La plebe, parte III - 23
stessa, ella comandò al sangue di restare. Sentiva di non aver nulla
onde arrossire e non voleva che alcuno potesse vedere in lei la mostra
pure di simil debolezza o di confusione; e tanto meno suo cugino. Questi
si avanzò lentamente, facendo correre dal volto dell'uno a quello
dell'altra uno sguardo ironico, provocatore, più tristo ancora del
perfido sogghigno che piegava le sue labbra assottigliate dall'interna
bile repressa. Nei sentimenti di Francesco non vi fu esitazione di
sorta. Innanzi alla provocazione superba di quello scherno, egli sentì
una subita ira vivace. Quella barriera di cui aveva fatto cenno
Virginia, ecco che ora gli si drizzava, per così dire, dinanzi,
incarnata nello sprezzante orgoglio del suo oltraggiatore; già poco fa,
da solo, nell'abbandono de' suoi sogni dilettosi, Francesco aveva visto
nella sua mente sorgere contro la speranza di cui pure gli balenava
all'animo alcuna lusinga, la immagine detestata del marchesino, ed ora
ecco che questa figura gli si presentava viva e reale, interruttrice del
più venturoso ed importante momento che nella sua vita avesse passato
ancora mai, impertinente, sfidatrice, maligna. Se la presenza di
Virginia non gli avesse posto freno, egli si sarebbe lanciato contro di
Ettore, gettandogli alla faccia alcune di quelle parole che vogliono il
sangue d'un uomo. Per lo sforzo che fece su se medesimo a reprimere il
subito impulso dell'ira, Francesco impallidì: il suo sguardo si incontrò
con quello del cugino di Virginia, proprio come fanno due lame
incrociandosi in un duello mortale di due nemici. Per un momento fuvvi
un silenzio minaccioso, quasi solenne. Si udì allora giungere fino a
quel luogo, travelato dalla distanza, il suono allegro della musica del
ballo.
— E che vuol dire codesto? cominciò di poi con tono beffardo Ettore
fissando il suo sguardo investigatore sulle palpebre abbassate di
Virginia; mentre altri ti crederebbe trasportata dal capogiro del valtz,
tu sei qui tranquillamente, lontana dal rumore, a...
Si arrestò; Virginia che sentiva lo sguardo di Ettore sopra di sè, levò
le ciglia e fissò in volto il cugino coi suoi grandi occhi limpidi,
sicuri, superbamente sereni; egli riprese:
— A discorrere tranquillamente col _signore_.
L'accento con cui fu pronunciata la parola «signore», il moto leggiero
del capo per cui Ettore accennò Francesco erano così pieni di disprezzo
che Benda se ne sentì fremere il sangue.
— Affè, continuava col tono medesimo il marchesino, che questo è proprio
un perdere il tempo.
Il giovane borghese fece un piccolo passo innanzi e parve sul punto di
parlare; Virginia s'intromise, ricorrendo al mezzo medesimo che aveva
usato poc'anzi, quello di condur via suo cugino.
— Stavo appunto per ritornare nelle sale da ballo, diss'ella; e tu sei
venuto a tempo per darmi il tuo braccio.
Ettore s'inchinò con una certa ironia nella sua gentilezza e rispose con
uguale accento:
— Sono assai lieto d'essere arrivato opportuno.
E porse galantemente il braccio a Virginia.
Francesco sentiva che qualche cosa gli conveniva pur dire, provava come
un'offesa al suo decoro il lasciar partire senza una protesta
l'impertinenza di quell'orgoglioso. Si avanzò ancora d'un altro passo, e
disse anch'egli con quello stesso accento con cui lo aveva detto il
marchesino:
— Signore.....
Ettore si fermò di botto, e volgendo appena la testa dalla parte dov'era
Francesco, gli mandò di sopra la spalla uno sguardo di sprezzante
alterigia.
— Gli è a me che il signore intenderebbe parlare?
Benda arrossì di sdegno fino alla fronte.
— A Lei, disse asciuttamente.. Certo la mia pretesa è grande. Ella nel
migliore degli abboccamenti i più importanti è solita farsi interrompere
anche dall'intervento dell'autorità.
Fu la volta del marchesino di arrossire.
— Ah signore. Ella mi dà un merito che ben sa ch'io non ho: la è
semplicemente una calunnia la sua.....
— Signore!...
— E per avere il favore d'un abboccamento con Lei io sono pronto ad
accordarle qualunque ora le piaccia, e in qual luogo a sua scelta, dove
non sia più possibile interruzione di sorta.
— La prendo in parola: disse Benda inchinandosi: e mi pare che per la
scelta dell'ora e del luogo potremo riferirci di bel nuovo ai consigli
dei medesimi amici rispettivi.
— Ha ragione.
— Dove i miei potranno adunque trovare i suoi?
— Domani verso mezzo giorno al _whist-club_.
— Sta' bene.
Si fecero un freddo saluto, e il marchese uscì dal gabinetto con
Virginia.
— Tu conti batterti? diss'ella poscia a suo cugino.
— _Parbleu!_
— Perchè disubbidire così a tuo padre?
— Perchè decisivamente quel signorino mi dà sui nervi.
— Non è ragione sufficiente per voler attentare alla sua vita.
— Olà! quel cotale t'interessa adunque?
Virginia non chinò il suo sguardo innanzi a quello di Ettore, e rispose
francamente:
— Sì.
— Ragione di più per _lui couper les oreilles_: disse con vivo dispetto
il marchesino.
— Ettore, aggiunse la fanciulla con accento solenne, se alcun male per
tuo fatto ha da affliggere quella famiglia, io non te lo perdonerò mai.
E come erano giunti ad una delle sale da ballo, Virginia tolse il suo
dal braccio del cugino ed andò a raggiungere la sua amica la baronessa,
lasciando lui in asso, stupito, quasi sbalordito, più irritato che mai.
Francesco intanto, rimasto solo, era in preda ancor egli ad un vivissimo
sdegno che quasi poteva dirsi furore. Aveva desiderato, l'ostacolo fra
sè e Virginia, rappresentato dall'oltraggiosa impertinenza del
marchesino, schiacciare e distrurre; ed ecco che l'occasione veniva a
porgersene alla sua collera accresciuta.
— Oh! l'ucciderò quel prepotente villano: diceva egli fra sè con una
tempesta d'ira feroce nella mite anima sua. E siccome il suo istinto
d'amante lo aveva avvertito che nell'odio di Ettore per lui e di lui per
Ettore c'era eziandio la rivalità in amore, egli soggiunse con amaro
sorriso: almeno quel superbo di certo non sarà a farla sua!
Ricordò a questo punto le preziose parole con cui essa erasi impegnata a
non essere di nessuno mai, e tornò di botto nel suo animo il dolce
influsso della tenerezza. Ah! non ella mancato avrebbe mai alla solenne,
non chiesta, da lei liberamente accordata promessa. Francesco poteva
portar seco quella certezza per tutta la vita, anco nella tomba. Qui ad
un tratto gli sorse innanzi al pensiero, con un mesto ma affascinante
sorriso, l'immagine della morte. S'egli fosse stato a soccombere, s'egli
disceso nel regno delle ombre, come ne avrebbe caramente custodita la
memoria nel suo cuore la generosa fanciulla! Più vivamente ancora, senza
più riserve, più compiutamente l'avrebbe amato quell'anima nobilissima.
Il ricordo di lui morto avrebbe riconfermata ad ogni tratto in lei la
data promessa, sarebbe stato ostacolo insuperabile affatto ad ogni altro
che tentasse penetrarle nel cuore; e se invece foss'egli l'uccisore e
non l'ucciso, che cosa poteva sperare di bene? La morte del cugino al
contrario di abbattere la barriera fra lui e l'amor suo, l'avrebbe fatta
maggiore: come sperare che il marchese consentisse a mettere la mano
della nipote in quella lorda del sangue di suo figlio? Come credere che
Virginia medesima vorrebbe ciò fare?
Una morbosa, ma vivace voglia di morire stranamente lo assalse. Aveva
provato una gioia di paradiso nello apprendere di essere amato; ma
disgiunto senza rimedio da lei, non aveva egli poi da sopportare nella
vita delle pene d'inferno? Essere pianto da quella fanciulla divina non
era egli una gioia ineffabile? Vivere poi nell'anima di lei non doveva
essere un paradiso? Lo sconsigliato nel calore della sua passione
dimenticò per quell'istante la sua famiglia, perfino le lacrime di sua
madre: decise morire.
S'era gettato di nuovo sul sofà ed aveva nascosto la faccia tra le
palme, ed ecco presso a lui di nuovo il fruscio gentile d'una veste di
donna, intorno a lui il profumo delicato che rivela la presenza d'una
signora elegante: levò la testa in sussulto e guardò con una folle
speranza: non era più l'angelo dell'amor suo, era la contessa di
Staffarda.
— La disturbo, disse Candida con un sorriso forzato sotto cui cercava
nascondere la preoccupazione e l'inquietudine che apparivano nelle sue
sembianze. Ho creduto che dormisse.
— No: rispose Francesco impacciato, il quale non sapeva che cosa dire.
La contessa sedette sopra una poltrona in faccia a lui e giuocando col
ventaglio, per darsi un'aria di leggerezza e d'indifferenza che non
aveva, soggiunse:
— Se non la dormiva, certo sognava, e non dovevano essere lieti sogni i
suoi, se io giudico dall'espressione del suo volto.
Benda compose la sua faccia ed il suo contegno.
— No, non eran sogni, diss'egli con una giocosità melanconica: i sogni
sono di cose impossibili, immaginarie; il mio pensiero si trovava alle
prese colla più spiccata realtà.
— Molte volte meglio la realtà anche brutta che una sciagura immaginata,
temuta: disse la contessa con una specie di foga. I nostri dubbi, i
nostri sospetti ci sono più crudi tormentatori che la fierezza medesima
del destino.
Francesco s'inchinò senza rispondere.
Candida riprese dopo una piccola pausa:
— Mi dirà Ella indiscreta se io le confesso di sentire interesse per
Lei?
— Oh signora contessa! esclamò il giovane inchinandosi di nuovo.
Ella si acconciò con mano sbadata le pieghe della gonna, si aggiustò gli
smanigli alle braccia, e sorridendo non senza un po' di studio, continuò
con un'ombra d'imbarazzo dissimulato dalla sciolta eleganza di modi e di
parola appresa coll'abitudine nell'ambiente artifiziato della società
sfarzosa.
— Ci sono certe avventure per cui noi donne ci dobbiamo sentire a forza
interessate..... La sua è del novero.... Quando troviamo nella volgarità
attuale di sentimenti qualche raggio di poesia, oggidì che siamo
affogati da tanta prosa, noi ne restiamo tocche: i nostri voti sono per
la fronte illuminata da questo raggio.... Nella vicenda che a Lei è
capitata noi donne, amiche del romanzo nell'arida storia della vita,
abbiamo travisto, indovinato quel più bello ed elevato sentimento che è
fonte d'ogni poesia....
Francesco fece un movimento.
— Ah! non creda che qui una vana curiosità venga a sollecitare una
confidenza che non si merita: soggiunse affrettatamente la contessa.
Tutt'al più è una manifestazione di simpatia.... una manifestazione
strana se vuole, ma sincera.... O mio Dio! Noi non ragioniamo tanto su
queste cose; agiamo d'istinto, per subita impulsione dell'animo, e
quando troviamo un nobile affetto, una generosa devozione, un dignitoso
carattere, ci piace venirgli a stringere la mano.
E ciò dicendo tese la sua destra al giovane meravigliato e confuso.
Francesco strinse quella mano con atto di rispetto e di riconoscenza;
non sapeva spiegarsi le ragioni di tanto interessamento per lui in
quella signora colla quale per l'addietro erano state superficialissime
le sue attinenze; l'attribuiva alla pietosa natura del cuore di lei, e
n'era commosso; la contessa continuando riusciva finalmente a quel punto
che era stato lo scopo della sua finissima diplomazia femminile.
— So bene ch'Ella non ha bisogno dei contrassegni di simpatia
degl'indifferenti... Ha molti amici, degli affezionati e devoti amici,
onde può avere ogni conforto.... E per esser sincera, gli è appunto a
quanto ho udito di Lei da uno di questi suoi amici ch'Ella deve
accagionare in gran parte questo mio indiscreto passo.
— Uno de' miei amici? domandò Francesco il quale, pensando alla schiera
de' suoi antichi condiscepoli d'università, non sapeva capire in qual
modo fra di essi alcuno avesse avuto attinenza colla contessa di
Staffarda.
— Sì signore, disse Candida; guardando attentamente le pitture miniate
sul suo ricco ventaglio; il dottor Quercia.
— Ah! esclamò Benda con un'espressione che fece lievemente arrossire la
contessa. Francesco, che vide quel rossore, ebbe rincrescimento e
rimorso d'averlo provocato; essa era venuta con tanta simpatia verso di
lui, ed egli aveva da corrisponderle con malizioso riserbo? Affine di
rimediare alla crudeltà di quella esclamazione sfuggitagli, egli
s'affrettò a soggiungere: — sì Quercia è mio amico; gli ho chiesta ieri
una prova appunto di amicizia a cui egli non si rifiutò, e sto per
chiedergliene un'altra domani.... o per dir meglio oggi stesso.
Una subita e viva soddisfazione si dipinse nel volto di Candida, che di
presente dimenticò ogni diplomatica finzione ed ogni femminile cautela.
— Ella deve dunque vederlo prossimamente? domandò con piglio vivace.
— Nella mattinata di questo giorno che è già incominciato.
— Ah!
Questa esclamazione significava di molte cose, un desiderio che non
osava manifestarsi, una volontà combattuta, e un'ansietà insieme che non
si riusciva compiutamente a frenare.
Francesco guardò la contessa che teneva gli occhi bassi, e tormentava
fra le mani agitate l'innocente avorio del suo ventaglio; ed ebbe
compassione del turbamento di quella infelice.
— Certo, diss'egli, se alcuno avesse un'ambasciata da mandare al
dottore, io prima di qualunque altro che si trovi qui glie la potrei
comunicare.
Candida arrossì nel vedersi così bene indovinata, ma nello stesso tempo
ringraziò il giovane con uno sguardo pieno di riconoscenza.
— Sarebbe forse un abusare... balbettò ella esitando, con un immenso
desiderio, quasi una preghiera di venir contraddetta.
— Niente affatto, s'affrettò a dichiarare Francesco.
La contessa proruppe con una risoluzione quasi concitata:
— Ella può rendermi un servizio importantissimo di cui le sarò grata
eternamente.
— Parli... Le prometto di obbedire.
— Mi faccia il favore di vedere se qui non viene alcuno.
Benda si alzò e si pose frammezzo alle cortine dell'uscio.
— Stia lì un istante, la prego.
— Non mi muovo.
La contessa strappò un fogliolino dal piccolo taccuino che doveva
servirle a notare le danze impegnate, vi tracciò su in fretta col
toccalapis poche parole, ripiegò la carta, e per chiuderla, non ci
avendo altro modo, vi appuntò una spilla; poi s'alzò e venne presso
Francesco.
— Questa cartolina, disse, dovrebb'essere consegnata al dottore
domattina almeno prima delle dieci.
— Ci conti su: rispose il giovane.
Candida sporse alquanto la mano che teneva fra due dita il foglietto, ma
a mezzo dell'atto apparve una certa esitazione nella mossa. Benda
credette vederci l'indizio d'un timore e d'un sospetto, e s'affrettò a
soggiungere:
— Spero non aver bisogno di giurarle che quella spilla sarà più sacra
per me di qualunque suggello...
— La credo: interruppe vivamente la contessa, mettendo il bigliettino
nelle mani di lui, e un po' confusa di vedere sì giustamente
interpretata la sua esitazione. Se così non fosse, sarei io venuta di
questa guisa da Lei?
Francesco prese la carta, e la ripose in un suo portafogli.
La contessa tornò a stringergli la mano con una forza nervosa, con
un'emozione quasi febbrile.
— Grazie: diss'ella. Quando io possa alcuna cosa per Lei, non vorrà
dimenticare, la prego, di avere in me un'amica.
E mentre il giovane s'inchinava in segno di ringraziamento, ella scivolò
via sollecita, come desiderosa di non essere colta in quel colloquio e
timorosa che ciò fosse.
Per tornare nelle sale da ballo, Candida dovette passare in quella da
giuoco dove suo marito perdeva colla sua solita indifferenza,
malignamente scherzando secondo l'usato. Il conte Langosco sollevò dalle
carte che teneva in mano le sue floscie palpebre e dal cerchio livido
che contornava i suoi occhi lanciò sulla moglie uno sguardo vivido come
quello d'un serpente.
— Gli è di me che cercate, contessa? domandò egli con quel suo tono di
galanteria che costeggiava l'ironica beffa.
— No, rispose asciuttamente Candida; cerco un po' di fresco...
E il marito con quel medesimo accento:
— Ah! il signor fresco è ben fortunato.
— E siccome non lo trovo nè anco qui, penso tornarmene nel salone.
S'allontanò. Suo marito la seguì collo sguardo finchè la fu uscita della
stanza. Una nube di sospetto sedeva sulla sua fronte calva, un più
maligno cachinno piegava gli angoli della sua bocca sottile e sdegnosa.
Ed ecco quel che era intravvenuto fra il conte e la contessa di
Staffarda, che era stato cagione del passo fatto da quest'ultima presso
Francesco Benda.
Candida era nella sua stanza della teletta, in faccia al grande specchio
del suo armadio entro cui si rifletteva la luce d'una dozzina di candele
accese, e dava un'ultima guardata all'avvenente eleganza della sua
acconciatura. Un lacchè era già venuto ad avvisare che la carrozza
aspettava sotto il portone; la cameriera stava già lì colla pelliccia in
mano per metterla sulle spalle nude della padrona, quando l'uscio si
aprì discretamente ed un passo d'uomo, ammortato dallo spesso e morbido
tappeto, s'inoltrò nella camera. La contessa si volse e vide non senza
qualche stupore suo marito, il quale non soleva invadere colla sua
persona quel santuario dei misteri della toilette. Lo guardò essa
stupita, e non potè a meno di domandargli:
— Che cosa c'è, conte?
— Nulla: rispos'egli con quella sua gentilezza cortigianesca. Invece che
aspettarvi nel salotto ho voluto venirvi a prendere fin qui.
— Son pronta. Andiamo pure: disse Candida, e volgendo le sue belle
spalle alla cameriera, fe' segno le mettesse su la pelliccia.
— Un momento: s'intromise il conte arrestando con una mano l'atto della
fante. Lasciate prima, contessa, ch'io vi ammiri alquanto nel buon gusto
della vostra assettatura.
Candida crollò leggermente le spalle e fece una smorfietta piena di
vezzo.
— Ebbene, che cosa ne dite? domandò ella con tono che voleva dire:
finitela ed andiamo.
— Ammirabile: rispose il conte Amedeo, che faceva scorrere il suo
occhialino scrutatore su tutte le parti del muliebre abbigliamento;
sempre una perfezione secondo il vostro solito, ma.... se mi permettete
una critica....
— Dite pure.
— Troppa semplicità.... È quasi una _toilette_ di ragazza. Perchè non
avete messo i vostri diamanti?
La contessa fu scossa da un lieve sussulto: ebbe paura di arrossire, e
si volse in là fingendo specchiarsi.
— Oh! diss'ella aggiustandosi in capo un fiore, che non aveva bisogno
alcuno d'essere tocco: un ballo privato in casa d'un'amica....
— Ragione di più. Sono queste occasioni in cui meglio che altra volta
voi altre donne fate gara di sfarzo e di eleganza.... L'ho sentito dire
da voi medesima ripetutamente.... Se non tutti, potevate almeno metterne
una parte.... E _ma foi_, ci avete ancora tempo: è l'affare d'un minuto,
e nè voi, nè io non abbiamo la gran premura di arrivarci a quel ballo
piuttosto mezz'ora prima che dopo.
Questa insistenza del marito fece nascere un'ombra di timore nell'anima
di Candida. Avrebb'egli qualche sentore di ciò che era avvenuto? Oh!
impossibile, ma pure... Guardò il conte con un'aria scrutatrice e nello
stesso tempo imbarazzata e peritosa. Amedeo Filiberto notò
quest'espressione: di sospetti egli non ce ne aveva nessuno, e se allora
egli era venuto a parlare dei diamanti, la ragione altra non era fuor
questa, che a lui pure, impicciatissimo in debiti da soddisfare, aveva
balenato l'idea di cercare un aiuto nel considerevole valore dei
diamanti di sua moglie; ma ora il contegno di quest'essa gli fece
nascere dei dubbi incerti, e cui ebbe di subito un gran desiderio di
appurare.
— Siamo intesi, continuò egli; date la chiave dello scrigno alla
cameriera perchè li vada a prendere... Prendili tutti, soggiunse
parlando alla fante; sceglieremo qui quali da mettersi stassera.
La cameriera depose la pelliccia che aveva in mano e fece una mossa
verso la contessa per riceverne la chiave.
— No: disse vivamente Candida: è inutile, stassera non li metterò... non
mi piace... non voglio.
Amedeo Filiberto guardò ben bene la moglie.
— Bene! disse: non li metterete, ma ho piacere tuttavia di guardarli.
— Perchè? Li avete visti ieri sera che ne ho messa una gran parte al
ballo dell'Accademia.
— Giusto. Mi parve che la _montatura_ ne fosse un po' antiquata e che
occorrerebbe rifarla — Poichè ora ciò mi è venuto in mente, lasciate un
po' che esaminiamo insieme...
Candida fece un forzato sorriso. Le parole del conte le avevano
suggerito uno spediente da uscir d'imbarazzo.
— Vedete come andiamo d'accordo, disse; era quello precisamente anche il
mio avviso, e li ho mandati oggi stesso dal gioielliere a farli ripulire
e rimontare.
— Ah! esclamò Amedeo guardandola sempre a quel modo. Non avete forse
scelto per ciò il tempo più opportuno. Lunedì c'è ballo a Corte, e
convien bene che abbiate i vostri diamanti.
— Oh li avrò: interruppe vivamente la moglie: me lo ha promesso.
— Uhm! In così poco tempo, come potrà fare un lavoro ammodo? Sono cose
codeste per cui conviene aspettare la quaresima... ed è appunto per la
quaresima ch'io veniva a domandarvi di affidarmeli per... per
restituirveli poi più brillanti di prima.
— Avete ragione: disse Candida col tono di chi vuol conchiudere il
discorso: li manderò a riprendere... per lunedì li avrò senza fallo.
— Passerò io stesso dal gioielliere domattina... Gli è ben sempre X?
— Sì... ma non occorre che vi disturbiate...
— Non è un disturbo.... Figuratevi!
La contrarietà più viva e la inquietudine si dipinsero nel volto della
contessa.
— Non datevi altro pensiero di ciò: soggiunse colla sua beffarda
galanteria il conte Amedeo; e poichè non c'è più nulla da fare nè da
dire per la vostra _toilette_, avviamoci dalla baronessa.
Prese egli medesimo la pelliccia che la cameriera aveva deposto sopra il
sofà e la pose sulle spalle della moglie, cui fece uscir prima della
stanza e dell'appartamento.
Lungo la strada marito e moglie non iscambiarono una parola, ma
pensavano tuttedue e profondamente intorno al medesimo soggetto.
Dalle parole e dalle sembianze della moglie era apparso cosa certa al
conte che in quell'affare dei diamanti c'era un mistero, ed egli aveva
troppo interesse a penetrarlo per non provare una curiosità indomabile:
si riprometteva di andare il domattina per tempo dal gioielliere X ad
interrogarlo. Candida capiva da parte sua con isgomento che il marito
aveva dei sospetti, e che non trovando poi dall'orafo indicato i
gioielli, questi sospetti sarebbero andati molto presso alla verità cui
poscia egli avrebbe voluto conoscere ad ogni costo. Come rimediarci?
Essa non sapeva; la sua testa era confusa e invano cercava nel suo
cervello un plausibil mezzo. Questo solo le si affacciò: ricorrere a
Luigi, dirgli la cosa, e fare ch'egli provvedesse. Ma in qual maniera
avvertire il suo amante? Di quella notte era impossibile; egli non
doveva venire a quella festa; scrivergli la non poteva più; e il
domattina doveva ella avventurarsi a mandargli una lettera? Il marito
non poteva forse farla spiare? E della cameriera la si fidava assai
poco; e non amava inviarla da lui, già ne sappiamo il perchè. Conveniva
che ella stessa avesse un abboccamento con Luigi prima che il conte
potesse recarsi dal gioielliere; il conte certo era che non si sarebbe
alzato prima delle undici e non uscito prima di mezzogiorno; v'era
dunque tutta la mattina di tempo. Ma poteva ella recarsi alla dimora di
lui? Mai più: era un'imprudenza di cui egli medesimo l'avrebbe
rimproverata. Oh! s'ella avesse potuto farlo avvertito in alcun modo di
trovarsi ad un'ora acconcia nella rimota palazzina, solito asilo dei
loro amorosi convegni!
Giunse alla festa da ballo che non aveva ancora un'idea precisa del da
farsi ed era più perplessa che mai. La vista di Francesco Benda fu per
lei un raggio d'ispirazione. Che quel giovane fosse amico di Luigi, glie
n'era stato prova quel giorno medesimo l'interesse preso da quest'ultimo
alla cattura del primo e il biglietto che a lei medesima aveva scritto
in proposito; quanto stimabile ed onorevole per carattere e lealtà fosse
il Benda era conosciuto nella società ed ammesso anche dalla malignità
della gente. A chi poteva ella meglio affidarsi che a lui? D'altronde il
tempo stringeva e per quanto affaticasse la sua mente, Candida non
sapeva scorgere altro mezzo di sorta di cui servirsi.
Quando ebbe consegnata, come abbiam visto, a Francesco la cartolina per
Quercia, in cui gli assegnava un ritrovo per le undici del mattino, la
contessa Langesco, ricomparve più calma e più allegra a brillare in
mezzo alla festa.
CAPITOLO XVIII.
Suonavano appena le sei mattutine del dì susseguente quando un uomo di
alta statura, ben bene imbacuccato nel suo mantello, usciva dalla
locanda di Europa ed attraversando dritto innanzi a sè la piazza detta
del Castello dirigevasi verso il Palazzo Reale. L'oscurità della notte
era piena tuttavia; e una folta nebbia occupava la piazza; aveva cessato
di nevicare, ma la neve caduta nella giornata e nella sera precedente
copriva tutto il suolo d'un bianco lenzuolo che mandava un certo albore
sotto il grigio cupo di quella nebbia bassa; traverso questa parevano
chiazze di luce sanguigna i pochi lampioni accesi, e in fondo, agli
occhi del nostro mattinale passeggiero, pioveva una viva luce dai
finestroni del Palazzo Reale già tutto desto ed illuminato.
Il personaggio, uscito della locanda, passò innanzi al soldato in
sentinella che batteva i piedi e camminava affrettato su e giù alla
cancellata della piazzetta affine di combattere l'intirizzimento di gelo
onde lo minacciava l'aria ghiaccia di quell'ora mattutina, s'avanzò di
buon passo ancor egli verso il portone del palazzo e s'intromise in esso
per lo sportello aperto. Non si fermò nè innanzi all'altra sentinella
che sotto l'andito dava le volte ancor essa con andatura sollecita, nè
dal portinaio, la cui grossa persona già vestita della montura gallonata
del suo grado ed adorna dell'imponente e largo budriere della sua spada
innocente appariva traverso i vetri dell'uscio del suo camerino, mentre
egli si scaldava seduto presso ad un largo braciere; continuò senza la
menoma esitazione fino all'estremità dell'atrio, volse a sinistra ed
imboccato lo scalone salì e penetrò tranquillamente nel grandioso primo
scalone dove stanno le guardie del palazzo, detto volgarmente il _salone
degli Svizzeri_.
L'abitudine di re Carlo Alberto di dare udienze particolari a quell'ora
mattutina era così ordinaria, che nessuno si stupì della venuta di
questo personaggio e lo arrestò per domandargliene spiegazione. Giunto
nel caldo ambiente del salone degli Svizzeri quell'uomo trasse giù dalla
faccia la falda del mantello onde si copriva e si tolse di testa il
cappello. Apparve la sua una fisonomia geniale che aveva qualche cosa
insieme di fiero e di sorridente, una figura marziale e gentile, un
piglio tra la franchezza militare e la grazia dell'uomo elegante di
salotto.
Alcuni valletti che sedevano sopra una panca presso all'uscio che mette
alle stanze interne si alzarono, ed uno di essi venne incontro al nuovo
entrato e prese il mantello che il visitatore si levò dalle spalle.
— Sono il cavaliere Massimo d'Azeglio: disse il nostro personaggio; ed
ho un'udienza da S. M.
Il valletto s'inchinò senza parlare, depose il mantello ripiegato sulla
panca dove sedeva poc'anzi e facendo all'Azeglio un cenno che era un
invito a seguitarlo, lo precedette nell'appartamento. Passarono la sala
delle guardie del Corpo; in quella che seguiva trovarono un uomo vestito
di nero a cui il valletto disse poche sommesse parole, e poi si ritirò.
L'uomo vestito di nero fece un grande inchino al nuovo venuto e gli
disse con molta urbanità:
— Vado ad annunziarla allo scudiere di servizio, signor cavaliere.
E sparì dietro la portiera dell'uscio che si trovava in faccia a quello
per cui l'Azeglio era entrato.
Non passarono due minuti che la _cappa nera_ tornò.
onde arrossire e non voleva che alcuno potesse vedere in lei la mostra
pure di simil debolezza o di confusione; e tanto meno suo cugino. Questi
si avanzò lentamente, facendo correre dal volto dell'uno a quello
dell'altra uno sguardo ironico, provocatore, più tristo ancora del
perfido sogghigno che piegava le sue labbra assottigliate dall'interna
bile repressa. Nei sentimenti di Francesco non vi fu esitazione di
sorta. Innanzi alla provocazione superba di quello scherno, egli sentì
una subita ira vivace. Quella barriera di cui aveva fatto cenno
Virginia, ecco che ora gli si drizzava, per così dire, dinanzi,
incarnata nello sprezzante orgoglio del suo oltraggiatore; già poco fa,
da solo, nell'abbandono de' suoi sogni dilettosi, Francesco aveva visto
nella sua mente sorgere contro la speranza di cui pure gli balenava
all'animo alcuna lusinga, la immagine detestata del marchesino, ed ora
ecco che questa figura gli si presentava viva e reale, interruttrice del
più venturoso ed importante momento che nella sua vita avesse passato
ancora mai, impertinente, sfidatrice, maligna. Se la presenza di
Virginia non gli avesse posto freno, egli si sarebbe lanciato contro di
Ettore, gettandogli alla faccia alcune di quelle parole che vogliono il
sangue d'un uomo. Per lo sforzo che fece su se medesimo a reprimere il
subito impulso dell'ira, Francesco impallidì: il suo sguardo si incontrò
con quello del cugino di Virginia, proprio come fanno due lame
incrociandosi in un duello mortale di due nemici. Per un momento fuvvi
un silenzio minaccioso, quasi solenne. Si udì allora giungere fino a
quel luogo, travelato dalla distanza, il suono allegro della musica del
ballo.
— E che vuol dire codesto? cominciò di poi con tono beffardo Ettore
fissando il suo sguardo investigatore sulle palpebre abbassate di
Virginia; mentre altri ti crederebbe trasportata dal capogiro del valtz,
tu sei qui tranquillamente, lontana dal rumore, a...
Si arrestò; Virginia che sentiva lo sguardo di Ettore sopra di sè, levò
le ciglia e fissò in volto il cugino coi suoi grandi occhi limpidi,
sicuri, superbamente sereni; egli riprese:
— A discorrere tranquillamente col _signore_.
L'accento con cui fu pronunciata la parola «signore», il moto leggiero
del capo per cui Ettore accennò Francesco erano così pieni di disprezzo
che Benda se ne sentì fremere il sangue.
— Affè, continuava col tono medesimo il marchesino, che questo è proprio
un perdere il tempo.
Il giovane borghese fece un piccolo passo innanzi e parve sul punto di
parlare; Virginia s'intromise, ricorrendo al mezzo medesimo che aveva
usato poc'anzi, quello di condur via suo cugino.
— Stavo appunto per ritornare nelle sale da ballo, diss'ella; e tu sei
venuto a tempo per darmi il tuo braccio.
Ettore s'inchinò con una certa ironia nella sua gentilezza e rispose con
uguale accento:
— Sono assai lieto d'essere arrivato opportuno.
E porse galantemente il braccio a Virginia.
Francesco sentiva che qualche cosa gli conveniva pur dire, provava come
un'offesa al suo decoro il lasciar partire senza una protesta
l'impertinenza di quell'orgoglioso. Si avanzò ancora d'un altro passo, e
disse anch'egli con quello stesso accento con cui lo aveva detto il
marchesino:
— Signore.....
Ettore si fermò di botto, e volgendo appena la testa dalla parte dov'era
Francesco, gli mandò di sopra la spalla uno sguardo di sprezzante
alterigia.
— Gli è a me che il signore intenderebbe parlare?
Benda arrossì di sdegno fino alla fronte.
— A Lei, disse asciuttamente.. Certo la mia pretesa è grande. Ella nel
migliore degli abboccamenti i più importanti è solita farsi interrompere
anche dall'intervento dell'autorità.
Fu la volta del marchesino di arrossire.
— Ah signore. Ella mi dà un merito che ben sa ch'io non ho: la è
semplicemente una calunnia la sua.....
— Signore!...
— E per avere il favore d'un abboccamento con Lei io sono pronto ad
accordarle qualunque ora le piaccia, e in qual luogo a sua scelta, dove
non sia più possibile interruzione di sorta.
— La prendo in parola: disse Benda inchinandosi: e mi pare che per la
scelta dell'ora e del luogo potremo riferirci di bel nuovo ai consigli
dei medesimi amici rispettivi.
— Ha ragione.
— Dove i miei potranno adunque trovare i suoi?
— Domani verso mezzo giorno al _whist-club_.
— Sta' bene.
Si fecero un freddo saluto, e il marchese uscì dal gabinetto con
Virginia.
— Tu conti batterti? diss'ella poscia a suo cugino.
— _Parbleu!_
— Perchè disubbidire così a tuo padre?
— Perchè decisivamente quel signorino mi dà sui nervi.
— Non è ragione sufficiente per voler attentare alla sua vita.
— Olà! quel cotale t'interessa adunque?
Virginia non chinò il suo sguardo innanzi a quello di Ettore, e rispose
francamente:
— Sì.
— Ragione di più per _lui couper les oreilles_: disse con vivo dispetto
il marchesino.
— Ettore, aggiunse la fanciulla con accento solenne, se alcun male per
tuo fatto ha da affliggere quella famiglia, io non te lo perdonerò mai.
E come erano giunti ad una delle sale da ballo, Virginia tolse il suo
dal braccio del cugino ed andò a raggiungere la sua amica la baronessa,
lasciando lui in asso, stupito, quasi sbalordito, più irritato che mai.
Francesco intanto, rimasto solo, era in preda ancor egli ad un vivissimo
sdegno che quasi poteva dirsi furore. Aveva desiderato, l'ostacolo fra
sè e Virginia, rappresentato dall'oltraggiosa impertinenza del
marchesino, schiacciare e distrurre; ed ecco che l'occasione veniva a
porgersene alla sua collera accresciuta.
— Oh! l'ucciderò quel prepotente villano: diceva egli fra sè con una
tempesta d'ira feroce nella mite anima sua. E siccome il suo istinto
d'amante lo aveva avvertito che nell'odio di Ettore per lui e di lui per
Ettore c'era eziandio la rivalità in amore, egli soggiunse con amaro
sorriso: almeno quel superbo di certo non sarà a farla sua!
Ricordò a questo punto le preziose parole con cui essa erasi impegnata a
non essere di nessuno mai, e tornò di botto nel suo animo il dolce
influsso della tenerezza. Ah! non ella mancato avrebbe mai alla solenne,
non chiesta, da lei liberamente accordata promessa. Francesco poteva
portar seco quella certezza per tutta la vita, anco nella tomba. Qui ad
un tratto gli sorse innanzi al pensiero, con un mesto ma affascinante
sorriso, l'immagine della morte. S'egli fosse stato a soccombere, s'egli
disceso nel regno delle ombre, come ne avrebbe caramente custodita la
memoria nel suo cuore la generosa fanciulla! Più vivamente ancora, senza
più riserve, più compiutamente l'avrebbe amato quell'anima nobilissima.
Il ricordo di lui morto avrebbe riconfermata ad ogni tratto in lei la
data promessa, sarebbe stato ostacolo insuperabile affatto ad ogni altro
che tentasse penetrarle nel cuore; e se invece foss'egli l'uccisore e
non l'ucciso, che cosa poteva sperare di bene? La morte del cugino al
contrario di abbattere la barriera fra lui e l'amor suo, l'avrebbe fatta
maggiore: come sperare che il marchese consentisse a mettere la mano
della nipote in quella lorda del sangue di suo figlio? Come credere che
Virginia medesima vorrebbe ciò fare?
Una morbosa, ma vivace voglia di morire stranamente lo assalse. Aveva
provato una gioia di paradiso nello apprendere di essere amato; ma
disgiunto senza rimedio da lei, non aveva egli poi da sopportare nella
vita delle pene d'inferno? Essere pianto da quella fanciulla divina non
era egli una gioia ineffabile? Vivere poi nell'anima di lei non doveva
essere un paradiso? Lo sconsigliato nel calore della sua passione
dimenticò per quell'istante la sua famiglia, perfino le lacrime di sua
madre: decise morire.
S'era gettato di nuovo sul sofà ed aveva nascosto la faccia tra le
palme, ed ecco presso a lui di nuovo il fruscio gentile d'una veste di
donna, intorno a lui il profumo delicato che rivela la presenza d'una
signora elegante: levò la testa in sussulto e guardò con una folle
speranza: non era più l'angelo dell'amor suo, era la contessa di
Staffarda.
— La disturbo, disse Candida con un sorriso forzato sotto cui cercava
nascondere la preoccupazione e l'inquietudine che apparivano nelle sue
sembianze. Ho creduto che dormisse.
— No: rispose Francesco impacciato, il quale non sapeva che cosa dire.
La contessa sedette sopra una poltrona in faccia a lui e giuocando col
ventaglio, per darsi un'aria di leggerezza e d'indifferenza che non
aveva, soggiunse:
— Se non la dormiva, certo sognava, e non dovevano essere lieti sogni i
suoi, se io giudico dall'espressione del suo volto.
Benda compose la sua faccia ed il suo contegno.
— No, non eran sogni, diss'egli con una giocosità melanconica: i sogni
sono di cose impossibili, immaginarie; il mio pensiero si trovava alle
prese colla più spiccata realtà.
— Molte volte meglio la realtà anche brutta che una sciagura immaginata,
temuta: disse la contessa con una specie di foga. I nostri dubbi, i
nostri sospetti ci sono più crudi tormentatori che la fierezza medesima
del destino.
Francesco s'inchinò senza rispondere.
Candida riprese dopo una piccola pausa:
— Mi dirà Ella indiscreta se io le confesso di sentire interesse per
Lei?
— Oh signora contessa! esclamò il giovane inchinandosi di nuovo.
Ella si acconciò con mano sbadata le pieghe della gonna, si aggiustò gli
smanigli alle braccia, e sorridendo non senza un po' di studio, continuò
con un'ombra d'imbarazzo dissimulato dalla sciolta eleganza di modi e di
parola appresa coll'abitudine nell'ambiente artifiziato della società
sfarzosa.
— Ci sono certe avventure per cui noi donne ci dobbiamo sentire a forza
interessate..... La sua è del novero.... Quando troviamo nella volgarità
attuale di sentimenti qualche raggio di poesia, oggidì che siamo
affogati da tanta prosa, noi ne restiamo tocche: i nostri voti sono per
la fronte illuminata da questo raggio.... Nella vicenda che a Lei è
capitata noi donne, amiche del romanzo nell'arida storia della vita,
abbiamo travisto, indovinato quel più bello ed elevato sentimento che è
fonte d'ogni poesia....
Francesco fece un movimento.
— Ah! non creda che qui una vana curiosità venga a sollecitare una
confidenza che non si merita: soggiunse affrettatamente la contessa.
Tutt'al più è una manifestazione di simpatia.... una manifestazione
strana se vuole, ma sincera.... O mio Dio! Noi non ragioniamo tanto su
queste cose; agiamo d'istinto, per subita impulsione dell'animo, e
quando troviamo un nobile affetto, una generosa devozione, un dignitoso
carattere, ci piace venirgli a stringere la mano.
E ciò dicendo tese la sua destra al giovane meravigliato e confuso.
Francesco strinse quella mano con atto di rispetto e di riconoscenza;
non sapeva spiegarsi le ragioni di tanto interessamento per lui in
quella signora colla quale per l'addietro erano state superficialissime
le sue attinenze; l'attribuiva alla pietosa natura del cuore di lei, e
n'era commosso; la contessa continuando riusciva finalmente a quel punto
che era stato lo scopo della sua finissima diplomazia femminile.
— So bene ch'Ella non ha bisogno dei contrassegni di simpatia
degl'indifferenti... Ha molti amici, degli affezionati e devoti amici,
onde può avere ogni conforto.... E per esser sincera, gli è appunto a
quanto ho udito di Lei da uno di questi suoi amici ch'Ella deve
accagionare in gran parte questo mio indiscreto passo.
— Uno de' miei amici? domandò Francesco il quale, pensando alla schiera
de' suoi antichi condiscepoli d'università, non sapeva capire in qual
modo fra di essi alcuno avesse avuto attinenza colla contessa di
Staffarda.
— Sì signore, disse Candida; guardando attentamente le pitture miniate
sul suo ricco ventaglio; il dottor Quercia.
— Ah! esclamò Benda con un'espressione che fece lievemente arrossire la
contessa. Francesco, che vide quel rossore, ebbe rincrescimento e
rimorso d'averlo provocato; essa era venuta con tanta simpatia verso di
lui, ed egli aveva da corrisponderle con malizioso riserbo? Affine di
rimediare alla crudeltà di quella esclamazione sfuggitagli, egli
s'affrettò a soggiungere: — sì Quercia è mio amico; gli ho chiesta ieri
una prova appunto di amicizia a cui egli non si rifiutò, e sto per
chiedergliene un'altra domani.... o per dir meglio oggi stesso.
Una subita e viva soddisfazione si dipinse nel volto di Candida, che di
presente dimenticò ogni diplomatica finzione ed ogni femminile cautela.
— Ella deve dunque vederlo prossimamente? domandò con piglio vivace.
— Nella mattinata di questo giorno che è già incominciato.
— Ah!
Questa esclamazione significava di molte cose, un desiderio che non
osava manifestarsi, una volontà combattuta, e un'ansietà insieme che non
si riusciva compiutamente a frenare.
Francesco guardò la contessa che teneva gli occhi bassi, e tormentava
fra le mani agitate l'innocente avorio del suo ventaglio; ed ebbe
compassione del turbamento di quella infelice.
— Certo, diss'egli, se alcuno avesse un'ambasciata da mandare al
dottore, io prima di qualunque altro che si trovi qui glie la potrei
comunicare.
Candida arrossì nel vedersi così bene indovinata, ma nello stesso tempo
ringraziò il giovane con uno sguardo pieno di riconoscenza.
— Sarebbe forse un abusare... balbettò ella esitando, con un immenso
desiderio, quasi una preghiera di venir contraddetta.
— Niente affatto, s'affrettò a dichiarare Francesco.
La contessa proruppe con una risoluzione quasi concitata:
— Ella può rendermi un servizio importantissimo di cui le sarò grata
eternamente.
— Parli... Le prometto di obbedire.
— Mi faccia il favore di vedere se qui non viene alcuno.
Benda si alzò e si pose frammezzo alle cortine dell'uscio.
— Stia lì un istante, la prego.
— Non mi muovo.
La contessa strappò un fogliolino dal piccolo taccuino che doveva
servirle a notare le danze impegnate, vi tracciò su in fretta col
toccalapis poche parole, ripiegò la carta, e per chiuderla, non ci
avendo altro modo, vi appuntò una spilla; poi s'alzò e venne presso
Francesco.
— Questa cartolina, disse, dovrebb'essere consegnata al dottore
domattina almeno prima delle dieci.
— Ci conti su: rispose il giovane.
Candida sporse alquanto la mano che teneva fra due dita il foglietto, ma
a mezzo dell'atto apparve una certa esitazione nella mossa. Benda
credette vederci l'indizio d'un timore e d'un sospetto, e s'affrettò a
soggiungere:
— Spero non aver bisogno di giurarle che quella spilla sarà più sacra
per me di qualunque suggello...
— La credo: interruppe vivamente la contessa, mettendo il bigliettino
nelle mani di lui, e un po' confusa di vedere sì giustamente
interpretata la sua esitazione. Se così non fosse, sarei io venuta di
questa guisa da Lei?
Francesco prese la carta, e la ripose in un suo portafogli.
La contessa tornò a stringergli la mano con una forza nervosa, con
un'emozione quasi febbrile.
— Grazie: diss'ella. Quando io possa alcuna cosa per Lei, non vorrà
dimenticare, la prego, di avere in me un'amica.
E mentre il giovane s'inchinava in segno di ringraziamento, ella scivolò
via sollecita, come desiderosa di non essere colta in quel colloquio e
timorosa che ciò fosse.
Per tornare nelle sale da ballo, Candida dovette passare in quella da
giuoco dove suo marito perdeva colla sua solita indifferenza,
malignamente scherzando secondo l'usato. Il conte Langosco sollevò dalle
carte che teneva in mano le sue floscie palpebre e dal cerchio livido
che contornava i suoi occhi lanciò sulla moglie uno sguardo vivido come
quello d'un serpente.
— Gli è di me che cercate, contessa? domandò egli con quel suo tono di
galanteria che costeggiava l'ironica beffa.
— No, rispose asciuttamente Candida; cerco un po' di fresco...
E il marito con quel medesimo accento:
— Ah! il signor fresco è ben fortunato.
— E siccome non lo trovo nè anco qui, penso tornarmene nel salone.
S'allontanò. Suo marito la seguì collo sguardo finchè la fu uscita della
stanza. Una nube di sospetto sedeva sulla sua fronte calva, un più
maligno cachinno piegava gli angoli della sua bocca sottile e sdegnosa.
Ed ecco quel che era intravvenuto fra il conte e la contessa di
Staffarda, che era stato cagione del passo fatto da quest'ultima presso
Francesco Benda.
Candida era nella sua stanza della teletta, in faccia al grande specchio
del suo armadio entro cui si rifletteva la luce d'una dozzina di candele
accese, e dava un'ultima guardata all'avvenente eleganza della sua
acconciatura. Un lacchè era già venuto ad avvisare che la carrozza
aspettava sotto il portone; la cameriera stava già lì colla pelliccia in
mano per metterla sulle spalle nude della padrona, quando l'uscio si
aprì discretamente ed un passo d'uomo, ammortato dallo spesso e morbido
tappeto, s'inoltrò nella camera. La contessa si volse e vide non senza
qualche stupore suo marito, il quale non soleva invadere colla sua
persona quel santuario dei misteri della toilette. Lo guardò essa
stupita, e non potè a meno di domandargli:
— Che cosa c'è, conte?
— Nulla: rispos'egli con quella sua gentilezza cortigianesca. Invece che
aspettarvi nel salotto ho voluto venirvi a prendere fin qui.
— Son pronta. Andiamo pure: disse Candida, e volgendo le sue belle
spalle alla cameriera, fe' segno le mettesse su la pelliccia.
— Un momento: s'intromise il conte arrestando con una mano l'atto della
fante. Lasciate prima, contessa, ch'io vi ammiri alquanto nel buon gusto
della vostra assettatura.
Candida crollò leggermente le spalle e fece una smorfietta piena di
vezzo.
— Ebbene, che cosa ne dite? domandò ella con tono che voleva dire:
finitela ed andiamo.
— Ammirabile: rispose il conte Amedeo, che faceva scorrere il suo
occhialino scrutatore su tutte le parti del muliebre abbigliamento;
sempre una perfezione secondo il vostro solito, ma.... se mi permettete
una critica....
— Dite pure.
— Troppa semplicità.... È quasi una _toilette_ di ragazza. Perchè non
avete messo i vostri diamanti?
La contessa fu scossa da un lieve sussulto: ebbe paura di arrossire, e
si volse in là fingendo specchiarsi.
— Oh! diss'ella aggiustandosi in capo un fiore, che non aveva bisogno
alcuno d'essere tocco: un ballo privato in casa d'un'amica....
— Ragione di più. Sono queste occasioni in cui meglio che altra volta
voi altre donne fate gara di sfarzo e di eleganza.... L'ho sentito dire
da voi medesima ripetutamente.... Se non tutti, potevate almeno metterne
una parte.... E _ma foi_, ci avete ancora tempo: è l'affare d'un minuto,
e nè voi, nè io non abbiamo la gran premura di arrivarci a quel ballo
piuttosto mezz'ora prima che dopo.
Questa insistenza del marito fece nascere un'ombra di timore nell'anima
di Candida. Avrebb'egli qualche sentore di ciò che era avvenuto? Oh!
impossibile, ma pure... Guardò il conte con un'aria scrutatrice e nello
stesso tempo imbarazzata e peritosa. Amedeo Filiberto notò
quest'espressione: di sospetti egli non ce ne aveva nessuno, e se allora
egli era venuto a parlare dei diamanti, la ragione altra non era fuor
questa, che a lui pure, impicciatissimo in debiti da soddisfare, aveva
balenato l'idea di cercare un aiuto nel considerevole valore dei
diamanti di sua moglie; ma ora il contegno di quest'essa gli fece
nascere dei dubbi incerti, e cui ebbe di subito un gran desiderio di
appurare.
— Siamo intesi, continuò egli; date la chiave dello scrigno alla
cameriera perchè li vada a prendere... Prendili tutti, soggiunse
parlando alla fante; sceglieremo qui quali da mettersi stassera.
La cameriera depose la pelliccia che aveva in mano e fece una mossa
verso la contessa per riceverne la chiave.
— No: disse vivamente Candida: è inutile, stassera non li metterò... non
mi piace... non voglio.
Amedeo Filiberto guardò ben bene la moglie.
— Bene! disse: non li metterete, ma ho piacere tuttavia di guardarli.
— Perchè? Li avete visti ieri sera che ne ho messa una gran parte al
ballo dell'Accademia.
— Giusto. Mi parve che la _montatura_ ne fosse un po' antiquata e che
occorrerebbe rifarla — Poichè ora ciò mi è venuto in mente, lasciate un
po' che esaminiamo insieme...
Candida fece un forzato sorriso. Le parole del conte le avevano
suggerito uno spediente da uscir d'imbarazzo.
— Vedete come andiamo d'accordo, disse; era quello precisamente anche il
mio avviso, e li ho mandati oggi stesso dal gioielliere a farli ripulire
e rimontare.
— Ah! esclamò Amedeo guardandola sempre a quel modo. Non avete forse
scelto per ciò il tempo più opportuno. Lunedì c'è ballo a Corte, e
convien bene che abbiate i vostri diamanti.
— Oh li avrò: interruppe vivamente la moglie: me lo ha promesso.
— Uhm! In così poco tempo, come potrà fare un lavoro ammodo? Sono cose
codeste per cui conviene aspettare la quaresima... ed è appunto per la
quaresima ch'io veniva a domandarvi di affidarmeli per... per
restituirveli poi più brillanti di prima.
— Avete ragione: disse Candida col tono di chi vuol conchiudere il
discorso: li manderò a riprendere... per lunedì li avrò senza fallo.
— Passerò io stesso dal gioielliere domattina... Gli è ben sempre X?
— Sì... ma non occorre che vi disturbiate...
— Non è un disturbo.... Figuratevi!
La contrarietà più viva e la inquietudine si dipinsero nel volto della
contessa.
— Non datevi altro pensiero di ciò: soggiunse colla sua beffarda
galanteria il conte Amedeo; e poichè non c'è più nulla da fare nè da
dire per la vostra _toilette_, avviamoci dalla baronessa.
Prese egli medesimo la pelliccia che la cameriera aveva deposto sopra il
sofà e la pose sulle spalle della moglie, cui fece uscir prima della
stanza e dell'appartamento.
Lungo la strada marito e moglie non iscambiarono una parola, ma
pensavano tuttedue e profondamente intorno al medesimo soggetto.
Dalle parole e dalle sembianze della moglie era apparso cosa certa al
conte che in quell'affare dei diamanti c'era un mistero, ed egli aveva
troppo interesse a penetrarlo per non provare una curiosità indomabile:
si riprometteva di andare il domattina per tempo dal gioielliere X ad
interrogarlo. Candida capiva da parte sua con isgomento che il marito
aveva dei sospetti, e che non trovando poi dall'orafo indicato i
gioielli, questi sospetti sarebbero andati molto presso alla verità cui
poscia egli avrebbe voluto conoscere ad ogni costo. Come rimediarci?
Essa non sapeva; la sua testa era confusa e invano cercava nel suo
cervello un plausibil mezzo. Questo solo le si affacciò: ricorrere a
Luigi, dirgli la cosa, e fare ch'egli provvedesse. Ma in qual maniera
avvertire il suo amante? Di quella notte era impossibile; egli non
doveva venire a quella festa; scrivergli la non poteva più; e il
domattina doveva ella avventurarsi a mandargli una lettera? Il marito
non poteva forse farla spiare? E della cameriera la si fidava assai
poco; e non amava inviarla da lui, già ne sappiamo il perchè. Conveniva
che ella stessa avesse un abboccamento con Luigi prima che il conte
potesse recarsi dal gioielliere; il conte certo era che non si sarebbe
alzato prima delle undici e non uscito prima di mezzogiorno; v'era
dunque tutta la mattina di tempo. Ma poteva ella recarsi alla dimora di
lui? Mai più: era un'imprudenza di cui egli medesimo l'avrebbe
rimproverata. Oh! s'ella avesse potuto farlo avvertito in alcun modo di
trovarsi ad un'ora acconcia nella rimota palazzina, solito asilo dei
loro amorosi convegni!
Giunse alla festa da ballo che non aveva ancora un'idea precisa del da
farsi ed era più perplessa che mai. La vista di Francesco Benda fu per
lei un raggio d'ispirazione. Che quel giovane fosse amico di Luigi, glie
n'era stato prova quel giorno medesimo l'interesse preso da quest'ultimo
alla cattura del primo e il biglietto che a lei medesima aveva scritto
in proposito; quanto stimabile ed onorevole per carattere e lealtà fosse
il Benda era conosciuto nella società ed ammesso anche dalla malignità
della gente. A chi poteva ella meglio affidarsi che a lui? D'altronde il
tempo stringeva e per quanto affaticasse la sua mente, Candida non
sapeva scorgere altro mezzo di sorta di cui servirsi.
Quando ebbe consegnata, come abbiam visto, a Francesco la cartolina per
Quercia, in cui gli assegnava un ritrovo per le undici del mattino, la
contessa Langesco, ricomparve più calma e più allegra a brillare in
mezzo alla festa.
CAPITOLO XVIII.
Suonavano appena le sei mattutine del dì susseguente quando un uomo di
alta statura, ben bene imbacuccato nel suo mantello, usciva dalla
locanda di Europa ed attraversando dritto innanzi a sè la piazza detta
del Castello dirigevasi verso il Palazzo Reale. L'oscurità della notte
era piena tuttavia; e una folta nebbia occupava la piazza; aveva cessato
di nevicare, ma la neve caduta nella giornata e nella sera precedente
copriva tutto il suolo d'un bianco lenzuolo che mandava un certo albore
sotto il grigio cupo di quella nebbia bassa; traverso questa parevano
chiazze di luce sanguigna i pochi lampioni accesi, e in fondo, agli
occhi del nostro mattinale passeggiero, pioveva una viva luce dai
finestroni del Palazzo Reale già tutto desto ed illuminato.
Il personaggio, uscito della locanda, passò innanzi al soldato in
sentinella che batteva i piedi e camminava affrettato su e giù alla
cancellata della piazzetta affine di combattere l'intirizzimento di gelo
onde lo minacciava l'aria ghiaccia di quell'ora mattutina, s'avanzò di
buon passo ancor egli verso il portone del palazzo e s'intromise in esso
per lo sportello aperto. Non si fermò nè innanzi all'altra sentinella
che sotto l'andito dava le volte ancor essa con andatura sollecita, nè
dal portinaio, la cui grossa persona già vestita della montura gallonata
del suo grado ed adorna dell'imponente e largo budriere della sua spada
innocente appariva traverso i vetri dell'uscio del suo camerino, mentre
egli si scaldava seduto presso ad un largo braciere; continuò senza la
menoma esitazione fino all'estremità dell'atrio, volse a sinistra ed
imboccato lo scalone salì e penetrò tranquillamente nel grandioso primo
scalone dove stanno le guardie del palazzo, detto volgarmente il _salone
degli Svizzeri_.
L'abitudine di re Carlo Alberto di dare udienze particolari a quell'ora
mattutina era così ordinaria, che nessuno si stupì della venuta di
questo personaggio e lo arrestò per domandargliene spiegazione. Giunto
nel caldo ambiente del salone degli Svizzeri quell'uomo trasse giù dalla
faccia la falda del mantello onde si copriva e si tolse di testa il
cappello. Apparve la sua una fisonomia geniale che aveva qualche cosa
insieme di fiero e di sorridente, una figura marziale e gentile, un
piglio tra la franchezza militare e la grazia dell'uomo elegante di
salotto.
Alcuni valletti che sedevano sopra una panca presso all'uscio che mette
alle stanze interne si alzarono, ed uno di essi venne incontro al nuovo
entrato e prese il mantello che il visitatore si levò dalle spalle.
— Sono il cavaliere Massimo d'Azeglio: disse il nostro personaggio; ed
ho un'udienza da S. M.
Il valletto s'inchinò senza parlare, depose il mantello ripiegato sulla
panca dove sedeva poc'anzi e facendo all'Azeglio un cenno che era un
invito a seguitarlo, lo precedette nell'appartamento. Passarono la sala
delle guardie del Corpo; in quella che seguiva trovarono un uomo vestito
di nero a cui il valletto disse poche sommesse parole, e poi si ritirò.
L'uomo vestito di nero fece un grande inchino al nuovo venuto e gli
disse con molta urbanità:
— Vado ad annunziarla allo scudiere di servizio, signor cavaliere.
E sparì dietro la portiera dell'uscio che si trovava in faccia a quello
per cui l'Azeglio era entrato.
Non passarono due minuti che la _cappa nera_ tornò.
- Parts
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- La plebe, parte III - 21
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