La plebe, parte III - 25
i supplizi dei patrioti che gl'impongano l'interesse del suo assolutismo
ed il comando dell'Austria.
Romualdo ribattè, non senza qualche vivacità, che così poteva esser
benissimo, ma che avrebbe potuto esser vero eziandio il contrario, cioè
che il Re di Piemonte in buona fede abbracciasse il partito della
nazione, poichè un uomo come Massimo d'Azeglio si lusingava che ciò
avesse da avvenire; che per la lealtà e pel patriotismo dell'Azeglio
Mario medesimo aveva dichiarato avere tanta stima e tanta fiducia da non
poterlo suppor mai ingannatore; e i suoi talenti e la sua esperienza
degli uomini e delle cose facevano quell'egregio assai difficile ad
essere ingannato; che dunque, senza voler per quel momento prendere e
nemmanco discutere alcuna risoluzione in proposito, era da aspettarsi di
sapere il risultamento del colloquio di Massimo col Re, e su questo
risultamento aggiustar poi la loro condotta, se andare innanzi come se
nulla fosse avvenuto, oppure adottare altri propositi.
— Ma ciò è impossibile: aveva interrotto a questo punto Mario Tiburzio
colla sua foga da tribuno. Pensa che il segnale è partito, che quasi è
materialmente impossibile fare pervenire a chi si dovrebbe un cenno
contrario. Il dado è gettato, vi dico, e conviene correr la sorte. Che?
Gli altri insorgerebbero, e noi eccitatori loro in gran parte, staremmo
cheti a vedere? Andrebbero a morire i nostri compagni, i nostri
fratelli, e noi, in virtù dell'accortezza di combinazioni politiche
impossibili, staremmo in salvo riserbandoci per altre occasioni che non
verranno mai più?... Ma cotal pensiero, sappi, Romualdo, fu quello che
mi tormentò in tutta questa fatale giornata trascorsa, fu quello che
delle poche ore di carcere mi fece un inferno. Come! Gli altri
combatterebbero in nome d'Italia e della libertà; e noi nulla! Il nostro
disegno è così strettamente concatenato che il fatto d'ogni parte deve
concorrere al successo del tutto, e noi lascieremmo mancare alla santa
opera, alla salute dei nostri, a quella della patria, l'aiuto della
parte che ci tocca, che ci siamo assunta?...
— E se tutta si potesse arrestare quella gran macchina che si è
congegnata ed a cui si sta per dar la mossa? soggiunse Romualdo. Credi
tu che a ciò non potrà aiutarci colle sue infinite attinenze Massimo
d'Azeglio medesimo?
Mario Tiburzio uscì di casa gli amici per nulla scosso nella sua fiera
risoluzione: non diniegò tuttavia di sentir poi le parole dell'Azeglio,
e si avviò taciturno, concentrato in se stesso a quel suo secondo
alloggio dove si nascondeva e dove aveva bisogno di trovarsi solo per
meditare. A dispetto della forza della sua volontà e della tenacia de'
suoi propositi, sentiva in sè una specie di amarezza che era come un
rilasciamento di quel vigore che aveva sin allora posto nell'opera, un
dubbio maggiore di quanti avesse avuto ancora mai, una specie di
scoraggiamento. Gli pareva sentirsi mancare intorno gli elementi
d'azione, sotto i piedi il terreno, nelle mani la forza: Titano della
libertà, dopo aver creduto di essere riuscito a sovrapporre monte su
monte per dar l'assalto all'olimpo della tirannia, sentiva ora che
quella base su cui erasi fondato, gli crollava di sotto, prima ancora
che l'avessero colpita de' loro fulmini il Giove austriaco e i suoi Dei
minori, i principi della misera Italia. Le parole e i contegni dei più
fidi amici suoi, de' più valorosi tra' suoi complici gli erano un
ammonimento. Certo, non ostante i dubbi e le riserve da loro ultimamente
manifestati, questi amici non avrebbero mancato, egli ben lo sapeva;
anche colla certezza di soccombere sarebbero camminati al pericolo; ma
la fiducia nel trionfo veniva mancando in essi, ciò indovinava, ciò
scorgeva Mario Tiburzio, il quale non ignorava come la fede nella
vittoria sia in ogni dove e sempre elemento principalissimo per
ottenerla. Ma ciò che succedeva in quelli de' più accesi fra i liberali,
che più vicino contatto avevano con esso lui, perch'egli potesse
comunicar loro quell'ardore e quella fede che lo animavano: ciò stesso
doveva pure avvenire degli altri ed era presumibile che in tanto
maggiori proporzioni, quanto difficilmente, nella generalità, si
vantaggiavano di anime d'una tempra sì forte ed erano da quel focolare
di patriotica fiamma lontani.
Era come un mesto presentimento il suo, ma un presentimento che doveva
avere ben tosto ragione.
Nel recarsi verso la sua dimora, quantunque assorto in cosiffatti
pensieri, tuttavia, per abitudine omai inveterata di uomo che deve
badare continuamente alla sua sicurezza su cui da un momento all'altro
può incombere un pericolo, Mario Tiburzio scrutava con occhio attento i
luoghi che percorreva, esaminava, senza che apparisse, le persone che
passavano. Già era egli giunto presso la casa a cui era diretto, quando
s'accorse che un individuo cautamente lo veniva codiando, dopochè
incrociatolo nel suo passaggio lo aveva osservato attentamente. Mario
non dubitò punto che quella non fosse una spia, e volendo senz'altro
appurare la cosa, si volse indietro e camminò risolutamente verso
quell'uomo. Questi parve esitare: si guardò sollecito dintorno, come se
cercasse una via di scampo o volesse vedere se c'era qualcheduno da
poterli osservare, rallentò il passo, ma non ischivò l'incontro di
Mario, e quando si trovò presso di lui tanto che il panno della sua
manica radeva il mantello dello emigrato romano, egli levò le mani che
teneva nelle tasche del suo soprabito e fece rapidamente con esse un
certo segno, al vedere il quale Mario rasserenò di botto la sua
fisonomia. Guardò egli pure dintorno se qualcuno li osservasse, e
rassicurato su questo punto, rispose con altro segno, e poi, come se di
nulla fosse, tornò a volgere i suoi passi nella direzione che aveva
prima, entrò innanzi allo sconosciuto con passo nè più tardo nè più
sollecito, e quell'altro lo venne seguitando lentamente dalla lungi.
Giunto alla porta che metteva nel quartierino che sappiamo, Mario diede
ancora una ratta sguardata intorno a sè, e visto nulla che potesse
destare il menomo sospetto, entrò nell'andito, dove si fermò ad
aspettare. Non tardò ad essere raggiunto da quell'incognito. I due
uomini si guardarono ben bene entro gli occhi, e si chiarirono che non
si eran visti mai; allora Mario fece alcuni nuovi segni, a cui l'altro
rispose col medesimo linguaggio; poi lo sconosciuto si curvò
all'orecchio di Mario e pronunziò una parola che doveva essere un motto
di riconoscimento.
Tiburzio fece un cenno del capo, che pareva un'affermazione: pose una
mano sulla spalla di quell'uomo, e gli disse con accento sommesso ma
quasi solenne:
— Venite.
Lo introdusse nella sua riposta cameruccia. Là tenendogli fissi in
faccia i suoi occhi grifagni, Mario lo interrogò:
— Chi siete?
Quell'uomo disse dell'esser suo. Era un commesso viaggiatore d'una casa
commerciale della media Italia, il quale, affigliato alle cospirazioni,
serviva di comunicazione fra i congiurati dell'una e dell'altra città,
schivando così i sospetti delle polizie.
— Chi vi manda?
Invece di rispondere il messo trasse di tasca una lettera suggellata in
un modo particolare e senza dargliela nelle mani, mostrò a Tiburzio la
scrittura dell'indirizzo.
— Conoscete questo carattere? diss'egli.
Era quello d'uno dei capi principalissimi della vasta congiura nel quale
si raccoglievano i fili della trama di tutta l'Italia mediana ed
inferiore.
— Lo conosco... Gli è _lui_ che vi manda?
Il viaggiatore fece un cenno affermativo.
— Vedo che quella lettera è diretta a me.
L'altro ripetè il cenno affermativo, ma non gli diede tuttavia la
lettera.
— È stato _lui_ che vi ha indirizzato a questo luogo?
— Sì.
— Mi conoscevate di persona?
— No.
— Come dunque mi avete ravvisato per istrada?
— Mi furono detti esattissimi connotati che vidi rispondere a capello
colla vostra persona. Sapevo che dovevate rientrare verso quest'ora. Vi
riconobbi quasi per un istinto.
— Va bene. Sapete voi quello che mi si scrive costì?
— No.
— Datemi adunque la lettera.
— Attendo ancora...
— Che cosa?
— Che voi pronunziate una parola.
Fu la volta per Mario di chinarsi all'orecchio del suo interlocutore e
di pronunziare un motto.
Appena uditolo, il messo s'inchinò e gli pose in mano senz'altro la
carta ripiegata e suggellata.
Mario Tiburzio esaminò ancora ben bene i caratteri della soprascritta ed
i suggelli, poscia rotti questi con una vivacità ansiosa, lesse
avidamente. Il suo volto si rimbrunì a seconda ch'egli proseguiva nella
lettura; un'imprecazione di rabbia, che egli mozzicò pur tuttavia fra i
denti, gli sfuggì dalle labbra contratte; la sua mano spiegazzò in un
moto di collera la carta che teneva; come a dare alcuno sfogo alla
subita interna passione in lui suscitatasi, fece concitatamente due o
tre giri per la stanza, le braccia incrociate al petto, la testa china.
Non tardò a riprendere il dominio di se stesso, benchè la tempesta gli
ribollisse ancora furibonda nell'animo; parve tornato affatto in calma;
si fermò, rispiegò la lettera che teneva stretta nella mano chiusa a
pugno e la rilesse attentamente; poi sollevò adagio il suo viso un po'
impallidito, su cui v'era un lieve sogghigno di sdegnoso disprezzo.
— E sta bene: diss'egli, come parlando a se stesso: penserò a quel che
mi resta da fare.
Accompagnò fuori il messaggiero, e poi, tornato a rinchiudersi nella
camera, si buttò a sedere presso al tavolino dove soleva lavorare, e si
affondò in una dolorosa meditazione.
In quella lettera fatale gli si scriveva da quello che era principal
capo della congiura nel resto d'Italia, come dopo le ultime buone
novelle mandategli (novelle che abbiam visto far decidere Mario e i suoi
amici all'ultima prova), le cose erano cosiffattamente cambiate che si
affrettavano a dargliene avviso, perchè tutto si mettesse in sospeso.
Mentre pochi giorni prima eragli stato scritto che tutto era pronto, ora
lo si ammoniva che in tutta Toscana e in quasi tutta l'Italia
meridionale non c'era più da contare sopra la insurrezione; alcuni dei
capi erano stati arrestati dai governi, forse messi in sull'avviso da
qualche traditore; alcuni s'erano salvati colla fuga, andando ad
accrescere l'infelice schiera degli esuli in Francia; la maggior parte
anco dei congiurati era giù dell'animo, il volgo stanco, spaurito,
ignorante, poco propizio a novità cui aveva sempre visto fino allora
apportatrici di maggiori tormenti. Esserci solo da contare ancora su
qualche località delle Romagne, quantunque gli ultimi casi di Rimini
avessero colà pure smaccato gli animi; doversi per conseguenza
conchiudere che più della prudenza la necessità consigliava, imponeva
sospendere per allora ogni tentativo di movimento, contentarsi a serrare
il meglio possibile i fili della trama e confermando nella fede e
nell'ardore della religione della patria i generosi che avevano dato il
nome alla congiura, aspettare più propizie occasioni; ciò si
affrettavano a comunicargli, affinchè, come già nelle altre parti
d'Italia s'era fatto, Mario anco in Piemonte disponesse a raffrenare
ogni moto; la medesima comunicazione dicevasi inviata contemporaneamente
al Comitato di Parigi perchè anch'egli provvedesse.
Mentre il nostro capo della congiura scriveva da parte sua agli altri
che il tempo era venuto dei supremi cimenti, che non si doveva
indietrare, nè indugiar più, ed assegnava il giorno a quella lotta
audacissima a cui tutti parevano anelare ed egli si lusingava che
veramente anelassero, mandavasi dagli altri l'annunzio che lo
abbandonavano in quella sublime follìa, e i suoi cenni per determinare
il momento dello scoppio alla mina dovevano arrivare quando già erano
rimosse le polveri, già spenta la fiaccola che doveva incendiarle.
Mario percosse col pugno chiuso la tavola che aveva dinanzi.
— Siamo una stirpe di codardi, dal sangue degenerato nelle vene,
degradati figliuoli di padri valorosi le cui ombre arrossiscono di
vergogna. Siamo da meno della decaduta Spagna, della corrotta Grecia.
Colà almanco il popolo ha mostrato saper morire per la libertà della
patria: e qui... qui un popolo di servi che si curva sotto il bastone,
non sa neppure d'aver una patria!...
Quando il mattino seguente, Romualdo, ricevuto il bigliettino di Massimo
d'Azeglio, s'affrettò a recarsi da Mario, trovò costui calmo, ma immerso
in una mestizia profonda, colle traccie sul volto d'una notte
dolorosamente vegliata.
— Che avvenne? domandò Romualdo con inquietudine ed interesse.
— Lo saprai fra poco: rispose Tiburzio con voce in cui non era la
simpatica vibrazione del solito suo calore di accento. E tu che mi
rechi?
Romualdo gli porse la lettera dell'illustre scrittore piemontese. Mario
la lesse, e senza mostrare in nessun modo l'impressione ch'egli ne
ricevesse, disse tranquillamente, restituendola all'amico:
— Andiamo adunque dall'Azeglio, poichè ci chiama.
Quando furono per mettere il piede fuori dell'uscio, Tiburzio arrestò il
suo compagno posandogli una mano sul braccio.
— È strano un popolo che per riconquistare la sua libertà si fa a
supplicare i principi che l'opprimono perchè glie la concedano e glie la
rivendichino essi stessi: disse con amara ironia. Non importa; andiamo a
vedere se quell'onest'uomo di Massimo ci vorrà star garante della
possibilità di tal miracolo.
Non disse più una parola, finchè i due giovani comparvero, come abbiamo
visto, alla presenza dell'Azeglio, il quale erasi mosso loro
all'incontro.
— Signori, cominciò senz'altro l'illustre scrittore: questo giorno conta
per me come uno dei più importanti della mia vita, ed ho speranza che
debba contare eziandio per importantissimo nella storia d'Italia. La
benigna fortuna, me, sincero ma umilissimo amator della patria, volle
fare stromento di uno dei maggiori fatti che si potessero compire in
beneficio della nostra terra: l'alleanza col partito nazionale della
monarchia militare del Piemonte.
E qui, con tutta l'esattezza e il calore provenienti dalla freschezza
delle impressioni ricevute, Massimo d'Azeglio ripetè i discorsi avuti
col Re e le solenni parole da esso pronunciate.
— Ed Ella crede? domandò con vivacità Mario Tiburzio.
— Il cuore lo vede Iddio: rispose gravemente l'Azeglio: noi uomini
dobbiamo argomentare colla scorta della povera nostra ragione. Nelle
sembianze, nell'accento, nello sguardo di Carlo Alberto, io ho creduto
notarci la sincerità; nella sua generosa ambizione, nelle tendenze
manifestate dalla sua giovinezza, nell'interesse medesimo della sua
dinastia, io credo vederci argomenti non ispregevoli di fiducia. E
poi..... parliamoci schietto. Abbiamo noi altri mezzi di fondate
speranze di probabile riuscita, fuor questo?... Le infelici insurrezioni
del passato non vi hanno ancora aperti gli occhi?... Fin quando vorremo
avventurare il sangue dei più generosi cittadini in lotte troppo
ineguali, di certissima sconfitta?... Inoltre, combattendo contro i
Principi nostrani è sempre una guerra civile quella che noi facciamo;
perchè non preferiremmo di combattere coi soldati di Carlo Alberto,
sotto le bandiere di questo Re contro lo straniero?
— Si lo faremo: proruppe Romualdo. Venga l'occasione soltanto, e noi,
più lietamente che nella sommossa, daremo la nostra vita sui campi di
battaglia... Io credo in Carlo Alberto poichè Ella sig. d'Azeglio ci
crede.
Mario non disse una parola: teneva curva la testa, chini a terra gli
occhi, serrate le labbra, contratte le mascelle; si vedeva che
un'interna passione lo rodeva, che una lotta avveniva in lui con crudo
travaglio dell'animo suo.
— E spero che tutta Italia crederà in esso: esclamò Massimo con calore;
non ostante la funesta ricordanza del passato. La sua parola per me è
molto, ma non vi domando neppure di credere ciecamente in essa: non vi
prego che d'indugiare e di attendere a veder le prove di fatto delle sue
intenzioni. Confido che queste prove non tarderanno a venire. Ho
insinuata nel discorso il bisogno di una politica più liberale, ho detto
che io a nome del Re, fattosi patriota, l'avevo già promessa, avrei
seguitato, s'egli non mi contraddiceva, a prometterla agl'Italiani: egli
acconsentì. Or io, qui in questa lettera, ai liberali dell'altra Italia,
e colla parola a voi, non domando che la pazienza ancora di poco tempo,
che un indugio, se non volete una rinuncia, negli avventati e fieri
propositi.....
— È cosa fatta, interruppe con impeto e con amarezza Mario Tiburzio.
Legga questa lettera, sor Massimo.
E gli porse la missiva che aveva ricevuto la sera precedente.
— Tanto meglio, tanto meglio: disse Azeglio con un sospiro di vero
sollievo.
— Tanto peggio, dico io, esclamò Mario: perchè questa è mancanza di
vigore e di polso negl'Italiani. Ah! cosiffatta prudenza rassomiglia
molto ad una debolezza che merita il nome di codardia: ah! un popolo che
mendica ed aspetta dai suoi tiranni a spizzichi la libertà, mi ha tutta
l'aria d'essere un popolo di vili.
— Mio caro, interruppe col suo calmo e sereno sorriso Massimo d'Azeglio,
posti nelle condizioni in cui fatalmente è caduto l'Italiano, tutti i
popoli sarebbero quel medesimo. Tenute sotto secoli d'una servitù
corruttrice curve le tante generazioni d'una schiatta, e poi pretendere
che questa schiatta sia un'accolta di eroi è pretendere
l'impossibile.....
— Ma noi dunque siamo condannati ad eterno servaggio? proruppe Tiburzio.
Come un'ereditaria infermità nel sangue i nostri padri ci hanno dunque
trasmesso nell'anima l'abbiettezza servile? Oh! io ho sognato un dì che
una generazione da questo putridume sorgesse, degna d'infrangere essa
stessa le sue catene; ed a questa generazione mi lusingai di
appartenere. Illusione! follia! delirio!.... Bene! Aspettiamo il
miracolo d'un re che per l'ambizione d'un trono maggiore rischii di
farsi balzare da quel che possiede abbracciandosi alla rivoluzione che i
troni distrugge: speriamo ed invochiamo la meraviglia d'un principe
italiano che muova guerra a quell'Austria dove ha cercato finora il suo
più valido sostegno, e rallietiamoci sognando che le armi da questo re
con istudio raccolte non devono servire a mantenere il suo popolo
soggetto, sì a farlo libero dallo straniero.... Ma in questa gente che
cospira, e poi al punto di levare la maschera e brandire le armi si
spaventa e corre a rappiattarsi, troveremo noi tanti valorosi che
vogliano in campo aperto esporre il petto ai cannoni dell'Austria?
L'esercito piemontese a combattere quell'ardua guerra non basta. Ci
vuole per esso l'alleanza dell'insurrezione popolare: bisogna che tutta
la nazione si levi e si rovescii sullo straniero. E questo popolo
addormentato, che non si scuote al sacro nome della libertà, si desterà
esso alla voce d'un re?
— Nulla a questo mondo succede per subito ed impreparato cambiamento:
disse l'Azeglio col suo accento calmo, amichevole, persuasivo; tutto ha
mestieri d'una graduale e successiva transizione. Loro rivoluzionarii
non tengono abbastanza conto di questa legge universale, e credono che
di botto ciò che esiste possa essere spazzato via e sostituito da altro.
Ciò che esiste, ancorchè sia male, ha una forza di resistenza cui non
bisogna disprezzare. In Italia abbiamo varii Governi, che hanno intorno
a sè la loro buona schiera d'interessi ed anco di devozioni. Io non
voglio mica dubitare che col tempo si riuscirà a liberarsene ed a
costituire eziandio quell'unità italiana che a noi pare ancora
un'utopia, ma che nell'avvenire ha da diventare una realtà; ma noi alle
prese colle difficoltà presenti non facciamo che illuderci se tiriamo la
conseguenza dei nostri calcoli, senza occuparci d'un elemento
importantissimo. Gl'Italiani dalle sêtte non poterono essere che
malamente preparati all'amore della libertà e dell'indipendenza. Questa
preparazione è sì un lavoro avviato, ma che deve ancora compirsi, e per
codesto è necessario che abbiamo la collaborazione, od almanco la
tolleranza dei principi. La tema ed il rispetto eziandio di quella
monarchia di cui voi altri fate troppo facilmente gettito, e credete
eziandio più debole e più tarlata che non sia, allontanano molti
dall'idea nazionale, perchè la credono alla monarchia avversa: quando
questa medesima sia animata da spiriti nazionali, tutti, o la maggior
parte almeno dei difensori di lei, diventeranno patrioti ancor essi.
Avremo quindi all'impresa ogni cuor generoso di qualunque fede politica,
a qualunque partito appartenga.
Mario Tiburzio, dopo un istante, disse:
— Pensai che l'uomo potesse oramai valere e volere, esplicare la sua
personalità e governarsi nella società civile, senza più il politico
feticismo della monarchia. Ho dunque torto. L'ignoranza e
l'insufficienza dei più hanno dunque bisogno ancora di prosternarsi
nell'umiliante pregiudizio d'un'adorazione, non ad un merito, ma ad un
privilegio....
— Ad un'idea: interruppe vivamente l'Azeglio. Non si ha da disconoscere
che la monarchia ha rappresentato ed effettuato il principio della
solidarietà comune nel frazionamento d'interessi e di ordini che recò
seco la barbarie e poscia il feudalismo del medio evo. Finchè dura ed ha
forza una istituzione, vuol dire che l'idea cui essa rappresenta, non ha
ancora compita la sua azione nel mondo.
— E sia! Una sua osservazione mi ha colpito, sor Massimo: quella che non
si può ottenere di balzo più cose in una, nella via del progresso umano,
quindi nemmanco in politica. Noi vagheggiammo un ideale di patria libera
che l'Italia non ci può dar tuttavia. Conviene scendere a patti colle
miserie della realtà.... Sì in ciò Ella e i compartecipi delle sue idee
hanno ragione. _Borro unum est necessarium_: disse il suo compatriota ed
amico Cesare Balbo; cacciar fuori lo straniero di casa nostra. Questo
necessario ce lo dia il monarcato, e noi combatteremo con esso....
Senta, sor Massimo, e prenda queste parole come il solenne giuramento
d'un uomo che non fallirà mai a ciò che promette: Carlo Alberto dia col
fatto un solo argomento di credere alla sincerità del suo patriotismo,
ed io, senza indugio, vincerò ogni mia ripugnanza per vestire l'assisa
di suo soldato, e piegherò la mia dignità d'uomo libero alla disciplina
di quell'esercito che combatterà lo straniero.
— La prendo in parola: esclamò lietamente Massimo d'Azeglio, tendendo al
giovane repubblicano tuttedue le mani.
— Ed anch'io fo questo giuramento: gridò Romualdo che sentì passarsi in
quell'istante per le vene quel certo fremito, quella scossa, quel
brivido cui suscitano i trasporti d'entusiasmo quando la più nobile
parte dell'anima umana è sollevata dalla sublime generosità del
sacrificio.
— Ed io lo accetto da tutti e due, soggiunse lo scrittore patriota; e
faccia Iddio che presto, come ora siam qui, congiunte le mani da una
fede, da un ardore di desiderio, da una reciproca promessa, ci
ritroviamo insieme sui campi di battaglia!
Massimo d'Azeglio, che poche ore prima aveva ricevuto coll'amplesso dal
Re il patto della monarchia, ora colla stretta di mani di que' due
cospiratori accoglieva il giuramento del popolo nel concetto nazionale.
Quando Mario Tiburzio uscì da quel colloquio, la sua anima era ancora in
tale agitazione che nè idee nè parole poteva aver tuttavia ordinate e
precise.
— Bisogna adunque mandare in fretta contrordini a chi si deve, perchè si
diramino di grado in grado; disse Romualdo.
— Sì: rispose Mario con voce tronca: provvedi da tua parte e di' agli
altri provvedano; farò io tosto quel che mi spetta.
Percosse colla mano la sua fronte.
— Ah! sopratutto bisogna antivenire la già preparata insurrezione della
plebe... Corro tosto a quest'effetto... Addio!
E lasciato lì il compagno, Tiburzio si diresse di passo affrettato verso
la elegante dimora del dottor Quercia.
Questi non c'era, e il mariuolo che gli serviva da domestico non seppe
dire a Mario quando sarebbe tornato; l'emigrato romano passò parecchie
volte e sempre n'ebbe la medesima risposta, e perciò finì egli per
lasciare al domestico una sua cartolina da visita, raccomandandogli
pressantemente di dire al padrone appena rientrasse che l'individuo il
cui nome era scritto su quella polizza (era il nome supposto di Bigonci)
aveva urgentissimo bisogno di parlargli, e lo aspettava perciò tutta la
giornata in quel luogo ch'egli sapeva.
Ma, per isventura, Quercia quel dì aveva tutto occupato il suo tempo,
così che non rientrava nel quartiere che era la sua abitazione
ufficiale, fuorchè a notte inoltrata; e siccome le occupazioni ch'egli
ebbe interessano appunto la nostra storia, lasciate che lo seguiamo
passo passo in quella fatale giornata.
CAPITOLO XX.
Erano appena le nove e mezza, quando Francesco Benda si presentava alla
dimora del sedicente dottor Luigi Quercia, chiedendo con molta istanza
parlargli. Il domestico rispondeva che il padrone, rientrato a casa ad
ora tardissima, dormiva tuttavia della grossa; e chi volesse vederlo
doveva aver pazienza e rifar la strada verso mezzogiorno, chè prima
d'allora era più che difficile ei si svegliasse.
Francesco insistette. Egli disse dover parlare al dottore di cose molto
di premura, e perciò pregava il domestico andasse coraggiosamente a
svegliare il padrone, chè quest'esso, udito ciò di che si trattava, ne
sarebbe stato, anzi che corrucciato, contento; e questa sua affermazione
appoggiò coll'efficace prova di uno scudo che fece sgusciare nella mano
del servo. Questi fu convinto all'evidenza dell'argomento, si curvò
nelle spalle, e penetrò con coraggio da eroe nell'ancor fitta oscurità
della camera da letto di Gian-Luigi.
Il capo della _cocca_ era diffatti immerso nel più profondo e pacifico
sonno che possa avere la meglio virtuosa innocenza. La sua attiva e
concitata giovinezza, le cui forze egli non risparmiava punto in nessuna
parte, aveva bisogno del riposo riparatore del sonno, e la sua robusta
natura glie lo concedeva a dispetto delle passioni e delle ansietà
dell'animo, dei conati e dei tormenti dello spirito.
All'entrargli del domestico in istanza Gian-Luigi non si svegliò. Il
servitore socchiuse alquanto le imposte della finestra e fece penetrare
colà dentro un po' di luce: apparve sopra la bianchezza dei cuscini la
faccia giovenilmente rosea del _medichino_ colla sua aureola di folti e
finissimi capelli neri. Così leggiadra veduta era quella, che lo stesso
infimo mariuolo che sosteneva la parte di domestico in quella sanguinosa
commedia, stette sovraccolto e quasi ammirato a contemplarla. Placida
era la fisonomia del dormente, ed un'ombra di sorriso, anzi, disegnavasi
sulle labbra di lui vividamente rosse, come se graziose e seducenti
immagini venissero ad allietargli i sogni in voluttuose visioni; ma di
quando in quando eziandio, ad un tratto, con brusco passaggio, una nube
scura invadeva quella faccia, una contrazione di muscoli cancellava quel
sorriso ed atteggiava invece ad espressione minacciosa le labbra, un
corrugamento di sopracciglia faceva accennarsi quella sua ruga
caratteristica sul fronte, indizio del ribollirgli nell'interno le sue
feroci passioni.
Un artista avrebbe contemplato a lungo quella sì speciale e leggiadra
figura ricca di sì complesse espressioni e di sì originale
individualità; ma il domestico che non era artista, non ispese molto
tempo in siffatta contemplazione, ed accostandosi all'addormentato, gli
pose abbastanza pesantemente una mano sulla spalla.
Gian-Luigi si destò in sussulto; di balzo fu seduto sul letto, gli occhi
larghi e sfavillanti, terribile di minaccia l'aspetto, impugnata colla
destra una pistola che teneva costantemente sotto il guanciale.
— La non si turbi, la non si turbi: fu sollecito a dire il domestico:
non sono che io, Varullo.
In un attimo quell'espressione svanì dal volto del _medichino_: ripose
la pistola, si stirò le braccia, si ricacciò poi sotto le coltri, e
disse con impazienza:
— Che cosa ti salta, stupido mariuolo, di venirmi a svegliare nel
migliore del mio sonno? Dimmi tosto la ragione di questa tua
impertinenza; e se la non è una buona ragione, puoi far conto di
ed il comando dell'Austria.
Romualdo ribattè, non senza qualche vivacità, che così poteva esser
benissimo, ma che avrebbe potuto esser vero eziandio il contrario, cioè
che il Re di Piemonte in buona fede abbracciasse il partito della
nazione, poichè un uomo come Massimo d'Azeglio si lusingava che ciò
avesse da avvenire; che per la lealtà e pel patriotismo dell'Azeglio
Mario medesimo aveva dichiarato avere tanta stima e tanta fiducia da non
poterlo suppor mai ingannatore; e i suoi talenti e la sua esperienza
degli uomini e delle cose facevano quell'egregio assai difficile ad
essere ingannato; che dunque, senza voler per quel momento prendere e
nemmanco discutere alcuna risoluzione in proposito, era da aspettarsi di
sapere il risultamento del colloquio di Massimo col Re, e su questo
risultamento aggiustar poi la loro condotta, se andare innanzi come se
nulla fosse avvenuto, oppure adottare altri propositi.
— Ma ciò è impossibile: aveva interrotto a questo punto Mario Tiburzio
colla sua foga da tribuno. Pensa che il segnale è partito, che quasi è
materialmente impossibile fare pervenire a chi si dovrebbe un cenno
contrario. Il dado è gettato, vi dico, e conviene correr la sorte. Che?
Gli altri insorgerebbero, e noi eccitatori loro in gran parte, staremmo
cheti a vedere? Andrebbero a morire i nostri compagni, i nostri
fratelli, e noi, in virtù dell'accortezza di combinazioni politiche
impossibili, staremmo in salvo riserbandoci per altre occasioni che non
verranno mai più?... Ma cotal pensiero, sappi, Romualdo, fu quello che
mi tormentò in tutta questa fatale giornata trascorsa, fu quello che
delle poche ore di carcere mi fece un inferno. Come! Gli altri
combatterebbero in nome d'Italia e della libertà; e noi nulla! Il nostro
disegno è così strettamente concatenato che il fatto d'ogni parte deve
concorrere al successo del tutto, e noi lascieremmo mancare alla santa
opera, alla salute dei nostri, a quella della patria, l'aiuto della
parte che ci tocca, che ci siamo assunta?...
— E se tutta si potesse arrestare quella gran macchina che si è
congegnata ed a cui si sta per dar la mossa? soggiunse Romualdo. Credi
tu che a ciò non potrà aiutarci colle sue infinite attinenze Massimo
d'Azeglio medesimo?
Mario Tiburzio uscì di casa gli amici per nulla scosso nella sua fiera
risoluzione: non diniegò tuttavia di sentir poi le parole dell'Azeglio,
e si avviò taciturno, concentrato in se stesso a quel suo secondo
alloggio dove si nascondeva e dove aveva bisogno di trovarsi solo per
meditare. A dispetto della forza della sua volontà e della tenacia de'
suoi propositi, sentiva in sè una specie di amarezza che era come un
rilasciamento di quel vigore che aveva sin allora posto nell'opera, un
dubbio maggiore di quanti avesse avuto ancora mai, una specie di
scoraggiamento. Gli pareva sentirsi mancare intorno gli elementi
d'azione, sotto i piedi il terreno, nelle mani la forza: Titano della
libertà, dopo aver creduto di essere riuscito a sovrapporre monte su
monte per dar l'assalto all'olimpo della tirannia, sentiva ora che
quella base su cui erasi fondato, gli crollava di sotto, prima ancora
che l'avessero colpita de' loro fulmini il Giove austriaco e i suoi Dei
minori, i principi della misera Italia. Le parole e i contegni dei più
fidi amici suoi, de' più valorosi tra' suoi complici gli erano un
ammonimento. Certo, non ostante i dubbi e le riserve da loro ultimamente
manifestati, questi amici non avrebbero mancato, egli ben lo sapeva;
anche colla certezza di soccombere sarebbero camminati al pericolo; ma
la fiducia nel trionfo veniva mancando in essi, ciò indovinava, ciò
scorgeva Mario Tiburzio, il quale non ignorava come la fede nella
vittoria sia in ogni dove e sempre elemento principalissimo per
ottenerla. Ma ciò che succedeva in quelli de' più accesi fra i liberali,
che più vicino contatto avevano con esso lui, perch'egli potesse
comunicar loro quell'ardore e quella fede che lo animavano: ciò stesso
doveva pure avvenire degli altri ed era presumibile che in tanto
maggiori proporzioni, quanto difficilmente, nella generalità, si
vantaggiavano di anime d'una tempra sì forte ed erano da quel focolare
di patriotica fiamma lontani.
Era come un mesto presentimento il suo, ma un presentimento che doveva
avere ben tosto ragione.
Nel recarsi verso la sua dimora, quantunque assorto in cosiffatti
pensieri, tuttavia, per abitudine omai inveterata di uomo che deve
badare continuamente alla sua sicurezza su cui da un momento all'altro
può incombere un pericolo, Mario Tiburzio scrutava con occhio attento i
luoghi che percorreva, esaminava, senza che apparisse, le persone che
passavano. Già era egli giunto presso la casa a cui era diretto, quando
s'accorse che un individuo cautamente lo veniva codiando, dopochè
incrociatolo nel suo passaggio lo aveva osservato attentamente. Mario
non dubitò punto che quella non fosse una spia, e volendo senz'altro
appurare la cosa, si volse indietro e camminò risolutamente verso
quell'uomo. Questi parve esitare: si guardò sollecito dintorno, come se
cercasse una via di scampo o volesse vedere se c'era qualcheduno da
poterli osservare, rallentò il passo, ma non ischivò l'incontro di
Mario, e quando si trovò presso di lui tanto che il panno della sua
manica radeva il mantello dello emigrato romano, egli levò le mani che
teneva nelle tasche del suo soprabito e fece rapidamente con esse un
certo segno, al vedere il quale Mario rasserenò di botto la sua
fisonomia. Guardò egli pure dintorno se qualcuno li osservasse, e
rassicurato su questo punto, rispose con altro segno, e poi, come se di
nulla fosse, tornò a volgere i suoi passi nella direzione che aveva
prima, entrò innanzi allo sconosciuto con passo nè più tardo nè più
sollecito, e quell'altro lo venne seguitando lentamente dalla lungi.
Giunto alla porta che metteva nel quartierino che sappiamo, Mario diede
ancora una ratta sguardata intorno a sè, e visto nulla che potesse
destare il menomo sospetto, entrò nell'andito, dove si fermò ad
aspettare. Non tardò ad essere raggiunto da quell'incognito. I due
uomini si guardarono ben bene entro gli occhi, e si chiarirono che non
si eran visti mai; allora Mario fece alcuni nuovi segni, a cui l'altro
rispose col medesimo linguaggio; poi lo sconosciuto si curvò
all'orecchio di Mario e pronunziò una parola che doveva essere un motto
di riconoscimento.
Tiburzio fece un cenno del capo, che pareva un'affermazione: pose una
mano sulla spalla di quell'uomo, e gli disse con accento sommesso ma
quasi solenne:
— Venite.
Lo introdusse nella sua riposta cameruccia. Là tenendogli fissi in
faccia i suoi occhi grifagni, Mario lo interrogò:
— Chi siete?
Quell'uomo disse dell'esser suo. Era un commesso viaggiatore d'una casa
commerciale della media Italia, il quale, affigliato alle cospirazioni,
serviva di comunicazione fra i congiurati dell'una e dell'altra città,
schivando così i sospetti delle polizie.
— Chi vi manda?
Invece di rispondere il messo trasse di tasca una lettera suggellata in
un modo particolare e senza dargliela nelle mani, mostrò a Tiburzio la
scrittura dell'indirizzo.
— Conoscete questo carattere? diss'egli.
Era quello d'uno dei capi principalissimi della vasta congiura nel quale
si raccoglievano i fili della trama di tutta l'Italia mediana ed
inferiore.
— Lo conosco... Gli è _lui_ che vi manda?
Il viaggiatore fece un cenno affermativo.
— Vedo che quella lettera è diretta a me.
L'altro ripetè il cenno affermativo, ma non gli diede tuttavia la
lettera.
— È stato _lui_ che vi ha indirizzato a questo luogo?
— Sì.
— Mi conoscevate di persona?
— No.
— Come dunque mi avete ravvisato per istrada?
— Mi furono detti esattissimi connotati che vidi rispondere a capello
colla vostra persona. Sapevo che dovevate rientrare verso quest'ora. Vi
riconobbi quasi per un istinto.
— Va bene. Sapete voi quello che mi si scrive costì?
— No.
— Datemi adunque la lettera.
— Attendo ancora...
— Che cosa?
— Che voi pronunziate una parola.
Fu la volta per Mario di chinarsi all'orecchio del suo interlocutore e
di pronunziare un motto.
Appena uditolo, il messo s'inchinò e gli pose in mano senz'altro la
carta ripiegata e suggellata.
Mario Tiburzio esaminò ancora ben bene i caratteri della soprascritta ed
i suggelli, poscia rotti questi con una vivacità ansiosa, lesse
avidamente. Il suo volto si rimbrunì a seconda ch'egli proseguiva nella
lettura; un'imprecazione di rabbia, che egli mozzicò pur tuttavia fra i
denti, gli sfuggì dalle labbra contratte; la sua mano spiegazzò in un
moto di collera la carta che teneva; come a dare alcuno sfogo alla
subita interna passione in lui suscitatasi, fece concitatamente due o
tre giri per la stanza, le braccia incrociate al petto, la testa china.
Non tardò a riprendere il dominio di se stesso, benchè la tempesta gli
ribollisse ancora furibonda nell'animo; parve tornato affatto in calma;
si fermò, rispiegò la lettera che teneva stretta nella mano chiusa a
pugno e la rilesse attentamente; poi sollevò adagio il suo viso un po'
impallidito, su cui v'era un lieve sogghigno di sdegnoso disprezzo.
— E sta bene: diss'egli, come parlando a se stesso: penserò a quel che
mi resta da fare.
Accompagnò fuori il messaggiero, e poi, tornato a rinchiudersi nella
camera, si buttò a sedere presso al tavolino dove soleva lavorare, e si
affondò in una dolorosa meditazione.
In quella lettera fatale gli si scriveva da quello che era principal
capo della congiura nel resto d'Italia, come dopo le ultime buone
novelle mandategli (novelle che abbiam visto far decidere Mario e i suoi
amici all'ultima prova), le cose erano cosiffattamente cambiate che si
affrettavano a dargliene avviso, perchè tutto si mettesse in sospeso.
Mentre pochi giorni prima eragli stato scritto che tutto era pronto, ora
lo si ammoniva che in tutta Toscana e in quasi tutta l'Italia
meridionale non c'era più da contare sopra la insurrezione; alcuni dei
capi erano stati arrestati dai governi, forse messi in sull'avviso da
qualche traditore; alcuni s'erano salvati colla fuga, andando ad
accrescere l'infelice schiera degli esuli in Francia; la maggior parte
anco dei congiurati era giù dell'animo, il volgo stanco, spaurito,
ignorante, poco propizio a novità cui aveva sempre visto fino allora
apportatrici di maggiori tormenti. Esserci solo da contare ancora su
qualche località delle Romagne, quantunque gli ultimi casi di Rimini
avessero colà pure smaccato gli animi; doversi per conseguenza
conchiudere che più della prudenza la necessità consigliava, imponeva
sospendere per allora ogni tentativo di movimento, contentarsi a serrare
il meglio possibile i fili della trama e confermando nella fede e
nell'ardore della religione della patria i generosi che avevano dato il
nome alla congiura, aspettare più propizie occasioni; ciò si
affrettavano a comunicargli, affinchè, come già nelle altre parti
d'Italia s'era fatto, Mario anco in Piemonte disponesse a raffrenare
ogni moto; la medesima comunicazione dicevasi inviata contemporaneamente
al Comitato di Parigi perchè anch'egli provvedesse.
Mentre il nostro capo della congiura scriveva da parte sua agli altri
che il tempo era venuto dei supremi cimenti, che non si doveva
indietrare, nè indugiar più, ed assegnava il giorno a quella lotta
audacissima a cui tutti parevano anelare ed egli si lusingava che
veramente anelassero, mandavasi dagli altri l'annunzio che lo
abbandonavano in quella sublime follìa, e i suoi cenni per determinare
il momento dello scoppio alla mina dovevano arrivare quando già erano
rimosse le polveri, già spenta la fiaccola che doveva incendiarle.
Mario percosse col pugno chiuso la tavola che aveva dinanzi.
— Siamo una stirpe di codardi, dal sangue degenerato nelle vene,
degradati figliuoli di padri valorosi le cui ombre arrossiscono di
vergogna. Siamo da meno della decaduta Spagna, della corrotta Grecia.
Colà almanco il popolo ha mostrato saper morire per la libertà della
patria: e qui... qui un popolo di servi che si curva sotto il bastone,
non sa neppure d'aver una patria!...
Quando il mattino seguente, Romualdo, ricevuto il bigliettino di Massimo
d'Azeglio, s'affrettò a recarsi da Mario, trovò costui calmo, ma immerso
in una mestizia profonda, colle traccie sul volto d'una notte
dolorosamente vegliata.
— Che avvenne? domandò Romualdo con inquietudine ed interesse.
— Lo saprai fra poco: rispose Tiburzio con voce in cui non era la
simpatica vibrazione del solito suo calore di accento. E tu che mi
rechi?
Romualdo gli porse la lettera dell'illustre scrittore piemontese. Mario
la lesse, e senza mostrare in nessun modo l'impressione ch'egli ne
ricevesse, disse tranquillamente, restituendola all'amico:
— Andiamo adunque dall'Azeglio, poichè ci chiama.
Quando furono per mettere il piede fuori dell'uscio, Tiburzio arrestò il
suo compagno posandogli una mano sul braccio.
— È strano un popolo che per riconquistare la sua libertà si fa a
supplicare i principi che l'opprimono perchè glie la concedano e glie la
rivendichino essi stessi: disse con amara ironia. Non importa; andiamo a
vedere se quell'onest'uomo di Massimo ci vorrà star garante della
possibilità di tal miracolo.
Non disse più una parola, finchè i due giovani comparvero, come abbiamo
visto, alla presenza dell'Azeglio, il quale erasi mosso loro
all'incontro.
— Signori, cominciò senz'altro l'illustre scrittore: questo giorno conta
per me come uno dei più importanti della mia vita, ed ho speranza che
debba contare eziandio per importantissimo nella storia d'Italia. La
benigna fortuna, me, sincero ma umilissimo amator della patria, volle
fare stromento di uno dei maggiori fatti che si potessero compire in
beneficio della nostra terra: l'alleanza col partito nazionale della
monarchia militare del Piemonte.
E qui, con tutta l'esattezza e il calore provenienti dalla freschezza
delle impressioni ricevute, Massimo d'Azeglio ripetè i discorsi avuti
col Re e le solenni parole da esso pronunciate.
— Ed Ella crede? domandò con vivacità Mario Tiburzio.
— Il cuore lo vede Iddio: rispose gravemente l'Azeglio: noi uomini
dobbiamo argomentare colla scorta della povera nostra ragione. Nelle
sembianze, nell'accento, nello sguardo di Carlo Alberto, io ho creduto
notarci la sincerità; nella sua generosa ambizione, nelle tendenze
manifestate dalla sua giovinezza, nell'interesse medesimo della sua
dinastia, io credo vederci argomenti non ispregevoli di fiducia. E
poi..... parliamoci schietto. Abbiamo noi altri mezzi di fondate
speranze di probabile riuscita, fuor questo?... Le infelici insurrezioni
del passato non vi hanno ancora aperti gli occhi?... Fin quando vorremo
avventurare il sangue dei più generosi cittadini in lotte troppo
ineguali, di certissima sconfitta?... Inoltre, combattendo contro i
Principi nostrani è sempre una guerra civile quella che noi facciamo;
perchè non preferiremmo di combattere coi soldati di Carlo Alberto,
sotto le bandiere di questo Re contro lo straniero?
— Si lo faremo: proruppe Romualdo. Venga l'occasione soltanto, e noi,
più lietamente che nella sommossa, daremo la nostra vita sui campi di
battaglia... Io credo in Carlo Alberto poichè Ella sig. d'Azeglio ci
crede.
Mario non disse una parola: teneva curva la testa, chini a terra gli
occhi, serrate le labbra, contratte le mascelle; si vedeva che
un'interna passione lo rodeva, che una lotta avveniva in lui con crudo
travaglio dell'animo suo.
— E spero che tutta Italia crederà in esso: esclamò Massimo con calore;
non ostante la funesta ricordanza del passato. La sua parola per me è
molto, ma non vi domando neppure di credere ciecamente in essa: non vi
prego che d'indugiare e di attendere a veder le prove di fatto delle sue
intenzioni. Confido che queste prove non tarderanno a venire. Ho
insinuata nel discorso il bisogno di una politica più liberale, ho detto
che io a nome del Re, fattosi patriota, l'avevo già promessa, avrei
seguitato, s'egli non mi contraddiceva, a prometterla agl'Italiani: egli
acconsentì. Or io, qui in questa lettera, ai liberali dell'altra Italia,
e colla parola a voi, non domando che la pazienza ancora di poco tempo,
che un indugio, se non volete una rinuncia, negli avventati e fieri
propositi.....
— È cosa fatta, interruppe con impeto e con amarezza Mario Tiburzio.
Legga questa lettera, sor Massimo.
E gli porse la missiva che aveva ricevuto la sera precedente.
— Tanto meglio, tanto meglio: disse Azeglio con un sospiro di vero
sollievo.
— Tanto peggio, dico io, esclamò Mario: perchè questa è mancanza di
vigore e di polso negl'Italiani. Ah! cosiffatta prudenza rassomiglia
molto ad una debolezza che merita il nome di codardia: ah! un popolo che
mendica ed aspetta dai suoi tiranni a spizzichi la libertà, mi ha tutta
l'aria d'essere un popolo di vili.
— Mio caro, interruppe col suo calmo e sereno sorriso Massimo d'Azeglio,
posti nelle condizioni in cui fatalmente è caduto l'Italiano, tutti i
popoli sarebbero quel medesimo. Tenute sotto secoli d'una servitù
corruttrice curve le tante generazioni d'una schiatta, e poi pretendere
che questa schiatta sia un'accolta di eroi è pretendere
l'impossibile.....
— Ma noi dunque siamo condannati ad eterno servaggio? proruppe Tiburzio.
Come un'ereditaria infermità nel sangue i nostri padri ci hanno dunque
trasmesso nell'anima l'abbiettezza servile? Oh! io ho sognato un dì che
una generazione da questo putridume sorgesse, degna d'infrangere essa
stessa le sue catene; ed a questa generazione mi lusingai di
appartenere. Illusione! follia! delirio!.... Bene! Aspettiamo il
miracolo d'un re che per l'ambizione d'un trono maggiore rischii di
farsi balzare da quel che possiede abbracciandosi alla rivoluzione che i
troni distrugge: speriamo ed invochiamo la meraviglia d'un principe
italiano che muova guerra a quell'Austria dove ha cercato finora il suo
più valido sostegno, e rallietiamoci sognando che le armi da questo re
con istudio raccolte non devono servire a mantenere il suo popolo
soggetto, sì a farlo libero dallo straniero.... Ma in questa gente che
cospira, e poi al punto di levare la maschera e brandire le armi si
spaventa e corre a rappiattarsi, troveremo noi tanti valorosi che
vogliano in campo aperto esporre il petto ai cannoni dell'Austria?
L'esercito piemontese a combattere quell'ardua guerra non basta. Ci
vuole per esso l'alleanza dell'insurrezione popolare: bisogna che tutta
la nazione si levi e si rovescii sullo straniero. E questo popolo
addormentato, che non si scuote al sacro nome della libertà, si desterà
esso alla voce d'un re?
— Nulla a questo mondo succede per subito ed impreparato cambiamento:
disse l'Azeglio col suo accento calmo, amichevole, persuasivo; tutto ha
mestieri d'una graduale e successiva transizione. Loro rivoluzionarii
non tengono abbastanza conto di questa legge universale, e credono che
di botto ciò che esiste possa essere spazzato via e sostituito da altro.
Ciò che esiste, ancorchè sia male, ha una forza di resistenza cui non
bisogna disprezzare. In Italia abbiamo varii Governi, che hanno intorno
a sè la loro buona schiera d'interessi ed anco di devozioni. Io non
voglio mica dubitare che col tempo si riuscirà a liberarsene ed a
costituire eziandio quell'unità italiana che a noi pare ancora
un'utopia, ma che nell'avvenire ha da diventare una realtà; ma noi alle
prese colle difficoltà presenti non facciamo che illuderci se tiriamo la
conseguenza dei nostri calcoli, senza occuparci d'un elemento
importantissimo. Gl'Italiani dalle sêtte non poterono essere che
malamente preparati all'amore della libertà e dell'indipendenza. Questa
preparazione è sì un lavoro avviato, ma che deve ancora compirsi, e per
codesto è necessario che abbiamo la collaborazione, od almanco la
tolleranza dei principi. La tema ed il rispetto eziandio di quella
monarchia di cui voi altri fate troppo facilmente gettito, e credete
eziandio più debole e più tarlata che non sia, allontanano molti
dall'idea nazionale, perchè la credono alla monarchia avversa: quando
questa medesima sia animata da spiriti nazionali, tutti, o la maggior
parte almeno dei difensori di lei, diventeranno patrioti ancor essi.
Avremo quindi all'impresa ogni cuor generoso di qualunque fede politica,
a qualunque partito appartenga.
Mario Tiburzio, dopo un istante, disse:
— Pensai che l'uomo potesse oramai valere e volere, esplicare la sua
personalità e governarsi nella società civile, senza più il politico
feticismo della monarchia. Ho dunque torto. L'ignoranza e
l'insufficienza dei più hanno dunque bisogno ancora di prosternarsi
nell'umiliante pregiudizio d'un'adorazione, non ad un merito, ma ad un
privilegio....
— Ad un'idea: interruppe vivamente l'Azeglio. Non si ha da disconoscere
che la monarchia ha rappresentato ed effettuato il principio della
solidarietà comune nel frazionamento d'interessi e di ordini che recò
seco la barbarie e poscia il feudalismo del medio evo. Finchè dura ed ha
forza una istituzione, vuol dire che l'idea cui essa rappresenta, non ha
ancora compita la sua azione nel mondo.
— E sia! Una sua osservazione mi ha colpito, sor Massimo: quella che non
si può ottenere di balzo più cose in una, nella via del progresso umano,
quindi nemmanco in politica. Noi vagheggiammo un ideale di patria libera
che l'Italia non ci può dar tuttavia. Conviene scendere a patti colle
miserie della realtà.... Sì in ciò Ella e i compartecipi delle sue idee
hanno ragione. _Borro unum est necessarium_: disse il suo compatriota ed
amico Cesare Balbo; cacciar fuori lo straniero di casa nostra. Questo
necessario ce lo dia il monarcato, e noi combatteremo con esso....
Senta, sor Massimo, e prenda queste parole come il solenne giuramento
d'un uomo che non fallirà mai a ciò che promette: Carlo Alberto dia col
fatto un solo argomento di credere alla sincerità del suo patriotismo,
ed io, senza indugio, vincerò ogni mia ripugnanza per vestire l'assisa
di suo soldato, e piegherò la mia dignità d'uomo libero alla disciplina
di quell'esercito che combatterà lo straniero.
— La prendo in parola: esclamò lietamente Massimo d'Azeglio, tendendo al
giovane repubblicano tuttedue le mani.
— Ed anch'io fo questo giuramento: gridò Romualdo che sentì passarsi in
quell'istante per le vene quel certo fremito, quella scossa, quel
brivido cui suscitano i trasporti d'entusiasmo quando la più nobile
parte dell'anima umana è sollevata dalla sublime generosità del
sacrificio.
— Ed io lo accetto da tutti e due, soggiunse lo scrittore patriota; e
faccia Iddio che presto, come ora siam qui, congiunte le mani da una
fede, da un ardore di desiderio, da una reciproca promessa, ci
ritroviamo insieme sui campi di battaglia!
Massimo d'Azeglio, che poche ore prima aveva ricevuto coll'amplesso dal
Re il patto della monarchia, ora colla stretta di mani di que' due
cospiratori accoglieva il giuramento del popolo nel concetto nazionale.
Quando Mario Tiburzio uscì da quel colloquio, la sua anima era ancora in
tale agitazione che nè idee nè parole poteva aver tuttavia ordinate e
precise.
— Bisogna adunque mandare in fretta contrordini a chi si deve, perchè si
diramino di grado in grado; disse Romualdo.
— Sì: rispose Mario con voce tronca: provvedi da tua parte e di' agli
altri provvedano; farò io tosto quel che mi spetta.
Percosse colla mano la sua fronte.
— Ah! sopratutto bisogna antivenire la già preparata insurrezione della
plebe... Corro tosto a quest'effetto... Addio!
E lasciato lì il compagno, Tiburzio si diresse di passo affrettato verso
la elegante dimora del dottor Quercia.
Questi non c'era, e il mariuolo che gli serviva da domestico non seppe
dire a Mario quando sarebbe tornato; l'emigrato romano passò parecchie
volte e sempre n'ebbe la medesima risposta, e perciò finì egli per
lasciare al domestico una sua cartolina da visita, raccomandandogli
pressantemente di dire al padrone appena rientrasse che l'individuo il
cui nome era scritto su quella polizza (era il nome supposto di Bigonci)
aveva urgentissimo bisogno di parlargli, e lo aspettava perciò tutta la
giornata in quel luogo ch'egli sapeva.
Ma, per isventura, Quercia quel dì aveva tutto occupato il suo tempo,
così che non rientrava nel quartiere che era la sua abitazione
ufficiale, fuorchè a notte inoltrata; e siccome le occupazioni ch'egli
ebbe interessano appunto la nostra storia, lasciate che lo seguiamo
passo passo in quella fatale giornata.
CAPITOLO XX.
Erano appena le nove e mezza, quando Francesco Benda si presentava alla
dimora del sedicente dottor Luigi Quercia, chiedendo con molta istanza
parlargli. Il domestico rispondeva che il padrone, rientrato a casa ad
ora tardissima, dormiva tuttavia della grossa; e chi volesse vederlo
doveva aver pazienza e rifar la strada verso mezzogiorno, chè prima
d'allora era più che difficile ei si svegliasse.
Francesco insistette. Egli disse dover parlare al dottore di cose molto
di premura, e perciò pregava il domestico andasse coraggiosamente a
svegliare il padrone, chè quest'esso, udito ciò di che si trattava, ne
sarebbe stato, anzi che corrucciato, contento; e questa sua affermazione
appoggiò coll'efficace prova di uno scudo che fece sgusciare nella mano
del servo. Questi fu convinto all'evidenza dell'argomento, si curvò
nelle spalle, e penetrò con coraggio da eroe nell'ancor fitta oscurità
della camera da letto di Gian-Luigi.
Il capo della _cocca_ era diffatti immerso nel più profondo e pacifico
sonno che possa avere la meglio virtuosa innocenza. La sua attiva e
concitata giovinezza, le cui forze egli non risparmiava punto in nessuna
parte, aveva bisogno del riposo riparatore del sonno, e la sua robusta
natura glie lo concedeva a dispetto delle passioni e delle ansietà
dell'animo, dei conati e dei tormenti dello spirito.
All'entrargli del domestico in istanza Gian-Luigi non si svegliò. Il
servitore socchiuse alquanto le imposte della finestra e fece penetrare
colà dentro un po' di luce: apparve sopra la bianchezza dei cuscini la
faccia giovenilmente rosea del _medichino_ colla sua aureola di folti e
finissimi capelli neri. Così leggiadra veduta era quella, che lo stesso
infimo mariuolo che sosteneva la parte di domestico in quella sanguinosa
commedia, stette sovraccolto e quasi ammirato a contemplarla. Placida
era la fisonomia del dormente, ed un'ombra di sorriso, anzi, disegnavasi
sulle labbra di lui vividamente rosse, come se graziose e seducenti
immagini venissero ad allietargli i sogni in voluttuose visioni; ma di
quando in quando eziandio, ad un tratto, con brusco passaggio, una nube
scura invadeva quella faccia, una contrazione di muscoli cancellava quel
sorriso ed atteggiava invece ad espressione minacciosa le labbra, un
corrugamento di sopracciglia faceva accennarsi quella sua ruga
caratteristica sul fronte, indizio del ribollirgli nell'interno le sue
feroci passioni.
Un artista avrebbe contemplato a lungo quella sì speciale e leggiadra
figura ricca di sì complesse espressioni e di sì originale
individualità; ma il domestico che non era artista, non ispese molto
tempo in siffatta contemplazione, ed accostandosi all'addormentato, gli
pose abbastanza pesantemente una mano sulla spalla.
Gian-Luigi si destò in sussulto; di balzo fu seduto sul letto, gli occhi
larghi e sfavillanti, terribile di minaccia l'aspetto, impugnata colla
destra una pistola che teneva costantemente sotto il guanciale.
— La non si turbi, la non si turbi: fu sollecito a dire il domestico:
non sono che io, Varullo.
In un attimo quell'espressione svanì dal volto del _medichino_: ripose
la pistola, si stirò le braccia, si ricacciò poi sotto le coltri, e
disse con impazienza:
— Che cosa ti salta, stupido mariuolo, di venirmi a svegliare nel
migliore del mio sonno? Dimmi tosto la ragione di questa tua
impertinenza; e se la non è una buona ragione, puoi far conto di
- Parts
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- La plebe, parte III - 03
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- La plebe, parte III - 07
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