La plebe, parte III - 35

positivo distruggerla per mia opera medesima; non avrei che da lasciarla
schiacciare: le circostanze mi si offrono operatrici esse stesse... non
ho che da volere... non ho che da aiutarle...
Fu scosso come da una specie di brivido. Battè sulla tavola un colpo più
forte del pugnale che vi si piantò, e sorse in piedi per una subita
spinta di irrequietudine. Una voce che pareva estranea gli aveva gridato
all'orecchio quella parola sotto a cui le labbra gli si erano irrigidite
poc'anzi.
— Ma questo è un tradimento!
Andò su e giù della stanza con passo concitato, i pugni chiusi, gli
occhi atterrati, le mascelle contratte.
— Mistero! Mistero! Mistero! gridò egli con una esplosione di rabbia
profonda. Tutto è mistero in noi e fuori di noi. Dicevo che l'uomo è
sempre via via diverso nella successione delle sue ore di vita. Gli è
peggio: esso non è nemmanco mai uno nel suo essere, in un suo momento
d'esistenza. Ecco, in che stanno ora due tendenze, due spiriti, due
individui: l'uno è quello che ha scosso il fastello de' pregiudizi di
quella grettezza di concetto, che gli uomini chiamano superbamente la
morale; l'altro invece si sente riprendere a poco a poco dall'influsso
di quella pretesa legge. Che sarei io, se non avessi infranto mai
codesta legge, e camminato per la mia via ubbidiente all'ordine del
contingente, al concetto dell'umanità presente effettuato nel reale?
Quest'altro Luigi che ne sarebbe restato, io lo sento in me, lo porto
meco in potenza, me lo vedo davanti nel campo oscuro e confuso della mia
coscienza; e sono pur tutt'altro, e penso insieme in due modi diversi, e
quel che voglia non so....
Crollò il capo nell'amaro sorriso dello scettico.
— Stolto! stolto! tre, quattro, cento volte stolto!... Noi non siamo che
un risultamento. Non abbiamo neppure il diritto di chiamarci individui.
L'universo può continuamente su noi, siamo l'opera sua incessante;
materialmente o moralmente esso ci fa e ci disfa, atomi d'un nembo
infinito di polvere, goccie d'un oceano sterminato. Noi non siamo nè una
volontà, nè un disegno prestabilito, nè una monade indivisibile; siamo
un aggregato in un oscillamento continuo de' suoi elementi.... Va al
fondo di tutto questo, distruggi quella misteriosa forza di turbinio che
chiama, agglomera e rigetta via via le varie molecole dell'eterno
ambiente, che cosa ci trovi?... Il nulla!
Entrò nel riposto suo gabinetto che teneva sempre chiuso a chiave.
Accese una dozzina di lumi, che sparsero colà un vivo chiarore rossigno,
trasse da una specie di stipo un portaliquori in cui parecchie
fiaschette di liquidi che a quella luce smagliavano con diversi e
brillanti colori, lo pose sulla tavola innanzi a cui soleva sedere
lavorando, e riempitosi un piccolo bicchierino di un liquore colore di
smeraldo, lo tracannò d'un fiato. Si volse poscia ad una donna, che,
discinta nelle vesti, mezzo nuda il seno, le chiome disciolte, pallida
in viso, ma con occhi ardenti e labbra color di sangue, al veder entrare
il medichino s'era sollevata alquanto della persona, appoggiandosi col
gomito sul sofà dove giaceva distesa, e stava seguitando con isguardo
sottomesso insieme e appassionato il giovane in ogni sua mossa.
— Maddalena! le disse Gian-Luigi con voce metallica, stranamente
vibrante: ho bisogno di stordirmi, ho bisogno d'obliare, non fosse che
un'ora. Questi liquori e tu dovete fare cotal miracolo anche questa
volta... Te ne senti tu capace? Anche tu, povera donna, sei un inconscio
elemento della mia vita. Segui la legge della tua natura e dàmmi quel
che può dare il tuo essere. Il mondo lo chiama vizio e corruzione; lite
di parole: è il frutto dell'albero, quale lo volle l'inconcepibile
azzardo..... Tu non mi comprendi?... Che importa? Ora mi piaci; e ti
basti. Percossa, scacciata da me, tu sei venuta trascinandoti sulle
ginocchia a domandare perdono e la grazia di sedermi ai piedi... Ebbene,
ti accetto, e ti rivoglio. Questo liquore m'inebria... ed anche il tuo
bacio da vampiro, il tuo alito di fuoco m'inebriano..... Sono in faccia
alla sfinge, sono in faccia all'abisso, sono in procinto di lottare
coll'inevitabile... Ho bisogno d'ebbrezza.
Maddalena schiuse le voluttuose labbra al sorriso della Sunamite, e
Gian-Luigi si precipitò fra le braccia che gli si protendevano, quasi
direi palpitanti.


CAPITOLO XXVII.

Siamo alla sera della domenica. Il tempo è freddo e nuvoloso; la città,
non ostante gli accesi lampioni, allora più scarsi che adesso non sieno,
è avvolta nelle tenebre a cagione della densa nebbia che tutta la
ricopre. In Piazza Castello, al fondo della spianata del Palazzo Reale,
questo risplende per tutti i finestroni della luce che mandano i mille
doppieri ond'è internamente illuminato: luce che, per la nebbia traverso
cui è rifratta, diventa all'occhio del riguardante di colore rossigno.
Anche i portici del Teatro Regio sfavillano d'una maggior luce, e sotto
di essi passa, entrando ed uscendone, una doppia corrente di carrozze
che colle loro lanterne dànno immagine d'un'ordinata, lenta processione
di lucciole, il cui fuoco tremola palpitante traverso la nebbia della
notte.
Tutto luce, animazione, sfarzo è nell'interno la sala del teatro
_illuminata a giorno_, brillante per le acconciature elegantissime di
quante più ricche e belle dame contenga l'eletta cittadinanza.
Si aspetta la venuta della Corte che deve comparire fra poco nel Palco
Reale in cui centinaia di fiammelle de' doppieri si riflettono sulle
dorature delle pareti, sull'oro dei ricami delle drapperie di velluto
cremisino.
Il teatro è pieno zeppo di gente, le conversazioni da capo a fondo della
vasta sala, su per ogni ordine di loggie, sono vivacissime, ma non
potreste dire quella essere allegria che agiti quelle numerose teste,
come il vento agita nel campo le rigonfie spighe della messe. È
un'agitazione che ha tutte le arie d'un'aspettativa quasi ansiosa, è
come un sentimento di affanno e di paura istintivo. Di che? Nessuno
forse lo sa ben chiaro: ma si sente qualche cosa nell'atmosfera medesima
che si respira che v'inquieta. Tutto il giorno quella specie di intima
emozione ha dominato la città. Voci vaghe sono corse, piene d'un certo
terrore, misterioso perchè indefinito; fu come se moralmente si sentisse
il terreno vacillare sotto i piedi, accadde allo ambiente degli animi
quello che alla natura, quando appressandosi un temporale, di cui non si
vede neppure ancora la minaccia, già tuttavia si avverte una
inquietudine febbrile anche negli esseri inanimati traverso la campagna.
Questa disposizione degli animi è venuta crescendo. Si temeva che
_avvenisse qualche cosa_, e si aveva una curiosità estrema di
assistervi. Mai il teatro non era stato così gremito di spettatori.
Voltavano le loro faccie aspettanti verso il palco reale che in mezzo a
quella ricurva parete di loggie piene di gente, vuoto ancora, colla
tanta luce che mandava, pareva appunto il campo in cui avesse da venirsi
a scrivere la parola del destino.
Lungo tutta la giornata avevano occupati i viali della città e le più
basse osterie dei sobborghi le turbe degli operai di quasi tutte le
fabbriche, i quali con una meravigliosa intesa avevano intimato ai
padroni la guerra dello sciopero. Nel pomeriggio, alcuni gruppi di
plebei, mezzo avvinazzati, con faccie truci e minacciose, s'erano
avventurati nelle strade perfino della città, tenendosi a braccia,
urtando nel passaggio con villana provocazione i tranquilli cittadini,
sbraitando a squarciagola sciagurate canzonaccie; una frotta di cenciosi
era entrata in uno degli eleganti caffè, s'era fatta servire di quanto
vi aveva di meglio, poi per paga avevano rotto chicchere e bicchieri,
minacciato i garzoni, ed eran fuggiti solamente innanzi alla guardia che
era accorsa. Una nuvola di _arcieri_, di _veterani_ del Comando
militare, di carabinieri e di guardie municipali aveva dato la caccia a
queste squadre di tumultuanti penetrate in città e le avevano facilmente
fatte ritrarsi; ma colà sui viali pareva che temessero ad andarli
perseguitare e disperdere. I buoni borghesi se ne stupivano. Bene
susurravasi che le due brigate di guarnigione avevano tutti i loro
uomini consegnati alle caserme per essere pronti ad ogni evento, e
diffatti non un soldato vedevasi per le vie; ben sapevasi che le guardie
al Palazzo Reale, al Palazzo Madama ed alle quattro porte erano state
rinforzate, ma pure la paura del tranquillo proprietario e del poco
eroico bottegaio si domandava il perchè della tolleranza della Polizia
verso quelle sembianze di riottosi. Erano i primi sintomi
d'un'agitazione rivoluzionaria qualunque che si mostrassero all'aperto
in quella monotonia di sistema repressivo: il Re, dicevasi, n'era
sdegnatissimo; chi poteva recarsi a teatro era ansioso di accorrervi
quella sera per leggere sulla faccia pallida e misteriosa di Carlo
Alberto il riflesso, il ripercotersi, l'effetto di quegli eventi.
Nella folla che si serrava fra le pareti del teatro, c'erano eziandio
molti dei giovani liberali che avevano ordita la trama di quella
temeraria congiura politica per la libertà della patria. Avevano
rinunziato, per le ragioni che sappiamo, al matto loro proposito; ma pur
tuttavia erano accorsi colà dove la scena principale dell'immaginato
dramma politico avrebbe dovuto avvenire, ed essi avervi sì gran parte.
Pensando all'audacissima opera che s'erano assunta, il cuore palpitava
ancora nel loro petto, e forse, nell'intimo, quasi tutti si rallegravano
che la Provvidenza li avesse sciolti, senza lor fallire, dal terribile
impegno. Più che agli altri batteva agitato il cuore a Mario Tiburzio.
Quanto a lui, probabilmente, più tranquillo e' sarebbe stato, se
l'arditissimo disegno avesse avuto da compiersi. La sua fede nel
patriottismo del monarca era troppo ancora recente, e con troppo lieve
forza radicata, perchè il suo animo vi si potesse acquetare.
— Noi abbiamo rinunziato ad una realtà forse, per un'ombra: dicevasi.
Gli tornavano alla mente le parole di Quercia e si domandava se non
aveva questi ragione, se in lui, Mario, non era ufficio, quasi dovere di
patriota, far violenza al destino. Coll'aiuto delle turbe suscitate da
Gian-Luigi, la rivoluzione in Torino avrebbe vinto; le altre città
sarebbero state trascinate dall'esempio; era questa una prospettiva
possibile, più reale e più prossima che non la problematica promessa di
un re, legata a circostanze che forse non si verificherebbero mai. Ora
egli sta per comparire là in faccia a questo re, segretamente impegnato
colla rivoluzione, in apparenza fiero sostegno d'ogni più stretta forma
del passato, consacratosi, nell'ombra, campione dell'indipendenza della
patria, alla luce della vita pubblica e del mondo diplomatico, devoto
amico allo straniero oppressore. Da quelle tavole del palco scenico egli
doveva gridare a quel discendente di principi la parola del popolo, a
quell'erede di tante generazioni nella storia, il motto della
generazione novella in un nuovo ciclo storico che doveva aprirsi; ora
invece gli verrà innanzi a mandargli le note di un canto d'opera.
E pensava a Quercia, al principio ch'esso rappresentava, di cui fin
allora egli non aveva tenuto calcolo a dovere, al suo persistere nella
risoluzione della lotta, malgrado il ritrarsi di lui, Mario, e dei suoi.
Aveva cercato più volte di Luigi affine di tentare ancora dissuaderlo, e
non aveva potuto trovarlo mai; gli aveva scritto e non ricevutane
risposta nessuna. Ora sentiva incomber su di sè una tremenda
responsabilità di quanto fosse per avvenire. Non avrebb'egli dovuto,
poichè da mutuo, solenne impegno eran legati, continuare a correre colla
plebe la sorte medesima? Ma poichè, a suo senno, la riuscita impossibile
e i danni crudelmente inutili, non era obbligo suo l'aver impedito in
ogni modo che la fatal lotta succedesse? Gli elementi del suo giudizio
morale si confondevano così stranamente e penosamente in lui, ch'e' non
ci vedeva più lume. Si diceva che avrebbe dovuto morire coi rivoltosi
che morrebbero; si diceva che avrebbe dovuto rendere impossibile lo
scoppio, anche denunziandone il disegno: egli invece non aveva saputo
che farsi, era stato inoperoso in una indecisione che era forse la
peggiore delle colpe.
Mentre Mario Tiburzio stava tormentandosi di questa guisa nel camerino
dove si vestiva, il teatro empitosi per l'affatto era tutto un
brulichio. Fra gli _habitués_ notavasi chi c'era e chi non c'era.
Mancava la famiglia di Baldissero che aveva dato ad altri il suo
palchetto, ma sapevasi che il figliuolo primogenito del marchese, in
seguito al suo duello, era stato, d'ordine espresso del Re, condotto
agli arresti nella Cittadella, e si capiva quella mancanza dai più,
quantunque alcuni zelanti la giudicassero pur tuttavia quasi una colpa
verso il Re, da parte del vecchio ministro di Stato: c'era invece la
contessa Langosco di Staffarda, alla quale tutti s'accordavano nel
trovare un'aria sempre più originale in quella evidente preoccupazione
onde appariva posseduta.
Luigi Quercia, abbandonatamente seduto nella sua poltrona d'orchestra,
guardava di qua e di là col suo cannocchiale, e scambiava parole allegre
e vivaci coi suoi vicini dintorno, fra cui poco discosto il conte San
Luca. Fuori di quel caldo e splendido ambiente, nella fredda oscurità di
quella notte nebbiosa, stava per giuocarsi una tremenda partita, da cui
dipendeva il suo destino: ed egli era là, sorridente di naturale e
tranquilla gaiezza, con animo così leggiero e mente così libera, come se
di nulla si trattasse. Fino al momento appunto di venire in teatro, egli
ai capi della rivolta raccolti in Cafarnao aveva dato le ultime
istruzioni, ed accomiatandoli aveva detto loro: — «Nel migliore della
danza mi vedrete poi comparire e mettermi a vostro capo.» Li aveva
guardati ad uscire con una strana espressione che pareva di sollievo, e
gli era venuto in mente l'_Ave Caesar, morituri te salutant_ dei
gladiatori, i quali non dovevano uscir più dall'arena che morti. Aveva
fatto dietro di essi un feroce sorriso; e levandosi i guanti che avevano
toccato quelle mani, li aveva gettati per calzarne un altro paio di
nuovi.
Mentre egli discorreva il più lietamente del mondo, di piacevolezze, di
avventure galanti, di arte, di aneddoti più o meno maligni, andava pure
seco stesso pensando: «Or ora incomincia l'azione: farsa o tragedia?
Quei grulli birboni non sanno che in questo momento traggono il dado per
sapere s'e' saranno predoni impiccati, od eroi celebrati nella
storia.... Forse a questo momento la è già incominciata. Ne udremo ben
tosto ripercotersi qui dentro il rumore.»
E con questi pensieri il suo cuore non aveva pur tuttavia un solo
palpito più affrettato, il suo volto non un lineamento scosso dalla
menoma emozione. Ah! egli era fatto veramente per dominare il pericolo e
comandare anco al destino.
Di tratto in tratto egli volgeva il suo cannocchiale verso la contessa
Candida e le faceva un cenno leggerissimo, un fugace ammicco che
conteneva un'assicuranza, una risposta affermativa ad un'ansiosa
interrogazione che gli occhi della contessa con febbrile ardore, come
spinti da una forza oltre la volontà di lei, continuavano a rivolgergli.
Era la continuazione, o meglio la ripetizione d'un dialogo che quel dì
medesimo aveva avuto luogo tra di loro per lettere.
Essa gli aveva scritto, secondo il solito, in francese:
«Non dimenticate, per amor di Dio, l'affare dei diamanti. Io sono in
un'ansietà inesprimibile. Domani mattina, per tempo, fate che io li
riabbia, ve ne prego.
«T'amo sempre alla follia, e più ancora.»
Luigi aveva risposto sulla medesima cartolina profumata, e rimandatogli
per lo stesso messaggiere fedele e sicuro, queste parole pure in
francese:
«Li avrete domani al vostro svegliarvi.
«T'amo del pari.»
Verso le otto e un quarto una nuova agitazione commosse la fitta siepe
di teste che si stipavano in platea; un'onda dalla porta si spinse e
rifluì verso il centro: «È qui il Re» corse di bocca in bocca; tutte le
faccie si volsero in su, verso la loggia reale; i suonatori
nell'orchestra, incravattati di bianco e vestiti di nero, intuonarono la
_marcia d'ordinanza_; nella gran loggia, al centro del teatro, entrò il
Re e presso di lui la Regina, e dietro loro tutta la Corte che s'allargò
in cerchio per la loggia fiammante di luce, come un fiotto di ori e di
gemme, colle sue monture ricamate, collo sbarbaglio delle sue
decorazioni, coi gioielli delle sue dame.
Carlo Alberto si avanzò fino al parapetto, da cui pendeva il tappeto,
largo quanto l'apertura della loggia, di velluto cremisi con suvvi
ricamato in oro lo stemma reale, ed intorno un'alta e grossa frangia
d'oro. Tutte le signore nei palchetti s'erano levate in piedi e fecero
la riverenza: tutti gli uomini in platea, ne' banchi ordinari e ne'
seggioloni d'orchestra, s'erano drizzati del paro e voltati verso la
loggia reale; alcuni applausi, ma freddi, cerimoniosi, senza
spontaneità, suonarono dalle mani inguantate dei nobili e degli
ufficiali dell'esercito, che smaltavano di loro spalline d'argento e
dorate la massa compatta degli abiti neri.
Il Re s'inchinò leggermente, salutando a destra e sinistra con un
cortese cenno del capo; questo saluto fece eziandio la Regina che gli
veniva accosto, mezzo passo più indietro; poi sedettero, il Re in metà,
la sua consorte a destra, e i Principi del sangue a loro lato dall'una e
dall'altra parte; formavano così una linea smagliante in cui
ripercotevano a gara i raggi della luce e i bottoni lucenti delle
monture e le decorazioni che coprivano il petto degli uomini, e i
diamanti che sfavillavano intorno al capo ed al collo della Regina e
della moglie del Principe ereditario. Dietro questa linea, le dame
sedettero in semicerchio presso le pareti della loggia; in piedi,
secondo il rango assegnato dalle leggi supreme della gerarchia e dalla
autorità irrefragabile dell'etichetta, stettero i dignitari dello Stato,
i funzionari di Corte, i brillanti parassiti di vario genere che debbono
dar lustro alla monarchia e vivere dello splendore di essa. Notavansi in
quel gruppo numeroso di divise, di abiti ricamati, di gran cordoni e di
_crachats_, tutti i ministri, S. E. il Governatore di Torino, il
Generale comandante dei Carabinieri, conte Barranchi, l'Intendente
Generale, tutte le Eccellenze possibili ed immaginabili; dietro la
seggiola del Re, a pochi passi di distanza, da poter tosto esser pronto
al menomo cenno sovrano, si teneva rigido, impettito, coll'aria
d'importanza d'un uomo che fa da Atlante ad un mondo, il gran
Cerimoniere di Corte. Egli diffatti regolava tutto quel mondo speciale —
che a lui pareva più rilevante e maggiore dell'intiero universo — col
codice dell'etichetta; per suo cenno passavano e sfilavano i varii
fortunati personaggi a cui la carica o la volontà sovrana dava il
privilegio di poter accostarsi colla persona incurvata alla spalliera
della seggiola reale, udire qualche parola dell'augusto labbro,
risponderne alcuna anche loro nello sprofondarsi in riverenze, e tornare
a perdersi nel serbatoio comune de' cortigiani.
Gli spettatori si erano seduti di nuovo ancor essi e tosto dopo il
telone si era levato per dar principio al secondo atto dell'opera. Mario
Tiburzio era, come si suol dire, di prima scena, e si avanzò verso la
ribalta, precisamente in faccia del Re. Fissò egli lo sguardo in quella
pallida figura che aveva un vago sorriso sulle labbra, una nube di
mestizia sulla fronte e il riflesso d'un segreto ardore negli occhi.
— Eccomi in faccia ancor io all'enimma coronato: pensò l'emigrato
romano. La parola ch'esso disse di sè a Massimo d'Azeglio è la vera?
Pochi degli spettatori e nessuno dei nobili occupanti il palco reale,
facevano attenzione allo spettacolo: e quindi non fu menomamente notata
l'audacia di quella fissità di sguardo dell'umile artista di teatro
verso l'augusta persona di chi sta sopra a tutti e a tutto nello Stato;
ma ben la vide il Re. Svanì dalle sue labbra il sorriso; si accrebbe la
nuvola sulla fronte, si smorzò come dietro un velo la ardenza degli
occhi. Il Re si volse al Cerimoniere di Corte e fece un legger cenno di
richiamo; l'importante personaggio accorse sollecito, il corpo ripiegato
in due.
— Sa Ella dirmi il nome di quel cantante?
Il cortigiano guardò stupito la faccia del Re, da cui non si sarebbe mai
più aspettato una simile domanda, essendo conosciuta da tutti la
profonda di lui indifferenza per le cose dell'arte teatrale, e poi
fissò, aggrottando le sopracciglia, quel miserabile di un artista che
aveva l'onore di destare la curiosità sovrana.
— Non lo so davvero. Maestà, rispose: non è del resto che una seconda
parte...
— Voglio sapere come si chiama: disse il Re.
— C'è qui il Presidente della R. Direzione dei Regi teatri; e certo egli
potrà soddisfare al desiderio di V. M.
— Lo faccia venire.
Il Gran Cerimoniere indietrò di alcuni passi, la faccia sempre volta
alla spalliera della seggiola del Re, la schiena orizzontale; poscia si
drizzò, e visto nel mazzo dei ricamati e decorati il nominato
Presidente, gli fe' segno di accostarsi.
— S. M. desidera parlarle: gli disse.
Il personaggio così chiamato s'avvicinò a sua volta nella medesima guisa
al Re, il quale gli fece la domanda rivolta poc'anzi al signor
Cerimoniere.
— Si chiama Medoro Bigonci, rispose il Presidente: è secondo baritono, e
fa eziandio da supplimento al primo. Ha dei mezzi naturali, buona voce,
manca di studio, fa inappuntabilmente il suo dovere.
Carlo Alberto avevasi recato agli occhi il cannocchiale ed onorava d'un
particolare esame il giovane artista.
— Ha un aspetto ardito molto: diss'egli. È romano, non è vero?
— Sì, Maestà.
— Fu arrestato pochi giorni sono...
— Sì, Maestà, per un equivoco, ma il conte San Luca, e S. A. R. il
Principe di Lucca chiarirono la sua innocenza, e fu tosto rilasciato.
Carlo Alberto fece il suo strano e misterioso sorriso; ad un tratto,
come se per l'associazione di idee gli fosse venuto un nuovo e diverso
pensiero, abbassò il cannocchiale e disse al cortigiano:
— Preghi il conte Barranchi di venirmi a parlare.
Diede con un lieve cenno di capo il congedo al Presidente della nobile
Direzione teatrale; e questi rinculò, come aveva fatto il Cerimoniere,
per allontanarsi. Fece l'imbasciata al generale Barranchi che recò
sollecito i cordoni argentati del suo uniforme, lo sbarbaglio delle
decorazioni che gli occupavano tutto il petto, ad inchinarsi alle spalle
del Re.
— Conte, gli disse questi; sa Ella darmi notizie dell'avvocato Benda?
La domanda riuscì così strana ed inaspettata al signor generale che non
ebbe di subito parole fatte per la risposta; il Re lo guardò stupito
della tardanza di questa, e lo sguardo reale gli diede subito
ispirazione e voce.
— Sì, Maestà, s'affrettò a dire. Sta meglio, sta molto meglio: è in fin
dei conti cosa di poco momento.
— Mi fu detto invece, disse lentamente il Re, che la fosse una ferita
gravissima.
— Pareva da principio, ma poi...
— Godo assai che sia com'Ella dice; e se il signor Benda guarisce presto
e agevolmente, ciò vorrà di tanto migliorare la condizione del marchese
di Baldissero innanzi a' suoi giudici.
Barranchi mostrò tanto stupore nella sua faccia da tracotante atteggiata
ora all'umiltà ossequente di cortigiano, che il Re si compiacque di dare
più ampia spiegazione del suo pensiero.
— Com'Ella sa, conte, io ho pubblicato un Codice Penale, in cui il
duello è punito quale reato.
— Ma il figliuolo del marchese?..... susurrò Barranchi.
— Il figliuolo del marchese è un suddito come un altro, che non è per
nissun modo al di sopra delle leggi.
Il generale ebbe tuttavia l'ardire di soggiungere:
— Credevo che gli arresti...
E Carlo Alberto, interrompendolo con una certa vivacità:
— Gli arresti glie li abbiam fatti intimare come nostro gentiluomo di
Corte, e quindi soggetto ad una disciplina di obbedienza al nostro
volere (cui noi gli avevamo fatto specialmente conoscere) e ch'egli ha
audacemente infranto. Ciò però non lo assolve di dover rispondere
all'Autorità competente della sua violazione della legge. Desidero anzi
che sia dato un esempio, perchè si conosca che chi nella gerarchia
sociale è più vicino al Trono, deve mostrarsi ed essere di tanto più
zelante nell'ossequio alla legge.
Fece il piccol cenno di capo che equivaleva al congedo, e il conte,
camminando a ritroso, andò a nascondere il suo stupore, per quelle
parole del Re, fra la giubba ricamata d'un ciambellano e l'uniforme d'un
aiutante di campo.
— Questa sera il Re è di cattivo umore, mormorò egli all'orecchio del
ciambellano.
L'atto dell'opera era finito e passava l'intermezzo fra questo e
l'azione coreografica, quando ad un tratto un certo movimento si
manifestò nella massa dei corifei e delle comparse di Corte che riempiva
la loggia reale, e questo movimento rapido si propagò nel resto del
teatro, crescendo di vivezza e d'intensità, d'uno in altro ordine di
palchi e fino nel mare onduloso di teste della platea. Che cosa era
avvenuto?
Qualcheduno degli staffieri s'era presentato alla soglia della loggia
reale ed aveva detto poche parole a quello de' suoi compagni che stava
là impalato, a due passi dalle _Guardie del Corpo_ in sentinella. Questi
s'era inoltrato ed aveva parlato a sua volta piano ad uno scudiere, che
era andato dal Ministro degl'interni a trasmettergli, come
un'ambasciata, le parole che aveva udite, le quali erano le seguenti:
— C'è costì nella galleria un messo che dice avere gravi ed urgenti cose
a comunicare a S. E. il Ministro degl'interni intorno a tumulti che
hanno luogo in un punto della città.
La novella parve abbastanza interessante a S. E. perchè s'affrettasse ad
uscire della loggia ed a recarsi colà dove il messo aspettava. Era un
agente particolare addetto al servizio segreto del Ministro; e il suo
aspetto scalmanato, il respiro affannoso e la faccia turbata dicevano
abbastanza fin dalla prima il peso delle novelle che arrecava.
Non erano due minuti che il Ministro aveva lasciato la loggia reale,
quando da parte di lui venivano sollecitamente pregati a venire nella
galleria, dov'egli li attendeva il Governatore di Torino e il Generale
dei Carabinieri.
— Che cos'è? Che cos'è? si domandarono dall'uno all'altro i cortigiani e
le dame, vedendo uscire a quel modo con una certa premura gl'indicati
personaggi.
Lo scudiere che aveva trasmessa al Ministro l'imbasciata parlò di
novelle gravi di tumulti che stavano avvenendo nella città, e siccome
nessuno ne sapeva dare i particolari, la cosa, secondo quel che sempre
suole, prese tosto nell'immaginazione di chi diceva ed ascoltava, le
maggiori proporzioni. La grandissima curiosità suscitatasi faceva
friggere i nobili nervi dei cortigiani e delle dame, e sarebbero di
sicuro corsi tutti quanti dietro le LL. EE. a cercare di apprendere
tutta la verità, se non fossero state a tenerli colà le catene — d'oro,
se volete, ma sempre salde — dell'etichetta e del cerimoniale di Corte.
Qualche uffizialetto sgattaiolò fuori della loggia reale e corse, per
avere il merito d'esser il primo, a recare l'importante novella nel
palchetto di alcuna nobile signora alla moda, assiepata da visitatori.
Ciò bastò perchè in un attimo la notizia circolasse in tutto il
second'ordine dei palchi, si trasmettesse al primo ed al terzo, salisse
fino alle alte regioni del quarto e del quinto.
Ed anco in platea non tardava a penetrare e spargersi il tristo
annunzio. Qualcheduno era pur sopraggiunto dal di fuori che aveva
recato, una turba immensa, migliaia e migliaia di rivoltosi avere
assalito, saccheggiato, incendiato, tre, quattro, tutte le fabbriche che
si contavano nei sobborghi e nelle vicinanze di Torino, ed ora quelli
indemoniati, avanzarsi, vincitori, trionfanti, ebbri di liquori, di
ferocia e di bottino, verso l'interno della città.
Se nel cortèo reale, fra i titolati e decorati _mannechini_ di Corte,
l'emozione era frenata e doma dalla legge infrangibile dell'etichetta,
questa ragione non esistendo più per la folla degli spettatori stipati