo e da esso trasse fuori un pezzo di carta vecchio e logoro;
era una lettera stracciata a metà per lo lungo: quella colla quale egli
Gian-Luigi era stato messo nella ruota dei trovatelli. Paragonò la
scrittura di quest'ultima lettera con quella del foglio datogli da
Graffigna: erano identiche, erano della mano medesima senza niun
possibil dubbio.
Pareva che la sorte, la quale aveva dato un destino uguale a lui ed a
Maurilio, volesse ora del pari e pel medesimo mezzo e contemporaneamente
far loro scoprire le proprie origini, metterli in grado di rintracciare
le loro famiglie. Il biglietto che era stato trovato addosso a Maurilio
infante era scritto dalla _Gattona_, e quella metà di lettera onde era
stato accompagnato Gian-Luigi era della mano di un tale che
corrispondeva con Nariccia.
Il pezzo di quella carta su cui dovevano essere state la segnatura e la
data del biglietto era stato consumato dal fuoco, e non si poteva veder
più nè l'una nè l'altra; quello che rimaneva di scritto e che Gian-Luigi
lesse con avidità, era del tenore seguente:
«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più
indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per
ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi
prego di ritenerlo alle medesime condizioni; che per l'avvenire
poi.....»
Qui la carta era bruciata e la lettera interrotta.
Chi aveva scritto quelle parole era dunque in molta relazione con
Nariccia; e colui doveva sapere senza dubbio nessuno il segreto della
nascita di Gian-Luigi. Ma forse Nariccia medesimo lo conosceva eziandio
e presentandogli quella metà di lettera avrebbe potuto dire al giovane
derelitto chi fosse suo padre: ed egli tante volte era stato con quel
vecchio usuraio! Una parola sola avrebbe bastato a diradare quelle
tenebre, nè mai questa parola era stata pronunziata! Ed ora Nariccia era
estinto — ed estinto in gran parte per opera di lui Gian-Luigi! —
l'unico capo che forse rimanesse a sciogliere la matassa di quel mistero
era codesto, ed egli lo aveva reciso! Contrattempo e sventura!
Ma quello non doveva essere l'unico foglio che rimanesse a Nariccia di
quelli scrittigli da quell'uomo. Da questo medesimo biglietto che
Gian-Luigi teneva in mano, appariva come fra colui e l'assassinato
corressero seguitate e piuttosto intime relazioni: chi sa che in quei
fasci di carte non ce ne fossero di importanti che riguardassero la
sorte del fanciullo abbandonato? che in esse non si trovasse tanto da
potere egli stesso, Gian-Luigi, penetrare senz'altro nel segreto del suo
destino? Determinò tornare egli solo, di subito, in casa l'usuraio, si
fece dare da Graffigna le chiavi e senza indugio si mosse. Ma quando fu
per entrare nella porta della casa di quell'uomo, ch'egli poche ore
innanzi aveva assassinato, il coraggio glie ne mancò per l'affatto. Si
sentì come respinto da un'invisibile barriera contro cui avesse urtato
il suo petto. Si allontanò di là; tornò facendosi violenza; provò di
nuovo il medesimo effetto; vide alla fine una pattuglia che s'avanzava a
quella volta, e fuggì perdutamente, quasi parendogli che ogni occhio di
uomo dovesse leggergli sul volto il delitto ch'egli aveva commesso.....
Quella sera medesima, che era il lunedì, la contessa Langosco di
Staffarda compariva al ballo di Corte adorna della ricca magnificenza di
tutti i suoi diamanti.
Fine della 3ª parte
le erano appunto avvenute non ostante ogni suo sforzo per impedirle: ma
egli si sarebbe pienamente e tosto assicurato e risparmiatasi la fatica
di comporre nella sua mente quell'arringa, quando avesse potuto leggere
nell'interno del medichino che questi quella notte medesima aveva
bisogno di lui.
La conferenza fra il _medichino_ e i suoi complici fu piena di glaciale
riserbo. Non un rimprovero, non un'osservazione neppure uscì dalle
labbra del capo supremo. Si verificò l'ammontare delle somme derubate da
Graffigna e da Stracciaferro e se ne stabilì la divisione in parti
acconcie, secondo il grado ed il merito, fra i varii membri
dell'associazione che avevano preso parte al fatto: quindi Gian-Luigi
disse asciuttamente:
— Per ora non abbiamo nulla più da dirci. Separiamoci.
E come tutti si mossero per partire, egli soggiunse con un tono quasi di
comando:
— Voi Graffigna e Stracciaferro fermatevi.
I due interpellati ristettero.
— Ci siamo alla ripassata: pensò Graffigna che si tenne pronto a
sfoderare il suo discorsetto di difesa; ma non ebbe alcun bisogno di
esso, perchè fu di tutt'altro argomento che il loro capo li trattenne a
voce bassa, concitata, quasi fremente. E questo argomento dovette
riuscire moltissimo aggradevole a Graffigna, perchè i suoi occhietti,
che sembravano forati col succhiello, si diedero a brillare d'una fiamma
allegra e vivacissima.
— Ah finalmente! esclamò egli battendo insieme le palme delle mani,
quando il _medichino_ ebbe posto termine al suo dire: questo sì che mi
va!
— La va anche a me! bofonchiò Stracciaferro colla sua voce rauca,
rotando intorno uno sguardo feroce.
Tosto dopo uscirono tutti tre, e l'uno mantenendo una certa distanza
dall'altro, volsero i passi verso una comune direzione — che era quella
della casa di Nariccia.
CAPITOLO XXX.
Erano le due circa dopo la mezzanotte. Torino dormiva immersa nel più
alto silenzio e la strada stretta e tortuosa in cui sorgeva la casa di
Nariccia era d'ogni altra più deserta, più scura, più abbandonata, più
taciturna. Tre uomini s'arrestarono alla porta da via della casa
nominata: il più piccolo e sottile di corpo fra essi trasse fuor di
tasca una chiave bene inoliata ed aprì senza il menomo rumore l'uscio
pesante che chiudeva quella porta; poi chetamente entrarono nell'andito
i tre individui, primo uno di spigliata corporatura, alto di persona, di
portamento elegante e quasi direi autorevole, secondo un omaccione di
forme colossali, pesante nell'andatura, dalle sembianze e dai panni
della più abbietta plebe, ultimo l'omiciattolo che pareva avere ne'
piedi scarpe di feltro, tanto era senza rumore il suo passo guardingo.
Quest'omiciattolo perchè la serratura dell'uscio non venisse chiusa,
fece entrare a forza un picciol cuneo di legno nell'apertura per cui
scattava la stanghetta a molla, poi rabbattè pianamente l'imposta sullo
stipite. Inoltratisi di pochi passi nell'andito, il medesimo piccol uomo
trasse di sotto ai panni una lanterna di quelle chiamate occhio di bove,
la cui luce però poteva accecarsi mercè il giro d'una lastra che serviva
a coprire il vetro, l'accese e passò innanzi a rischiarare i passi dei
suoi compagni.
— Un momento: disse con voce sorda l'uomo dalle sembianze signorili.
Gli altri due si fermarono. Colui che aveva parlato trasse fuori una
maschera di seta nera e se la pose sulla faccia; la qual cosa vedendo,
quel piccolo dal corpo sottile disse a mezza voce, quasi parlando a sè
stesso:
— Eh! ancorchè vedano le nostre bellezze quei due che stanno qui su, non
avranno più tanta salute domani da andare a dire altrui chi fu a far
loro visita stanotte.
Ed un orribile sogghigno sulle sue labbra tirate completò l'orribile
significato di quelle sue parole. L'uomo che s'era messo la maschera non
disse verbo. Ah! ben lo sapeva ancor egli che gl'infelici, ai cui occhi
egli stava per comparire come uno spettro in quell'ora tremenda, non
avrebbero di poi sciolto la lingua mai più; ma pure, in questa, come in
altre simili orribili imprese, a cui aveva già preso parte pur troppo,
egli non voleva che le sue vittime potessero vedere il suo volto, quasi
sperasse con ciò che, non riconoscendolo, non potessero accusarlo al
Giudice Eterno, innanzi a cui stavano per comparire. Quand'ebbe
assicurato ben bene alle sue orecchie i cordoni della maschera, che
lasciava scoperta soltanto la fronte — una pallida fronte solcata in
mezzo da una ruga profonda, — quell'uomo fece silenziosamente cenno ai
compagni proseguissero il cammino. L'omiciattolo entrò innanzi facendo
lume col raggio della cieca lanterna rivolta a terra; salirono col passo
guardingo e sospeso sino al secondo piano e s'arrestarono innanzi
all'uscio chiovato di ferro del quartiere abitato dall'usuraio Nariccia.
Colà quel medesimo della lanterna trasse dalle tasche un piccol mazzo di
chiavi nuove, il cui ferro lucente rimandò con vivo riflesso il raggio
che l'uomo fece cadere sopra loro dall'occhio di bue per sceglierne due
fra esse: queste così trascelte mise egli nelle toppe di quell'uscio
pesante, e col meno rumore che fosse possibile aprì una dopo l'altra le
due serrature chiuse a doppia mandata. Il battente allora chetamente
sospinto cedette alla mano; ma non s'aprì di più della larghezza di
quattro dita; chè un altro ostacolo lo trattenne: era una forte catena
di ferro passata traverso l'uscio e tenuta fra due ganci infissi nelle
imposte.
L'omiciattolo mandò fra i denti una bestemmia, a cui fece eco un'altra
peggiore vomitata dall'omaccione; quello dalla maschera nera si avanzò.
— A codesto non avevi pensato tu: diss'egli a voce sommessa con tono di
rampogna, e il piccolo a cui era rivolta la parola rispose:
— Signor no; ma non monta... Non è quest'io che sia preso mai alla
sprovveduta.
E tratta sollecitamente di tasca una finissima lima, si pose a segare
con essa uno degli anelli di quella catena con tanta abilità quanta può
dare una consumata perizia. In dieci minuti l'anello era rotto e l'uscio
spalancato. I tre individui s'intromisero in quel quartiere come tre
ombre. Questa volta l'uomo dalla maschera entrò l'ultimo, e chiuse
dietro di sè con attenzione il battente dell'uscio.
Nariccia, dopo quell'ultima volta che Gian-Luigi l'aveva visto,
recandogli in pegno i diamanti della contessa di Staffarda, avea sentito
accrescersi il suo malessere, e poco o punto giovamento glie ne avea
recato il farmaco di cui il _medichino_ gli aveva scritto la ricetta. In
quel giorno che era da poche ore finito, egli era stato più male che
mai: aveva avuto delle vertigini, delle soffocazioni, dei granchi alle
braccia ed alle gambe, una debolezza di corpo ed una confusione di
mente, come non aveva provato mai. Postosi in letto di buon'ora, non
aveva fatto che girarsi agitato di qua e di là fra le coltri fino
passata mezzanotte, ed erasi finalmente addormentato da poco di un sonno
pesante, irrequieto, tormentato, pieno di brutti sogni, affannato
dall'incubo che lo faceva gemicolare dormendo. La sua vecchia fante,
Dorotea, aveva offertogli di andare per un medico, di fargli
dell'infusione di camomilla, di passar dallo speziale e richiederlo di
qualche farmaco che gli potesse giovare; ma Nariccia non aveva voluto
nulla, e le aveva comandato di lasciarlo tranquillo; la donna era andata
a coricarsi e non aveva tardato ad addormirsi della grossa.
L'usuraio dormiva adunque, ma come se una parte dell'anima sua stesse
vegliando per avvertirlo quando qualche pericolo s'avvicinasse a
minacciarlo, l'anello della catena che sbarrava l'uscio d'entrata era
appena infrantosi, ch'egli si svegliò in sussulto, nè più nè meno che se
una mano estranea lo avesse riscosso, e si levò a sedere sul letto,
tendendo ansiosamente le orecchie. Non udì nulla, ma pure il suo istinto
avvertiva la presenza d'un nemico. Fece a rassicurarsi da se stesso: le
sue buone serrature erano ben chiuse, ed erano tali che grimaldello
nessuno valeva ad aprirle, la grossa catena di ferro passata traverso i
battenti dell'uscio, questo in complesso così forte che ad abbatterlo
sarebbe stata necessaria una catapulta. Eppure la sua inquietudine non
cessava. A forza di stare coll'animo sospeso e l'orecchio tirato, gli
parve d'udire un fruscio nel corridoio che menava alla sua stanza;
afferrò con mano sollecita un mazzo di fiammiferi che aveva sul tavolino
da notte e ne soffregò uno per accendere il lume. Forse non era che un
topo; forse non era che uno di quei lievi rumori di cui non si può
conoscer la causa, che si sentono la notte nei luoghi abitati,
scricchiolar di legno nei mobili, o un soffio d'aria traverso una
fessura, od uno staccarsi della tappezzeria dalla parete; ma ad ogni
modo voleva vederci chiaro.
— Sacr.....! aveva detto l'omiciattolo che colla lanterna in mano
precedeva i compagni nel corridoio, camminando con piede leggerissimo e
cauteloso; quel birbone indemoniato di Nariccia, mio buon amico, è già
sveglio... Converrà far presto a stringergli il gorgozzule, od egli si
mette a gracchiare da far saltar fuori tutti i casigliani.
Acceso il lume, Nariccia tornò a sentire più spiccato e preciso il
rumore. Non era più un'illusione questa volta, nè poteva avervi dubbio
di sorta: era un passo; il pavimento del corridoio cedeva sotto il piede
pesante dell'omaccione dalle forme erculee.
L'avaro spaventato gettò le gambe giù della sponda del letto per
levarsi, e intanto con quanto ne aveva in gola si mise a gridare:
— Dorotea! Dorotea!... C'è i ladri... Chiamate aiuto... Accorr'uomo!
Accorr'uomo!
L'uscio della stanza si aprì rapidamente, l'omiciattolo guizzò dentro, e
d'un balzo, prima che Nariccia avesse tempo a porre i piedi per terra,
gli fu sopra e lo serrò alla gola. L'avaro lo aveva riconosciuto.
— Graffigna! aveva esclamato: ah misericordia!...
Non aveva potuto soggiungere altro, perchè la mano dell'assassino,
prendendolo alla strozza, non gli lasciava più varco nemmanco al
respiro. Gli occhi spaventati dell'avaro che si empivano di sangue
avevano visto entrare tacitamente, quasi con una cupa solennità, dietro
l'omiciattolo, il colosso dalle forme pesanti e il personaggio dalla
maschera nera; la disperazione, la stessa immensità del grandissimo
terrore diede alle membra di Nariccia una forza straordinaria, quale non
avrebbe pensato neppur egli di avere; liberò il suo collo dalla stretta
della mano assassina, e facendosi a sua volta offensore, piantò le
unghie nella faccia da animal rosicchiante del piccol uomo che lo aveva
assalito. Questi per difendersi dovette lasciar cadere a terra la
lanterna cieca che teneva ancora tra mano; dovette indietrare così che
urtando in una seggiola la mandò a gambe in aria sullo spazzo, mentre
Nariccia riacquistato l'uso della voce, se ne serviva gridando forte
quanto più poteva:
— Dorotea! Dorotea!... Aiuto!... Ai ladri! Agli assassini!...
L'uomo mascherato che, avvolto in un mantello, s'era fermo in sul
limitare, guardando traverso i buchi della larva con occhi che parevan
di fuoco, veri tizzoni d'inferno, s'avanzò d'un passo, e disse con voce
secca e tono di comando:
— Troppo rumore; bisogna finirla.
L'usuraio si riscosse tutto a quella voce.
— Che! esclamò egli: siete voi?.... Gli è Lei?... Ah la riconosco alla
voce, dottore.... Lei non lascierà che si faccia male ad un povero
vecchio.... e suo amico.
— Brigante d'un ladro: bofonchiava con voce di falsetto l'omiciattolo
alle prese con Nariccia, soffiando forte nella fatica di quella lotta
che non avrebbe mai più creduto avrebbe trovato sì aspra: tu riconosci
troppo la gente, e capirai che codesto ci secca al non pisoltra.
L'omaccione moveva in aiuto del suo compagno, quando si precipitava
nella stanza la vecchia Dorotea. Svegliata dalle grida del padrone e dal
rumore della lotta, in quel primo istante di confusione che succede a
chi si desta improvviso, ella non sceglieva il miglior partito che le si
presentasse, quale sarebbe stato di aprir la finestra e gridare per
aiuto, ma sbalordita, senza rendersi pur conto esattamente di ciò che
succedesse, corse dove la si chiamava, incappando nelle mani
dell'omaccione, il quale senza punto esitazioni nè indugi, afferratala
con violenza, la ridusse per sempre al silenzio.
Ma mentre così compivasi la trista sorte della povera Dorotea,
l'omiciattolo continuando nel conflitto con Nariccia, non riusciva,
malgrado ogni suo sforzo, a vincerlo, nè a farlo tacere: egli si volse
quindi al personaggio dalla maschera, dicendogli:
— La mi venga a prestare un colpo di mano... questo corbaccio
impossibile azzittirlo.
L'individuo mascherato ebbe un momento d'esitazione; la sua mossa anzi
espresse la più viva delle ripugnanze, ma la superò tosto e s'avvicinò
con passo frettoloso ai due lottanti.
— Per carità: diceva l'usuraio colla voce arrangolata; mi lascino la
vita... Dottore, per amor di Dio, la vita... No... non l'ho
riconosciuta... non ho riconosciuto nessuno... Non dirò nulla... Lo
giuro sull'anima mia... Mi dicano quello che vogliono... Darò loro
tutto... tutto darò loro... ma mi lascino la vita...
La maschera nera stava sopra ai due che lottavano. Quell'uomo trasse giù
la falda del mantello che aveva gettata sopra una spalla, e fece così
libero alle mosse il suo braccio destro; il mantello aveva affibbiato
dinanzi sotto il risvolto del colletto. Di mezzo alle pieghe del panno
cadente uscì ratta una mano in cui brillava qualche cosa di lucente; e
il misero Nariccia vide sul suo capo un raggio della luce rossigna della
candela ch'egli aveva accesa, riflettersi sopra una lama di pugnale. Con
uno sforzo supremo rigettò l'omiciattolo che più accanitamente gli si
stringeva addosso, la destra protese con violenza contro il nuovo
aggressore ed afferrò dove poteva; un'angoscia d'agonia gli spremeva da
tutte le membra un sudore gelato. Il colpo s'abbassò; ma il misero
assassinato non n'era ancora côlto, che questo colpo erasi fatto
inutile; gli occhi in cui parevasi travasato il sangue torsero
convulsamente le pupille, le guancie, divenute d'un rosso cupo, quasi
violaceo, si contrassero orribilmente, la bocca piegò tutta a sinistra
con una smorfia orribile a vedersi; un suono gutturale uscì da quelle
labbra annerite, e Nariccia, come una massa di piombo, precipitò lungo e
disteso all'indietro, trascinandosi seco l'omicciatolo di nuovo a lui
avvinghiatosi, lacerando e portando seco nella mano stretta come una
morsa d'acciaio il bavero del mantello che aveva afferrato all'uomo
dalla maschera. Il colpo di pugnale misurato al capo, sviato per questa
guisa, cadeva nell'attaccatura del collo alle spalle producendovi
soltanto una ferita poco profonda; ma ciò che non aveva potuto fare la
lama omicida, l'aveva fatto quel colpo apoplettico, cui Quercia aveva
riconosciuto pochi giorni prima minacciare l'esistenza dell'avaro.
L'uomo dalla maschera si curvò sul caduto; ne esaminò un istante i
lineamenti convulsi e disse con accento in cui avreste notato una tinta
di soddisfazione:
— Non siamo noi che l'abbiamo ucciso questo uomo; è l'apoplessia.
Ripulì nella camicia stessa di Nariccia il suo pugnale dal sangue
ond'era lordo, e lo ripose; poi tentò svellere dalla destra di lui quel
pezzo del bavero del mantello ch'egli aveva strappato; ma la mano
dell'usuraio era così irrigidita che gli fu impossibile venirne a capo.
— La non crede vossignoria: disse con voce insinuante, in tono di
falsetto l'omiciattolo: che sarebbe assai bene per maggior precauzione
dargli a questo povero Nariccia, miserabile carcame d'un avaro, qualche
trivellatina da assicurarci compiutamente? Questa razza di birboni ha la
vita così invitiata alle ossa!...
L'individuo mascherato fece un atto di ribrezzo.
— Eh via, diss'egli: non sono i leoni, sono le jene che incrudeliscono
contro i cadaveri.
Si diresse all'omaccione:
— Guarda di aprir la mano di quel morto e togliergliene quello squarcio
di panno... E noi frattanto affrettiamoci al forziere.
Seguìto dall'omiciattolo si recò sollecito nella stanza che serviva di
studio all'usuraio: in un attimo fu aperta la cancellata entro cui stava
la cassa di ferro; e contro le complicate serrature di questa si
cimentarono le chiavi fatte da Andrea. Le servirono a meraviglia; e
pochi minuti bastarono perchè lo adoperarsi dell'omiciattolo, che
mostrava in codesto un'abilità straordinaria, facesse capo al più
favorevole successo. Lo sportello fasciato di ferro venne aperto, e in
quella sopraggiungeva l'omaccione al quale troppo premeva di accorrere
coi compagni ad impadronirsi del bottino.
E questo bottino era veramente tale da far mandare un'esclamazione di
meraviglia, di contentezza, di trasporto ai tre assassini. Enorme era il
valore che loro si offrì agli sguardi in monete, in ori ed argenti
lavorati, in gemme e diamanti. Gli occhi degli scellerati brillarono di
ardentissima cupidigia; e i due che portavano gli abiti della più
abbietta classe sociale, tesero con rapida mossa le mani che tremavano
verso quel tesoro; ma quello dalla maschera li trattenne con una fiera
voce di comando, li trasse in là con una violenta spinta.
— Fermi! gridò: le mani a casa. Tutto questo non è guadagno nostro, è
guadagno comune della associazione. Conteremo a quanto ammonta il
denaro, quanti sieno gli oggetti di valore, e di tutto renderemo conto
ai nostri compagni.
I due seguaci fecero una smorfia di rassegnazione poco volontaria.
— Una sola eccezione devo fare, riprese colui che aveva tutto il
contegno di capo: ed è per quelle buste di gioielli di marocchino rosso
con suvvi una cifra ed una corona impresse in oro. Esse non figureranno
nel conto, perchè ho l'obbligo assoluto di restituirle io stesso a chi
appartengono; e non ci voglio mancare.
Gli altri due si guardarono di sottecchi. Un comune pensiero
manifestavano i loro occhi e le loro faccie: e si compresero
vicendevolmente a meraviglia. Se il capo si prendeva così subito una
tanta parte di bottino esclusivamente per sè, oh perchè non avrebbero
dovuto essi stessi prelevare a loro vantaggio alcuna cosa in
proporzione? Anche l'uomo mascherato li comprese; li guardò in un certo
modo e ripetè seccamente:
— Codesto _lo voglio_; e del fatto mio darò ragione al consiglio.
Nessuno dei due osò ribatter parola.
Il forziere fu vuotato con una regolarità ed un'accuratezza senza pari;
il capo pres'egli stesso e subito le buste di gioielli che aveva, come
udimmo, designate; fatto così all'ingrosso il conto, la preda saliva
intorno alle ottocento mila lire. Avevano aperto tutti i cassetti,
scassinato tutti i ripostigli, rifrugato in ogni cantuccio. In uno dei
più segreti di quegli scompartimenti avevano trovato parecchi fasci di
carte legati da cordoncini; erano la maggior parte lettere di cui alcune
parevano antiche assai dal giallognolo della carta e dallo sbiadito
dell'inchiostro. Non v'era nulla in codesto che dovesse interessare gli
assassini; eppure il capo di essi sentì una strana, inesplicabile
curiosità di sfogliare e scorrere quell'ammasso di scritture. Prese
all'azzardo uno di quei fasci e senza scioglierne il legaccio, diede una
sguardata alle carte: erano contratti in cui Nariccia non aveva mai la
parte del deluso, obbligazioni di poveretti sgozzati dalle esigenze
dell'usuraio, carte di pegno e va dicendo. Se il tempo e il luogo
fossero stati opportuni, quell'uomo avrebbe forse fatto un simile esame
di tutti gli altri fasci; ma i suoi complici, a cui pareva ora che quel
terreno scottasse i piedi, lo pressavano di finirla e partirsi: egli
capì che avevano ragione, pensò un momento di prender seco e portar via
quelle cartacce per esaminarle poi a suo bell'agio, ma sorrise a questo
strano capriccio, e come per levarsene la tentazione rinchiuse l'uscio
del forziere con una certa vivacità. Un fogliolino sottile che forse
erasi staccato da uno di quei fasci maneggiati, sollevato dall'aria
mossa dallo sportello, volò via e andò a cadere per terra non molto
lontano; l'omiciattolo lo raccolse, e quasi sbadatamente se lo pose in
tasca.
Uscirono con precauzione i tre assassini da quella casa in cui avevano
consumato l'orrendo delitto, richiusero pianamente le porte dietro di
sè, e nessuno fu ad udirli, nè ad avvertire in alcun modo la loro
presenza. Erano circa le tre dopo la mezzanotte, e le strade erano
deserte e silenziose come quando erano venuti.
Camminarono solleciti verso la bottega del _Baciccia_, la quale, previi
certi segni di riconoscimento, si aprì loro, e donde passarono senza
indugio in _Cafarnao_. Non avevano scambiato più una parola. Il
_medichino_ aprì il suo gabinetto, e colà in luogo apposito furono
deposti i denari e i gioielli derubati. Gian-Luigi si tolse il mantello,
ed allora si accorse di nuovo dello strappo fatto al bavero, di cui non
aveva più avuto campo a ricordarsi.
— Quel pezzo di panno, domandò egli, l'hai tu levato dalle branche del
morto, Stracciaferro?
— No: rispose questi. Quell'indemoniato lo teneva così stretto nel pugno
che manco una morsa di ferro non fa peggio.
— Sciagurato: proruppe con isdegno il _medichino_. Dovevi piuttosto
tagliare quella mano che lasciare al fisco un tale appiglio
d'indagini.... Meriteresti che ti rimandassi colà, te solo, per non
perdonarti più che quando tu mi portassi quel giusto squarcio.
— Se la lo vuole: disse Stracciaferro rassegnato; io ci vado, ma c'è
troppo pericolo di farmi pigliare.
Il _medichino_ stette un momento in silenzio come riflettendo: quel
mantello, per azzardo, non era manco suo, e chi mai avrebbe potuto
riconoscere che esso apparteneva a Francesco Benda, e che nella casa di
costui egli l'aveva preso quella sera? Egli non poteva pur sospettare
che al di sotto del bavero, in quel pezzo precisamente che era rimasto
in mano dell'assassinato, c'era un contrassegno speciale, le lettere F.
B. trapunte.
Mentre stava così pensieroso, Gian-Luigi, per moto quasi inconscio
d'abitudine, tolse da una custodia apposita un sigaro e se lo pose fra
le labbra: poi si diede a cercare un fiammifero, e Graffigna, zelante e
premuroso di rendersi accetto e mostrare la sua deferenza al superiore,
trasse sollecito di tasca un pezzo di carta, lo rotolò così un poco fra
le mani e lo accese alla lanterna per presentarlo al _medichino_, ma
questi aveva già dato fuoco al suo sigaro e fece un cenno col capo a
significare che più non gli occorreva la fiamma di quella carta.
Graffigna la spense, e da uomo accurato, qual esso era, pose il
fogliolino rotolato e bruciato ad un capo sull'orlo della scrivania.
L'occhio di Gian-Luigi cadde per caso sulle parole che v'erano scritte,
le quali si trovavano nella parte esteriore del foglio spiegazzato, e su
cui il raggio della vicina lanterna cadeva illuminandole distintamente.
Quella scrittura gli fece un vivo e straordinario effetto; prese il
foglio, lo rispiegò e rispianò, guardò ben bene, ed esclamò con un
interesse, una specie di turbamento affatto nuovo:
— Dond'è venuto questo pezzo di carta?
Graffigna gli narrò come fosse volato via dal forziere di Nariccia ed
egli lo avesse raccolto.
— Da Nariccia! Esclamò il _medichino_ con un'espressione indefinibile: e
il suo volto impallidì mentre gli occhi balenarono in istrana maniera.
Si percotè la fronte: guardava quei caratteri come si guarda un enimma,
da cui uom sa che dipende il proprio destino; le sue labbra, quasi
forzate da una spinta superiore alla sua volontà balbettavano:
— La è la medesima scrittura... Sì per Dio, la è quella!
Stracciaferro, che aspettava un'ultima parola per decidere sul da farsi,
interruppe quella meditazione accompagnata da tanto turbamento:
— Ebbene, diss'egli, che cosa debbo fare?
— Lasciatemi: rispose il _medichino_ col tono di un uomo che nulla
desidera più che liberarsi d'ogni compagnia. Ho gravi cose per la mente.
Mi occorre d'esser solo.
Graffigna prese pei panni Stracciaferro, e tirandonelo, gli fece segno
non insistesse dell'altro e lo seguisse. Gian-Luigi chiuse alle loro
spalle l'uscio del gabinetto: poi corse in fretta ad aprire un suo
riposto stipo e da esso trasse fuori un pezzo di carta vecchio e logoro;
era una lettera stracciata a metà per lo lungo: quella colla quale egli
Gian-Luigi era stato messo nella ruota dei trovatelli. Paragonò la
scrittura di quest'ultima lettera con quella del foglio datogli da
Graffigna: erano identiche, erano della mano medesima senza niun
possibil dubbio.
Pareva che la sorte, la quale aveva dato un destino uguale a lui ed a
Maurilio, volesse ora del pari e pel medesimo mezzo e contemporaneamente
far loro scoprire le proprie origini, metterli in grado di rintracciare
le loro famiglie. Il biglietto che era stato trovato addosso a Maurilio
infante era scritto dalla _Gattona_, e quella metà di lettera onde era
stato accompagnato Gian-Luigi era della mano di un tale che
corrispondeva con Nariccia.
Il pezzo di quella carta su cui dovevano essere state la segnatura e la
data del biglietto era stato consumato dal fuoco, e non si poteva veder
più nè l'una nè l'altra; quello che rimaneva di scritto e che Gian-Luigi
lesse con avidità, era del tenore seguente:
«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più
indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per
ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi
prego di ritenerlo alle medesime condizioni; che per l'avvenire
poi.....»
Qui la carta era bruciata e la lettera interrotta.
Chi aveva scritto quelle parole era dunque in molta relazione con
Nariccia; e colui doveva sapere senza dubbio nessuno il segreto della
nascita di Gian-Luigi. Ma forse Nariccia medesimo lo conosceva eziandio
e presentandogli quella metà di lettera avrebbe potuto dire al giovane
derelitto chi fosse suo padre: ed egli tante volte era stato con quel
vecchio usuraio! Una parola sola avrebbe bastato a diradare quelle
tenebre, nè mai questa parola era stata pronunziata! Ed ora Nariccia era
estinto — ed estinto in gran parte per opera di lui Gian-Luigi! —
l'unico capo che forse rimanesse a sciogliere la matassa di quel mistero
era codesto, ed egli lo aveva reciso! Contrattempo e sventura!
Ma quello non doveva essere l'unico foglio che rimanesse a Nariccia di
quelli scrittigli da quell'uomo. Da questo medesimo biglietto che
Gian-Luigi teneva in mano, appariva come fra colui e l'assassinato
corressero seguitate e piuttosto intime relazioni: chi sa che in quei
fasci di carte non ce ne fossero di importanti che riguardassero la
sorte del fanciullo abbandonato? che in esse non si trovasse tanto da
potere egli stesso, Gian-Luigi, penetrare senz'altro nel segreto del suo
destino? Determinò tornare egli solo, di subito, in casa l'usuraio, si
fece dare da Graffigna le chiavi e senza indugio si mosse. Ma quando fu
per entrare nella porta della casa di quell'uomo, ch'egli poche ore
innanzi aveva assassinato, il coraggio glie ne mancò per l'affatto. Si
sentì come respinto da un'invisibile barriera contro cui avesse urtato
il suo petto. Si allontanò di là; tornò facendosi violenza; provò di
nuovo il medesimo effetto; vide alla fine una pattuglia che s'avanzava a
quella volta, e fuggì perdutamente, quasi parendogli che ogni occhio di
uomo dovesse leggergli sul volto il delitto ch'egli aveva commesso.....
Quella sera medesima, che era il lunedì, la contessa Langosco di
Staffarda compariva al ballo di Corte adorna della ricca magnificenza di
tutti i suoi diamanti.
Fine della 3ª parte
- Parts
- La plebe, parte III - 01
- La plebe, parte III - 02
- La plebe, parte III - 03
- La plebe, parte III - 04
- La plebe, parte III - 05
- La plebe, parte III - 06
- La plebe, parte III - 07
- La plebe, parte III - 08
- La plebe, parte III - 09
- La plebe, parte III - 10
- La plebe, parte III - 11
- La plebe, parte III - 12
- La plebe, parte III - 13
- La plebe, parte III - 14
- La plebe, parte III - 15
- La plebe, parte III - 16
- La plebe, parte III - 17
- La plebe, parte III - 18
- La plebe, parte III - 19
- La plebe, parte III - 20
- La plebe, parte III - 21
- La plebe, parte III - 22
- La plebe, parte III - 23
- La plebe, parte III - 24
- La plebe, parte III - 25
- La plebe, parte III - 26
- La plebe, parte III - 27
- La plebe, parte III - 28
- La plebe, parte III - 29
- La plebe, parte III - 30
- La plebe, parte III - 31
- La plebe, parte III - 32
- La plebe, parte III - 33
- La plebe, parte III - 34
- La plebe, parte III - 35
- La plebe, parte III - 36
- La plebe, parte III - 37
- La plebe, parte III - 38
- La plebe, parte III - 39